Il piano regolatore di Roma è stato approvato in via definitiva lo scorso martedì. Questo fatto produrrà almeno un grande risultato: non essere più tempestati di messaggi prefabbricati e trionfalistici che tutti i quotidiani e molti osservatori della materia hanno continuato a diffondere senza alcun approfondimento critico. Una volta archiviata l’approvazione del piano inizierà quel lento processo di approfondimento, di studi sistematici e di oggettiva osservazione della realtà urbana che farà finalmente giustizia di questa impressionante manipolazione di massa.
Porto il mio contributo a costruire questo indispensabile quadro critico. Iniziamo dalle bugie. Ci viene detto continuamente che “ il piano tutela 88 mila ettari di territorio di Roma, due terzi dei 129 mila ettari complessivi”. Bello, no? Ma non è vero. E’ lo stesso comune di Roma ad aver certificato che già nel 2004, e cioè prima che il nuovo piano producesse i suoi effetti, il cemento e l’asfalto coprivano 46 mila ettari. Dunque già prima che il piano fosse attuato, la tutela riguardava meno dei due terzi del territorio. Il piano poi prevede la costruzione di 70 milioni di metri cubi di cemento. Una stima prudente dice che verranno consumati almeno 15 mila ettari di agro. La metà del territorio di Roma sarà dunque coperto di cemento e si continua senza pudore a dire che i due terzi sono tutelati.
Ancora. Per giustificare il diluvio di cemento (70 milioni a fronte di una città con popolazione stabile, a parte gli immigrati, da 20 anni) si dice che il vecchio piano prevedeva bel 120 milioni di metri cubi e che pertanto ne sono stati tagliati 50. Due menzogne in una. Intanto non è vero che il piano del 1965 avesse un residuo così astronomico. Il calcolo è stato effettuato sommando tutte le cubature lì previste, quelle private e quelle pubbliche. Aree immense come i 600 ettari dell’Università di Tor Vergata, la città militare della Cecchignola, o l’area della ricerca alla Casaccia avevano un indice molto alto (2 metri cubi al metro quadrato) sono state infilate in un immenso frullatore che tutto omogeneizza. In un piano “pubblicistico” come quello del 1965 erano previsti ben 9.000 ettari di servizi pubblici: 180 milioni di metri cubi. Et voilà i 120 milioni di residuo: scuole e ospedali sono considerati come le abitazioni private! La seconda bugia è che sia stato il nuovo piano a tagliare le cubature. Intanto non sono stati tagliati 50 milioni di metri cubi per le cose che dicevamo prima. Ma, ciò che più conta, il merito è della migliore urbanistica e dell’ambientalismo degli anni ’90. Cederna, De Lucia, Italia Nostra e tanti altri.
Anzi dalla metà degli anni ’90, i tagli veri strappati negli anni precedenti furono trasformati in “ diritti edificatori”. E qui iniziano le critiche all’impianto teorico del piano. Di fronte alla lucida politica di cancellazione delle previsioni edificatorie costruita negli anni ’80 e concretizzatasi nella “ Variante di salvaguardia” del 1991, con il “ Piano delle certezze” del 1997 si affermò che non si poteva tagliare nessuna previsione urbanistica. Nacquero i diritti edificatori che dovevano essere obbligatoriamente “ compensati”. Vincenzo Cerulli Irelli e Edoardo Salzano demolirono alla radice questa insensata teoria. Nel gennaio 2003, Italia Nostra presentò pubblicamente il loro parere pro veritate che dimostrava una cosa fondamentale: la legislazione in materia urbanistica consentiva, su basi di rigorose motivazioni, la cancellazione delle previsioni dei piani urbanistici.
Con lo sciagurato istituto della compensazione non solo è stata resa sistematica l’urbanistica contrattata, ma si è inaugurato un devastante meccanismo incrementale della crescita urbana. Le compensazioni avvengono infatti tra privati su aree private. Così chi ospita volumetrie originariamente destinate in altri luoghi esige il proprio tornaconto che si traduce almeno in un raddoppio delle volumetrie previste. Il caso del comprensorio di Tormarancia è esemplare. Erano previsti 1 milione e ottocentomila metri cubi: alla fine delle compensazioni sono diventati 5,2 milioni! Le improvvide invenzioni romane si sono propagate come un’epidemia in tutta Italia e ogni comune ha inaugurato la stagione delle compensazioni e i diritti acquisiti. Ne è nato lo scempio del bel Paese.
Il terzo pilastro teorico dell’urbanistica romana, il più aberrante. E’ la prevalenza delle previsioni urbanistiche sulla tutela paesistica, e cioè il capovolgimento della gerarchia legislativa italiana. Finora erano i piani di tutela ambientale che condizionavano i piani regolatori comunali: il paesaggio, lo ricordo ai responsabili dell’urbanistica romana, è un principio contenuto nella carta costituzionale. Lo scorso anno il comune di Roma ha imposto alla Regione Lazio di cambiare il piano paesistico per accogliere oltre 80 osservazioni finalizzate alla cancellazione di vincoli paesistici, così da consentire la realizzazione delle previsioni del piano. Anche qui è facile comprendere la gravità del precedente sul dibattito nazionale.
Occupiamoci ora dei contenuti di merito del nuovo piano. Gli strumenti urbanistici traggono linfa dalla sistematica delle analisi, e cioè dallo sforzo di comprensione delle dinamiche in atto. Sforzo modesto o inesistente nel caso del piano romano. Sarebbe bastato analizzare il fenomeno demografico per comprendere che dal 1991 a oggi (è la provincia di Roma a certificarlo) da Roma se ne sono andati via circa 300.000 abitanti per andare ad abitare nei comuni della corona metropolitana. A Roma città, poi, cresce solo la parte esterna al grande raccordo anulare. Tutto l’anello interno sta perdendo popolazione, mentre i luoghi di lavoro sono rimasti nello stesso ristretto spazio del centro storico, dei quartieri della prima periferia e all’Eur. Ottocentomila cittadini (è sempre la Provincia a certificare le quantità) si spostano dai comuni metropolitani per andare a lavorare nel centro della città. A Roma non esiste alcun fenomeno che non sia leggibile e risolvibile alla scala metropolitana. Ma il nuovo piano regolatore al riguardo non dice nulla e pensare di risolvere il futuro della città nel suo ristretto ambito è stato un errore gravissimo.
Dicevo prima che Roma si sta vuotando di residenti. Sono stati rimpiazzati da un imponente fenomeno immigratorio. Vivono a Roma oltre 400 mila stranieri. Una città delle dimensioni di Bologna. Si sarebbe potuto sfruttare questo fenomeno esogeno per costruire prospettive urbane di straordinaria valenza: come fornire alloggi a queste persone, quali servizi dedicare loro, quali centri di aggregazione culturale e religiosa fornirgli. Il piano regolatore non dice nulla. Questo esercito di uomini e donne è stato abbandonato alle logiche del “mercato”, costringendoli a finanziare un imponente fenomeno di affitti sommersi. Si è rinunciato a conoscere e programmare e oggi per la domanda di stranieri e studenti non si trova un posto letto a meno di 400 euro al mese. Una stanza vale oltre 600 euro.
E veniamo all’idea di piano. Affermava l’attuale assessore all’urbanistica Roberto Morassut che “ Il nuovo piano cerca di predisporre le basi per quella città policentrica che è stata un po’ il cuore della campagna elettorale del sindaco Veltroni. L’idea portante è togliere il dominio della rendita immobiliare, stabilendo che all’interno di ogni centralità debba insediarsi un mix funzionale, così che vi sia una parte residenziale, una parte per uffici, un’altra per i servizi e le funzioni moderne”. La prima occasione solenne è di pochi anni fa. Un gruppo di imprenditori-proprietari delle aree di Bufalotta sottoscrive un solenne contratto con il comune di Roma in cui si impegna a realizzare una delle mitiche centralità. Tre milioni di metri cubi equamente suddivisi in tre parti: commerciale, residenziale e terziaria. Nei due anni trascorsi sono stati realizzati i primi due segmenti del nuovo quartiere. Era arrivata l’ora della qualità. Ma il “mercato” non tira e allora i proprietari chiedono al comune di trasformare le previsioni di uffici in case.
E’ evidente che i patti sottoscritti non possono essere mutati a piacere. Le regole non si cambiano durante la partita. In particolare nel caso specifico di Bufalotta. Accettare di barattare uffici con residenze avrebbe avuto il significato di demolire la principale idea di piano, e cioè la diffusione in periferia delle centralità. Eppure nel novembre 2007 la giunta comunale di Roma ha deciso di accettare quella proposta indecente. E così facendo ha gettato a mare l’intero piano regolatore!
L’altra idea portante è quella del sistema ambientale. Abbiamo creato la più grande cintura verde del mondo, ci dicono. Davvero? Guardiamo gli atti. Le previsioni di piano sono state disegnate in scala di dettaglio, mentre il sistema ambientale è delineato con un dettaglio minore. La regola dell’urbanistica afferma che tra le due previsioni prevale quella più precisa: ciò significa che il grande disegno ambientale è una chiacchiera al vento. Vincerà il cemento. Lo avevano capito tutti ma molti hanno fatto finta di non capire. Si sono salvati (forse) la coscienza, ma hanno ingannato la città.
La gestione urbanistica, infine. La radicalità delle critiche che ho esposto è stata –se possibile- aggravata da una gestione quotidiana fallimentare. La pianificazione è stata disarticolata in tanti segmenti tra loro scoordinati. L’assessorato all’urbanistica per la redazione del piano. Quello alle opere pubbliche che sovrintendeva ai piani esecutivi. Ad una società esterna di amici, Risorse per Roma, è stato affidata la regia del futuro della città, sottraendolo alla normale dialettica democratica. All’assessorato alle grandi opere è stato infine affidata la fabbrica delle deroghe.
Attraverso l’uso dell’accordo di programma si variato continuamente lo stesso piano regolatore che si stava approvando. Con accordo di programma si è cambiato per decine di volte il piano adottato nel 2003. Con accordo di programma si vuole addirittura cambiare il piano che è stato approvato martedì scorso. Il giorno dopo il consiglio comunale sarà infatti costretto ad approvare una (o più) deroghe per soddisfare gli appetiti del mercato. Del resto è con tanti accordi di programma che si è permesso di costruire in soli sette anni 28 (ventotto) giganteschi centri commerciali. Due di essi sono stati addirittura definiti come i più grandi d’Europa, giganti con un’offerta di 6-7.000 posti auto. Il traffico romano è quotidianamente nel caos per soddisfare gli interessi di dieci società di distribuzione commerciale.
L’urbanistica romana è questa. Il piano è approvato, e quando si comincerà a diradare la cortina fumogena delle bugie fin qui diffuse da astuti manipolatori, resterà l’amara verità di questi anni: il più grande sacco urbanistico della storia della città eterna.
P.s. Alle tante menzogne che sono state accreditate in questi anni, Giuseppe Campos Venuti non poteva mancare di aggiungere un’ultima vergogna. Afferma in una intervista all’Unità che anche Antonio Cederna aveva tessuto le lodi del piano. Una spudorata bugia: è noto a tutti che i primi elaborati del nuovo piano regolatore sono stati resi pubblici dopo il piano delle Certezze, nel 1998. Antonio ci aveva lasciato da due anni.
Prima di quella data, è vero, c’erano stati alcuni documenti di indirizzo che Cederna salutò con piacere. Dalla cura del ferro alla politica di tutela dell’agro romano. Ma gli anni successivi hanno dimostrato che quegli indirizzi erano pura finzione. Della cura del ferro da tempo abbandonata basta chiedere a Walter Tocci che la ideò insieme a Italo Insolera. Per quanto riguarda l’agro romano è facile vedere che è sommerso quotidianamente da una dilagante “repellente crosta di cemento e asfalto”.
E’ davvero sintomo di “cattiva coscienza” strumentalizzare la memoria di un galantuomo che ha speso la sua vita per difendere Roma dagli assalti degli energumeni del cemento. Ed è spudorato, per essere gentili, che tali argomenti falsi vengano utilizzati proprio dal principale responsabile del piano del sacco urbanistico di Roma.