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Roberto Camagni
Il finanziamento della città pubblica
24 Dicembre 2007
Scuola estiva 2006
Dal libro a cura di M.Baioni e G.Caudo, di prossima edizione (La costruzione della città pubblica ) pubblichiamo una parte dell’intervento sulla rendita urbana

Lo scritto di Roberto Camagni riprende e sviluppa una delle lezioni tenute alla seconda edizione della Scuola di eddyburg (2006). Il testo visibile sul monitor non compende: le tabelle e le figure, l’intera parte dedicata al confronto tra Milano e Monaco di Baviera e la bibliografia. Il testo integrale è scaricabile in formato .pdf (in calce)

Premessa

La città è innanzitutto un grande bene pubblico, fatto di strade, parchi, stazioni, aeroporti, reti di mobilità e di comunicazione, servizi, tutti elementi che implicano una spesa pubblica, nazionale o locale, in conto capitale o in conto corrente.

Essa può essere anche considerata un “bene di club” - una categoria intermedia fra i beni pubblici, che sono a disposizione di tutti e per i quali non esiste una “rivalità” nell’uso, e i beni privati (tipicamente “rivali”) - in quanto la sua disponibilità:

- avvantaggia chi è socio del club, e cioè nel caso della città, innanzitutto gli stockholder urbani (proprietari), e poi in modo decrescente i residenti e i city-users, ma in modo limitato gli esterni;

- fornisce una utilità proporzionale alla dimensione del club (“effetto rete” o “esternalità di rete”, tipico ad esempio dei soci di un network telefonico); nel caso della città, questo effetto deriva dalla presenza di economie di agglomerazione [1].

Ad essere ancora più precisi, possiamo dire che la città è un bene “collettivo”, creato e definito da investimenti e decisioni sia pubbliche che private.

Da tutto ciò segue una conseguenza importante: il valore economico delle sue singole parti non è determinato dall’azione singola, ma dall’azione collettiva, esterna al singolo attore, dal fatto cioè che si verificano sinergie e esternalità incrociate con tutte le decisioni – localizzative, di investimento, di gestione – che avvengono o sono avvenute nell’intorno fisico del luogo in cui la decisione individuale si è realizzata.

Come si vedrà, questo elemento risulta estremamente importante allorché si tratta di reperire le risorse per effettuare gli investimenti pubblici che fanno vivere la città. Il tramite, logico prima che economico, è costituito dalla rendita fondiaria urbana, il valore dell’unità fondiaria o immobiliare su cui si realizza l’investimento privato: se tale valore infatti dipende in misura rilevante dagli investimenti che la pubblica amministrazione realizza nel contesto urbano nonché dagli investimenti che altri soggetti privati realizzano nell’intorno, esso può essere almeno parzialmente tassato.

Il problema del finanziamento degli investimenti pubblici è divenuto cruciale negli anni recenti, in presenza della cosiddetta crisi fiscale dello stato: per effetto di numerosi elementi – globalizzazione, interventi pregressi di finanza pubblica allegra che hanno creato un vistoso debito pubblico, espansione delle tipologie di beni pubblici cruciali nella nuova fase di sviluppo ma anche necessità di alleggerire il peso fiscale sulle attività economiche – lo stato non è più in grado di realizzare tutti gli investimenti pubblici che appaiono necessari (Camagni, 1999).

Questo lavoro intende esplorare le modalità con le quali oggi è possibile finanziare la realizzazione di beni pubblici, senza incrementare il debito pubblico esistente: attraverso la tariffazione dell’uso e la realizzazione a carico di privati (project financing), o attraverso varie forme di tassazione degli incrementi di valore patrimoniale che si vengono a manifestare per effetto degli investimenti pubblici stessi o in occasione di trasformazioni urbane rilevanti.

Quest’ultimo caso viene affrontato alla fine del lavoro, attraverso una analisi comparativa delle modalità di tassazione immobiliare (oneri di urbanizzazione e concessori) nel caso dei grandi progetti di trasformazione urbanistica a Milano e a Monaco di Baviera. Emerge nel caso milanese una forte differenza, a favore del privato e a sfavore del pubblico, rispetto al caso tedesco, una differenza facilmente estendibile al caso italiano.

I beni pubblici tariffabili e il project financing

L’intero ragionamento sul finanziamento degli investimenti pubblici prende le mosse dall’evidenza della crisi del modello tradizionale, che vedeva lo stato farsi carico di tutte le anticipazioni necessarie, stampando moneta (fino agli anni ’70) o emettendo titoli del debito pubblico. Lo sviluppo economico che ne seguiva, generando redditi (profitti, salari, rendite) e consumi, permetteva, attraverso la tassazione, di ripianare il debito (Fig. 1).

La crisi fiscale dello stato, generata dall’accumularsi esplosivo di deficit di bilancio pubblico e dal costo del conseguente servizio del debito per interessi, ha generato una impossibilità per lo stato di contrarre nuovi debiti per finanziare gli investimenti pubblici. Di qui la ricerca di modalità nuove di finanziamento dei pur necessari interventi, nell’attesa di generare risparmio pubblico sufficiente attraverso la riduzione delle spese correnti.

Al fine di identificare una delle possibili soluzioni, facendo intervenire il privato nel finanziamento delle opere pubbliche, occorre costruire una tipologia dei beni pubblici. Essi si distinguono dai beni privati per due caratteristiche essenziali: la non-rivalità nell’uso (la mia fruizione di una piazza non implica la non-fruizione di altri, se non vi è congestione) e la non-escludibilità (impossibilità tecnica di escludere selettivamente qualcuno dall’uso). Emergono quattro categorie di beni (Fig. 2):

- i beni privati, escludibili e rivali,

- i beni pubblici puri, non-escludibili e non-rivali,

- i beni tariffabili ( toll goods), escludibili e non-rivali,

- i beni comuni, non-escludibili ma rivali.

Due categorie intermedie emergono con piena rilevanza territoriale. Innanzitutto i commons o beni comuni, che sono disponibili in quantità limitata ma che, non avendo un costo, vengono spesso sperperati (“la tragedia dei commons”): aria, acqua, balene e pesci nei mari e nei laghi, ma anche suolo e paesaggio. Le possibili risposte risiedono alternativamente in un forte controllo pubblico, nella privatizzazione ove possibile (secondo gli insegnamenti di Coase: un privato gestore di un lago pescoso non consente l’esaurimento delle trote), o in un faticoso ma virtuoso processo di reidentificazione collettiva con il patrimonio e le identità locali (Magnaghi, 2005).

La seconda categoria è costituita dai beni tariffabili, in quanto tecnicamente escludibili: grazie a quest’ultima caratteristica infatti, tali tipi di beni possono essere soggetti a tariffazione, e dunque possono essere assegnati ai privati con un contratto di concessione di costruzione e gestione. Il settore pubblico in questo caso non deve impegnare risorse finanziarie ma solo controllare il rispetto degli obblighi contrattuali sulle caratteristiche delle opere, la loro manutenzione e le modalità di tariffazione. E’ chiaro che in questo caso l’utente deve pagare un prezzo per l’uso dei beni (autostrade, ponti, infrastrutture in generale), un prezzo che garantisca la profittabilità privata dell’operazione; il privato, naturalmente, non regala nulla, anche se apparentemente fornisce un bene pubblico.

E’ per questa categoria di beni che, al di là del tradizionale contratto di concessione, è possibile fare ricorso a nuove fattispecie contrattuali come la cosiddetta finanza di progetto (project finance) (Carbonaro, 1993; Camagni, Mutti, 1994; Imperatori, 1998; Medda, Carbonaro). Si tratta di una tecnica di finanziamento di un progetto basata sulla certezza del flusso di cassa che esso può generare al fine del ripagamento del servizio del debito e sulla “bontà” del progetto stesso, anziché su garanzie patrimoniali fornite dal promotore/debitore. In sostanza, si passa dal concetto tradizionale di “finanziamento per un progetto” a quello di “finanziamento di un progetto”: non si valuta da parte del finanziatore la capacità di rimborso del promotore e la sua solidità patrimoniale, ma le prospettive reddituali del progetto (Tab. 1).

Operativamente, la finanza di progetto prevede la creazione di una società di progetto (“veicolo finanziario”), giuridicamente distinta rispetto ai singoli promotori, che cura la realizzazione dell’iniziativa, e una rete di attori, pubblici e privati, con compiti complementari: finanziatori, imprese di costruzione, fornitori, enti pubblici locali e non che garantiscono contratti di concessione, impegni normativi e di servizio e contributi a fondo perduto (Fig. 3). La struttura contrattuale fra questa rete di attori, e in particolare fra attori pubblici e attori privati, è assai più complessa di un montaggio finanziario tradizionale; per questo è essenziale un rapporto di fiducia reciproca.

I vantaggi di questa forma di realizzazione, al di là del fatto che non impegna l’ente pubblico in un investimento diretto, sono costituiti dal fatto che in generale l’operatore privato è più efficiente nella realizzazione dell’investimento, in quanto apprezza in modo assai più stringente il costo del tempo. D’altra parte, il privato deve essere messo nella condizione di assumere interamente il rischio del progetto: l’eventuale supporto pubblico per l’evidenza di una insufficiente redditività deve essere definito ex-ante e non assumere la forma di garanzia contro rischi di aumenti di costi o di minore domanda. In quest’ultimo caso infatti (project financing “sporco”, spesso utilizzato in Italia) viene meno l’incentivo all’efficienza privata, e dunque il vero vantaggio economico di ricorrere a questa forma di finanziamento.

Nel caso infine che le tecnostrutture pubbliche di realizzazione diano sufficiente garanzia di efficienza, il project finance appare inutile e maggiormente costoso: si aggiunge infatti il profitto del promotore privato ai costi complessivi da sostenere, e il maggiore costo per interessi rispetto a una grande struttura pubblica. Per questa ragione ad esempio SNCF non ha fatto ricorso a questa tecnica nella realizzazione delle nuove linee TGV in Francia (salvo il caso del tunnel sotto la Manica).

Tasse di scopo e recupero di plusvalori fondiari

Il ricorso alla finanza di progetto, o ai metodi più tradizionali di concessione di costruzione e gestione per le grandi infrastrutture (beni pubblici escludibili, come abbiamo visto), non esaurisce le modalità di finanziamento dei beni pubblici urbani. Come è possibile vedere in Figura 4, altri strumenti a carattere fiscale sono disponibili, che presentano solide giustificazioni dal punto di vista economico.

Al di là di possibili trasferimenti pubblici da parte del governo centrale, a fronte di riduzioni di esternalità negative o per favorire esternalità positive, altri due tipologie di interventi sono percorribili:

- la tassazione di eventuali produttori di diseconomie esterne (pensiamo alla utilizzazione di auto privata in città, che può essere tassata con tasse di scopo, con tariffazione della sosta o dell’attraversamento – parking pricing e road pricing ) e la utilizzazione diretta delle entrate per approntare modalità alternative di mobilità ( earmarking), e

- la tassazione dei plusvalori fondiari, effettivi o potenziali, che derivano dalle decisioni di fornitura di beni pubblici urbani (in genere infrastrutture di mobilità, ma anche servizi o interventi sulla qualità urbana).

Per comprendere appieno questa seconda fattispecie, è necessario un breve excursus sulla teoria della rendita fondiaria urbana.

Beni pubblici e rendita fondiaria.

E’ importante subito comprendere che la rendita fondiaria urbana, intesa come il valore di scambio per l’uso del suolo, è ineliminabile: essa infatti si manifesta come la controparte in termini di valore dei vantaggi localizzativi offerti da ciascuna particella di suolo urbano. In conseguenza, essa è indipendente dal regime di proprietà dei suoli, anche se, in diversi regimi di proprietà, cambiano le modalità della sua appropriazione (utilità individuali o rendita burocratica di chi è addetto alla allocazione delle risorse territoriali: in entrambi i casi, essa è facilmente monetizzabile, a fronte, appunto, dei vantaggi localizzativi).

Infine, la rendita fondiaria urbana costituisce strumento potente di allocazione “ottimale” delle attività nel territorio. Si dimostra infatti facilmente come uno dei modelli storici maggiormente rilevanti in questo caso, il modello di von Thünen, non solo interpreti insieme la struttura delle localizzazioni settoriali e il profilo della rendita dal centro alla periferia, ma indichi contemporaneamente il modello insediativi ottimale dal punto di vista, duplice, della massimizzazione del reddito complessivo e della minimizzazione dei costi di trasporto [2].

I vantaggi localizzativi a loro volta sono creati dalla localizzazione dei seguenti asset:

- i beni pubblici di accessibilità,

- i beni pubblici di qualità urbana e ambientale,

- i servizi pubblici localizzati,

- la dimensione complessiva della città e la sua generale attrattività (efficienza, qualità della vita, identità).

I primi tre casi stanno alla base della rendita differenziale, a carattere micro-territoriale, specifica di ogni unità spaziale; il quarto sta alla base della formazione della rendita assoluta, a carattere macroterritoriale, che si manifesta su tutte le unità di suolo urbano in modo simile.

Dunque: i vantaggi localizzativi (e la conseguente rendita fondiaria)sono creati dagli investimenti pubblici, dalla pianificazione e da quello che gli economisti classici chiamavano lo “sviluppo generale della società”. In conseguenza la rendita fondiaria sarebbe “un reddito non guadagnato”, che deriva da quanto accade per decisione in parte pubblica e in parte privata nello spazio circostante di ogni unità territoriale.

Importante è la conseguenza pratica che segue da questo ragionamento: come affermava Alfred Marshall alla fine dell’ottocento, se la rendita fondiaria fosse tassata al 100%, ciò costituirebbe uno sconvolgimento politico maggiore, ma dal punto di vista economico non genererebbe alcun effetto, “il vigore dell’industria e dell’accumulazione non ne sarebbe necessariamente danneggiato”[3].

Da tutto quanto precede, si può derivare la giustificazione per il secondo tipo di interventi, citato nel paragrafo precedente, per finanziare la produzione di beni pubblici urbani: la tassazione dei plusvalori fondiari derivanti dall’offerta e la localizzazione di nuovi beni pubblici (in una percentuale da definire “politicamente”)[4].

Questo tipo di interventi può assumere tre forme parzialmente differenti (Camagni, 1999):

- il “ recapture” di plusvalori patrimoniali immobiliari derivante dalla fornitura di beni pubblici localizzati (ad esempio, nuove stazioni lungo linee di trasporto pubblico metropolitano); le betterment levies inglesi e i contributi di miglioria specifica introdotti per qualche anno nella nostra legislazione negli anni ’60 appartengono a questa categoria [5];

- la tassazione dei developer, che trasformano terreni urbani divenuti appetibili grazie alla sopravvenuta (maggiore) centralità, anche attraverso procedure negoziali divenute normali nella maggior parte dei paesi avanzati;

- la internalizzazione di esternalità: con questo termine si intende la valorizzazione di terreni adiacenti alle aree di nuova accessibilità (nuove stazioni) attraverso la concessione di permessi di costruire edifici a varia funzionalità, in modo da poter generare plusvalori fondiari e immobiliari rilevanti da far rientrare nella disponibilità pubblica attraverso una tassazione. Nella maggior parte dei casi internazionali, il developer è costituito qui da una grande agenzia pubblica, ma niente vieta che si tratti di privati con i quali avviare una negoziazione pubblico/privato (come nel caso, ricordato in Fig. 4, parte di una procedura complessa di project financing).

Dunque, si procede in genere alla tassazione della rendita fondiaria in presenza di trasformazioni, cioè allorché si manifesta (e il privato si appropria di) una differenza fra la rendita potenziale e la rendita attuale:

- perché gli usi storici sono divenuti impropri (aree dismesse)

- per effetto del degrado cumulativo (“ rent gap theory”)

- per urbanizzazione di aree agricole perturbane

- per processi di riqualificazione del centro storico

- per effetto della predisposizione di nuovi beni pubblici (metro, ..).

Si chiede al privato di partecipare genericamente ai costi pubblici di manutenzione della città, più specificamente ai nuovi costi pubblici che sono implicati dalle trasformazioni (oneri di urbanizzazione) o agli investimenti pubblici che valorizzerebbero il patrimonio privato.

[omissis]

Conclusioni

In questo lavoro si sono volute esplorare le diverse forme possibili di finanziamento della “città pubblica” in epoca di crisi della finanza locale. Si sono analizzate le diverse forme di project financing e soprattutto le diverse forme di “ri-cattura” dei plusvalori fondiari e immobiliari conseguenti alle operazioni di trasformazione urbanistica. Tali plusvalori emergono proprio per effetto della costruzione dell’insieme di opere e infrastrutture pubbliche (oltre che dei conseguenti investimenti immobiliari privati), in presenza di un “non-lavoro” da parte dei proprietari: emerge così una giustificazione forte perché una parte di essi possa ritornare al pubblico proprio per finanziare le opere.

Si sono poi analizzate le modalità con cui in Italia si utilizzano gli oneri di urbanizzazione allo scopo di realizzare le normali infrastrutture e sovrastrutture, e si è effettuato un confronto fra un Programma Integrato di Intervento a Milano e simili programmi negoziati fra pubblico e privato a Monaco di Baviera. Appare evidente che a Milano l’introduzione di una procedura di negoziazione urbanistica - se pure ha certamente consentito di flessibilizzare e accelerare i processi di trasformazione - non ha in nessun modo alterato la storica sotto-tassazione delle trasformazioni urbane e degli incrementi di valore generati. Ad essere ottimisti, il pubblico ottiene solo un terzo di quanto realizzato a Monaco.

Questo appare dunque un campo aperto al miglioramento delle pratiche negoziali da parte dei comuni, spesso colpevolmente inerti o incapaci di difendere adeguatamente l’interesse pubblico; ma anche un campo in cui sarebbe essenziale il supporto di una nuova legislazione urbanistica nazionale e di nuove regole sulla tassazione delle rendite e dei plusvalori immobiliari.

[1] Si veda al proposito il Cap. 1 del mio manuale di economia urbana: Camagni, 2000.

[2] Si veda al proposito Camagni, 2000, cap. 6.

[3] Interessante notare come, in successive ristampe dei suoi Principles, Marshall abbia censurato questa frase: era intervenuta nel frattempo l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che scomunicava, insieme al marxismo, il “georgismo”, la dottrina che prevedeva un’unica imposta del 100% sulla rendita e l’abolizione delle imposte su profitti e salari. Si veda Camagni, 2000, p. 193.

[4]La cosiddetta “regola d’oro” della finanza locale afferma che, in equilibrio, la spesa in beni pubblici eguaglia il “surplus” della città (differenza fra valore prodotto e costi) e questo eguaglia (è assorbito da) la rendita fondiaria.

[5] Il limite di questa tipologia consiste nel fatto che si tassano plusvalori potenziali ma non realizzati su alcun mercato (almeno finché il proprietario non aliena il suo immobile rivalutato), e questo dà luogo a probabili e costosi contenziosi.

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