Effimera, 5 ottobre 2018. Critica ben argomentata alle principali manovre di politica economica e le misure adottate per finanziarle: dall'incostituzionalità della condizionalità del reddito di cittadinanza, alla riduzione delle tasse a favore dei più ricchi. (i.b.)
A una setttimana dalla riunione del Consiglio dei Ministri che ha definito i primi contenuti del Documento di Economa e Finanza (DEF) per il 2019 e dopo giorni di discussione sul come ripartire le risorse e dove trovare modo di finanziare le varie misure, solo oggi (5 ottobre 2018), a una settimana dal termine ultimo per la presentazione del Def (28 settembre), sembrano essere disponibili i numeri che dovrebbero rendere attuative e concrete le proposte di politica economica declamate. Sulla base delle dichiarazioni e dei documenti esistenti, la manovra 2019 dovrebbe valere (il condizionale è d’obbligo) 33,5 miliardi, di cui 27,2 reperiti tramite indebitamento (il rapporto deficit/PIL passa dall’1,6% al 2,4% nel 2019, per poi scendere al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021, contrariamente a quanto in inizialmente deliberato). Al netto dei 12,5 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva al 24% (clausola capestro ereditata dal governo Monti, senza che nessuno, destra e sinistra, dicesse alcunché… ), il governo dovrebbe avere a disposizione circa 21 miliardi.
Al netto delle spese improrogabili (per la gestione corrente delle funzioni statali), e, notizia dell’ultima ora, al netto di circa 1 miliardo per l’assunzione di circa 1000 nuovi poliziotti (la repressione non sottostà a vincoli di bilancio!), ne rimangono circa 18-19. Tale somma dovrebbe distribuirsi (il condizionale è d’obbligo) nel seguente modo: 6,5 miliardi per il cosiddetto reddito di cittadinanza; 1 miliardo per la riforma dei centro per l’impiego; 1,5 miliardi per portare le pensioni minime a 780 euro mensili, per un totale di 9 miliardi; 7 miliardi per il superamento della riforma Fornero (che dovrebbe interessare tra le 400.000 e le 500.000 persone, a seconda di come la quota 100 viene calcolata); 2 miliardi per l’unica aliquota del 15% a circa un milione di partite Iva per poi estenderla alle imprese (che hanno già beneficiato di ingenti sgravi fiscali sulla decontribuzione, sugli investimenti e sui profitti); 1 miliardo (e non 1,5 come inizialmente dichiarato) per il rimborso dei truffati dalle banche.
Sul lato delle entrate, si propone la cosiddetta “pace fiscale”, ovvero la possibilità di saldare il debito con l’erario su redditi già dichiarati al netto delle sovrattasse e degli interessi fino a un limite massimo che dovrebbe aggirarsi sui 500.000 euro, tetto non ancora stabilito,
Esamineremo queste misure una alla volta, in modo il più possibile semplice (e speriamo chiaro) cercando di mettere in luce gli aspetti positivi (pochi) e quelli negativi (tanti).
Ma prima di ciò, credo sia necessario riconoscere che, per la prima volta dopo tanti anni, questo non è un DEF improntato all’austerità, fondato su tagli della domanda e sussidi esclusivamente alle imprese. La reazione della troika e dell’oligarchia finanziaria lo confermano. Misure come l’abbassamento dell’età pensionabile, o il portare le pensioni minime a 780 euro (se viene confermato) insieme a misure di contrasto più decisivo alla povertà (seppur parziali e fortemente condizionate), rappresentano provvedimenti che, piaccia o non piaccia, dovrebbero entrare in un’agenda di politica economica di sinistra. Purtroppo dobbiamo rilevare che tali provvedimenti sono caratterizzati da una incertezza, confusione, e mancanza di trasparenza che ne minano la potenziale efficacia (ammesso che esista). Il balletto sulle cifre degli effetti sulla crescita del Pil è imbarazzante. Il governo spara incrementi del 1,6% del Pil, conditio sine qua non per rendere sostenibile la manovra ma tale stima appare, come minimo, esagerata.
Certo, tali misure - come vedremo - sono parziali, nascondono alcuni trucchi e sono poi negativamente compensate da interventi sul piano fiscale del tutto reazionari e conservatori, a partire dalla proposta di flat-tax e della pace fiscale (invece che l’iniezione nel sistema fiscale di maggior progressività e l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni). Ma al momento attuale, il 15% di unica aliquota fiscale dovrebbe essere applicata solo alle partite Iva che hanno un giro d’affari non superiore ai 65.000 euro di imponibile annuo e la pace fiscale non ha nulla a che fare con un condono fiscale a vantaggio di chi ha dichiarato il falso o non ha dichiarato nulla ma solo con coloro che sono in ritardo nei pagamenti tributari. Si tratta di provvedimenti che strizzano l’occhio ai bacini elettorali dei due partiti di governo, sulla base di strategie che possiamo grossolanamente definire, “un colpo al cerchio, un colpo alla botte”.
Il superamento (parziale) della legge Fornero farà piacere a un numero assai limitato di pensionati che sono geograficamente localizzati prevalentemente nel Nord del paese, a maggior trazione leghista e lo stesso può valere per la flat-tax sull’Iva. Al contrario, il reddito e la pensione di cittadinanza verranno accolte con maggior favore dalla popolazione del Meridione, che nelle ultime elezioni ha votato a maggioranza per i 5Stelle.
Sta di fatto, che ancora una volta, il campo che – a torto – si definisce progressista si è fatto scippare temi che dovrebbero essergli del tutto congeniali, confermando poca lucidità e dipendenza dai poteri economici.
Viene confermato l’ammontare di 780 euro a persona (pari alla soglia di povertà assoluta) che cresce al crescere dei componenti del nucleo familiare sulla base dei tabellari Istat. La misura si declina come l’integrazione di reddito necessaria per raggiungere tale soglia. Se si dovesse applicare tale provvedimento a tutti coloro che hanno un reddito inferiore a tale livello (si tratta di circa 5 milioni di persone che vivono in 778.000 famiglie), come è stato più volte calcolato anche in sede Istat, il costo complessivo risulterebbe superiore a 10 miliardi di euro. Le risorse si rivelano quindi insufficienti e per risolvere questo problema si sono introdotti dei limiti di accesso. Il primo - e il più odioso - è la discriminante di nazionalità: solo i cittadini italiani potranno avere accesso.
I residenti stranieri (comunitari e extracomunitari), anche qualora dovessero avere i requisiti, saranno esclusi. Dovrebbe essere palese l’incostituzionalità di un simile provvedimento. Il secondo limite è più sottile: si sta pensando a una doppia soglia di povertà per accedervi. Si controllerà sia il reddito che il patrimonio del contribuente e in tale calcolo si prenderà in considerazione - tramite indicatore Isee - anche la proprietà della casa di abitazione. In questo caso, la platea degli aventi diritto diminuirà drasticamente e con essa anche il vincolo delle risorse. Inoltre, tale erogazione di reddito è fortemente condizionato da obblighi di comportamento e di consumo (vietato acquistare televisori al plasma…). I 2 miliardi destinati al potenziamento dei Centri per l’Impiego (se vengono confermati) hanno così lo scopo di incrementare misure di controllo sociale dei comportamenti dei “poveri”, indirizzarli sulla retta via, obbligarli a fornire gratuitamente 8 ore di lavoro socialmente utili nel comune di residenza: in altre parole, fare da cerbero ai “fannulloni”, previa la revoca del sussidio.
È qui presente un vecchio retaggio culturale, classista e aristocratico, secondo il quale i cd “poveri” non sono in grado di essere autonomi nelle scelte di vita e di consumo ma abbiano bisogno di una guida morale (stabilita da chi? Da Di Maio, o peggio, da Salvini?) Come già ricordato su queste pagine, il parametro di riferimento, per un’effettiva liberazione dal ricatto economico, ovvero un “vero” provvedimento di reddito di base, dovrebbe essere far riferimento alla soglia di povertà relativa (che attanaglia circa 11 milioni di persone) e non a quella assoluta. Con questa misura si razionalizza e si valorizza (in termini di business) la governance della povertà, senza eliminarla: si tratta di una delle architravi del sistema di workfare: minima e insufficiente protezione sociale di ultima istanza (peraltro parziale) in cambio di coazione al lavoro. In assenza di qualsiasi misura di introduzione di un salario minimo orario su base orario (i lavoratori di Amazon hanno strappato in questi giorni un salario minimo di 15$ ora, cifra minima da estendere a tutte le fattispecie lavorative in Italia – dove non esiste! -, Usa, Europa, Sud America, Africa e Asia), un reddito insufficiente a uscire dalla povertà relativa e condizionato dall’obbligo di prestazioni lavorative gratuite e/o sottopagate non è altro che l’anticamera per sviluppare un business della povertà così come è stato creato con i migranti. Una biopolitica dell’accumulazione sulla pelle di chi ha bisogno ed si trova nella condizione del massimo ricatto,
Ben altro approccio sarebbe necessario, a partire dalla comprensione che un reddito di base è strumento di cambiamento e progresso sociale solo se viene considerato come reddito primario e quindi erogato in modo incondizionato e a un livello come minimo pari alla soglia di povertà relativa, in forma individuale, e accompagnato dall’introduzione di un salario minimo legale.
È il provvedimento che pone maggiori problemi nel determinare il livello di costo. L’unica certezza è la quota 100 come limite minimo, ovvero la somma tra l’età pensionabile e gli anni di contributi. Al fine di incidere meno sulla casse dell’Inps, vi è la proposta di fissare come limite minimo di contribuzioni 38 anni. Il che significa che la minima età per andare in pensione è di 62 anni, rispetto agli attuali 67 anni. Ma chi ne può usufruire, riceve una decurtazione dell’assegno pensionistico pari al numero degli anni di riduzione. Cinque anni di mancati contributi, possono anche significare una riduzione della pensione del 15-20% rispetto a quella che si avrebbe andando in pensione a 67 anni.
Per una pensione a 67 anni stimata in 1.500 euro mensili, il pensionamento a 62 può significare un assegno di 1200 euro. Ne consegue che potranno beneficiarne di più solo i percettori di pensioni più ricche. Da qui il problema della quantificazione del costo del provvedimento. Si parla di circa 450.000 lavoratori/trici interessati, ma non c’è alcuna ragionevole certezza al riguardo. È invece più certo il fatto che, anche ipotizzando l’andata in pensione di un tal numero di lavoratori/trici, ciò non si traduce automaticamente in un pari aumento di opportunità di lavoro per i più giovani. Sulla base delle caratteristiche del nostro sistema produttivo, caratterizzato da un’elevata quota di piccole imprese, è noto che il turn-over lavorativo sia sempre inferiore al 100%. Ne consegue che saranno le imprese ad avvantaggiarsi di più: non venendo sostituito il pensionato/a, si risparmia sul numero degli addetti e, anche se venisse assunto un/a giovane, la tipologia contrattuale con il quale rimpiazzarlo (leggi precarietà) consentirebbe una riduzione del costo del lavoro.
Riguardo invece la pensione di cittadinanza, non si può che valutare positivamente questo provvedimento, anche alla luce della constatazione che l’Italia ha un livello medio della pensione tra le più basse d’Europa. Occorre tuttavia ricordare che un provvedimento simile era stato deciso dal governo Tsipras e che proprio tale provvedimento, di natura sociale, era stato il bersaglio della troika economica. Vedremo quel che succederà in Italia.
Una delle critiche più ricorrenti al DEF è la mancanza di una politica strutturale di investimento. Di fatto, gli unici provvedimenti concreti sembrano essere l’accelerazione delle pratiche e lo sblocco per l’inizio dei lavori di opere già precedentemente finanziate, tra le quali anche alcune grandi opere “contestate” (vedi TAP). Al riguardo occorre però domandarsi quali siano oggi gli investimenti di medio-lungo periodo che possono essere più produttivi e consentire una maggior crescita del PIL con l’obiettivo di incidere positivamente sulla riduzione del rapporto Debito/PIL. Nel contesto attuale della valorizzazione capitalistica, essi riguardano principalmente due direttrici: la manutenzione dell’ambiente e la manutenzione della vita umana. Sul primo fronte, nulla di nuovo, solo chiacchiere ma pochi fatti.
Sul secondo, i settori del welfare sono quelli che oggi sono più produttivi. Salute, apprendimento, conoscenza, tempo libero, attività culturali, rappresentano fonti di valorizzazione: nel pensiero economico mainstream, si parlerebbe di “capitale umano”. L’investimento in capitale umano è forse oggi quello più valorizzante, anche se immediatamente meno appariscente. E sono due le condizioni perché possa essere tale: ridurre la precarietà e garantire la continuità di reddito.
Se volessimo immaginare una politica economica di sinistra, dovremmo immaginare la trasformazione della precarietà attuale in flessibilità attiva, il che significa, oltre alla garanzia di un reddito minimo incondizionato, l’acceso ai beni comuni immateriali, alla mobilità, alla formazione, alla socializzazione, all’abitazione e alla salute: in altre parole, dovremmo immaginare un welfare del comune (Commonfare). È chiaro che questa prospettiva è distante anni luce dalla cultura lavorista e sviluppista che anima buona parte del fronte cosiddetto progressista e sindacale e che vuole giustificare questo DEF (crescita stimata all’1,6%). Ma è altrettanto distante dalle misure del DEF, che, pur contemplando misure di trasferimento che rappresentano un cambiamento rispetto alle politiche d’austerity, alla fine risultano inadeguate ed eccessivamente condizionate da un’etica lavorista, repressiva e di controllo.
Possiamo facilmente immaginare che la sola idea di non aver ottemperato al paletto del rapporto deficit/PIL dell’1,6% per il solo anno 2019 (ma chi lo ha deciso?) possa essere considerato una blasfemia da alcuni – i fautori del rigorismo del centro-sinistra – e con preoccupazione (ma anche come opportunità) dai mercati finanziari, per scatenare i loro appetiti speculativi. Vogliamo però ricordare che, a tutt’oggi, il limite invalicabile del rapporto deficit/PIL fittiziamente deciso dal Patto di Stabilità di Amsterdam è il 3% e che alcuni paesi (Francia in primis) lo hanno disatteso per alcuni periodi. È un rapporto di potere. Ed è grave che in questo potenziale conflitto, l’espressione politica della cd “sinistra” sia assente, se non per le sue frange populiste e sovraniste.
In vista delle prossime elezione europee, si muovono opportunisti di breve periodo e meschinità di vario genere. Alla speculazione finanziaria si aggiunge la speculazione politica. La prima è agita dall’oligarchia finanziaria (che è un “vero” potere), la seconda dall’ideologia sovranista-nazionalista, che non ha un “vero potere”, dal momento che, senza rendersi conto, svolge un ruolo ancillare all’attuale gerarchia del capitalismo finanziario. Detto in modo brusco: un ruolo da “utile idiota”.
In vista delle elezioni europee del prossimo anno, diventa urgente una domanda: a quando la discussione sulla costruzione di una forza politica europea che sia in grado di misurarsi con l’attuale sfida di una valorizzazione capitalistica che sull’austerity, sulla coazione al lavoro, sull’espropriazione del general intellect e dei beni comuni naturali, sulla condizione precaria generalizzata fa leva per estrarre plusvalore finanziario, aizzando, non a caso, vari populismi? Quando saremo in grado di imbastire una piattaforma propositiva che abbia, come primo obiettivo, l’autodeterminazione della persona, un welfare del comune, un reddito primario e quindi incondizionato, condizioni di lavoro e ambientali (le due cose vanno di pari passo) sostenibili, il rispetto delle differenze di genere e di razza, la libera circolazione degli esseri umani, cultura, formazione, informazione e accesso alla conoscenza scevra da ostacoli, obblighi e condizionamenti?