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Filippomaria Pontani
Lettera da Parigi
13 Marzo 2018
Filippo Maria Pontani
Per resistere all'odio: decostruire i suoi stereotipi con le immagini dell'arte. É ciò che fanno fotografi, videoartisti e cineasti francesi e africani contro chi «tratta gli esseri umani peggio degli animali»

In questi tempi di pistoleri e di razze bianche, di suprematisti e di macerazioni, forse l’unico modo per provare a sconfiggere il male oscuro dell’ignoranza, e per mettere in discussione i presupposti stessi dell'odio, è quello di decostruire dall’interno alcuni stereotipi dell’immaginario collettivo: i cowboy bianchi, le discoteche americane, gli immigrati cattivi da rimpatriare, i tiranni dell'Africa nera... È quanto provano a fare i Parigini, in un Paese e in una città assai provati dalle contrapposizioni di razza e di cultura, tramite interventi d’arte e di pensiero che non si vogliono destinati soltanto agli addetti ai lavori, ma provano a coinvolgere l'espace public.

Il fotografo e videoartista franco-algerino Mohammed Bourouissa, forse il più celebre fra quelli ispirati dalle contraddizioni della metropoli (la sua serie Périphérique, ricca di memorabili istantanee degne di un pittore, rimane la più efficace e inquietante introduzione visuale al fenomeno delle banlieues), ha vissuto per molti mesi nella comunità afroamericana di Filadelfia: la sua installazione Urban Riders (fino al 22 aprile al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris) presenta il frutto di quel suo incontro, e si propone di capovolgere con decisione l'inveterato mito del cowboy bianco. Nei sobborghi di Filadelfia, attraversati da afroamericani a cavallo, va finalmente in scena un rodeo interamente “nero”, con destrieri lungamente allevati e allenati in apposite scuderie, e finemente parati per il gran giorno ("Horse Day") per mezzo di strabilianti gualdrappe intessute di stracci multicolori, di tappi di bottiglia, di CD legati alla meglio, in slanci cromatici che non sfigurerebbero dinanzi all'affresco senese di Guidoriccio da Fogliano. Con minore artificio e maggior concretezza rispetto a Tarantino (il cowboy nero di Django Unchained), Bourouissa propone - nell’America di Trump - un’umanità marginale e inattesa, determinata e aperta, che dà corpo alla propria identità secondo parametri simili a quelli dei “bianchi” di Hollywood, ma ricorda sorprendentemente anche l'estetica equestre degli Arabi o dei Messicani. Ci sono dunque il ragazzo nero che incede su un cavallo bardato al modo di Napoleone, il mito di Pegaso precipitato a Fletcher Street, e i volti della città riflessi sulla carrozzeria deformata delle auto, i controversi destrieri della modernità: i "dannati della terra" (Bourouissa cita spesso Frantz Fanon) sono vicinissimi a noi.

Oltre la Senna, la mostra fotografica del maliano Malick Sidibé alla Fondation Cartier (Mali Twist, chiusa il 25 febbraio) ha offerto un’immagine non banale del continente africano, non di rado considerato dalla pubblica opinione secondo parametri affatto esterni, e farisaicamente appiattito lungo assi che non gli appartengono. Certo, non tutti i Paesi africani hanno attraversato l’età dell’oro conosciuta dal Mali all’indomani dell’indipendenza (1960), quando i dancing della capitale Bamako pullulavano di una gioventù vivace e disinibita, la musica combinava sonorità indigene e straniere, e il futuro sembrava passare attraverso i juke-box, le domeniche in topless lungo le rive del Niger (luoghi oggi degradati dall'abbandono), e una singolare forma di non-belligeranza tra religione musulmana e slancio edonistico. Le foto di Sidibé immortalano quegli anni con una freschezza che ha a tratti del pasoliniano (penso in particolare alla Battaglia delle pietre, del 1976), e si capiscono così, a posteriori, le ragioni dello speciale interesse degli estremisti islamici nella destabilizzazione di un Paese tanto libero e "occidentale"; d'altro canto, s'intuisce lo spazio di eleganza, di emancipazione femminile, di sofisticazione artistica e musicale che i Maliani hanno saputo creare, senza aver nulla da invidiare al ricco Occidente bianco.

Dalla guerra civile della Repubblica Centrafricana viene invece il protagonista del film Une saison en France (di Mahamat Saleh-Haroun, Francia 2018), toccante storia di un rifugiato che dopo aver perso la moglie nel suo Paese ed essersi ricostruito una vita decorosa coi due figli nella banlieue di Parigi, si vede rifiutato l'asilo (per un errore, forse; per un nome sbagliato su una lista, o per una lista dal nome sbagliato), e al fianco di una compagna francese d'origine polacca (Sandrine Bonnaire) affronta il calvario della clandestinità e della paura, fino ad approdare a una Calais appena smantellata. Il film non sfugge alla retorica, e attraversa momenti un po' didascalici e rigidi; tuttavia, nel momento in cui la politica non smette di propugnare quasi a una voce il rimpatrio di legioni di persone come principale soluzione al problema migratorio, questo racconto offre uno spaccato di cosa voglia dire concretamente eradicare a forza di carte bollate nuovi cittadini (per di più onesti) da un tessuto sociale che li sta lentamente assorbendo.

Tutto questo non interessa soltanto la triste temperie elettorale e post-elettorale italiana, ma anche la Francia - la quale, per inciso, ha nei Paesi africani sopra citati interessi militari e strategici ingenti, nei quali ha da ultimo coinvolto anche il nostro debole governo. Emmanuel Macron - eletto proprio sull'onda della reazione alla xenofobia lepenista - sta approvando nuove norme sull'immigrazione che preoccupano molti, anche all'interno del suo partito, dove 30 deputati hanno pronti emendamenti sostanziali in vista dei prossimi passaggi parlamentari. La "circolare Collomb" (dal nome del ministro degli interni) prevede ormai il censimento e la scrematura degli immigrati (“triage”, come in ospedale) da parte delle squadre mobili della polizia già nei centri di accoglienza; si prevedono procedure più rapide per giudicare l'asilo ma anche un iter più stringente per richiederlo, tempi di detenzione più lunghi per gli immigrati irregolari, e rimpatri di massa e immediati per chi non ha diritto, con la fine perpetua degli accampamenti "tipo Calais". Soprattutto nel mondo dell'associazionismo, vi è chi ritiene questo programma politico - segnatamente l'intervento delle forze dell'ordine e la contestuale scrematura degli immigrati “sul campo" - sia perfino più a destra di quello di Sarkozy; l’ex first lady Valérie Trierweiler ha dichiarato di ritenere "inaccettabile che si trattino gli esseri umani peggio degli animali”. Ma il Consiglio di Stato ha per ora ritenuto tutto compatibile con la Costituzione.

L’arte e il dibattito non risolvono, ma possono aiutare. Fino al 10 marzo al Théâtre de l’Odéon, dinanzi al Senato della Repubblica, si è rappresentato il Macbeth di Shakespeare nella messa in scena di Stéphane Braunschweig; per scelta del regista, il protagonista della tragedia, intrisa di stregoneria e di Medioevo, di tirannia e di ambizione, era il senegalese Adama Diop. L'idea non pare avere soltanto una ragione artistica (l’umanizzazione quasi spiazzante di uno dei personaggi più complessi e contraddittori del teatro occidentale), ma anche un risvolto culturale, nella misura in cui ha suggerito - in forma dubitativa - una forma di avvicinamento e di confronto tra mondi, dinamiche e contesti che troppe volte tendiamo a considerare remoti e inconciliabili tra loro.


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