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Il sistema democratico di tipo statunitense, che si era affermato nell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, è pervaso almeno dalla fine del mondo bipolare da una crisi strisciante che si manifesta in maniera diversificata nelle attuali nazioni europee. Che questa crisi appaia ora evidente anche nella Repubblica federale tedesca – nelle elezioni del 24 settembre scorso – può sorprendere solo chi finora ha visto nella Germania riunificata una roccaforte inespugnabile, un emblema di stabilità istituzionale e politica.
Eppure all’interno della Germania gli scricchiolii del sistema si sentono da molti anni, e fu proprio la politica della “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici ad averli attutiti in nome della “governabilità”, ritenuta garanzia sufficiente per la “stabilità”. Eppure – osserva Marco Bascetta (il manifesto, 23/1/2018 ) – dopo il recente risicato consenso della base del SPD per concordare con il CDU/CSU un nuovo programma di governo, vi sono politiche di stabilità che a lungo andare favoriscono la peggiore delle destabilizzazioni, quella che conduce alle soluzioni autoritarie, se non al centro, almeno alla periferia.
Compito facile e difficile insieme: facile in quanto la futura politica deve comunque continuare a garantire alla Germania le condizioni produttive per mantenere il suo ruolo dominante in Europa e il rispettivo surplus economico – questo è il tacito consenso tra tutte le forze politiche. Difficile, perché all’interno di questo consenso ci si differenzia per questioni di ridistribuzione del consistente surplus della bilancia commerciale tra le varie frange della società.
Di fronte a una realtà economica in cui le quarantacinque famiglie più ricche posseggono quanto la metà dei tedeschi meno abbienti, si discute di fatto sulle percentuali dei contributi al sistema sanitario, sull’alleggerimento di questa o quella tassa, sulla misura del “tetto” da imporre al numero dei migranti da accogliere ecc. Ma non si ridiscutono le premesse di sistema nel loro complesso, che hanno prodotto e continuano a produrre anche quasi un milione di senzatetto e circa otto milioni di working poor, di lavoratori precari che non arrivano alla fine del mese senza gli aiuti del welfare pubblico. E non c’è dibattito sulla politica estera, né sull’intervento di truppe tedesche nel resto del mondo e ancor meno su una revisione del ruolo della Germania in Europa, perché si nega e si occulta la vera natura economica della conflittualità anche intereuropea.
Il neoliberalismo, diventato teoria e prassi dominante dopo la fine del mondo bipolare, ha negato la pluralità degli interessi, l’esistenza di conflitti di classe e non riconosce più una controparte sociale. Il che ha prodotto quella rigidità autoritaria che collega – pure in decenni e contesti politici diversi – Angela Merkel a Margaret Thatcher: “Non c'è alternativa”.
Negando l`esistenza di contraddizioni economiche antagoniste la politica degenera in una lotta all’interno del blocco di potere dominante. E mentre nel contesto europeo dopo Maastricht le attuali democrazie nazionali stanno perdendo parte delle funzioni che avevano in passato, la Germania è tornata a essere “Stato-nazione” proprio in quel momento storico che doveva ridimensionare il peso delle nazioni. Il contrasto tra Merkel e Trump si spiega anche così: Germany first vs America first.
La propaganda mainstream insiste in queste settimane sulla necessità di costituire al più presto un governo tedesco “capace di agire”, lo chiederebbero non solo i cittadini tedeschi, ma anche i partner europei, per non dire il mondo intero, che guarderebbe con ansia a Berlino! E si favorisce apertamente la riedizione di una Grande Coalizione, per poter continuare più o meno come prima (nonostante il fatto che gli elettori abbiano sottratto milioni di voti, circa il quattordici percento del consenso a questa opzione).
Ma l’ipotesi di un governo di minoranza è fuori dall’orizzonte dell’establishment politico, il cui atteggiamento richiama in mente la logica della propaganda elettorale democristiana degli anni Sessanta: Keine Experimente. Infatti “calma e ordine” costituiscono la consolidata massima della politica tedesca, almeno dal 1806 (Ruhe ist die erste Bürgerpflicht! – Mantenere la calma è il primo dovere dei cittadini! – fu l’ordine impartito ai sudditi berlinesi dopo la disfatta prussiana presso Jena a opera di Napoleone).
Anche la Repubblica Federale postbellica si votò alla restaurazione – ora dell’ordine capitalistico col modello consumistico statunitense, concepito come non conflittuale e armonico e reagì quindi male alle prime scosse a quell’idillio.
Dopo aver messo a tacere le estese proteste popolari contro il riarmo nei primi anni Cinquanta – solo pochi anni dopo l`ultima sconfitta – e messo fuori legge il partito comunista (KPD) nel 1956 (misura solo recentemente riconosciuta ufficialmente come incostituzionale) furono gli scioperi nella zona della Ruhr nei primi anni Sessanta e le svariate proteste sociali, accentuate dalla prima grande recessione postbellica del 1966 a turbare il sonno del’establishment e della maggioranza dei tedeschi.
Il tutto culminò poi nel cosiddetto Sessantotto che non solo attaccò le premesse dell’ordine costituito, almeno a parole, ma tentò per la prima volta dopo la guerra di sviluppare delle alternative politiche, sociali ed economiche al di fuori del sistema normativo tradizionale. Questa deviazione dal consenso maggioritario incontrò durissime reazioni da parte del’establishment politico e mediatico (cfr. il varo della legislazione d’emergenza, Notstandsgesetze, in barba allo stesso Grundgesetz), reazioni sproporzionate rispetto al “pericolo” costituito dagli studenti ribelli, subito stigmatizzati come estremisti, radicali e potenziali terroristi, ben prima della deriva degli attacchi della Rote Armee Fraktion negli anni Settanta, culminati nell’“autunno tedesco” (1977).
Toccò al primo governo social-liberale (SPD/FDP), in carica dal 1969, quando Willy Brandt aveva proposto ai tedeschi di “osare più democrazia” (Mehr Demokratie wagen), a promulgare nel 1972 quel Radikalenerlaß, diventato noto in tutte le lingue europee come Berufsverbot, con il quale si escludevano per anni e per motivi insindacabili i cosiddetti “elementi anticostituzionali” dai pubblici uffici (ovvero gli ex-sessantottini, allora ritenuti “nemici della costituzione” – Verfassungsfeinde). Centinaia di migliaia di giovani tedeschi vennero sottoposti a procedure inquisitorie, che ebbero a lungo anche un indubbio effetto intimidatorio sul resto della società.
I nemici della libertà e della democrazia sono dunque di nuovo pesantemente all`attacco, nella Rft [constatò Lucio Lombardo Radice nelle sue corrispondenze di viaggio dalla Germania del 1977 ( Germania che amiamo, Editori Riuniti, 1978) e non da] sostenitori di Hitler, e perciò (tali nemici) sono più pericolosi dei neonazisti antistorici. Si richiamano a una tradizione di conservatorismo e di “repressione legale” che è vecchia quanto lo Stato tedesco unificato dalla Prussia militarista un secolo fa, e più: è la tradizione di Bismarck e ancora di più di Hindenburg.
La SPD era ormai divenuta “immanente al sistema” con la decisiva svolta programmatica di Bad Godesberg (1959), abdicando definitivamente alla lotta di classe e al marxismo. Max Horkheimer aveva definito quel riformismo della SPD come pura “strategia per arrivare al potere”. Eppure, occorre constatare, che l’opposizione non arriva mai “al potere”, ma solo al “governo”, per periodi relativamente brevi e sostanzialmente a più riprese per togliere le castagne dal fuoco.
Accreditata dunque come possibile Juniorpartner alla direzione degli affari della vecchia Bundesrepublik, la SPD di Willy Brandt, dal 1969 al governo in coalizione con la FDP, poté finalmente avviare quella Ostpolitik che mise fine alla miopia politica della negazione dell’esistenza della Repubblica democratica tedesca e avviò una politica di distensione verso l’Europa sovietica. Ebbe inizio quel Wandel durch Annäherung (svolta attraverso l`avvicinamento), di cui la CDU era stata incapace, ma che contribuì infine alla dissoluzione del blocco sovietico – e del cui successo si vantò la SPD poi dopo il 1989.
Ma presto, nel 1974, Brandt fu fatto cadere e dovette cedere la cancelleria all’uomo forte della SPD, Helmut Schmidt, promulgatore di uno Stato forte, che preparò indirettamente quella geistige Wende (svolta dei valori) reclamata ormai da Helmut Kohl, già alla guida della CDU, con cui nel 1982 ebbero inizio altri sedici anni di governo democristiano.
La lunga “era Kohl” (1982-1998) lasciò la SPD nuovamente in seconda fila anche nel processo della riunificazione nazionale. Essa poté tornare al governo solo alla svolta del secolo, dopo che Kohl aveva privatizzato l’intera industria della Rdt, creando non pochi problemi sociali. Toccò quindi a una finora inedita coalizione tra SPD e Verdi a guida di Gerhard Schröder cancelliere, reimpostare l’economia tedesca, ora unificata, con le pesanti riforme base dell’Agenda 2010, finalizzate alla razionalizzazione del welfare (riforme Hartz) e al dumping salariale che poi fece esplodere la produzione e l’export tedesco non solo in Europa, ma nel mondo intero.
Nel 2002 i Verdi facevano posto alla FDP ed è da allora che la SPD viene punita dal suo elettorato tradizionale. Entra nella prima Grande Coalizione con Angela Merkel, CDU, nel 2005, ma perde sempre più credibilità e il quattordici per cento del suo elettorato durante gli ultimi dodici anni (dal 34 per cento nel 2005 al venti per cento dei voti nel 2017). E non pochi valutano la sua recente svolta verso una nuova GroKo per “responsabilità nazionale” – ennesima resa di fronte alla chiamata della patria – come un suicidio politico.
Eppure questa deriva non è nuova nella storia tedesca, anzi, si ha sempre più spesso l`impressione del déjà-vu. Già cento anni fa, durante la prima esperienza repubblicana dopo la prima guerra mondiale, allorché la SPD aveva votato i crediti di guerra per sfuggire allo stigma dei vaterlandslose Gesellen (gente senza patria) , inflittole dall’establishment del Reich guglielmino a causa dell’internazionalismo proletario degli inizi, la SPD perse consenso politico presso le masse a causa della sua politica troppo accondiscendente nei confronti dei poteri forti che sopravvissero anche a Weimar.
Di fronte alla crisi della SPD diventata irreversibile verso la fine della Repubblica di Weimar, Kurt Tucholsky aveva formulato nel 1927 il seguente “compito di matematica”:Il partito socialdemocratico ha in otto anni zero successi. Quando si accorge che la sua tattica è sbagliata?
E si potrebbe aggiungere oggi: perché nei novant’anni successivi non ha mai messo in dubbio la propria strategia politica, pur essendosi questa rivelata quasi sempre perdente nei grandi appuntamenti storici?
Nelle condizioni attuali e con i politici attualmente in campo è prevedibile che una prossima GroKo, se si realizzerà, sarà politicamente più debole, ma continuerà a perseguire gli interessi di Germany first, anche per “frenare la destra nel parlamento e nelle piazze”, come ripetono i media, una destra (AfD) che viene alimentata proprio da quella politica. Un circolo vizioso.
La strategia di fondo rimarrà quella della costruzione di un “Kerneuropa”, concetto di origini lontane, ripreso da Wolfgang Schäuble e non messo in questione dalla SPD, persino Jürgen Habermas si è schierato in questo senso. Quella “Europa a due velocità” rafforzerà il legame con la Francia, nel comune interesse di creare forze militari europee. Le nazioni “periferiche” rispetto al nucleo forte, a sud e a est, manterranno il loro status di supporto semicoloniale. Restano indispensabili, anche per ragioni geopolitiche, l’Italia come porta-aerei della NATO e gli stati del gruppo Visegrad, come supporto-base per gli interessi USA/NATO, al fine di limitare sia l’autonomia della Russia sia quella europea.