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Massimo Giannini
Bankitalia e legge elettorale due partite senza vincitori
27 Ottobre 2017
Articoli del 2017
la Repubblica, 27 ottobre 2017. A partire dai fatti Banca d'Itale e legge elettorale, un'efficace panoramica della squallida situazione nella quale la "politica politicante" ha gettato le isituzioni democratiche.

la Repubblica, 27 ottobre 2017. A partire dai fatti Banca d'Itale e legge elettorale, un'efficace panoramica della squallida situazione nella quale la "politica politicante" ha gettato le isituzioni democratiche.

A METÀ strada tra il Vietnam e i Balcani, la politica lancia nel peggiore dei modi i suoi saldi di fine stagione. La nuova legge elettorale e il caso Banca d’Italia sono due mesti paradigmi di un caos repubblicano che non conosce vincitori ma solo vinti. Due amare allegorie di un processo di “rottamazione istituzionale” destinato a durare, purtroppo, fino alle elezioni del marzo 2018 e oltre.

Il rinnovo del governatore alla Banca d’Italia è frutto di una battaglia dissennata, che lascia sul campo morti e feriti. Mattarella e Gentiloni, titolari per legge del diritto di nomina, resistono all’assedio di Renzi, che ha chiesto in Parlamento la testa di Ignazio Visco. Ma a quale prezzo?

I due presidenti tengono fermo il presidio delle istituzioni, evitando a Via Nazionale un ribaltone che avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti. Ma si assumono una grande responsabilità: si fanno “garanti”, di fronte all’opinione pubblica, di un governatore che nei prossimi tre mesi dovrà comunque rispondere dei suoi atti in una commissione parlamentare d’inchiesta già in parte deformata a nido di serpenti. C’è da sperare che i veleni non spurghino, e non finiscano per intossicare anche gli organi di garanzia.
Renzi deve fare un passo indietro: ribadisce che “non condivide”, anche se la rispetta, la scelta del suo “amico Paolo”. Anche qui: a quale prezzo? Per rifarsi la verginità perduta di fronte al Paese, su Banca Etruria e sul “bail in”, il segretario non esita a compiere un “atto sedizioso” alla Camera, avallando una mozione di sfiducia nei confronti di Visco. Per lucrare un pugno di voti ai Cinque Stelle, trasforma la natura del Pd: da “unico argine ai populismi” a “partito che tra il popolo e i Poteri Forti sta dalla parte del popolo”. Troppo comodo, per una “forza di sistema”, andare all’attacco del sistema. Troppo tardi, per un ex premier che ha governato tre anni, si è caricato sulle spalle il peso del conflitto di interessi di Maria Elena Boschi e di papà Pierluigi, ha cambiato i vertici di Mps e ne ha addirittura rinviato il salvataggio per non impattare con il referendum costituzionale. Cos’è ormai questo partito democratico, di piazza e di palazzo, nessuno più sa dirlo.
Visco respinge l’offensiva renziana, difende l’autonomia di Palazzo Koch e ottiene un secondo mandato. Ma di nuovo: a quale prezzo? Non è lesa maestà affermare che qualcosa non ha funzionato, nei controlli sulle crisi bancarie di questi ultimi dieci anni costate quasi 60 miliardi di denaro pubblico. Per quanti chiarimenti Visco potrà ancora dare, il rischio è che un’ombra di sospetto continui a gravare anche in futuro su Via Nazionale, e che al suo vertice si ritrovi per altri sei anni un “governatore mascariato”. O comunque sotto accusa dal partito di maggioranza relativa.
È l’esito più perverso della scomposta campagna renziana, che propone un tema sensato nel modo più sbagliato.
Se si passa alla legge elettorale la conta delle “vittime” è ancora più pesante. Il famigerato “Rosatellum” passa con una raffica di otto fiducie. Già questo, prima ancora di ogni valutazione sul merito della sedicente “riforma”, basterebbe a svilire ulteriormente un Parlamento ridotto a quel che sembra ormai da troppo tempo. Lasciamo perdere la metafora delle “aule sorde e grigie” che approvano a forza il “Fascistellum”, perché con tutta evidenza (e per nostra fortuna) il Ventennio è stato tutt’altra storia. Ma è vero che le Camere sono state ancora una volta trasformate in un banale votificio, e piegate dall’ultimo atto di forza di una partitocrazia debole, a novanta giorni dalla fine della legislatura.
Ancora una volta (com’era già successo per il Titolo V e per il “Porcellum”) prevale l’uso congiunturale delle regole. E ancora una volta perdono tutti, in questo blitzkriegordito in due settimane da quattro partiti in cerca d’autore. Pd, Forza Italia, Lega e Ap si blindano tra loro, con un patto scellerato. Per tagliare fuori i Cinque Stelle, senza rendersi conto dell’eterogenesi dei fini, cioè di avergli regalato un formidabile argomento di propaganda per la campagna elettorale. Per tenersi mani libere, fabbricando coalizioni finte prima del voto e nascondendo “grandi coalizioni” subito dopo. Per assicurarsi un manipolo di fedelissimi, da piazzare nel Parlamento che verrà, all’insegna del motto di Arbore: meno siamo, meglio stiamo.
Dentro al Palazzo perde Gentiloni, costretto suo malgrado a subire una fiducia di cui avrebbe fatto volentieri a meno, come ha denunciato in aula l’emerito Napolitano. Perde Renzi, che per sconfiggere i demoni di Grillo e D’Alema rinnega tutti gli “idoli” che ha venerato (il popolo che sceglie, il vincitore “la sera delle elezioni”, la vocazione maggioritaria del centrosinistra). Perdono Berlusconi e Salvini, ingabbiati in una camicia di forza e accomunati forse da un elettorato, ma non certo da una politica. Perde Alfano, sospeso tra due forni in un limbo in cui finirà per cuocere comunque.
Fuori dal Palazzo perdono i grillini, che inscenano i soliti vaffa e i loro macabri rituali di piazza.
Ma soprattutto perdono gli italiani, che si ritroveranno un Parlamento fatto per due terzi da “nominati” e le pluri-candidature che consentiranno ai “trombati” nei collegi uninominali di riciclarsi nel proporzionale. Ma alla fine, dopo cotanta ricerca, i quattro partiti lo trovano, finalmente, il loro vero “autore”. È Denis Verdini, il padre-padrino di Ala. Con i suoi voti rende possibile questa “guerra lampo” fuori tempo massimo. Con una realpolitik terribile ma incontestabile il senatore condannato e pluri-inquisito celebra in aula il suo “Verdini Pride”, ricordando a tutti quello che non si può più nascondere: “Questa legge non è mia figlia, semmai è mia nipote… Noi nella maggioranza c’eravamo, ci siamo e ci saremo”. Appunto: se la legislatura non fosse agli sgoccioli, Gentiloni dovrebbe salire al Colle, e Mattarella dovrebbe prenderne atto.
Valeva la pena di sacrificare appartenenze e coerenze, per farsi salvare da Verdini? Una domanda che ancora una volta vale soprattutto per il Pd, che mentre beve l’amaro calice del Rosatellum patisce anche l’addio doloroso di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che dopo il “colpo di mano” lascia il partito democratico è il segnale inequivoco di una “rottura sentimentale”, prima ancora che politico- istituzionale. Il segretario sacrifica un pezzo di storia e di cultura politica, sull’altare di una brutta legge elettorale che oltre tutto non dà alcuna garanzia di governabilità. Come ha scritto Roberto D’Alimonte, a un partito o a una coalizione, per governare, non basterebbe neanche il 40% nel proporzionale: dovrebbe vincere anche il 70% nel maggioritario, per avere una maggioranza risicata di almeno 317 seggi alla Camera.
Con questi numeri, la prossima legislatura sarà una penosa e pericolosa lotteria. La affrontiamo senza rete, tra opposti populismi e nefasti velleitarismi. Dopo lo strappo sul Rosatellum, non c’è in Parlamento una maggioranza “ufficiale” per approvare la legge di stabilità. Ieri Mario Draghi ha annunciato che da gennaio 2018 la quota di acquisti di titoli del debito sovrano da parte della Bce si ridurrà da 60 a 30 miliardi al mese. Tre giorni fa, mentre Renzi spacciava altri bonus milionari ai 18enni e Berlusconi prometteva pensioni a mille euro per tutti e dentiere gratis per gli anziani, nella serena Germania ancora senza governo un mese dopo le elezioni i dipendenti del ministero delle Finanze salutavano il falco Schaeuble che trasloca al Bundestag con una foto ricordo che dice tutto: Schwarze Null, un gigantesco “zero deficit”. Per i tedeschi, oggi, è una medaglia. Per noi italiani, tra pochi mesi, diventerà una minaccia.
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