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Aldo Cazzullo
Gloria, Valeria, gli altri: storie d’Italia I giovani talenti costretti all’espatrio
17 Giugno 2017
Articoli del 2017
Vergognoso mettere in relazione la mancanza di lavoro qualificato in Italia che costringe tanti nostri giovani talenti ad emigrare con l'opposizione alle grandi opere, che hanno prodotto, questo si, un sistema diffuso di illegalità, corruzione, tangenti, con benefici immensi per pochi.
Vergognoso mettere in relazione la mancanza di lavoro qualificato in Italia che costringe tanti nostri giovani talenti ad emigrare con l'opposizione alle grandi opere, che hanno prodotto, questo si, un sistema diffuso di illegalità, corruzione, tangenti, con benefici immensi per pochi.

Corriere della Sera, 17 Giugno 2017 (m.p.r.)

Non occorreva la sua immagine, sarebbe bastata la drammatica conversazione tra Gloria e la madre. Ma è inevitabile osservare che i nostri nonni emigrati all’estero erano piccoli, scuri, malnutriti, spaventati; al punto che i funzionari razzisti del Bureau of Immigration si interrogarono se gli italiani andassero considerati «di razza bianca».

Seconda osservazione: sono laureati. Spinti dalla giusta ambizione più che dal bisogno. Avanguardia dei disoccupati intellettuali, che sono la grande piaga dell’Italia di oggi: un Paese che di laureati ne ha meno degli altri in Europa, ma non riesce a trovargli un lavoro; anche perché investe troppo poco in cultura, istruzione, ricerca.

Terza cosa: sono veneti. Vengono dalla regione che in questi anni è cresciuta di più. Da cui un tempo si partiva per sfuggire alla fame, in particolare verso il Sud America: odissee raccontate molte volte da Gian Antonio Stella su questo giornale. Una regione divenuta ora la più ricca d’Italia, ma che non riesce sempre a valorizzare le eccellenze che crea. Veniva dal Veneto anche Valeria Solesin, l’unica vittima italiana della strage del Bataclan a Parigi (13 novembre 2015). Valeria e Gloria erano più o meno coetanee. Avevano frequentato gli stessi luoghi, fatto le stesse vacanze, visto gli stessi film, letto gli stessi libri, ascoltato le stesse canzoni. Come ha detto la signora Luciana, madre di Valeria: «Nostra figlia è stata uccisa dai terroristi; ma i genitori che perdono i figli in un incidente non soffrono meno».

Gloria e Valeria sono le rappresentanti di una generazione con cui l’Italia è stata avara di opportunità. Ma loro non hanno piagnucolato. Si sono messe in gioco. Sono andate all’estero, hanno imparato una lingua straniera. Avevano trovato un lavoro. Valeria abitava con il fidanzato Andrea in un monolocale di 14 metri quadrati in rue César Franck, vicino alla Tour Eiffel: se lei studiava, lui doveva andare a letto o sotto la doccia. Gloria e il suo fidanzato Marco avevano trovato un piccolo appartamento al ventitreesimo piano di una torre a North Kensington, affacciata su Notting Hill, costruita per i poveri e ristrutturata per farla sembrare un posto da ricchi. Era molto bella la foto su Facebook , con le due sedie da regista vuote e la finestra spalancata sullo skyline della Londra notturna: il sogno di tanti nostri ragazzi. Non è forse lo stesso quartiere dove abita l’ex premier laureato a Eton? Dove c’era la libreria del film con Hugh Grant, il commesso che si innamora ricambiato della grande attrice, Julia Roberts? Del sistema antincendio, però, nessuno si era occupato.

La morte di un figlio è sempre un evento ingiusto. Nessuno può sindacare il modo in cui reagisce un genitore. Quasi sempre i genitori italiani se la prendono con lo Stato. Così ha fatto il padre di Gloria. E in effetti è difficile riconciliarsi con uno Stato che al primo articolo della Costituzione riconosce il diritto al lavoro, e non lo rende effettivo neanche per chi si è laureato a pieni voti; a meno che non si accontenti di 300 euro al mese. Uno Stato che spreca risorse nel modo scandaloso che tutti sanno. È più difficile e impopolare, ma è intellettualmente onesto e quindi necessario, aggiungere che a forza di no — no all’alta velocità, no alla Pedemontana, no alle Olimpiadi, no alle grandi opere; c’è chi diceva no pure all’Expo, e meno male che si è fatto lo stesso — è arduo che ci possa essere lavoro in Italia per gli architetti, vista la crisi in cui langue da anni l’edilizia. Londra invece è una città in cui si costruisce moltissimo: solo allo Shard di Renzo Piano hanno lavorato 1.500 tra operai e tecnici, venuti da quaranta Paesi diversi, tutti con gli elmetti gialli, che in Italia evocano minatori in sciopero o cassintegrati che si scontrano con la polizia. Però nello Shard vivono i miliardari. Nella Torre di Notting Hill vivevano gli ultimi arrivati.

La maledizione di Londra è il fuoco. La nostra è sentirci una grande nazione, ma non un grande Paese. Un luogo dove nascono cose destinate a dare frutto altrove, dalle scoperte geografiche a quelle scientifiche, dalla medicina alla tecnologia. Quante volte ci è accaduto all’estero di trovare in ospedale o in cantiere un primario o un ingegnere italiano, e sentire un misto di orgoglio e di scoramento: perché formiamo con il denaro pubblico eccellenze o anche solo bravi professionisti, che vanno a dare il meglio di sé da altre parti. E il mondo globale è propizio alla terra delle cose buone e delle cose belle, ma le impone di saper fare sistema: uno Stato che funziona, le infrastrutture, i servizi, la capacità di fare rete, il talento di mettere l’interesse generale davanti a quello particolare. Proprio l’unico talento che a noi manca.

Per il resto, rimaniamo italiani sino in fondo, sino all’ultimo, anche in terra straniera. Così Gloria non ha chiamato i pompieri o gli amici a Londra. Non ha telefonato al consolato o all’ambasciata. Nel momento estremo, ha chiamato la mamma. Per tranquillizzarla, all’inizio. Per cercare conforto, verso la fine. Per confortarla, nel momento estremo. Perché qualcosa della nostra cultura cristiana e umanista ce lo portiamo dentro tutti, visto che con le sue ultime, meravigliose parole Gloria ha promesso alla madre che l’avrebbe aiutata dal cielo. Se davvero esistono le forze dello spirito, Gloria ci avrà già perdonati. Ma questo non ci assolve dalla responsabilità collettiva che una morte come la sua getta addosso a ognuno di noi.

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