Articoli di Filippo Ceccarelli ,Simonetta Fiori, Rossana Rossanda, Luciana Castellina.
la Repubblica il manifesto 3 aprile 2017
la Repubblica
MORIREMO COMUNISTI
di Filippo Ceccarelli
«Addio a Valentino Parlato il sorriso di un eretico tra politica e giornalismo
I suoi titoli erano piccoli grandi capolavori di sarcasmo»
È già difficile guadagnarsi il titolo di Maestro, ma nel caso del giornalismo, entità quant’altre mai opinabile e relativa, è quasi impossibile. Sennonché, per qualche misteriosa legge dei simili si può pensare — forse! — che solo un giornalista tanto più appassionato quanto più scettico potrebbe meritarsi tale dignità.
Ebbene: a sentirselo tributare, per prima cosa si sarebbe acceso una sigaretta, in silenzio. Fumava sempre, infatti, e non solo a getto continuo, ma con mite allegria qualche anno fa aveva addirittura pubblicato per i libri del Manifesto una guida,Segnali di fumo appunto, sui locali di Roma e Milano in cui era ancora consentito spipacchiare in libertà.
Quindi, aggiustandosi gli occhiali sulla fronte, da dietro la sua monumentale Olivetti 98, Valentino Parlato, Maestro di Giornalismo con doppia maiuscola, avrebbe probabilmente accolto l’onore con un sorriso dei suoi, tipici di chi considera un dovere morale non prendersi mai troppo sul serio.
Ieri se n’è andato, a 86 anni, fra gli ultimi della vecchia guardia del manifesto, “quotidiano comunista”. Il 9 aprile scorso, nel suo estremo articolo, ancora una volta aveva scritto che bisognava sforzarsi di capire questo tempo: «Sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà». Domenica aveva votato alle primarie del Pd. Ma nel novero delle sue numerose virtù si fatica a collocare Parlato nell’ambito dell’impegno politico o dell’ideologia. O meglio. Più che come coscienza critica della sinistra o eretico del comunismo vale oggi ricordarlo per le sorprendenti argomentazioni, il dono magico della sintesi e le risorse del secco periodare, il ritmo e la chiarezza del linguaggio, la cultura mai esibita e il guizzo fantastico che spesso faceva dei titoli di prima pagina piccoli, grandi capolavori di spirito polemico, elegante sarcasmo e perfino poesia.
Si può aggiungere un’inguaribile curiosità, anche a livello umano, e quel tratto di garbato distacco dalle mode che riportano più alla persona che al mestiere. Ma in lui l’intreccio appariva in realtà indissolubile: nei commenti calibrati, nella memoria, nei ricordi dispensati dietro il tavolo di qualche convegno come nelle chiacchiere davanti al bancone del Caffè delle Antille, al di là di via Tomacelli, la prima e indimenticata sede del quotidiano.
Una «bella e lunga vita», parole sue, «una storia difficile e faticosa». Valentino era nato in Libia, da genitori siciliani, e laggiù, nell’adolescenza, aveva aperto lo sguardo, generosamente, sulla miseria e le ingiustizie del colonialismo. Fino a farsi comunista e a lottare per l’indipendenza di quella gente; fino a quando, appena ventenne, nel 1951, l’amministrazione britannica non lo aveva caricato a forza su una nave e rispedito in Italia. Qui, come pure succedeva, fu “adottato” dal Pci, debitamente istruito e indirizzato verso studi economici. Per un po’ lavorò in Puglia con Alfredo Reichlin; quindi a Botteghe Oscure, nella Sezione Economia, allora dominata dalla tonitruonante figura di “Giorgione” Amendola, forse l’unico esponente del Pci, antenato della futura destra migliorista, capace di seminare dubbi e polemiche nel campo avversario.
Per sua natura indipendente, e anzi a suo modo incline agli ossimori, in tarda età si riconobbe nella definizione (datagli da Paolo Franchi) di “amendoliano di sinistra”. Ma l’ardua collocazione non dispensò il giovane Valentino dall’aderire alla corrente o frazione di sinistra che, inizialmente con l’avallo di Ingrao, diede vita al Manifesto- rivista; né poi, nel 1969, si salvò dal conseguente repulisti che lo costrinse ad abbandonare la redazione di Rinascita — «anche se — ricordava in lieta serenità — mi diedero anche la liquidazione ».
Dopo di che, insieme con Pintor, Rossanda e Castellina, divenne uno dei motori del nuovo, austero, elegante, elitario e “solitario”, come preferiva lui, quotidiano. Inutile dire che furono anni di straordinaria intensità, non solo professionale. Idee, articoli, amori, rivalità professionali, scontri generazionali, infinite discussioni, ma pure inusitati, apparentemente, pellegrinaggi in redazione, da Jane Fonda a Ciriaco De Mita.
Molti in effetti apprezzavano la libertà di giudizio di quelle pagine quasi sempre estranee ai giochi del potere e alle scorribande della finanza, animate com’erano da una passione insieme infuocata e rarefatta. Ma c’è da dire che pochi altri giornalisti, per giunta tra quanti si ostinavano a dirsi comunisti, riuscirono come Parlato a ottenere la stima e in certi casi l’amicizia di figure assai diverse fra loro e comunque ben lontane dal mondo e dai precetti del Manifesto: Cesare Romiti, il cardinal Silvestrini, Guido Rossi, Enrico Cuccia, Cesare Geronzi, senza dimenticare il Colonnello Gheddafi che, da nativo libico, Valentino sempre volle considerare — e ha fatto in tempo ad aver ragione — una soluzione di necessaria stabilità.
Inutile anche ricordare che dalla seconda metà degli anni 80 la vita del Manifesto, modello pressoché unico di giornale senza padrone e/o padroni, cominciò a farsi difficile, ma che poi continuamente, disperatamente, tra una sottoscrizione e l’altra, entrò in gioco la sua stessa sopravvivenza.
E qui Valentino, per l’assenza di pregiudizi vissuto come una sorta di ambasciatore in partibus infidelium, dovette dare fondo ai suoi rapporti, da Grauso a Tanzi, da Craxi a Capitalia. In buona sostanza si trattava di prestiti, fideiussioni, finanziamenti e altre trovate finanziarie; quanto insomma era indispensabile per scongiurare la chiusura definitiva di un’esperienza che aveva occupato l’intera sua vita e per la quale, sempre con quella grazia intelligente e quell’onesta simpatia che tutti gli riconoscevano, non esitò a spendersi nelle forme più discrete e laboriose, senza che mai facesse capolino un qualche tornaconto, meno che meno di natura personale.
Perché tanti sono i modi di essere maestri, ma al dunque i migliori sono sempre quelli che pensano agli altri.
La camera ardente sarà allestita a Roma nella Protomoteca del Campidoglio alle ore 15. Mentre la cerimonia funebre si svolgerà alle 18
la Repubblica
ROSSANA ROSSANDA
«CI HA SALVATO DALLA CHIUSURA
SU DI LUI SI POTEVA CONTARE»
di Simonetta Fiori
«Il ricordo della compagna di lotte: "Aveva grandi competenze economiche e sapeva andare d’accordo con tutti"»
«Ci saremmo dovuti vedere da me a Parigi giovedì. È stato un attacco improvviso, fulminante». Rossana Rossanda ricorda l’amico Valentino. Procede a fatica, ha appena terminato di scrivere un articolo per il Manifesto ed è molto stanca. Però si sforza, mossa da quella forza che solo i sentimenti possono dare.
Quando vi siete sentiti l’ultima volta?
«La settima a scorsa. Abbiamo commentato i risultati dell’elezione francese. Ma con Valentino non si parlava solo dei destini del mondo».
Parlavate anche di voi.
«Sì, si preoccupava per me. Anche nell’ultima telefonata mi ha chiesto se mi occorressero dei libri o altre cose».
L’umore com’era?
«Non buono. Era malandato. Non si sentiva più di scrivere, di partecipare alla vita politica. E questo lo rendeva infelice».
Però domenica ha votato alle primarie del Pd.
«Non lo sapevo. Spero non abbia votato Renzi, che io detesto».
Da quanti anni vi conoscevate?
«Dal 1966, da più di cinquant’anni. Io ero responsabile della commissione Cultura dentro il Pci, Valentino lavorava a Rinascita e faceva parte della commissione economica».
Tre anni dopo avete dato vita al “Manifesto”. E nel novembre di quello stesso anno foste tutti espulsi dal Partito.
«Sì, ma con le buone maniere. Nessuno gridò al “traditore” o al “serpente viscido”».
Ricorda Valentino in quei frangenti?
«No, ero troppo concentrata sul mio malumore».
Quando rievocava la storia del Manifesto, Parlato si distingueva per umiltà. Diceva di essere «il più modesto», quasi «una figura di secondo piano».
«No, la verità è che era molto più generoso di noi. Io sono dura e cattiva, Valentino buono e ben disposto».
Lui diceva che intellettualmente era lei la più attrezzata.
«Non si può dire questo. Nel campo della cultura economica ne sapeva molto più di noi. Era amico di Federico Caffè. E quando usciva la relazione annuale della Banca d’Italia era lui a spiegarci le cose. Io forse ero più versata nelle scienze umanistiche mentre Luigi Pintor era un giornalista magnifico, l’eccellenza ».
Con Lucio Magri non si prendevano molto. Una volta la spiegò così: «Lucio era raziocinante e incline alla teoria, io un arrangista fatalista. Due modi diversi di stare al mondo».
«Arrangista? Forse perché cercava di andare d’accordo con personalità complesse, un compito non facile. Fatalista perché preferiva evitare gli scontri cruenti. Su Valentino si poteva sempre contare».
Si fece carico della direzione del Manifesto in vari passaggi.
«E io lo affiancai in momenti diversi. Più che un giornale eravamo un gruppo di amici legato da passioni grandi. E questo è stato anche il nostro limite».
Perché un limite?
«Perché per durare nel tempo si ha bisogno di una struttura organizzata e gerarchizzata. Mi ricordo una volta che Luigi provò a mandare una lettera con una specie di ordine di servizio: bisognava stare al giornale entro una certa ora, etc etc. La redazione organizzò una manifestazione di protesta. Era nel clima di quegli anni, al principio dei Settanta: non erano ammesse le regole. Ma un giornale così non funziona facilmente».
Qual è stato il ruolo di Parlato nella storia del Manifesto?
«Fondamentale. Si è sempre occupato della gestione economica. È stato quello che ci ha salvato quando incombeva la minaccia della chiusura. Valentino è riuscito sempre a cavarsela ».
Com’erano i suoi rapporti con Pintor dentro il giornale?
«Personalità diverse, ma in sintonia. Erano entrambi convinti che prima di scrivere un articolo occorresse avere in mente un titolo. Poi l’articolo sarebbe venuto da sé. Io non ero d’accordo. E non mi sognavo di anteporre il titolo all’articolo».
Anche Pintor non aveva un carattere facile.
«Sì, Luigi e io eravamo più spigolosi. Anche nel rapporto con i collaboratori. Quando Umberto Eco cominciò a scrivere per noi, Luigi ne era come infastidito e lo mise nelle condizioni di andarsene. Valentino non l’avrebbe mai mandato via».
Un tratto che vi accomunava – ha scritto Parlato - era l’antidogmatismo. Lo stesso che vi infondeva «non solo il coraggio ma anche il gusto di dire no».
«Venendo tutti dal Pci, non poteva essere diversamente. E comunque fare per tanti anni un giornale quotidiano, senza una lira, senza un editore e senza un partito alle spalle, è stata un’impresa pazzesca. E questo ci ha resi compagni di vita, oltre che di lavoro».
Lui si è sempre ritratto come uno scettico.
«Ma era un modo di apparire più che di essere. Sicuramente era molto ironico. Ma un gruppo di scettici non avrebbe mai vissuto la nostra esperienza».
Non si perdonava il suicidio di Magri. Aveva l’impressione di non aver fatto abbastanza per dissuaderlo.
«Io ho voluto aiutare Lucio accompagnandolo in Svizzera. Con Valentino non ne ho mai parlato. È una mia mancanza. Ma sono cose di cui è difficile parlare».
Vi sentivate spesso?
«Quasi tutti i giorni. Lui pensava che io fossi troppo rigida, nel giudizio sulle persone. Lui era molto più benevolo, generoso. Mi mancherà molto».
il manifesto
PARLATO , LA GENEROSITÀ COME MODI DI ESSERE.
di Rossana Rossanda
«Il ricordo. Un economista nutrito di Settecento
Si è spento ieri notte, colpito da un malore improvviso, Valentino Parlato, il nostro amico e compagno più vicino, uno dei fondatori del gruppo del Manifesto e di questo giornale assieme ad Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Eliseo Milani e chi scrive.
Del giornale è stato parecchi anni direttore, e soprattutto vigile amico del suo destino, salvatore nelle situazioni di emergenza, oltre che naturalmente collaboratore per lungo tempo.
Valentino era nato in Libia e la sua entrata nel giornalismo italiano è stata la stessa cosa della sua adesione al Partito comunista italiano, finché non fu vittima anche egli della cacciata di tutto il gruppo del Manifesto per non essere d’accordo con la linea imperante fra gli anni sessanta e settanta. Aveva cominciato a collaborare a Rinascita assieme a Luciano Barca ed Eugenio Peggio, in quello che fu forse il più interessante periodo della politica economica e sindacale comunista, e il culmine della polemica sulle «cattedrali nel deserto», ma negli stessi anni tenne uno stretto collegamento con Federico Caffè e Claudio Napoleoni.
Tuttavia non si può limitare la sua cultura alla scienza economica; nutrito di letture settecentesche, si considerò sempre un allievo di Giorgio Colli e di Carlo Dionisotti. Portò questa sua molteplice cultura nella fattura del manifesto e nel propiziargli i collaboratori, della cui generosità si è sempre potuto vantare.
Sempre per il manifesto seguì le grandi questioni della produzione italiana (rimase celebre la sua inchiesta sul problema della casa); ma quello che lo caratterizzò in anni nei quali alle prese fondamentali di posizione nella politica del paese si accompagnarono spesso dolorose rotture, fu la grande apertura alle idee altrui, una generosità mai spenta, un vero e proprio modo di essere e di pensare che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua attività nel giornalismo.
L’aver militato per diversi anni in Puglia con Alfredo Reichlin lo aveva legato per sempre alla questione del Mezzogiorno.
Ma Valentino è stato soprattutto una specie di nume protettore del giornale, chiamato a salvarlo in ogni situazione di emergenza, pronto a lunghe attese per essere ricevuto nelle stanze ministeriali al fine di ottenere le avare sovvenzioni sulle quali il giornale ha potuto fondarsi. Tutti gli incidenti che potevano occorrere a un’impresa avventurosa e senza precedenti come la nostra ebbero in lui un dirigente e un mediatore saggio.
La sua presenza e capacità mancheranno a chi lo ha conosciuto, qualche volta perfino impazientendosi della sua benevola tolleranza per chi non la pensava come lui e come noi.
Del gruppo iniziale siamo rimasti molto pochi nel giornale mentre più vasta è stata la seminagione nei rari settori della Sinistra sopravvissuta alla crisi di questi anni.
Anche sotto questo profilo la perdita di Valentino Parlato sarà assai dura. Per non parlare del venir meno della sua amicizia ed affetto per chi, come noi, cerca ancora di stare sulla breccia.
il manifesto
IL GIORNALE SEMPRE,
PRIMA DI TUTTO
di Luciana Castellina
«Il ricordo. A lui interessava solo il manifesto, a cui ha dato più di chiunque altro tra noi, tutto se stesso»
Sono parecchie le foto del manifesto delle origini in cui appare il gruppo fondatore del giornale. Ora che Valentino è scomparso, «vive – mi dice Rossana al telefono accorata – sono rimaste solo le donne, tu ed io. Perché le donne sono più longeve».
Anche Lidia Menapace, che sebbene proveniente da tutt’altra storia politica si unì assai presto alla nostra avventura, corre ancora per l’Italia – a 95 anni – a fare riunioni. Sarà forse un vantaggio del nostro genere, ma non ne sono sicura: per me la morte di Valentino, nonostante i nostri non infrequenti litigi, è un pezzo di morte mia di cui ora, infatti, non riesco a capacitarmi. Si capisce: abbiamo vissuto accanto, per quasi settant’anni, dentro il contesto di una straordinaria vicenda politica, quella dei comunisti italiani. Prima ortodossi, poi critici, poi eretici. È per via di questa storia che Valentino, quando gli chiedevano se si definiva ancora comunista, rispondeva di sì.
Lo conobbi che aveva poco più di 18 anni ed era appena sbarcato in Italia dalla Libia: re Idriss lo aveva espulso dal paese dove era nato e vissuto, nella grande casa del nonno siciliano che in quel paese era stato colono.
Al liceo di Tripoli, assieme ad un altro gruppetto di ragazzi, era diventato comunista. Grazie a qualche insegnante mandato lì nel dopoguerra. Invano ho cercato di convincere Valentino a scrivere un libro su quegli anni libici, quando un pezzo del terribile conflitto mondiale era passato proprio da quelle campagne. I suoi racconti erano fantastici, pieni di informazioni inedite. Non l’ha scritto mai, perché così era Valentino: a lui interessava solo questo giornale a cui ha dato più di chiunque altro fra noi, tutto se stesso. Perché in 45 anni non ha mai abbandonato un momento la sua quotidiana fatica in redazione, non si è mai distratto per un altro impegno o divagazione. Anche scrivere un libro gli sembrava una perdita di tempo. E ora che, invecchiato, non era più al timone, soffriva, si sentiva svuotato.
Un aspetto curioso della sua personalità: intelligente con acutezza, ironico e autoironico, spesso addirittura trasgressivo, il tono sempre distaccato, mai un protagonismo, mai un eccesso di schieramento, mai settario, anzi talvolta dispettosamente compiacente verso il pensiero avversario (amava definirsi «amendoliano», e poi aggiungeva «di sinistra»). E però, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati da uno così, militante a tutto tondo, sempre «al pezzo». Perché la qualità principale di Valentino – che è poi la migliore fra le qualità – era la generosità.
Nel raccontare la sua vita amava ricordare che io gli avevo trovato il primo lavoro della sua vita, per l’appunto quando approdò dalla Libia: un posto di correttore di bozze all’Unità. Ma diventò economista e con queste competenze lavorò con Luciano Barca e Eugenio Peggio alla rivista del Pci Politica ed Economia. Erano gli anni della nascita della Comunità europea, e sarebbe bello ristampare quei suoi articoli che richiamavano l’attenzione su quanto l’unificazione del mercato europeo, senza interventi pubblici correttivi, avrebbe aggravato la questione meridionale. Aveva ragione, anche se la posizione ufficiale del Pci aveva sottovalutato gli aspetti positivi del processo. Purtroppo senza continuare a dare a quella analisi la dovuta rilevanza, quando, negli anni ’60, la linea fu capovolta e si passò ad un europeismo assurdamente acritico.
Le campagne meridionali Valentino le conosceva bene, non solo per via della sua mai spenta sicilianità, ma perché prima che iniziasse la storia de il manifesto, era stato il vice segretario regionale della Puglia, cui era allora a capo Alfredo Reichlin. Furono quei due, scomparsi a così poca distanza di tempo, ad aver conquistato allora una nuova generazione di baresi impegnati nell’università e nelle case editrici – Laterza, De Donato, Dedalo – una grande novità in un partito fino ad allora tanto bracciantile. E però ad avere, ambedue, contemporaneamente sempre ripetuto che proprio da quei braccianti avevano imparato ad essere davvero comunisti.
Mi è difficile scrivere su Valentino, non avrei voluto essere io a commemorarlo anziché lui a commemorare me, come sarebbe stato giusto perché più vecchia di lui. Perché Valentino è stato per me non solo un compagno, ma un fratello. E come sapete non si chiede a una sorella, a poche ore dalla morte, di scrivere sul fratello.
Era così perché dentro il «gruppo» noi avevamo una collocazione simile e in qualche modo diversa: non eravamo giovani come i sessantottini appena arrivati, e però nemmeno anziani come Rossana, o Natoli; non autorevoli come Rossana, Lucio e Luigi, ma tuttavia «dirigenti». Per questo quando c’era qualche missione delicata da svolgere, o qualche fatto intricato su cui scrivere, e nessuno dei «big» voleva farlo, si diceva: «che lo facciano Luciana o Valentino». Per questo ci chiamavano Gianni e Pinotto.
Ho detto fratello. Perché nonostante non fosse affatto saggio Valentino è stato per me, in momenti difficili della vita, un amico saggio, capace di consigliare le cose giuste da fare nella vita. Perché mi voleva bene e gliene volevo molto anche io.
Tanto di più quando penso a questi ultimi tempi inquieti, dominati da tanto pessimismo che tracimava in passività. Lui, pur sempre un po’ scettico, non intendeva rinunciare e continuava a dirmi: dobbiamo fare qualche cosa. E come atto di fiducia, si era persino iscritto a Sinistra Italiana. «Sono tornato ad avere un partito», mi aveva detto.