«Perché il potere ha ancora paura del prete senza chiese»
Nella sua lotta al conformismo, nel voto di riscatto che sia il ruolo di intellettuale sia l’abito sacerdotale ritiene gli impongano, avrà cari non solo «i mezzi poveri del proprio mestiere con la gelosia con cui il nobile decaduto tiene ai propri titoli», ma cercherà di aprire un varco ai figli del proletariato contadino che tenta di educare proprio in quel modo alto borghese contro il cui feroce sistema di esclusione ha lottato, arrivando a dispensare loro, ostentatamente, gli stessi privilegi materiali, applicando ai venti allievi di Barbiana «i metodi dell’educazione grande bourgeoise»: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero, addirittura la piscina.
La passione per un utopistico «riscatto del tempo penultimo», in cui l’avanguardia contadina che ha riacquistato la parola diventa élite, domina ogni suo gesto, sempre politico, mai settario, sempre etico, mai arbitrario. Ogni intellettuale è un prete mancato. Il problema è che molti intellettuali mancati si fanno preti - di qualunque chiesa, confessionale o secolare, per innato dogmatismo, per ansia di assoluzione anticipata e garantita. Don Milani non era né l’uno né l’altro, e per questo la sua profonda laicità è stata tenuta per più di mezzo secolo in ostaggio da più cleri.
Sto con la professoressa, è il titolo di un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore, con allusione al suo scritto più celebre, Lettera a una professoressa. Altrove si è cercato di “pasolinizzare” la sua figura e addirittura, nel recente romanzo di Walter Siti, di suggerirlo, contro ogni evidenza, pedofilo. Ma nessun equivoco è possibile a partire da oggi. Nei due volumi dell’opera omnia si dispiega la scrittura provocatoria e indocile di questa figura di prete divenuta un punto di riferimento per i laici proprio per avere lottato tutta la vita contro gli opportunismi di chi cerca la protezione dei partiti, delle sette e delle chiese.
«Per tutta la vita ha dovuto difendersi da chi voleva farlo passare, come diceva lui, per “un finocchio eretico”. Però l’analisi attenta e non strumentale dei suoi testi allontana ogni sospetto di pedofilia»
La scrittura di don Milani è difficile da catalogare: ne era consapevole. In una lettera si rivolge così all’interlocutore: «Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi». E così a chi legge di sbieco resta in mano poco: piccoli slogan («l’obbedienza non è più una virtù», «I care») o luoghi comuni su di lui, spesso denigratori, che mescolavano omosessualità e pedofilia. Frutto, quando era vivo, della vigliaccheria dei suoi nemici, e - da morto - di ritagli malfatti, come quelli a cui si è riferito Walter Siti. In particolare, un libro di 15 anni fa dello storico dell’educazione Antonio Santoni Rugiu: Il buio della libertà. Storia di don Milani, (De Donato-Lerici). Rugiu cita di seconda mano passi scelti non a caso. E ignora quasi tutti quelli in cui Milani denuncia il tentativo di farlo passare per «finocchio eretico e demagogo».
Ecco le citazioni 1) Una lettera a Oreste Del Buono del 31 luglio 1941, in cui Lorenzino fantastica sul desiderio di essere visitato da un «angelo biondo» che non è un’allusione, ma il ricorso a quel registro ironico che segna i momenti tragici della vita.
2) Una poesia del 1950 in cui Milani contrappone il desiderio del prete di essere padre degli orfani e delle vedove all’accusa («finocchio!») a cui dovrà far fronte.
3) La lettera alla madre del 29 agosto 1955, in cui ricorda ancora una volta come i suoi persecutori abbiano messo in dubbio il suo sacerdozio.
4) Concetto ribadito nella lettera al vescovo Enrico Bartoletti del primo ottobre 1958, per contrapporre l’elevazione all’episcopato dell’amico e la sua “elevazione” a Barbiana in odore di «finocchio eretico e demagogo» - cose che certo Milani scriveva non per ammetterle, ma per mostrare la bassezza dei suoi denigratori.
6) Dalla lettera all’amico giornalista de L’Europeo Giorgio Pecorini del 10 novembre 1959 viene presa la riga che afferma «che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto d’amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!)» e poi «chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?».
Espressioni che non sono confessioni del desiderio di stuprare i bambini ma la costruzione della tesi paradossale finale: «Eccoti dunque il mio pensiero: la scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può essere fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo d’una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini». Così come sarebbe strampalato imputargli una dottrina sul privilegio cattolico di insegnare, allo stesso modo non si può fare delle premesse la confessione di uno stupratore.
E infine c’è una lettera all’amico don Bruno Brandani del 9 marzo 1950 presentata con un’ omissione che ne stravolge il senso: all’amico don Lorenzo si rivolge dicendo «questa lettera è per te solo [...] se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva». L’ammissione di un’antica intimità erotica?
La straziante affermazione che nell’esilio barbianese la vita spirituale consiste «nel tener le mani a posto!» sarebbe l’ammissione di un desiderio represso di violenza sui bambini? No, la lettura dell’insieme del brano chiarisce tutti i dubbi: «Bruno questa lettera è per te solo solo solo. Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi. Ma se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva. Tu lo sai che a Dio ci credo e che credo anche a tutto il resto compreso la SS. Purità e la S.Carità e la S. Umiltà ecc. Ma ora che questi nomi non son più olezzanti fiorellini nell’orticello immacolato di Dio, ma sofferenti cicatrici, ora io non sopporto più di sentirne parlare sia pure da d. Bensi o Bartoletti o p. Lombardi o chi si sia. Ci credo da me come so che ci credi te e tutti gli altri compagni che ci viviamo dentro tragicamente».
Il linguaggio milaniano è volto sempre a provocare, oscillare e scivolare dal registro ironico a quello paradossale. A don Bensi, il suo padre spirituale, lo dice rimproverando di averlo spinto a lavorare al suo libro: «Può darsi che lei abbia in vista una felice sintesi delle due cose, di cui io invece non intravedo la compatibilità p. es. passare a un tempo da finocchio e da maestro, da eretico e da padre della Chiesa, da murato vivo nel chiostro e da pubblicatore del più polemico dei libri. Una sua decisione per l’una o l’altra strada oppure una sua spiegazione del come se ne possa compiere la sintesi mi farebbe un gran comodo ».
Don Lorenzo Milani, Tutte le opere (Meridiani Mondadori, due volumi, pagg. 2976, euro 140). Un progetto realizzato sotto la direzione di Alberto Melloni e con la cura di Federico Ruozzi, con la collaborazione di Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella. Dal 25 aprile in libreria.