Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2016 (p.d.)
C’è un forte scontento per il modo in cui il governo, e per esso il ministero dei Beni culturali, sta da mesi trattando (o non trattando) la scottante materia del dopo-sisma fra Lazio, Umbria e Marche. A settanta giorni dalla prima grave scossa del 24 agosto s’inizia soltanto ora a parlare di Soprintendenza speciale per le zone terremotate nella bozza del decreto bis sul sisma.
“Le chiese di Norcia e di Campi si potevano salvare”, s’indigna Bruno Toscano, storico dell’arte, il più penetrante conoscitore di quei territori, protagonista del dopo-terremoto del ’97. “Dopo il 24 agosto bisognava puntellare quanto si poteva, subito. Come si fece per la Basilica di San Francesco ad Assisi subito dopo la scossa del 25 settembre 1997 senza aspettare quella del 4 ottobre che sarebbe stata devastante. Qui i forti terremoti si susseguono a cadenza quasi regolare: 1958, 1969, 1997, 2016. E invece niente prevenzione”.
Era pure venuta qui, in missione, il segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, architetto. Perché non ha deciso nulla di concreto? Perché non ha seguito l’esempio dell’ultimo, forse, grande segretario del ministero, Mario Serio, che nel ’97 si assunse col commissario straordinario Antonio Paolucci, assistito da strutturisti quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi, la responsabilità totale delle grandi gru e della foresta di tubi d’acciaio montata fra Umbria e Marche, cominciando dal timpano della pericolante Basilica Superiore? Dove sono finiti i tecnici del ministero per i Beni culturali?
Hanno lavorato come matti per visitare, con un gruppo di ingegneri strutturisti – lo racconta uno di questi, Antonio Borri – quasi tutte le chiese della Valnerina. Misure concrete? Zero via zero. Con la frustrazione di veder crollare ciò che era salvabile dopo il 24 agosto. “Ce ne sono ancora di tecnici nelle Soprintendenze?”, si domanda scettico un grande archeologo, Mario Torelli, per decenni docente a Perugia. “I più mi risultano imbucati nei Poli museali dove lavorano meno e con meno responsabilità: in tutta l’Umbria è rimasto un solo archeologo dove cinque anni fa ce n’erano otto”.
La Soprintendenza unica voluta a tutti i costi dal ministro Dario Franceschini fra proteste diffuse ha qui come segretaria una distinta archivista. Del resto del terremoto se ne occupa non il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, con Franceschini e con magari il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, ma Matteo Renzi in prima persona, con al fianco l’archistar Renzo Piano. Non lo vedrete mai con un soprintendente. Il premier detesta “la figura più mediocre e grigia della burocrazia”; “un potere assurdamente monocratico”, come ha scritto pochi anni fa.
Per questo il ministero dei Beni culturali è ormai un vecchio corpo, indebolito dalla fame e dai continui interventi chirurgici, otto riforme, ultima la riforma-killer Renzi-Franceschini: conta appena 539 architetti per tutta Italia, un pugno in Umbria e Marche, ancor meno archeologi (384) e storici dell’arte (397), con una percentuale altissima, la metà, oltre i 60 anni e una bassissima di trentenni, fra il 2 e il 7 per cento. Da piangere. Tutti accorpati o in via di accorpamento ora nelle Soprintendenze uniche e quindi impegnati a disfare uffici, a trovarne altri, a dividerseli coi musei scissi dalle Soprintendenze perché valorizzazione e promozione non vengano “contaminate”, guai mai, dalla tutela.
Ora il commissario straordinario Vasco Errani – che viene da una situazione emiliana dove la ricostruzione delle fabbriche è stata rapida, mentre non pochi ritardi emergono per i centri storici – ha deciso di affidare la tutela ai Comuni. Gesto disperato. Sono i Comuni, in testa il sindaco di Matelica (Macerata), a reclamare più Stato, più interventi ministeriali efficienti e competenti. “Purtroppo si è sprofondati ovunque nell’ignoranza e nell’incompetenza”, commenta lo storico dell’arte spoletino, Bruno Toscano.
“Con Michele Cordaro, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro, facemmo realizzare vicino a Spoleto, a Santo Chiodo, un grande magazzino di 22 mila metri cubi, pagato dallo Stato, per il pronto intervento e il non meno pronto ricovero delle opere d’arte nelle chiese, nei conventi, nei palazzi terremotati. Sa cosa ci ha messo dentro la Regione Umbria? Le cartacce del proprio archivio”.
E ora molte opere d’arte sono ancora lì in mezzo alle rovine. Né si sono montati quei grandi tendoni impermeabili che, coprendo le macerie, le riparano dai furti e soprattutto dalle piogge, dalle intemperie, consentendo, loro sì, di recuperare colonne, capitelli, pezzi di tortiglioni e di sculture, cornici, fregi, e quant’altro servirà a una ricostruzione il più possibile filologica.
Una misura ormai di routine. E ora sono arrivate le piogge. Quel “ricostruiremo com’era e dov’era” rischia di essere, con questo personale politico e scientifico, soltanto una vaga promessa.