IL VIRUS TURCO CI RIGUARDA
«La Turchia è diventata la più grande prigione a cielo aperto ai confini dell’Europa…», parole scritte dal giornalista Can Dundar che rischia l’ergastolo per aver scritto sugli ambigui rapporti tra Erdogan e l’Isis. La sua drammatica riflessione risale a qualche settimana fa, quando ancora non si era consumata la tragica farsa del golpe o autogolpe che sia. Il «nuovo» colpo di Stato è fallito, immediatamente ha ripreso forza il «vecchio», quello già in atto sotto la guida di Erdogan, un presidente «eletto democraticamente», come continuano a ripetere, con inconsapevole ironia, i governanti dell’Unione europea.
Nel giro di poche ore sono stati fermati, rimossi, arrestati migliaia di magistrati, intellettuali, professori, studenti, giornalisti, accusati di aver promosso e sostenuto il colpo di Stato e di aver trescato con Gulem, l’ex sodale di Erdogan, ritenuto il mandante e la mente dell’ambiguo e goffo tentativo di golpe. Le immagini e i disperati appelli che ancora filtrano dalla Turchia ci ricordano gli stadi cileni, la «Macelleria messicana» di genovese memoria, l’umiliazione della dignità della persona, la soppressione dei più elementari diritti civili, politici, sociali.
In queste ultime ore alla già lunga lista di giornalisti denunciati ed arrestati, si sono aggiunti i nomi di altri 34 cronisti ai quali è stato ritirato il tesserino professionale e di decine di siti e di emittenti oscurati o chiusi.
L’Europa invita Erdogan a non introdurre la pena di morte «altrimenti sarà fuori dalla legalità comunitaria», come se la rottura non si fosse già materializzata, come se il colpo di Stato non si fosse già consumato, come se il bavaglio non fosse calato sulla già precaria democrazia turca. Cos’altro bisogna attendere: la chiusura del Parlamento?
Lo scioglimento del partito curdo? La definitiva cancellazione della residua autonomia dei poteri di controllo? Queste solo alcune delle ragioni che dovrebbero indurre ciascuno di noi a reagire, a contrastare una deriva che minaccia di coinvolgere L’Europa, a partire da quelle realtà, dalla Polonia all’Ungheria, che già presentano segni di involuzione autoritaria.
Chi ha marciato a Parigi, e non solo, per contrastare gli assassini che avevano colpito la redazione di Charlie Hebdo, non può oggi restare muto ed immobile. Per questo la Federazione della Stampa, attraverso il segretario Raffaele Lorusso, ha deciso di chiedere alle organizzazioni internazionali dei giornalisti, di valutare la possibilità di inviare subito una delegazione in Turchia, ma anche di promuovere ogni iniziativa utile a scuotere le coscienze e a sollecitare un’azione immediata ed efficace da parte delle istituzioni europee che non possono assistere inerti alla “macelleria turca”.
Se non lo faranno spetterà alle forze politiche, sociali, religiose, ancora sensibili al tema dei diritti e della libertà, farlo comunque, sfidando omissioni, diserzioni, opportunismi di vario segno e natura.
Nel frattempo, e il ne è un positivo esempio, spetterà a ciascun giornalista il compito di dare voce e visibilità ai cronisti “oscurati”, riportando i loro appelli, dando ospitalità alle opinioni censurate, realizzando siti e trasmissioni rivolte alla pubblica opinione turca, promuovendo una campagna di sostegno operativo che vada oltre le testimonianze di solidarietà.
Chi, da sempre, ha scelto di contrastare censure, bavagli, soppressione dei diritti e delle garanzie, non può fingere di non sapere che il virus turco ci riguarda. Non può esserci uno scambio tra il rispetto delle libertà fondamentali e la promessa di Erdogan di fare il guardiano alle frontiere per conto dell’Europa.L’infezione va fermata ora e subito, prima che la Turchia diventi, per parafrasare Can Dundar: «La più grande prigione a cielo aperto del mondo».
Poco prima, nel pomeriggio, parlava il sindaco di Istanbul: sarà costruita la «Tomba dei traditori – ha annunciato ieri – Sarà creato uno vasto spazio apposito per seppellire i golpisti. I loro cadaveri non saranno accettati nei nostri cimiteri», ha dichiarato Kadir Topbas.
Per la quarta notte di seguito sono proseguite le manifestazioni dei sostenitori del presidente Erdogan nelle maggiori città della Turchia, in particolare ad Ankara, Istanbul e Izmir. A Istanbul, in piazza Taksim, nel cuore europeo e laico della megalopoli turca, è stato allestito un palco e un grande striscione copriva la facciata dell’edificio del Centro culturale Atatürk: «Fetö, figlio di satana, impiccheremo te e i tuoi cani». Fetö è l’acronimo di Organizzazione Terroristica dei seguaci di Fethullah, termine che Erdogan ha coniato per bollare la comunità di Gülen.
Si sta consumando un’immane tragedia in Turchia per tutti gli oppositori di Erdogan: è salito a circa 60mila il numero di coloro che sono sotto inchiesta perché ritenuti responsabili del fallito golpe di venerdì 15 luglio. Il vice capo della polizia, Mutlu Ç., del quartiere Güdül di Ankara, si è suicidato dopo aver appreso di essere stato sospeso. Lo stesso gesto ha compiuto il sottoprefetto della provincia di Manisa, mentre tre generali della Marina sono fuggiti dalla base navale di Izmit, la più grande del paese. Il presidente turco Erdogan sta in queste ore regolando i conti con il suo acerrimo nemico e ex alleato Gülen dal 2007 al 2011 e con tutti i suoi critici e oppositori.
I 1.577 rettori di tutte le università del paese pubbliche e private sono stati costretti dal Consiglio superiore dell’Istruzione (Yök) a rassegnare le dimissioni e saranno presto sostituiti da accademici vicini al partito di governo. Altro provvedimento adottato è la sospensione fino a nuovo avviso delle assegnazioni presso università estere degli accademici turchi. Inoltre è disposto il rientro di tutti gli accademici che insegnano all’estero, qualora non vi fosse un grave stato di necessità che ne giustificasse la permanenza fuori dalla Turchia.
Lo Yök ha anche chiesto ai rettori di tutte le università di informare le autorità competenti circa la presenza tra il personale accademico e amministrativo di esponenti della comunità di Gülen. Nel frattempo il Ministero dell’Istruzione dell’Azerbaigian ha annunciato di aver chiuso a Baku l’Università di Qafqaz, il primo istituto accademico fondato da Gülen all’estero, 1993.
Il cerchio si stringe, e colpisce la stampa. Il vice primo ministro Numan Kurtulmus aveva ieri annunciato che erano stati aperti 9.322 provvedimenti giudiziari a carico di giornalisti. Un reporter russo, della televisione Ren Tv è stato arrestato ieri mattina e successivamente rimpatriato in Russia. Il giornalista era arrivato all’aeroporto Atatürk per seguire gli sviluppi del tentato golpe in Turchia. La polizia ha bloccato la distribuzione del settimanale satirico LeMan che riportava in copertina una vignetta sul tentato golpe. La polizia è intervenuta poco dopo che la rivista satirica era stata stampata.
Ad essere colpiti dalla scure di Erdogan sono soprattutto le persone sospettate di avere legami con il movimento Hizmet, nei settori in cui è più forte e cioè nella sfera militare, nella magistratura e nel sistema dell’istruzione.
Il golpe era stato pensato e pianificato da tempo. La decisione di compierlo quel giorno, il 15 luglio, era maturata perché stava per essere anticipata la riunione del Consiglio supremo militare, che generalmente si riunisce il primo di agosto e che aveva all’ordine del giorno la decisione di allontanare gli ufficiali vicini al movimento di Gülen. E quindi si è deciso di realizzare il piano in quella data. Erano già pronte dunque le liste di coloro che dovevano essere rimossi dalle massime istituzioni statali e c’era all’interno dell’esercito una grande tensione tra i gülenisti.
Per Ankara, è Gülen l’ispiratore del golpe. È stato accusato di essere a capo di una presunta organizzazione terroristica, costituente un vero e proprio «Stato parallelo». Un’organizzazione che avrebbe finalità eversive costituita da un gruppo di burocrati e militari infiltratisi all’interno dell’apparato statale, giudiziario e dell’esercito. Il golpe dunque sarebbe maturato all’interno di alcune gerarchie militari che si sentivano minacciate dalla operazione di pulizia già in atto all’interno delle forze armate da parte del partito di governo.
Il presidente turco continua a fare appelli alla piazza, affinché manifesti contro i golpisti. Anche ieri sera si sono tenute manifestazioni in tutte le principali città del paese. Ad Istanbul si è anche tenuta la manifestazione degli accademici che hanno avuto parole di condanna per il golpe, in difesa delle istituzioni repubblicane. Ad Ankara vi ha partecipato il presidente Erdogan che ha annunciato durante il comizio le importanti misure deliberate a seguito del fallito golpe dal governo nella riunione di gabinetto appena conclusasi.
Tra le misure previste vi sarebbe quella dell’istituzione di un tribunale speciale per processare i golpisti e la costruzione di un carcere speciale per i membri della giunta che hanno posto in essere il tentativo fallito di colpo di stato. La priorità per il governo turco è di ripulire tutto l’apparato statale dai membri e simpatizzanti del movimento Gülen ed Erdogan ne vuole approfittare per schiacciare ogni sacca di opposizione nel paese al suo progetto di uomo solo al comando.
La guerra alle aspirazioni democratiche e autonomiste kurde non conosce tregua: non a caso nelle ore concitate del golpe la popolazione kurda era la più disorientata, indecisa se sperare in una caduta del presidente Erdogan, suo vampiro, o nel fallimento del golpe militare, simile a quelli che nei decenni passati si sono tradotti in una radicalizzazione della lotta ai kurdi.
Nell’ultimo anno è stato il Kurdistan turco a vivere a stretto contatto con l’esercito e le sue unità speciali che hanno devastato le città, ucciso centinaia di civili e costretto alla fuga 355mila persone (dati Human Rights Watch). Quella campagna non è terminata come non lo è quella aerea contro le postazioni del Partito Kurdo dei Lavoratori che nel nord dell’Iraq aveva fatto ritirare i suoi uomini dopo l’avvio del processo di pace con Ankara voluto dal leader Ocalan, tre anni fa.
I raid di ieri servono a questo: a ricordare che lo schiacciasassi turco è sempre in moto e non mollerà la presa sul Kurdistan, nonostante le epurazioni in corso nelle forze armate (tra loro anche il capo dell’aviazione, il generale Ozturk). Un messaggio ai kurdi, sì, ma anche allo stesso esercito, a confortarlo e allo stesso tempo a tenerlo a bada: le mire nazionaliste interne sono più vigili che mai e Erdogan ha il pieno controllo dei militari.
Al di là dell’ininterrotta violazione della sovranità di Baghdad – talmente poco interessante per la comunità internazionale che anche il governo iracheno ormai non protesta più – a rimbombare insieme ai fischi delle bombe turche è la sinistra ironia della tempistica. Ieri non era un giorno qualsiasi: ieri era il 20 luglio, un anno esatto dalla strage compiuta dallo Stato Islamico a Suruç, estremo sud turco, ad un passo dal confine con la Siria, a due da Kobane.
Quel giorno in città si teneva un raduno della Federazione delle Associazioni dei giovani socialisti, 330 ragazzi riuniti nel centro culturale Ammara. Si stavano preparando a partire per Kobane, liberata da pochi mesi dalle Ypg di Rojava, per portare giocattoli e medicinali.
Delle tante immagini di quel giorno sono due che ancora riemergono per la loro forza: la foto di gruppo scattata da quei ragazzi poche ore prima della strage e i loro corpi a brandelli pietosamente coperti con bandiere rosse (gli inquirenti impiegarono giorni per rimettere insieme i pezzi dei cadaveri). Ne morirono 33, dopo che un kamikaze si fece esplodere in mezzo a loro.
Ma il massacro non si è fermato a Suruç: con la scusa plastica e immunizzante della lotta al terrorismo islamista, il governo turco lanciò pochi giorni dopo la sua personale operazione anti-Isis. Che non ha colpito – quasi mai – il “califfato”, ma ha avuto come primario target il Pkk nel nord dell’Iraq, le Ypg di Rojava nel nord della Siria e il Bakur, sud est turco.
Un’equazione cristallina: a meno di due mesi dalle elezioni del 7 giugno 2015, quando il partito pro-kurdo e di sinistra Hdp ottenne un inatteso e prorompente 13%, con l’Akp che boccheggiava, a Suruç si è aperta la stagioni delle stragi targate Isis che ha seminato morte a Istanbul e Ankara più e più volte.
Con la paura e la destabilizzazione il sagace Erdogan ha così traghettato il popolo turco verso le desiderate elezioni anticipate di novembre dove l’ancora di salvezza, per molti, è stata sommariamente individuata nell’uomo forte. Lo stesso che negli anni precedenti ha abbondantemente seminato il fertile terreno dei gruppi islamisti nella vicina Siria.
In un simile contesto l’eventuale riapertura del processo di pace con il Pkk è un’opzione nemmeno presa in considerazione da un presidente che necessita di indebolire il paese per controllarlo meglio. I raid di ieri, dopo un golpe di una parte di quell’esercito che ha sempre schiacciato il popolo kurdo, non sono altro che la naturale continuazione di una simile politica che oggi si accompagna a purghe di Stato ed epurazioni di massa.