Il manifesto, 9 settembre 2015
Nell’ottobre del 2003, negli Stati uniti, fu pubblicato il rapporto di due ricercatori, Peter Schwartz e Doug Randall, dal titolo «Uno scenario di bruschi cambiamenti climatici e le sue implicazioni per la sicurezza degli Stati uniti — Immaginando l’impensabile».
Il rapporto, probabilmente ispirato da qualche stratega del Pentagono per oscuri motivi, descriveva articolatamente una serie di eventi catastrofici dovuti principalmente ai cambiamenti climatici, con conseguenze politico-sociali dirompenti per alcune zone del mondo.
Dopo aver previsto che «Aree ricche come gli Usa e l’Europa diverranno delle “fortezze virtuali” per impedire l’ingresso a milioni di persone costrette ad emigrare per aver perso le proprie terre sommerse dall’aumento del livello dei mari, o per non poterle più coltivare», i due ricercatori immaginavano così il futuro prossimo dell’Europa: «L’Europa affronterà enormi conflitti interni a causa del gran numero di profughi che sbarcheranno sulle sue coste, provenienti dalle zone più colpite dell’Africa. Nel 2025 la UE sarà prossima al collasso».
Anche se non è stato determinato dai cambiamenti climatici, questo scenario «impensabile» è ora sotto i nostri occhi, né si può escludere del tutto, per gli anni a venire, un eventuale collasso dell’Unione europea. Il punto, ovviamente, non è stabilire se questi avvenimenti fossero o no prevedibili (per quanto essendo l’essere umano anche un demiurgo, l’anticipazione e la prospettiva dovrebbero far parte delle sue capacità), ma di capire il senso di questo flusso epocale di migranti, che non si limiti alle considerazioni generaliste sull’emergenza sociale e non si appaghi dell’altrettanto generico impegno per l’accoglienza e la solidarietà verso di loro.
Alessandro Portelli, con la sensibilità che lo contraddistingue, ha scritto che si tratta di una nuova forma di lotta di classe (anzi antica) anche se l’obiettivo di questi migranti non è il rovesciamento di un sistema, ma semmai il condividerlo. E’ una interpretazione spiazzante per la sinistra (anche quella antagonista) perché ci pone una serie di interrogativi e di compiti che ben poco hanno a che vedere col nostro umanitarismo, intriso com’è di misericordia cristiana e principi illuministici. Vero è che bisogna fronteggiare razzismo e xenofobia, ma questo non può risolversi soltanto nella rivendicazione di un’Europa solidale, col rischio che ciò si tramuti in una sorta di obolo «comunitario» senza per nulla incidere sulle origini e l’entità del male che è stato fatto. Basta fissare qualche immagine estiva per rendersene conto: i profughi siriani che irrompono nelle vacanze dell’agiata borghesia europea sbarcando nell’isola greca di Kos col loro carico di orrori, ne sono la metafora più efficace che mette di fronte chi ha e chi non ha, chi si diverte e chi si dispera, senza possibilità di dialogo, perché la condizione degli uni, in questa società, non può sussistere senza quella degli altri. E noi lo sappiamo, ma abbiamo smarrito le parole e i gesti per cambiare questo stato di cose.
Per questo i migranti ci parlano. Presi singolarmente ognuno dirà che è qui per rifarsi una vita, ma nel loro insieme, nel loro essere «massa invadente», ci dicono che l’altro mondo possibile di cui abbiamo vagheggiato è, in realtà, un cumulo di macerie da cui stanno fuggendo; che il nostro umanesimo e i nostri valori mediterranei, cioè le «essenze occidentali» come le chiamava Franz Fanon (di cui il «basamento greco-latino» costituiva una sorta di logo), sono ormai «soprammobili senza vita e senza colore». Disfarsi di questi soprammobili, cancellando dalla mente degli oppressi l’immagine del «basamento greco-latino» proprio perché simbolo di quelle «essenze» dominatrici, era considerato da Fanon un momento liberatorio nella lotta dei dannati della Terra.
Oggi siamo alla distruzione materiale di quel basamento per mano dell’Isis, che certo non può annoverarsi tra gli emuli di Fanon. Dunque il problema (dell’affrancamento economico e culturale di queste genti), si ripropone in forme tenebrose e non poteva essere altrimenti dato che l’Europa (per non parlare degli Usa) non ha mai smesso di apportare disordine e dolore in Africa e Medioriente. Quanti leader — africani, arabi, progressisti e rivoluzionari — sono stati uccisi, quante rivolte soffocate nel sangue, quanti i governi rovesciati pur di impedire che si affermasse un punto di vista indipendente e/o marxista come lo postulava Fanon: «Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue strade, a tutti gli angoli del mondo». Diversamente l’Isis, nel mentre proclama la distruzione dell’Europa (limitandosi per ora a quella dei templi), mira al controllo delle ricchezze del sottosuolo in Medio Oriente, in Libia, in Nigeria per realizzare (apparentemente) un modello di società ibrida: confessionale, feudale, ma che non disdegna l’uso di tecnologie al passo con i tempi né, soprattutto, la logica di mercato propria del capitalismo.
In altre parole non vogliono essere come noi, ma prendere il nostro posto. Non una vera alternativa quindi, ma una variante sì ed anche efficace, in grado di mobilitare parte delle masse arabe ed africane e di suggestionare l’animo degli esclusi che vivono nelle banlieue europee.
Fate qualcosa, ci dicono ancora i migranti, per far sì che l’Isis non rappresenti più una chance. Ma questa volta fatela bene. Fermate la guerra, ma fermate anche lo sfruttamento, quello che ci accomuna in quanto subalterni, ma ci divide in quanto a fede e nazionalità. È un’istanza di classe, un appello alla sinistra.