Il manifesto, 8 settembre 2015
Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti. La mossa di Angela Merkel è stata abile — le ha restituito una popolarità che l’attacco alla Grecia aveva compromesso — e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e a migliaia di cittadini europei — austriaci, tedeschi e soprattutto ungheresi — di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici milioni di europei. Ma dopo la promessa di accogliere tutti, sono arrivati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e insicuri e tra profughi e migranti economici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.
Ma quella decisione unilaterale autorizza ogni governo ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno. E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro: si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo? Èstato fatto così un altro passo nel dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schengen e paesi Schengen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc. Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbligatorie e paesi senza. E ciascuno si sceglierà la nazionalità che preferisce?
L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impegnati a rimpallarsi le quote di profughi, e fomenta al loro interno lo scontro di cui si alimenta la xenofobia. Ma l’Unione non avrà una politica comune su profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza — casa, lavoro, reddito e sicurezza — a una quota crescente dei suoi cittadini. Se la disoccupazione giovanile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera generazione che viene negata la cittadinanza. In queste condizioni è difficile varare una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia aprendo le porte, sia puntando su respingimenti inefficaci e spietati. Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassa la destra xenofoba, ma a cui i governi non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Ma la vera ragione della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assistito ignavi, o hanno partecipato a massacri e guerre ai confini dell’Europa come se la cosa non li riguardasse, perché impegnati a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Per anni, a parte gli accordi commerciali per procurarsi petrolio e metano, nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: che si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima — ma non l’unica — conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. È più facile attizzarli: Francia e Regno Unito già pensano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora che a risolvere il problema di centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della sopravvivenza siano i vertici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrealistico. Vorrebbero respingerne la maggioranza, ma non riescono: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cercano di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno esplicito, da molti governi, sono state rovesciate e sconfitte, anche se solo per qualche giorno, dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada per Vienna o nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena in un tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Accanto a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che cercano, senza distinguere tra profughi e migranti economici, di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui i media non hanno dedicato un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore che gli portino via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo consapevole che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori in cui vivono; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione. In questo melting pot si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono fuggiti: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni di una loro pacificazione e i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento per le comunità dei loro paesi di origine. Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.