NEL Pd le tensioni crescono, sia al centro che in periferia. In parlamento le defezioni rispetto alle decisioni del partito, dal voto sull’arresto del senatore Azzollini agli emendamenti sulla riforma della Rai, hanno messo in minoranza il governo. In periferia il segretario non ha piegato la resistenza del sindaco di Roma Ignazio Marino né quella del governatore siciliano Rosario Crocetta, e ora anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano alza la voce reclamando fondi per il Sud. Emerge sempre più chiaramente la difficoltà di conciliare il ruolo di segretario di partito con quello di capo del governo. Non per nulla ieri Renzi ha riconosciuto che i contrasti interni devono risolversi tra le mura del partito e non scaricarsi in parlamento. Giusto, ma per questo è necessario che il partito torni ad essere il luogo privilegiato della discussione e dell’elaborazione politica, non l’occasione di passerelle in streaming e diluvi di tweet.
In questi ultimi diciotto mesi non è stata avviata nessuna discussione approfondita sulla strategia da perseguire e sulle iniziative da prendere, con parziale eccezione della riforma sulla scuola. Certo il Pd si è trovato in una situazione del tutto inedita, e quindi difficile da gestire: essere il partito dominante in parlamento e alla guida del governo. Bisogna tornare ai fasti della Dc degli anni Cinquanta per trovare situazioni analoghe; e agli esecutivi di Amintore Fanfani per trovare una sovrapposizione tra leadership partitica e premiership governativa. Il predominio politico- parlamentare del Pd, fin qui quasi senza avversari, e la condizione difficile in quanto “anomala” del suo leader, catapultato in due posizioni di vertice senza nessuna esperienza parlamentare o di direzione politica, ha prodotto tensioni e cortocircuiti; e non poteva essere altrimenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Renzi ha perso vento perché non riesce a farsi seguire da tutto il suo partito, tanto al centro quanto in periferia. L’ ostentata disattenzione riservata alla vita del Pd si è ritorta come un boomerang sul leader.
Anche sulle infiltrazioni criminali nel partito romano, denunciate oltre che dalla magistratura da una coraggiosa indagine interna affidata ad un super partes come Fabrizio Barca, il segretario di partito porta “oggettivamente”, per il suo stesso ruolo, una parte di responsabilità: inevitabili oneri della leadership. Se poi al suo disinteresse aggiungiamo quel fastidio per le critiche interne unito ad una sottovalutazione al limite dell’irrisione degli oppositori (Fassina chi?) e una conoscenza opaca del partito nel territorio, capiamo cosa ha portato Renzi a cercare soluzioni altrove, all’esterno, prima con il patto del Nazareno, ora con la sua riedizione in sedicesimo attraverso Denis Verdini.
Con un processo a spirale, più Renzi guarda fuori dal Pd - magari pensando ad una nuova formazione - più la sua presa sul partito si indebolisce. L’iniziale entusiasmo, anche di tanti bersaniani che volevano finalmente un cambio di passo, sta infatti svanendo. E nell’opinione pubblica il consenso al Pd rischia di superare quello riservato al suo segretario.