La Repubblica, 28 giugno 2015
Com’era il referendum nel mondo antico?«Nell’Atene del V secolo a. C. il referendum non aveva senso: le decisioni erano prese dall’assemblea popolare. Qui due volte al mese si tenevano delle assemblee ordinarie nelle quali i cittadini votavano per alzata di mano e decidevano sulla loro rappresentatività. La repubblica romana invece era aristocratica: si votava per centurie e le classi ricche vincevano sempre».
Quando nasce storicamente l’esigenza di far partecipare il popolo alla vita pubblica?
«Aristotele spiega bene che in origine solamente in pochi prendevano parte alla vita politica della polis. Erano i signori a comandare. Solo quando s’introdusse un salario minimo anche le persone comuni poterono iniziare a partecipare attivamente».
Si può ricorrere al referendum per una questione così importante come l’accettazione del piano Ue sulla Grecia?
«Non solo si può, ma si deve. Nella storia d’Italia ci sono un paio di referendum che ci hanno segnato per sempre: quello per la Repubblica del 1946 e quello per il divorzio del 1974. E invece ora tutti si mettono a dare lezioni alla Grecia. Ma sono lezioncine in contrasto con l’idea di sovranità popolare. Sono reazioni oligarchiche»
Siamo di fronte ad una crisi delle democrazie rappresentative?
«Il modello della delega è logoro. Il referendum è un correttivo, un modo per restituire voce al cittadino comune. E’ una grande conquista, insieme al suffragio universale sicuramente una delle più grandi del Novecento. D’altra parte Jean-Jacques Rousseau diceva che il popolo inglese è libero soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento, ma appena questi sono eletti ridiventa schiavo.
In momenti delicati, non è rischioso affidarsi alla pancia degli elettori?
«Chi pensa questo non ha fiducia nel popolo sovrano. In realtà la democrazia s’impara praticandola e non continuando a tenere il cittadino comune sotto tutela».