Il Fatto Quotidiano
IL CORAGGIO E L'ORGOGLIO
DEL CITTADINO FRANCO ROSI
di Furio Colombo
Un uomo che ci lascia, come traccia della sua vita Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Uomini contro, Cadaveri eccellenti, La tregua, un percorso che continuerà a sostenere chi si batte per il ritorno alla legalità di questo Paese persino in momenti in cui i valori di civiltà, di libertà e di accertamento implacabile della verità sono stati buttati via. Il fatto è questo: la morte di Francesco Rosi strappa dalla vita e dalla memoria dei suoi amici di una vita la radice di un lungo e splendido sodalizio. Ma non spegne le luci di atterraggio lasciate lungo il percorso dal suo lavoro.
Ma il momento straordinario del lavoro di Rosi, in cui il cinema è allo stesso tempo cronaca, storia, profezia, è Le mani sulla città (1963) in cui la politica è già corruzione, e la frase gridata dai consiglieri comunale di Napoli, mentre stanno votando un altro scempio edilizio (“Mani pulite, noi abbiamo le mani pulite”) diventa il nome di una grande indagine giudiziaria contro quella stessa corruzione moltiplicata in dimensioni immense, nel 1992. Nessuno che rifletta e ripensi alla grande eredità che Francesco Rosi lascia all’Italia e al cinema del mondo nel giorno della sua morte, potrebbe dimenticare Il caso Mattei. Io ho una ragione in più. In quell’anno (1972 ), Francesco Rosi mi ha chiesto di partecipare al film nel ruolo dell’assistente e traduttore di Enrico Mattei (Gian Maria Volonté) e in particolare alla sequenza in cui il petroliere americano respinge ogni possibilità di collaborazione. Era come partecipare, allo stesso tempo, alla realtà e alla finzione. Non solo perché Volonté era una specie di medium che diventava la persona interpretata. Ma perché quel film sulla morte inspiegata e misteriosa di Mattei ha portato alla morte inspiegata e misteriosa del giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi, in una telefonata che si vede nel film, di cercare piste e spiegazioni per la storia che intanto si stava filmando.
Come vedete, non abbiamo parlato di una carriera, per quanto straordinaria, ma di una parte importante della storia italiana, dei suoi misteri e delle sue rivelazioni, E capite perché Francesco Rosi, a Venezia, dopo avere ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, ha concluso così il suo breve discorso di accettazione : «Voglio essere ricordato solo con queste parole: Francesco Rosi, cittadino».
La Repubblica
Roma. Li divideva poco più di un mese. L’anno era lo stesso, il 1922. Francesco Rosi è nato a metà novembre, Raffaele La Capria i primi di ottobre. Ma erano ancora bambini quando d’estate si tuffavano dagli scogli di Posillipo, a Napoli, sotto villa Rosebery. Racconta La Capria: «È stato il mio amico più caro, con lui in ottant’anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all’affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee». Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici - Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna... - la stessa idea di lasciare Napoli, «forti solo dei nostri sogni» e quindi i film - Rosi regista, La Capria sceneggiatore. Basta ricordarne due, Mani sulla città ( 1963) e Cristo si è fermato a Eboli ( 1979).
Il Fatto Quotidiano
“NEI MIEI FILM AVEVO PREVISTO OGNI COSA”
stralcio dell’intervista concessa da Francesco Rosi a Malcom Pagani e Fabrizio Corallo il 30 giugno 2012.
Il grande misantropo aveva iniziato a chiamarlo spesso: «Ciao Francesco, ci vediamo?». Poi, osservata la voliera dello zoo dalla torretta del suo residence-trincea, Dino Risi aspettava che il collega quasi omonimo, nello scambio casuale di interessi, ricordi e vocali, contaminasse il suo mondo. La tardiva amicizia tra Risi e Rosi: «Lo sai che ti voglio veramente bene?» è uno dei lampi che attraversa i 90 anni (il 15 novembre) di un napoletano di frontiera. Libri sulla mafia, monografie, manifesti, fotografie alla parete. Da una (il set è quello di Carmen, Siviglia, 1984) aspira un sigaro nascosto dagli occhiali e sembra lo stesso che in jeans, seduto a un tavolo colmo di copioni, non soffre il caldo andaluso di una Roma trasfigurata dal caldo. Il Festival di Venezia, il 31 agosto, gli consegnerà il Leone d’oro alla carriera e proietterà Il caso Mattei, l’inchiesta di Rosi sul fu presidente dell’Eni, Palma d’oro a Cannes ’72. Dopo aver messo insieme ventenni in nero, guerre, repubbliche fragili e candidature all’Oscar, l’età non pesa. L’emozione si annacqua in un gesto: «Volete un po’ di minerale?». Rosi è contento. Scrive memorie di vita e di set con la complicità di Tornatore, pensa al teatro (recente digressione da palco con tre opere di De Filippo) e a dirigere, se capita la storia giusta, tornerà. «Nei miei film avevo previsto ogni cosa», dice distrattamente, e ripensando a una poetica in cui l’impegno dava la destra al piano sequenza, di smentire l’affermazione, non c’è modo.
Torna mai alle origini?
L’infanzia ci segna. Sono nato a Napoli, figlio di genitori ossessionati da onestà e rispetto. C’erano le regole. Bisognava averne cura.
Lei osservò il Fascismo con occhi da bambino.
Al principio, non ne vedevo il lato grottesco. Percepivo la sopraffazione, la noia, l’idolatria dell’istituzione paramilitare. Un implicito decalogo per i giovanissimi. Puntava a formarli, a vestirli da Balilla, a comandare sui momenti di libertà, inquadrandoli in una cornice.
Crescendo?
La Liberazione mi colse nei miei 20 anni. L’epoca del Liceo Umberto. Le giornate trascorse con Patroni Griffi, La Capria e Ghirelli. C’era la consapevolezza della vita che si apriva. La scoperta della questione meridionale. Il Fascismo aveva volutamente trascurato molti aspetti, ce ne riappropriammo in ritardo, ma non fuori tempo massimo.
È vero che avrebbe voluto fare il disegnatore?
Mi ero inventato illustratore di pupazzi. Un amico di mio padre, libraio, volle pubblicare un sillabario con i miei schizzi. Non erano adatti, ma qualcosa forse dovevano valere. Lino Miccichè, anni dopo, li volle inserire in un volume su La Terra trema.
Uno dei tanti capolavori a cui collaborò.
Cercavo il cinema. L’arte che ti mette di fronte ai problemi irrisolti e ti sfida a cercare una chiave. Moravia scrisse che i giovani non sarebbero riusciti a trovare nei libri di storia quello che un film sapeva restituire. Aveva ragione.
Visconti era burbero?
Severo, al limite. Ma gli devo tutto. Il suo rigore era necessità morale. All’inizio per Luchino preparavo il bollettino tecnico e segnalavo le incongruenze al suo aiuto, Zeffirelli. La terra trema rivelava una Sicilia di frontiera. Arcaica, brada, verghiana. Quando il dialetto si faceva aspro, Visconti non capiva. Bisognava tradurre. Per assonanza meridionalista, il compito toccava a me.
La terra ha tremato anche nei suoi film.
Non mi sono mai interessate le narrazioni piane. La mafia intenta a proteggere i suoi affiliati e ad ammazzare gli altri come cani era un territorio obbligato per un curioso come me.
Se ne è occupato spesso.
Da Salvatore Giuliano in poi. Ricordate l’incipit di Besozzi sull’Europeo? «Di sicuro c’è solo che è morto». In Le mani sulla città, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti o Dimenticare Palermo emergeva il rapporto di collusione e complicità tra istituzioni e crimine. La criminalità è diventata un enorme potere sfruttando eredità moderne: grande finanza e narcotraffico.
Sarebbe stato un bravo giornalista.
Ho lavorato con molti bravi giornalisti, è diverso.
Per Uomini contro ebbe qualche problema.
Mettevo in scena la follia del conflitto ’15-’18. Con Guerra e La Capria ci ispirammo al Lussu di Un anno sull’altopiano. Attaccavo la retorica della patria. L’Msi si scatenò. «Rosi, il comunista che infanga l’Italia». L’esercito mi denunciò per vilipendio. Le sale mi boicottarono e in tv ne parlò malissimo il generale golpista De Lorenzo. Un onore.
Crede che certi film dovrebbero essere proiettati nelle scuole?
Se c’è l’ora di religione, ci deve essere anche l’ora di storia del cinema. Un po’ di laicità non guasterebbe.
E a Cuba non trovò laicità, all’epoca in cui viaggiò per indagare su Ernesto Guevara.
Quando morì, pensai subito a un film sulla sua figura. Partii per l’isola e rimasi a lungo, ma la pretesa di approvare copione e girato da parte dell’Istituto cubano d’arte cinematografica, mi fece desistere. Era il mio film. Non il loro. Glielo dissi: «Voi siete rivoluzionari, per definizione non potreste imporre niente».
De Le mani sulla città, uno dei più potenti affreschi sul degrado della politica italiana di sempre, cosa rammenta?
Le riunioni dei consigli comunali a cui assistemmo a Napoli io e La Capria per documentarci. Mio padre, fotografo dilettante, che durante le riprese spunta dai calcinacci di un palazzo abbattuto in Via Marittima con la sua Rollerflex in mano. Carlo Fermariello, un dirigente del Pci locale, meraviglioso interprete di se stesso nel film. Persuadere il partito ad autorizzarlo fu un’impresa: «I nostri iscritti non fanno gli attori». Poi cenai con Amendola. Pragmatico, risolse il problema: «Basta con queste manie borghesi, può essere molto utile anche al partito. Fermariello reciti».
Lei è sempre stato di sinistra.
Un riformista consapevole dei propri limiti. Una volta in piazza, durante un comizio, evasi dalla mia natura. Ingenuamente urlai: «Abbasso il Papa». Si girò un operaio: «E che cazzo, ma se cominciamo a dire strunzate pure nuie è la fine». Mi fulminò.
Per Il caso Mattei ebbe contatti con Mauro De Mauro.
Gli chiesi un resoconto delle ultime giornate siciliane di Mattei. Poi sparì. Sulla scomparsa ci sono tante teorie, una di queste poggia sul lavoro che De Mauro aveva svolto sul presidente dell’Eni.
Pasolini affrontò l’argomento scrivendo Petrolio.
Un’opera incompiuta, nella quale non si scorgono cause e nessi in maniera definita. Ipotesi. E le ipotesi non di rado abbracciano la fantasia.
Gassman e Volontè le regalarono prove intense.
Gian Maria, serissimo, copiava sempre a mano la sceneggiatura 4 volte. «Così», diceva, «le battute non le scordo». Io e Gassman avevamo debuttato nella regia dirigendo insieme nel ’56 un trattamento dal suo Kean, poi lui interpretò per me un principe recluso in albergo in Dimenticare Palermo. Aveva poche battute, ma ebbe l’umiltà di chiedere: «Sono andato bene?». Mi manca.
Oggi ha senso parlare di cinema civile?
Diaz e Romanzo di una strage sono ottimi film. Io mi vedo altrove, ho pensato a lungo a un progetto su Cesare e Bruto, ma è improbabile che mi impegni sul conflitto di interessi dopo Le mani sulla città. Ho già dato.
Pensa mai all’addio?
Alla morte penso, ma non ho l’afflato dell’aldilà come spagnoli o siciliani. Mi piace la vita. Però, lo so, bisogna morì.