«Paghiamo il prezzo di anni di assuefazione al pensiero unico che esalta la competitività, il consumismo, la crescita ad ogni costo, l’individualismo proprietario. Ideologie che hanno lentamente avvelenato la nostra vita quotidiana riuscendo a far breccia in ciascuno di noi». Il manifesto, 18 novembre 2014
La questione urbana delle grandi città, la questione delle periferie — balzata oggi agli onori della cronaca nazionale con gli episodi di Tor Sapienza — rischiano di diventare i nuovi incubi dei governi degli anni a venire sovrapponendosi tragicamente alla crisi economica in corso e producendo una miscela esplosiva dalle conseguenze imprevedibili.
Quando le questioni si fanno complesse da analizzare per ritardi storici, per deficit di analisi, incapacità o altro e quando le soluzioni non sono a portata di mano, c’è un meccanismo efficace che mette quiete le coscienze: la ricerca del capro espiatorio. Ce lo ha insegnato la storia; sull’argomento tanto ha scritto l’antropologo e filosofo francese René Giscard. È il meccanismo attraverso il quale si identifica irragionevolmente in una persona (o in un gruppo) la causa responsabile di tutti i problemi non risolti, quasi sempre con l’obiettivo nascosto di evitare di affrontare le vere cause o i veri responsabili. Questa volta il ruolo di capro espiatorio è toccato al maldestro e incauto Marino sulle cui spalle sono state fatte cadere tutte le responsabilità di un disastroso declino delle condizioni urbane di Roma che perdura in realtà sottotraccia da anni.
La persona si presenta adatta al ruolo: fuori dalle lobbies politiche, non romano, uomo che prende da solo decisioni che le regole del politicamente corretto vorrebbero che fossero invece concertate con gli apparati, persona che non riscuote particolari simpatie dei media. Peccato che in altre grandi città italiane, governate da sindaci eletti fuori dalle consorterie politiche e per espressa volontà popolare, come Doria a Genova, Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, le cose non vadano poi così diversamente, tanto che è più che lecito chiedersi se il declino urbano delle grandi città non sia piuttosto da ricercare ben più in alto o ben più in profondità. Perché alle varie anime del Pd romano non par vero di poter indicare il capro espiatorio di quanto accaduto nel sindaco Marino, e cosi rimettere in moto la vecchia macchina clientelare, mentre a sinistra, si denuncia - non certo a torto - il montare dell’intolleranza xenofoba, che offre varchi di consegna agli imprenditori politici della paura, sempre attivi nella destra italiana. In realtà i fatti degli ultimi giorni meritano uno sguardo non solo meno strumentale e ravvicinato, ma soprattutto più ampio e generale.
Quando dopo il quindicennio di governo delle sinistre (Rutelli prima e Veltroni dopo), venne candidato per la seconda volta al ruolo di sindaco della capitale lo stesso Rutelli, la sinistra rimase attonita dalla sconfitta subita cui contribuirono pesantemente gli abitanti delle periferie, quelle che un tempo venivano chiamate «le cinture rosse, lo zoccolo duro del Pci». Tanto che il mediocre Alemanno rimase lui stesso incredulo per il consenso ricevuto che gli permise di salire al colle del Campidoglio. Le fantasmagorie del cosiddetto «Modello Roma» (il Pil urbano al 4.5%, Roma come locomotiva d’Italia, Roma come Barcellona, Dubai…), avevano fatto velo a un crescente disagio delle condizioni di vita nelle periferie, tanto che in quei tempi riscosse un certo successo mediatico la parola «risentimento» per esprimere lo stato d’animo degli abitanti. Risentimento per essere stati lasciati soli al loro destino, risentimento per avere il Pd abbandonato ogni lavoro sul territorio (smantellamento di tutte le sezioni di partito che tanto avevano storicamente contribuito alla formazione di una emancipazione delle coscienze). Pochi e inascoltati furono coloro che tentarono di spiegare come i «successi» di Veltroni non avevano alcun riscontro in questi luoghi lontani dal centro dove, invece, si continuava a cementificare oltre ogni ragionevole misura, creando nuove e mostruose periferie urbane.
L’approvazione del Piano Regolatore Generale, alla fine del mandato Veltroni, non segnò una inversione di tendenza rispetto al passato: il blocco degli immobiliaristi continuava quasi indisturbato a decidere per Roma uno sviluppo ancora insostenibile con la complicità di apparati amministrativi e politici.
La disfatta di Alemanno è tutta a suo «merito», la sinistra non c’entra; il sindaco ex squadrista, eletto «a sua insaputa» dal moto di risentimento profondo contro la sinistra, trascorse il suo mandato tra gaffe e inefficienza; ma ciò nonostante il Pd non aveva più la forza per imporre al ruolo di sindaco un uomo del suo apparato. Così che Ignazio Marino, il «marziano», l’uomo fuori dal gioco delle consorterie politiche catturò il favore del popolo romano che di professionisti della politica non ne voleva più sentir parlare. Questo, in breve e schematicamente per spiegare la presenza di un sindaco mai accettato dalla gran parte del Pd e tanto più avverso per aver scelto personalmente molti uomini (e donne) della sua giunta.
Ma è stata la crisi economica e le politiche comunitarie ad aver ulteriormente aggravato una situazione già di per sé esplosiva. Le condizioni di ulteriore e progressivo impoverimento della popolazione delle periferie hanno aggravato le condizioni di vita delle persone favorendo il diffondersi di attività criminali, spaccio della droga, infiltrazioni camorristiche. A ciò si aggiunge l’insostenibile condizione di disoccupazione che affligge i giovani spesso arruolati in attività di spaccio e microcriminalità. Le politiche neoliberiste hanno creato disuguaglianze feroci producendo una lotta darwiniana per la sopravvivenza così che sono saltati tutti i vincoli di solidarietà che in passato si stabilivano tra persone povere, tra persone che stringevano patti di mutua collaborazione e cooperavano per sopravvivere.
Poi c’è la spending review che favorisce la svendita ai privati dei servizi che i comuni non sono più in grado di garantire o la cui funzionalità comunque comporterebbe sacrifici sotto forma di tasse tale da rendere impopolare l’amministrazione che praticasse tale obiettivo. Molte amministrazioni inoltre, per fare cassa rilasciano concessioni a edificare senza badare molto alle conseguenze urbanistiche e a quelle del consumo di suolo, o ai dissesti idrogeologici: ogni minuto in Italia scompaiono quattrocento metri quadrati di suolo coperti dal cemento. Il rilascio di concessioni ad edificare è diventato uno dei principali modi di reperire denaro alimentando una bolla immobiliare simile a quella che provocò la crisi americana dei subprime. L’immobiliare, afferma Tocci, è stato il proseguimento della finanziarizzazione con altri mezzi, con la complicità di molte archistar che valorizzano territori con i loro oggetti sradicati dai luoghi e in linea con l’immaginario globale.
Roma ne è esempio con lo stadio del nuoto a Tor Vergata rimasto uno scheletro nel deserto o con la costosissima Nuvola che divora immense risorse finanziarie per non parlare del ventilato progetto di costruire un nuovo stadio in un’area a rischio idrogeologico a Tor di Valle in barba al Piano Regolatore e al buon senso con discutibili criteri di presunta utilità pubblica.
Meglio sarebbe se il sindaco desistesse da queste iniziative sbagliate e riprendesse invece il dialogo con la città che lotta e che soffre come pure faticosamente sta provando a fare con gli abitanti di Tor Sapienza distinguendo fra le buone ragioni delle proteste dei cittadini romani e le strumentalizzazioni dei nuovi barbari ed inquinatori della coscienza civica.
In questo quadro desolante arrivano a colmare la misura gli immigrati con tutto il loro carico di pene e sofferenze, mai accolti come si dovrebbe da parte di una città veramente capitale e utilizzati a scopo elettorale da propagande di segno opposto. Così che diventano anch’essi i capri espiatori di tutti i mali prodotti dal neoliberismo. Paghiamo il prezzo di anni di assuefazione al pensiero unico che esalta la competitività, il consumismo, la crescita ad ogni costo, l’individualismo proprietario. Ideologie che hanno lentamente avvelenato la nostra vita quotidiana riuscendo a far breccia in ciascuno di noi.
È da qui che bisogna ripartire: da un progetto di convivenza e convivialità e di accoglienza che faccia rinascere nelle nostre città quei principi di vita associativa e fiorire della cultura che fecero dei comuni italiani ed europei i luoghi da cui nacque il Rinascimento.
Un governo della città che si apra ad una democrazia pubblica fondata sulla partecipazione delle comunità locali e dei quartieri, con nuove istituzioni di prossimità che sappiano interpretare e rappresentare il bisogno di sicurezza, di solidarietà, di condivisione che pure sono sentiti dai cittadini romani e sconfiggere la piaga dell’egoismo, della competizione selvaggia, della caccia all’untore che indebolisce le comunità a tutto vantaggio di ideologie razziste e xenofobe che avvelenano gli animi e i cuori e lasciano dietro di se solo macerie e rovine fisiche e morali, e distruggono la convivenza civile e democratica. Ci piacerebbe riprendere con tutti quelli che lo vorranno il filo di un impegno civile collettivo per non lasciare la nostra bella città nelle mani dei poteri forti e della cattiva politica che l’hanno seviziata ed oltraggiata o dei mestatori dell’odio sociale e della guerre etniche e di religione.