Il manifestoil Fatto Quotidiano, 12 settembre 2014
Eni, Descalzi indagato e il governo Renzi tace
di Ester Nemo
L’accusa fa riferimento all’affaire della licenza Opl 245, contesa da Shell e vari attori nigeriani sin dall’inizio degli anni 2000. Dall’indagine emerge che l’intero importo di un miliardo e 92 milioni di dollari, pagato a metà 2011 da Eni al governo nigeriano dopo un lungo e sofferto negoziato pieno di colpi di scena, possa essere stato utilizzato in vari modi per pagare ogni corrente politica e contendente in Nigeria. E non solo. Ben 200 milioni infatti servivano per alcuni mediatori nigeriani e italiani, tra cui spicca anche l’architetto della loggia P4 Luigi Bisignani, che a fine 2011 aveva patteggiato una condanna di un anno e sette mesi a Napoli per associazione a delinquere.
Come spesso succede quando gli interessi sono troppi sulla stessa torta, qualcosa non è andato come doveva. Il cambio di governo in Nigeria a metà del 2010 ha mutato le carte in tavola, cosicché il piano ideato in Italia è fallito e il governo locale si è posto direttamente come intermediario, chiedendo un suo tornaconto. Dan Etete, ex ministro del petrolio del dittatore Abacha, che in passato si era auto-intestato la licenza per pochi soldi tramite la società Malabu, ha alla fine accettato il nuovo accordo tripartito all’inizio del 2011. Nota a margine, Etete era già stato protagonista dell’affaire Bonny Island per cui Snamprogetti del gruppo Eni era stata condannata per corruzione in Stati Uniti, Nigeria ed Italia. Tornando ai fatti di inizio 2011, il principale intermediario nigeriano in quota Eni, Emeka Obi, non è stato al gioco e ha intentato una causa alla Corte di Londra, dove erano bloccati ancora alcuni soldi dell’Eni, ottenendo 110 milioni di dollari.
Questa somma adesso è stata nuovamente bloccata in Svizzera in seguito a una ben articolata richiesta della Procura di Milano. Anche i rimanenti 80 milioni, forse pensati per il fronte italiano, sono stati nuovamente “congelati” dalla Corte di Londra, sempre su richiesta di Milano, su un conto alla JP Morgan. E così oltre all’indagine sulla società già notificata ad Eni nel luglio scorso, ieri è emersa l’indagine anche su Descalzi. Nel frattempo gli 800 milioni arrivati in Nigeria sembrano essere finiti in mille rivoli sospetti vicini al governo.
Questa vicenda è senza dubbio uno schiaffo per il governo Renzi, che alla assemblea degli azionisti del maggio scorso con il ministro Padoan aveva tentato di far approvare dalla società gli «standard di onorabilità» anti-corruzione per la nomina dei nuovi vertici, forte del 30 per cento di azioni in mano pubblica. I grandi investitori istituzionali hanno respinto la proposta con tanto di applauso ironico a fine assemblea. Il braccio di ferro tra le varie anime del governo ha alla fine imposto un interno come amministratore delegato, mettendo “di facciata” l’esterna Emma Marcegaglia alla presidenza.
Le associazioni Re:Common e Global Witness avevano menzionato in assemblea alla presenza del rappresentante del ministero dell’Economia i rischi della nomina Descalzi a fronte della controversa storia Opl 245 che emergeva dalla carte del processo Obi a Londra. Ma l’uscente Scaroni aveva ancora una volta ribadito che l’Eni non aveva usato intermediari e che non c’era stato nessun incontro tra Descalzi o funzionari Eni e Dan Etete. Così non sembra, ed ora la palla passa al governo Renzi, mentre il titolo Eni ieri ha lasciato in borsa l’1,63 per cento.
Il Fatto Quotidiano
Quando dai giacimenti sgorgano mazzette
di Gianni Barbacetto
La “madre di tutte le tangenti”, in fondo, ha a che fare con Eni: è la maxi-mazzetta generosamente distribuita ai partiti italiani nei primi anni Novanta (con l’aiuto, tra gli altri, di Luigi Bisignani), quando Raul Gardini, sconfitto dal sistema politico, sciolse il matrimonio che aveva voluto tra Eni e la sua Montedison. Ma sono molte le indagini che, negli anni seguenti, hanno coinvolto direttamente l’Eni, per i suoi affari petroliferi in giro per il mondo: in Iraq e in Algeria, in Kazakhstan e, infine, in Nigeria. Per le attività in quest’ultimo Paese, l’Eni (che è quotata a Milano e a New York) è stata indagata anche negli Stati Uniti: il Dipartimento della giustizia ha già incassato, nel luglio 2010, una multa di 240 milioni di dollari. Altri 120 milioni di dollari sono stati pagati da Eni e dalla controllata Snamprogetti dopo un accordo raggiunto con la Sec, l’Autorità che controlla la Borsa Usa. Un’altra controllata, la Saipem, nel luglio 2013 è stata già condannata a pagare in Italia una multa di 600 mila euro, dopo una confisca di 24,5 milioni di euro considerati il profitto di affari illeciti in Nigeria.
Gli affari in Algeria sono invece l’oggetto dell’inchiesta Eni-Saipem, filone italiano di un grande scandalo internazionale scoperto nel 2012 e deflagrato nel febbraio 2013, quando il pubblico ministero milanese Fabio De Pasquale manda la Guardia di finanza a perquisire gli uffici di Roma e San Donato dell’Eni e della Saipem, ma anche l’abitazione milanese dell’allora potentissimo numero uno di Eni, Paolo Scaroni. L’ipotesi d’accusa è che sia stata pagata una tangentona da quasi 200 milioni di euro (198, per la precisione) al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro. La “commissione” di 198 milioni è stata versata da Saipem alla società Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da un giovane e riccioluto faccendiere internazionale con passaporto francese: Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil e intermediario tra gli algerini e i manager Saipem. Sono indagati per corruzione internazionale, oltre a Scaroni, anche l’amministratore delegato di Saipem Franco Tali, il direttore operativo Pietro Varone, il direttore finanziario Alessandro Bernini, il direttore generale per l’Algeria Tullio Orsi, il responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella. E vengono trovate tracce, come succede in questi casi, di “ritorno” in Italia, a mediatori e manager Eni, di una parte delle tangenti pagate all’estero. Nel maggio 2012, la Procura di Milano chiede una misura interdittiva che riguarda invece la Agip Kco, ossia la società del gruppo che opera in Kazakhistan. Il pm domanda al giudice di “commissariare la divisione operativa dell’Eni in Kazakhstan o, in alternativa, vietarle di proseguire a negoziare contratti in Kazakhstan”. Qui l’ipotesi dell’accusa è che Eni abbia versato negli anni almeno 20 milioni di dollari come tangenti per facilitare la presenza dell’azienda italiana in quel Paese. A incassare, sarebbero stati il presidente dell’ente petrolifero statale e del fondo sovrano di Astana, già genero del presidente della Repubblica kazaka.
In Iraq è finito sotto l’attenzione dei magistrati italiani il giacimento di Zubair, vicino a Bassora, uno dei più grandi del Paese, con una produzione ipotizzata di 1,2 milioni di barili al giorno: “commissioni” (il nome pudico delle tangenti) sarebbero state pagate per far ottenere all’Eni la concessione per lo sfruttamento del giacimento.
I magistrati della Procura di Roma hanno invece aperto un’indagine di tipo fiscale sulla distribuzione dei prodotti petroliferi: per verificare «la corretta applicazione della normativa sulle accise in ordine ai prodotti petroliferi caricati presso i depositi carburanti di Eni divisione Refining & Marketing». La Guardia di finanza ha effettuato controlli presso diversi stabilimenti e centri di produzione, a Venezia, Pavia, Livorno, Taranto e Gela. “La società – spiega ogni volta un portavoce dell’Eni con apposito comunicato – sta fornendo ampia collaborazione all’Autorità giudiziaria”.