Il manifesto, 16 febbraio 2014
«Siamo in un momento cruciale. Ciascuno dia il contributo che è nelle sue possibilità». Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, giurista e intellettuale di fama, guarda con molto interesse all’iniziativa che fa capo ad Alexis Tsipras, in vista delle prossime elezioni europee: «C’è bisogno di un sussulto di consapevolezza. E c’è poco tempo: dedichiamolo a spiegare perché l’Europa ha bisogno di una scossa e a chiarirne i contenuti da presentare agli elettori».
Professore, lei sostiene che questa scossa può venire soltanto da un’affermazione del progetto che incarna il 39enne leader della sinistra greca. Perché?
Prescindiamo un momento dai nomi, guardiamo prima al quadro d’insieme. Alle elezioni di maggio si affronteranno due mastodonti: da una parte, gli antieuropeisti, che sono tali in nome della reazione all’Europa della finanza che sta influendo pesantemente sulle libertà democratiche dei Paesi in difficoltà; dall’altra, l’Europa degli interessi della finanza incarnati dagli Stati forti che impongono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovranità chiuse, al nazionalismo. Gli altri vogliono il mantenimento dello status quo. Di fronte a questi due giganti, c’è una terza possibilità, rappresentata dall’iniziativa di Tsipras: è il recupero dell’idea di Europa dei padri fondatori, che pensavano che l’integrazione economica fosse solo il primo passo verso una piena integrazione politica. Inoltre, essendo un leader greco, la figura di Tsipras ha anche un aspetto simbolico, sia perché lì stanno le origini della nostra civiltà, sia per la situazione in cui attualmente versa quel Paese: non so se ci rendiamo conto che qualche mese fa ha chiuso l’Università di Atene.
Lei esclude, dunque, che un simile ruolo di rottura possano giocarlo i socialisti guidati dal tedesco Martin Schulz…
Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si confronteranno le due forze di cui dicevo — nazionalisti e «mercatisti» — alla fine la socialdemocrazia farà blocco con i conservatori, nella logica delle larghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la paralisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsipras è accusata di essere l’ennesimo tentativo minoritario, settario, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di questo modo di ragionare. Penso che la questione Europa non si esaurisca nell’allentamento del vincolo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Intendiamoci: mettere in discussione i rigidi vincoli finanziari, come dicono di voler fare i socialisti, è propedeutico alle necessarie politiche di sviluppo, ma è pur sempre un aggiustamento all’interno della logica che attualmente regge l’Ue. Noi vogliamo riappropriarci dell’idea dei padri fondatori, che non si limitava alla dimensione mercantile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di riferimento per il mondo, basato sulle sue acquisizioni civili e sociali. E se ciò potesse esistere, sarebbe anche un elemento d’equilibrio nei rapporti internazionali: una dimensione totalmente estranea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mondiale e che non fa nulla affinché, ad esempio, i diritti sociali siano riconosciuti anche nei Paesi di nuova industrializzazione. Ma per farlo, dovrebbe prima esistere come entità politica: per me, la lista Tsipras, scontrandosi con gli interessi delle nazionalità chiuse e con quelli dei mercati globali de-regolati, è un progetto che ha come primo obbiettivo costruire l’Europa come autentico spazio politico democratico. Siamo persino ancora «al di qua» di una divisione fra destra e sinistra.
Anche lei condivide, come i promotori dell’appello per la lista Tsipras, la necessità di cambiare i trattati, magari attraverso un processo costituente. Sbaglio?
No, non sbaglia. Questo è ciò che dicono giustamente il movimento federalista e, in generale, tutti gli europeisti più avvertiti. Siamo in un momento in cui o si pone seriamente il tema della democratizzazione delle istituzioni europee o andremo incontro a un progressivo deperimento dell’idea di Europa unita».
A proposito del processo costituente non sarebbe come fare una costituzione senza popolo, senza un demos europeo…
Anche secondo me non si può fare una costituzione senza un popolo europeo, che attualmente ancora non c’è. Ma ciò non significa che abbiano ragione coloro che sostengono l’ipotesi «funzionalista». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza democrazia, c’è solo la tecnocrazia. Non può reggere l’Ue senza una sorta di «patriottismo» europeo, legato alla nostra consapevolezza orgogliosa di quella parte della storia dell’Europa che ha generato tolleranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, protezione per i deboli, rifiuto di quel darwinismo sociale che, sotto forma di iperliberismo, sta invadendo il mondo. Una storia fatta anche dalle sue culture politiche: illuminismo, socialismo e solidarismo cristiano. Oggi, purtroppo, c’è un impedimento oggettivo alla possibilità di una costituzione europea: l’indisponibilità alla solidarietà fra Paesi. E se non c’è disponibilità dei forti a condividere la fragilità dei deboli, non c’è costituzione che tenga.
Pensa che la Carta dei diritti fondamentali di Nizza sia una leva per aprire delle contraddizioni all’interno del diritto comunitario vigente?
Quella Carta doveva essere la base di tutto, perché fondava la cittadinanza europea. È stata criticata per essere sbilanciata sul piano dei diritti individuali rispetto a quelli sociali, ma il problema è che non è mai entrata davvero nel «sangue» che circola nella Ue: è vigente, ma è anche effettiva? Decisamente più «viva» è la Convenzione europea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Strasburgo. Va detto, tuttavia, che il terreno puramente giuridico è importante, ma non è quello determinante: di fronte alla bufera finanziaria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha bisogno di essere alimentato dal basso, dalla partecipazione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, bisogna certamente insistere sul fatto che una realtà come la troika (Commissione, Bce e Fondo monetario, ndr) non ha alcun fondamento giuridico: in base a cosa vanno a controllare i conti dei Paesi come la Grecia? Non c’è né legittimità né legalità. Eppure, i suoi controlli e responsi contabili contano molto di più dell’Europarlamento, e possono addirittura aprire la strada al fallimento degli stati. Un tema, quello del fallimento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.
In che senso?
Fino a qualche tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fallire. Se oggi non respingiamo questo accostamento è perché accettiamo senza accorgercene la degradazione dello Stato a società commerciale. Ma non può essere così, è una contraddizione in termini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non possiamo partecipare a un’istituzione come la Ue se essa prevede, tra i suoi strumenti, il fallimento dei suoi membri: uno strumento capace di annullarne le istituzioni democratiche. Da costituzionalista, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costituzione, che dice che si può limitare la sovranità a favore di istituzioni sovranazionali, ma a condizione che esse servano la pace e la giustizia tra i popoli. Se servono non a questi, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsipras ci si impegna per sconfiggere i due mastodonti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni possibile collaborazione per una Europa di pace e di giustizia.
C’è chi ha criticato l’idea di questa lista perché sarebbe ostile ai partiti, quasi il frutto di una sorta di grillismo da intellettuali. Come risponde?
Io credo al ruolo insostituibile dei partiti, e penso che la politica — come insegna Max Weber — debba essere anche una professione. Se ci guardiamo attorno, però, dobbiamo dire che in Italia non sempre ciò che si chiama «partito politico», è davvero «politico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la politica? Dietro la lista Tsipras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pienamente politica di organizzazione di bisogni, interessi e prospettive: mi auguro che questa esperienza possa servire a motivare una parte di elettorato che non va più a votare, sceglie il Movimento 5Stelle o è delusa del partito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sempre più grande di popolazione, che — non credo ci sia nemmeno bisogno di dirlo — è composta di molte persone di valore, di una parte buona di società