Dopo la pubblicazione dellʼarticolo di Salvatore Settis su La Repubblica del 1 giugno e le lettere apparse su La Repubblica di martedì 4 giugno di Ermete Realacci, Ilaria Borletti Buitoni e Andrea Carandini, ho cercato di approfondire i temi posti dal Progetto di legge Realacci sul consumo di suolo, anche alla luce delle note inviate da Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini.
Ma veniamo al merito. Trattandosi di un testo di legge la questione è ovviamente complessa, anche perché ogni termine ed ogni comma dovrebbero essere attentamente analizzati e discussi al fine di valutarne le molteplici implicazioni e connessioni con le leggi oggi vigenti. Mi siano comunque consentite alcune prime, rapide e sommarie, osservazioni volte a motivare la mia richiesta di apertura di un confronto ad ampio raggio per la elaborazione di un diverso e più incisivo disegno di legge.
1. Eʼ ovviamente positiva la proposta di cui allʼart. 1 di istituzione di un Registro nazionale del consumo di suolo e la richiesta che il Ministro delle infrastrutture di concerto con il Ministro dellʼAmbiente presenti annualmente alle Camere un Rapporto sul consumo di suolo «... nellʼambito del quale sono individuati gli obiettivi di contenimento quantitativo da perseguire su scala pluriennale nella pianificazione territoriale ed urbanistica», obiettivi che dovranno essere successivamente articolati per ciascuna Regione in sede di Conferenza Stato - Regioni (osservo che la proposta di legge - contrariamente a quella dellʼallora ministro Catania - non prevede alcuna scadenza certa per molti di questi adempimenti).
Quello che però qui non si evidenza è che già oggi ci troviamo - per quanto concerne il consumo di suolo - in una situazione emergenziale e che nella situazione attuale, al di là degli aspetti programmatori, un progetto di legge deve necessariamente porsi anche lʼobiettivo di porre da subito un freno ad ogni ulteriore distruzione di risorse ambientali e di paesaggio. In attesa della definizione delle metodologie, del Registro, del Rapporto annuale e della Conferenza Stato Regioni occorre richiedere con forza una moratoria edilizia generalizzata. Va a tal proposito ricordato come nel già citato progetto di legge Catania si prevedeva che “per tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge al fine di consentire lʼattuazione di quanto previsto allʼart. 3 (quello che specificava lʼiter per la definizione del limite massimo di superficie consumabile a livello nazionale e locale, ndr) non è consentito il consumo di superficie agricola”.
Aggiungerei una ulteriore osservazione. Eʼ facile immaginare - come già è avvenuto nel passato - che nelle more della discussione parlamentare e dellʼapprovazione della nuova legge si scatenerà la corsa allʼadozione di nuovi piani attuativi, di nuove varianti ed al sovradimensionamento dei piani regolatori da parte dei Comuni meno virtuosi (purtroppo la grande maggioranza!). Ritengo fondamentale dunque che da parte nostra ci si batta per la prioritaria approvazione di un decreto legge che - proprio in vista dellʼavvio del dibattito parlamentare - stabilisca da subito, per almeno un anno e comunque sino allʼapprovazione della legge, detta moratoria edilizia ovvero lʼobbligo di non consumare suolo inedificato ed in particolare superficie agricola (dovendosi intendere per superficie agricola non solo i terreni qualificati tali dagli strumenti urbanistici, bensì anche le aree di fatto utilizzate a scopi agricoli indipendentemente dalla destinazione urbanistica e quelle comunque libere da edificazioni e infrastrutture suscettibili di utilizzazione agricola).
2. Lʼintroduzione di un “contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana” aggiuntivo rispetto ai normali oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione (art.2 della proposta di legge), può effettivamente essere considerato un deterrente nei confronti delle nuove lottizzazioni che prevedono lʼoccupazione di suolo inedificato (ovviamente se connesso al rispetto dei limiti che la legge dovrà imporre al consumo di suolo, al preventivo stralcio delle previsioni edificatorie non giustificate dallʼeffettivo fabbisogno e quindi se non concepito come semplice monetarizzazione di un danno che per altra via si potrebbe evitare). Detto contributo è previsto sia nel caso in cui con lʼintervento edilizio si occupino aree coperte “da superfici agricole in uso o dismesse” (duplicando gli oneri a carico del lottizzante) sia che si tratti di superfici coperte “da superfici naturali o seminaturali” (triplicando gli oneri). Nello stesso articolo si prevede però anche che il contributo non sia dovuto per interventi su aree edificate “o comunque utilizzate ad usi urbani o da riqualificare”. Eʼ una definizione ambigua che, a mio avviso, se non chiarita si presta a diverse interpretazioni. Mi chiedo se, ad esempio, rientrino in questʼultima casistica tutte le aree individuate dagli strumenti urbanistici vigenti come zone territoriali omogenee di cui alle lettere A), B), D),e F), di norma giuridicamente considerate come “aree urbanizzate” anche se di fatto possono comprendere ampi comparti non edificati. Se fosse valida questa interpretazione, se ne dovrebbe dedurre che i limiti al consumo di suolo ed i contributi penalizzanti verranno applicati solo alle nuove aree di espansione previste dai nuovi piani urbanistici.
Riterrei invece fondamentale, per contrastare il consumo di suolo, che la proposta di legge rimetta in discussione le previsioni dei Piani regolatori vigenti e non si accontenti di porre un limite alle ulteriori espansioni introdotte da nuovi piani regolatori o varianti di piano e che anche lʼeventuale edificazione di aree libere interne al “territorio urbanizzato” sia soggetta ad un contributo penalizzante (la cui determinazione richiederebbe un serio approfondimento di tipo economico in relazione alla rendita ed ai costi e benefici per la collettività)!
Il caso del Veneto è esemplificativo. La Regione Veneto, con lʼart. 13 della Legge urbanistica 11 del 2004, ha già previsto un limite alle trasformazioni dʼuso dei suoli agricoli utilizzati (Sau): un limite variabile tra lo 0,65 e lʻ1,3% della Sau esistente, in relazione alle diverse caratteristiche dei Comuni. Nellʼinterpretazione corrente (interpretazione che inutilmente, sino ad oggi, come Legambiente abbiamo tentato di contestare) detto limite viene applicato ai soli fini del dimensionamento delle potenzialità edificatorie aggiuntive previste dai nuovi Piani di Assetto Territoriale (Pat) redatti dai Comuni in attuazione della legge 11/2004. Si calcola che con questa norma di legge i nuovi piani urbanistici comunali approvati o in corso di approvazione non potranno consumare, nel prossimo decennio, più di 9.000 - 9.500 ettari di terreno agricolo. Il problema è che, dalle indagini effettuate dalla stessa Regione in occasione della redazione del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento del 2009, nei PRG vigenti già sono previsti oltre 75.000 ettari (pari ad un incremento del 40% del già urbanizzato) di nuove urbanizzazioni non ancora attuate, che spesso riguardano proprio aree aventi ancora caratteristiche agricole o comunque suscettibili di utilizzazione agricola! Per detta ragione ritengo che nella legge debba essere previsto lʼobbligo per i Comuni di effettuare il censimento del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato e di quello sotto- utilizzato (inutilmente richiesto nei mesi scorsi da Salviamo il Paesaggio), individuando le aree e gli insediamenti degradati nei quali concentrare prioritariamente gli interventi di trasformazione urbana e di predisporre una Carta del consumo di suolo che evidenzi i terreni ancora utilizzati a fini agricoli, pur avendo altra destinazione di Piano, ed i terreni urbani e periurbani abbandonati ma potenzialmente riconvertibili ad attività agricole o a silvicoltura. Verificati i risultati di detto Censimento i Comuni dovranno procedere alla revisione ed allʼeventuale ridimensionamento delle previsioni dei piani urbanistici vigenti in relazione allʼeffettivo fabbisogno (determinato dalle Regioni e/o dalle Province in ambito sovracomunale, sulla base - per il fabbisogno abitativo - dei nuovi trend demografici e di uno standard volumetrico di non più di 150 mc/abitante) ed alla possibilità di riusare e riorganizzare gli insediamenti e le infrastrutture esistenti. (Eʼ forse a tal proposito opportuno ricordare che, contrariamente a quanto spesso interessatamente si afferma, se non è stato rilasciato il Permesso di costruire o se non è stato formalmente approvato un Piano Urbanistico Attuativo, per i proprietari di terreni che il PRG prevede edificabili non esistono “diritti acquisiti”. Come hanno fatto i Comuni di Udine e Desio, i piani regolatori - con adeguata motivazione - possono essere rivisti riducendo le precedenti previsioni di espansione urbana).
Sino allʼadeguamento degli strumenti urbanistici a quanto sopra previsto, va prescritto che i Comuni siano tenuti a sospendere ogni determinazione sulle domande relative ad interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica che interessino aree libere, siano esse interne od esterne alla perimetrazione del “territorio urbanizzato”.
3. Desta perplessità, in un disegno di legge che si dichiara finalizzato alla riduzione del consumo di suolo, lʼampio spazio dedicato alla proposta dei meccanismi della perequazione e della compensazione urbanistica, quasi fossero considerati essenziali allo scopo dichiarato (artt. 4, 6 e 7). Meccanismi che, peraltro, sono già da tempo normati ed applicati da larga parte delle Regioni ed enti locali con esiti in molti casi tuttʼaltro che entusiasmanti. Quasi sempre infatti - comʼè avvenuto nel caso di Padova e come il nostro circolo denuncia da anni - la logica di fondo è stata quella di concedere nuove volumetrie edilizie ai proprietari privati di aree, non motivate da alcun reale fabbisogno (703 abitanti in più nel corso dellʼultimo decennio), ma giustificate con la necessità di far fronte alla scadenza dei vincoli sulle aree un tempo preordinate allʼesproprio per pubblica utilità e per acquisire “gratuitamente” aree utilizzabili da parte del Comune per la realizzazione di nuove “dotazioni territoriali” (verde, servizi, edilizia pubblica). Nel 2004 a Padova, con apposita Variante di PRG (e con la consulenza di Federico Oliva, presidente dellʼINU), 4,7 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico sono state trasformate in aree di “perequazione urbanistica”, con un incremento di 2 milioni di mc di volumetrie edificabili. Si affermò allora che - data la scarsità di risorse finanziarie - questa era lʼunica strada per incrementare realmente e non solo sulla carta gli standard di verde urbano, prevedendo lʼobbligo per i privati di cedere al Comune - in cambio della nuova cubatura concessa - il 70 per cento della superficie territoriale. Questa distribuzione indiscriminata della perequazione in larga parte del territorio comunale, senza un chiaro disegno di rete ecologica e del sistema degli spazi aperti (la città pubblica), ha incentivato il brulicare di nuove lottizzazioni (pubblicizzate come “case nel parco”, data lʼampia dotazione di verde circostante, ed ovviamente poste sul mercato a prezzi astronomici) con in generale una frammentazione delle aree destinate a verde, formalmente di uso pubblico, ma spesso di fatto usufruibili solo da parte dei nuovi condomini. Per i non numerosi casi di cessione di aree di maggiori dimensioni, tramontata - per ragioni di bilancio - la possibilità di attrezzarle e gestirle come veri parchi urbani, lʼorientamento attuale dellʼAmministrazione comunale è quello di istituire orti sociali e parchi rurali, assegnandone la gestione ad associazioni e cooperative con finalità sociali. Unʼiniziativa che presenta interessanti aspetti positivi e che tendiamo ad appoggiare, anche se - considerato che quelle aree avevano già nella quasi totalità un utilizzo di tipo agricolo sia pure da parte di operatori privati - sorge inevitabile la domanda su quale fosse la reale necessità di destinarne quota parte allʼedificazione, con tutte le immaginabili, pesanti conseguenze anche in termini di infrastrutturazione e impermeabilizzazione del territorio. Anche sullʼefficacia della “compensazione urbanistica” ai fini della riduzione del consumo di suolo, non pochi sono i dubbi. Valga anche in questo caso un esempio concreto riferito alla nostra città, dove si sta programmando la realizzazione di un nuovo ospedale su di unʼarea di 600.mila mq di terreni agricoli. Per lʼacquisizione delle aree - in alternativa allʼesproprio, che come sappiamo deve oggi avvenire a prezzi di mercato - vi è chi ha proposto di attribuire ai proprietari privati quote di edificabilità non utilizzabili in loco, bensì da trasferire in altri comparti urbani (di proprietà pubblica? di proprietà privata, aumentandone gli indici di edificabilità?), previo accordo per la cessione al Comune delle aree necessarie per il nuovo complesso ospedaliero. Esempi di perequazione e di compensazione urbanistica che non riducono certo il consumo di territorio. Di fatto con questi meccanismi il Comune cerca di sopperire alle proprie difficoltà di bilancio sovradimensionando le previsioni di piano ed incentivando lʼattività delle immobiliari private, alle quali viene richiesto un “contributo” corrispondente ad una quota parte delle rendita fondiaria derivante dallʼaver trasformato la destinazione dʼuso delle aree. Con questo non si vogliono demonizzare in assoluto gli strumenti della perequazione e della compensazione che alcuni Comuni hanno saputo utilizzare in modo più mirato ed intelligente (ad esempio Ravenna, per la formazione di una green belt urbana, paracadutando le quote di edificabilità aggiuntiva attribuita a queste aree nella ristrutturazione della darsena). Mi limito però ad osservare che se si vuole affrontare la questione in termini innovativi ed in connessione al consumo di suolo, occorre predisporre una normativa meno generica, ben più finalizzata e cogente di quella prevista dal progetto di legge.
4. Lʼarticolo 5 affronta il tema del “Comparto edificatorio” finalizzato alla realizzazione degli obiettivi di riqualificazione urbanistica e ambientale individuati dal Piano regolatore. Eʼ senza dubbio una proposta positiva, che riprende e cerca di rendere operativo quanto un tempo previsto dalla Legge urbanistica del 1942. Dalla lettura del primo comma sembra però che lʼiniziativa sia principalmente delegata ai privati (“Su invito del comune o per propria iniziativa, i proprietari di beni immobili compresi in un comparto possono riunirsi in consorzio e presentare al comune il piano urbanistico attuativo riferito allʼintero comparto”). Anche in questo caso riterrei invece importante che il disegno di legge sollecitasse ed incentivasse un ruolo attivo della pubblica amministrazione per la redazione dei relativi piani urbanistici attuativi.
5. Anche il tema della tutela del paesaggio (citato solo di passaggio nel terzo comma dellʼarticolo 1) e delle sue connessioni con il tema del consumo di suolo, e quindi la ricerca di una possibile integrazione tra le nuove norme proposte e quelle previste dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio per i piani paesaggistici richiederebbero un ben più ampio sviluppo... ma è un capitolo troppo vasto, che non oso qui affrontare per non appesantire queste già pesanti note.
Quelle indicate sono evidentemente solo alcune delle problematiche sollevate dal progetto di legge Realacci. Ritengo però che forniscano motivi sufficienti per richiedere un approfondimento del dibattito allʼinterno della nostra associazione e per aprire un confronto aperto con le altre associazioni e forze politiche che stanno cercando di mettere a punto nuove più efficaci norme per ridurre il consumo di suolo e per salvare il paesaggio.