Tre gli obiettivi della “Costituente dei beni comuni”, secondo il suo promotore Stefano Rodotà: «formulare una nuova disciplina del diritto di proprietà, già in parte elaborata dalla Commissione nel 2007, provando a definire la categoria dei beni comuni e a superare così la categoria tradizionale della proprietà; perfezionare alcune proposte di legge sui beni comuni, il reddito, il testamento biologico, il territorio e la disciplina delle proposte di legge di iniziativa popolare; e istituire quella che con Gaetano Azzariti definiamo una “convenzione per la democrazia costituzionale” che dovrebbe contribuire a rafforzare, appunto, la nostra democrazia costituzionale». (il manifesto). Ci sembra che in questo quadro non possano avere un ruolo marginale due diritti: il “diritto alla città” e il “diritto al lavoro”. Su questi (e soprattutto sul primo, vogliamo in questa sede soffermarci
Questa espressione nacque dalle analisi dello studioso marxista Henry Lefebvre e risuonò nelle piazze e nelle fabbriche come rivendicazione di massa nel biennio 68-69. Esprimeva la volontà che tutti gli abitanti (cittadini e non cittadini) potessero fruire dell’insieme di beni che la città costituiva. Accessibilità (non solo in senso fisico) e partecipazione erano i due cardini di quel diritto. In Italia la rivendicazione si arricchì grazie al contributo della classe operaia, che aveva compreso che lo sfruttamento del lavoro non si combatteva restando rinchiusi nella fabbrica, e del movimento per l’emancipazione della donna, consapevole che l’ingresso nel mondo del lavoro fuori dalla “casalinghitudine” comportava la necessità di un consistente ampliamento delle dotazioni collettive della città. Essa ebbe il suo momento più significativo e ampio nello sciopero generale nazionale del 19 novembre 1968 per la casa, i trasporti e i servizi sociali, il Mezzogiorno
E’ quella rivendicazione alla base dei successi che nel ventennio Sessanta-Settanta registrarono le numerose riforme (riforme della struttura del paese, e non della sua pelle istituzionale). Lii ho definiti "gli anni del cambiamento e della speranza" Ili cammino di quelle riforme fu ostacolato fin dall’inizio dalla stagione degli attentati dinamitardi che aprirono gli “anni di piombo”.
Nei decenni successivi slogan come “meno stato e più mercato, “privato è bello”, “via lacci e lacciuoli” fecero scomparire il “diritto alla città”. Questo tema rimase solo nella riflessione di alcuni autori (tra i quali David Harvey, John Friedmann, Don Mitchell) per riesplodere nei movimenti sociali che, a partire dall’America del Sud, si propagarono nella miriade di azioni di protesta e ricerca di alternative alla condizione urbana determinata dal capitalismo nella sua fase neoliberistica. In Italia esso è riemerso nell’azione che migliaia di comitati, associazioni e altri gruppi di cittadinanza attiva promossero per opporsi alla liquidazione degli spazi pubblici, alla devastazione del verde e dei beni culturali, allo smantellamento delle faticose conquiste del welfare urbano, al peggioramento delle condizioni. ambientali, dei trasporti e degli altri elementi che concorrono a garantire la vivibilità dell’habitat dell’uomo. Emerse e si affermò, in Italia come in numerose iniziative internazionali, il tema della “città come bene comune”. E’ opportuno precisare che oggi intendiamo com“città” non più solo quella caratterizzata dalla continuità edilizia ma l’insieme degli elementi, naturali e artificiali del territorio, necessari per offrire alla società condizioni analoghe a quelle della città che abbiamo conosciuto nel nostro mondo.
Riprendere oggi il tema del “diritto alla città” coniugandolo con quello di “bene comune” impone di affrontare alcuni aspetti nodali del nostro sistema giuridico, politico e amministrativo. Ma in primo luogo si tratta luogo di prendere atto della profonda deriva culturale che si è manifestata a partire dagli anni Ottanta ; li abbiamo ricordati, recentemete, nell'eddytoriale 156. In quegli anni infatti, quasi ad accompagnare l’ascesa delle pratiche del neoliberismo e il “trionfo della rendita”, si è propagandato e fatti entrare nel pensiero corrente parole come “diritti urbanistici”, “perequazione urbanistica”, “vocazione edificatoria”, presentandole come espressive di verità scientifiche giuridicamente fondate e perciò indiscutibili. E’ di questo ciarpame che occorre in primo luogo liberarsi per procedere oltre il presente.
Il punto dal quale ripartire è l’affermazione della circostanza (oggettiva) che l’incremento di valore della rendita immobiliare (aree ed edifici) deriva dall’azione storica della collettività, e che quindi la decisione conseguente è che tale incremento, dove e quando si manifesta, deve essere attribuito alla collettività. Che un suolo oggi impiegato per le attività agro-silvopastorali, diventi impiegato o impiegabile per funzioni urbane dipende da due ordini di azioni pubbliche: la realizzazione e trasformazione, nella storia e nell’attualità, delle infrastrutture fisiche e sociali che determinano la condizione urbana; la decisione politico-amministrativa di rendere quella parte del territorio trasformabile a funzioni urbane. Nell’Italia liberale, e perfino in quella fascista il riconoscimento del carattere pubblico di queste azioni era costituito dall’obbligo, per i proprietari beneficiati dalla realizzazione di opere pubbliche, di pagare i “contributi di miglioria specifica” e dal riconoscimento che, in caso di espropriazione prevista dai piani urbanistici, non dovesse essere riconosciuto ai proprietari il maggior valore derivante dalle decisioni del piano.
Dopo i tentativi compiuti negli anni Sessanta (tentativo del ministro d.c. Fiorentino Sullo) e le sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968 (che ammisero la legittimità costituzionale di una legge ordinaria che avesse stabilito che la facoltà di edifcare non apparteneva al prioprietario ma alla collettività) si tentò di incamminarsi su questa strada con la legge 10/1977 (Bucalossi), stabilendo che la facoltà di edificare poteva essere concessa al proprietario del suolo: l’edificazione (e in generale la trasformazione urbana del territorio) non era quindi un attributo della proprietà che potesse essere esercitato sulla base di una semplice licenza, ma il risultato di una concessione che l’autorità pubblica poteva, appunto, concedere o non concedere.
La legge di fatto non fu applicata. Non solo per il clima culturale e politico completamente mutato, ma anche perché la C9orte costituzionale rilevò due gravi limiti di quella legge: (1) l’irrisorio livello degli oneri ci concessione, non equiparabili ai benefici che il proprietario ne conseguiva; (2) il fatto che si creava una disparità di trattamento tra i proprietari dei suoli non ancora edificati e quelli degli altri immobili, che potevano tranquillamente continuare ad appropriarsi dell’incremento di valore delle loro proprietà. Questi due punti deboli della legge Bucalossi indicano anche la direzione da percorrere per andare avanti, e per dare alla collettività il diritto di decidere come trasformare la città e la capacità giuridica ed economica per farlo.
Corollario importante di questa posizione è che occorre ribadire l’appartenza pubblica delle decisioni sulla città e le sue trasformazioni: contrastando le tendenze espresse dalla “legge Lupi (mai approvata definitivamente dal Parlamento ma riemersa con prepotenza nelle minacciose promesse del ministro Lupi) per la sostituzione dell’urbanistica “consensuale” o “concordata” (con la proprietà immobiliare) all’urbanistica “autoritativa” cioè pubblica.
Questo corollario ci porta al srcondo nodo che occorrerebbe, se non sciogliere, almeno rendere un pò meno soffocante: quello tra decisioni sulle trasformazioni del territorio e popolo. É la questione che nell’impostazione di Levebvre è espressa col termine “partecipazione”, che nella lezione di Harvey e sviluppata nell’affermazione diritto a trasformare (a concorrere alle trasformazioni, dato il carattere collettivo della città. Una questione che riemerge endemicamente nella pratica dell’urbanistica, in Italia e altrove.
Negli anni in cui il sistema dei partiti funzionava con una certa efficacia come cerniera tra società e istituzioni il problema era in qualche modo risolto da fatto che la pianificazione (il metodo indispensabile per governare le trasformazioni del territorio con la visione olistica che il territorio di per sé richiede) era compito e responsabilità delle isituzioni democratiche. La cultura urbanistica meno legata all’accademia e alla tecnica ha tentato spesso di sostituire, o integrare, l’urbanistica “democratica” con quella “partecipata”. I risultati sono stati scarsi: non è difficile a ottenere una partecipazione effettiva degli abitanti nell’elaborazione di un progetto che riguardi un’area limitata, o una dimensione di vicinato, ben più difficile è il coinvolgimento reale, e potenzialmente totale, della popolazione di una città o di un’unità territoriale ancora più vasta.
La questione, del resto, tende a coincidere con la questione stessa della democrazia. In questi tempi davvero difficili, quando, dopo il crollo del sistema dei partiti, dobbiamo preoccuparci a un tempo di difendere quel tanto di democrazia che non ci hanno strappato e di conquistare una democrazia più avanzata: di conquistare (per usare ancora le parole di Harvey in un suo recente scritto) una democrazia nella quale la dimensione verticale e quella orizzontale siano integrate.
Sul diritto al lavoro (il secondo tema sul quale avrei voluto soffermarmi) , la Costituzione repubblicana esprime un principio veramente, in sé, di grande rilevanza: «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ma il contesto nel quale la Costituzione è stata elaborata (e lo stesso testo della Carta) non chiariscono che cosa si intenda per lavoro. E’ il “mercato” l’unico metro di valutazione dell’utilità sociale, e del reddito, attribuibile dalla società all’erogazione della forza-lavoro? L’equilibrio di forze che allora esisteva, il carattere che aveva assunto il compromesso storico tra capitale e lavoro non permettevano forse che si andasse oltre l’affermazione di alcuni diritti dei lavoratori rimanendonell’ambito della logica e delle regole della produzione capitalistica. Ma oggi ci sentiamo ancora entro quei limiti, almeno quando ragioniamo sui principi? Siamo oggi d’accordo con Luigi Einaudi, oppure riteniamo, con Karl Marx, che il lavoro sia «l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»? E pensiamo, con Claudio Napoleoni, che il lavoro sia« per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine». Le prospettive sono radicalmente diverse, e certamente quella liberale è ancora oggipiù radicata che quella di derivazione marxiana ma arebbe utile sviluppare un tema di di rilievo quale quello del diritto al lavoro senza partire dalla base. Soprattutto quando ci si propone anche ragionare, giustamente, di “reddito di cittadinanza”. E’ questo, una forma di sovvenzione a chi il “mercato del lavoro respinge”, oppure un prezzo che la società paga perché il lavoro è una risorsa, (anzi, un patrimonio) essenziale per l’umanità e lo sviluppo della sua capacità di comprendere il mondo e governarlo?
Riferimenti
In eddyburg, e soprattutto nell’archivio sulla vecchia piattaforma, c’è molto materiale. Due bozze di “visite guidate”, entrambe incomplete e non aggiornate, sono visibili qui per il “diritto alla città” e qui per il lavoro.