Fino a che punto una discussione sull'Ottobre bolscevico può limitarsi al resoconto storico, all'elenco delle vicende prima e dopo la presa del Palazzo d'Inverno del 7 novembre 1917? Se si richiama alla memoria l'insieme di questioni cruciali che il partito di Lenin dovette affrontare - prendere o no il potere, nazionalizzare o meno le industrie, come costruire uno «Stato operaio e contadino», quali rapporti con i poteri locali dei Soviet, quali punti scegliere per qualificare un programma socialista e via elencando - salta subito agli occhi il significato politico della discussione. Impossibile, quindi, confinare nello specialismo storiografico una costellazione di temi che evocano in primo piano l'interrogativo di che cosa sia oggi la politica e come essa si definisca, per quanto riguarda la tradizione comunista, in rapporto alle questioni sollevate dalla rivoluzione russa. Sono gli stessi interrogativi evocati dall'intervento di Rossanda Rossanda sulle pagine di "Liberazione" sabato e sui quali torniamo oggi con un nuovo intervento di Luciano Canfora, studioso della storia del movimento operaio, oltre che docente di filologia greca e latina presso l'Università di Bari. Si tratta, a prima vista, di mettere a fuoco l'attualità della rivoluzione nel nostro tempo, di valutare lo stato di salute dei partiti di massa e chiedersi se corrispondano o meno alla migliore forma di organizzazione ed espressione del consenso, se abbiano oggi la capacità di dirigere i processi sociali o debbano, al contrario, abdicare a questa funzione in nome di qualche istanza ancora imprecisata.
E' proprio dal rapporto partiti-rivoluzione (tra «direzione» e «spontaneità», avrebbe detto Gramsci) che parte il ragionamento di Luciano Canfora. La domanda è radicale: quale iniziativa possono intraprendere i partiti in un'epoca come quella attuale in cui i nuovi mezzi tecnologici - in prima fila la televisione - hanno «modificato e sottratto al controllo della politica i meccanismi di formazione del consenso»? Se un tempo erano i partiti a organizzare il consenso, «oggi è la televisione a modellare il senso comune. Pensiamo soltanto al martellante ripetersi dei messaggi pubblicitari nella testa delle persone. La pubblicità è il vero telegiornale della nostra epoca, il luogo in cui si formano i modelli dominanti».
Nella visione di Lenin il partito era sicuramente un luogo d'intersezione fondamentale tra la classe e l'iniziativa politica. Ma chi fa le rivoluzioni, i partiti o i processi sociali?
I partiti sono il prodotto storico, essi stessi, di processi sociali profondi che li trascendono. Prendiamo il caso della rivoluzione francese: prima degli eventi del 1789 i giacobini non esistevano, sono emersi solo in corso d'opera e come risposta a bisogni a essi preesistenti. E hanno realizzato una politica procedendo per tentativi, indovinando o sbagliando. In un discorso alla Costituente Palmiro Togliatti ebbe a dire: "le rivoluzioni non le fanno i partiti: i partiti al più le dirigono, se ne sono capaci". Se questo era vero nel '47 (anno in cui l'ondata resistenziale non era ancora spenta, ma gli Alleati presidiavano saldamente la nostra penisola), a maggior ragione è vero oggi, dopo che gli stati nati da rivoluzioni endogene (Urss) o esportate (Est Europa) sono crollati. Inoltre l'odierna tecnologia nonché la modifica del corpo sociale nell'Europa "a prima velocità" (quella più ricca) hanno reso anacronistica ogni nostalgia della "rivoluzione" di tipo giacobino-bolscevico. Mi riferisco ovviamente alla cosiddetta tecnica della presa del potere. Il che non toglie che i rapporti sociali tendono per loro natura ad essere "rivoluzionati" (per motivi ancor più profondi di quelli descritti da Marx). Nel mondo attuale però tutto è reso più difficile dal carattere planetario dei fenomeni di dominio e per contro dal carattere frantumato e incomunicante delle ribellioni.
Ma le rivoluzioni funzionano, a volte, anche come modelli per altre rivoluzioni indicando delle strade che prima non c'erano, seppur fiutabili nell'aria. L'Ottobre aprì la via ai movimenti di liberazione coloniale: questo non va messo nel bilancio?
La rivoluzione sovietica partì, nel convincimento dei suoi artefici, come volano di un fenomeno "mondiale" (di crollo del capitalismo, per lo meno in Europa: per loro il mondo era soprattutto l'Europa) ma, dopo il fallimento delle rivoluzioni in Germania e Ungheria e la vittoria della controrivoluzione in Italia, si trovò dinanzi all'alternativa: perire ovvero arroccarsi "in un paese solo" guardando al sollevamento del Terzo Mondo. E' quanto dice lucidamente Lenin nel '23 (Meglio meno, ma meglio). Fu la prima rivoluzione del Terzo Mondo ed ha funzionato per tutto il XX secolo in tal senso. Anche il suo esito postremo conferma questa analisi.
Fare la rivoluzione senza "sporcarsi le mani" con il potere è possibile? E' pensabile una trasformazione molecolare della società al di fuori dei Palazzi?
La rivoluzione senza potere è il modo di procedere della predicazione "disarmata" (religioni di salvezza etc.). Ma anche le religioni hanno prodotto guerre e potere. Quanto alla «trasformazione molecolare», ci pensa l'evolversi inarrestabile della realtà. Tale "trasformazione" avviene dovunque, tutti i giorni. Chiamarla "rivoluzione" è un gioco di parole.
Il modello bolscevico - si dice - ha prodotto violenza e accentramento del potere...
La violenza delle rivoluzioni è sempre una risposta, una reazione a violenze secolari precedenti. Secondo l'Istat (rapporto del luglio 2004) ci sono ogni giorno in Italia 4 morti sul lavoro in media. Non è violenza questa? Ma non ne parla ormai nemmeno la sinistra, bensì, ogni tanto, Giuliano Zincone sul "Corriere della Sera". Celebrando l'anniversario della rivoluzione francese, Carducci (notare!) scrisse che Marat custodiva «nel sen profondo l'onta di venti secoli» e nel Ça ira (IX sonetto) immagina Luigi XVI prigioniero, che dalla finestra della sua cella «guarda il popolo e a Dio chiede perdono della notte di San Bartolomeo». Naturalmente della violenza rivoluzionaria si mena scandalo, dell'altra no. Il primo settembre 1965 la Cia scatenò in Indonesia un Putsch che portò in pochi mesi al massacro di 700.000 comunisti (segretario del partito era Aidit). E chi ne parlerà più nel XXI secolo?
Diciamoci la verità, Bush ha vinto e stravinto il suo secondo mandato di presidente degli Stati uniti, ma il vero vincitore strategico, di fase, rischia di essere Osama Bin Laden, con la sua aura ieratica e la sua concezione della politica attaccata alla fede. O forse vincono insieme, Bush e Bin Laden, coppia gemellare a onta della loro proclamata inimicizia frontale, come ben videro alcune analisi dei loro gemellari proclami immediatamente successivi all'11 settembre, costruiti su una identica e speculare retorica dell'appello a Allah e a Dio. Fatto sta che ormai ci si appella a spada tratta al divino anche qua in Europa: la coppia Buttiglione-Ferrara insegna. E anche in questo caso il linguaggio la dice lunga: è una fiera del repechage postmoderno di parole della storia continentale stravolte di senso. La caccia alle streghe applicata al caso del commissario europeo mancato, la qualifica di totalitarista appiccicata allo stato laico reo di discriminare i cristiani e via dicendo. Il prof. Carlo Pelanda, insigne editorialista del Giornale nonché di Ideazione, parla candidamente di «nuova identità politica e di missione» improntata all'«alleanza fra la luce e la croce», che sarebbero l'illuminismo e il cristianesimo abbinati alla bell'e meglio contro gli «idioti» abitatori della sinistra. Così va il mondo agli inizi del terzo millennio. Aveva ragione Juergen Habermas quando, poco dopo l'11 settembre, profetizzò che il primo effetto del crollo delle Torri sarebbe stato un rigurgito del sacro e del divino in varie maschere all'interno delle democrazie occidentali secolarizzate, con relativo scontro di civiltà al loro interno prima che fra occidente e islam. E forse, nove mesi prima, avremmo dovuto tutti prestare più attenzione alle venature apocalittiche di cui era stata costellata, sotto sotto, la grande festa per il passaggio di secolo e di millennio. Affilate analisi del voto americano, del resto, riportano a tendenze precedenti l'11 settembre: non è stata tanto la paura del terrorismo a giocare a favore di Bush, quanto insicurezze più primarie incanalate nelle professioni di fede, nella santificazione della famiglia «regolare», nell'omofobia. «L'11 settembre è servito solo a cristallizzare la spaccatura preesistente fra un'America fatta di fede religiosa, unilateralismo politico e isolamento culturale e un'America laica, multilaterale, scientista e cosmopolita», scrive David Rieff su Internazionale. Una spaccatura già operante negli anni 90 del boom clintoniano, e sulla quale i neocons americani, com'è noto, lavoravano per costruire la loro risposta all'insicurezza sociale generata dalla globalizzazione e al terremoto politico innescato dal crollo del bipolarismo nell'89.
Non è un caso infatti, ed è un effetto positivo del 2 novembre, che dell'89 si ricominci a parlare nella sinistra italiana, riconsiderandone gli effetti culturali prima che politici, proprio a ridosso del voto americano. Perché è lì, nella reazione della sinistra al crollo del Muro giusto quindici anni fa, che vanno ricercate le cause di quella cattiva «laicizzazione» della sinistra che, con la cesta delle ideologie sconfitte, ha buttato via anche il bambino di un qualsivoglia orizzonte di senso. Interiorizzando una concezione della politica come pura tecnica amministrativa, moderatismo dei piccoli passi, mimetismo del linguaggio della parte contraria (che è cosa ben diversa dal «riconoscimento del nocciolo di verità contenuto nelle ragioni dell'avversario» di gramsciana memoria). E lasciando interamente scoperto il campo che oggi si definisce «dei valori», e per il quale forse bisognerebbe mobilitare altre parole: senso, emotività, immaginario, simbolico, e forse sogno, a volerla dire col linguaggio dei Dreamers di Bertolucci. Non è accaduto solo in America, dove trionfano le tre «g» di Bush. E' avvenuto anche in Italia, dove ha trionfato la colonizzazione berlusconiana dell'immaginario, e ora si fa strada la colonizzazione neo-cristiana (e alquanto blasfema, non foss'altro che per la sua palese strumentalità politica) del senso.
Qualcosa si muoverà, anche nella sinistra italiana, di fronte al disastro americano? Sì, se non si continuerà a pretendere ostinatamente, stile D'Alema, di riconquistare i voti perduti parlando moderando e razionalizzando i messaggi che vengano dall'altro campo. Ha ragione Massimo Cacciari quando dice che ci vuole un'altra invenzione, un'altra lingua e un'altra altezza del tiro di fronte a un terremoto materiale e culturale che ridisegna il profilo delle democrazie contemporanee e la loro toponomastica politica. Ha ragione anche Fausto Bertinotti, quando dice che non si può rispondere alla rivoluzione conservatrice col moderatismo e invoca per la sinistra una qualche visione del mondo. Ma per favore non la chiami ideologia. Le parole hanno una storia, e la storia della parola ideologia sa di falsa coscienza, nonché di scissione fra contenuti e pratiche, progetto e esperienza, concetti e vissuto, imperativi e comportamenti. Non è con la ripetizione di queste scissioni che contrasteremo il voto identitario, per non dire olistico, con cui i «fedeli» americani si rispecchiano oggi in Bush e in chissà chi domani quelli italiani o europei.
Da parecchio tempo avevo in animo di tornare su un tema che accompagna da molti anni i miei pensieri e i miei comportamenti politici e professionali. Il tema è quello del laicismo, del rapporto tra le credenze religiose e lo Stato, tra i diritti individuali e l´organizzazione d´una società di uomini liberi.
Questo gruppo di questioni sta all´origine della modernità occidentale e perfino dell´evoluzione delle Chiese cristiane. Se infatti il cristianesimo ha saputo e potuto aggiornare costantemente la propria dottrina e i canoni interpretativi della realtà sociale senza rinchiudersi nelle bende del dogma, ciò è dovuto soprattutto al fatto della presenza dialettica del potere civile accanto a quello ecclesiastico, nella reciproca autonomia dell´uno e dell´altro, alle lotte che ne sono derivate e agli equilibri che di volta in volta ne sono scaturiti.
Dal «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» alla guerra delle investiture sul finire dell´XI secolo, al lungo contrasto tra Impero e Papato che segnò il XIII e il XIV, fino alla nascita dell´Umanesimo, della libera scienza, della Riforma, delle monarchie nazionali, del diritto civile accanto e al di sopra del canone ecclesiastico, questa è stata la storia dell´Occidente europeo. Essa ha toccato infine il suo culmine nell´epoca dei Lumi, dell´egemonia della ragione e della tolleranza, nella dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino, nella guerra d´indipendenza americana e nella grande rivoluzione dell´Ottantanove incardinata nei princìpi tricolori di libertà eguaglianza fraternità.
Se tra le grandi religioni monoteistiche il cristianesimo è stato quello che più e meglio ha conservato e arricchito la sua dinamicità e se l´Occidente euro-americano ha prodotto il pensiero, la cultura e le istituzioni liberali e democratiche, l´elemento fondativo e il filo con il quale questo percorso è stato tessuto sta interamente in quella dialettica mai spenta tra lo Stato, le Chiese, gli individui. La compresenza degli Stati e delle Chiese ha consentito agli individui di essere attori sia all´interno delle Chiese sia all´interno degli Stati, impedendo alle prime di scivolare nella teocrazia e ai secondi di tracimare dall´assolutismo regio al totalitarismo, approdando infine alla democrazia repubblicana.
Certo la religione fu cemento comune in un´epoca che stava ancora traversando la profonda crisi dell´Impero Romano, delle sue istituzioni, del suo assetto economico e sociale. Ma quella religione sarebbe rimasta probabilmente semplice culto se non avesse potuto recuperare le tracce di Roma e di Bisanzio che avevano irradiato il "lago" mediterraneo e pontico con i rispettivi retroterra in tutti i quattro punti cardinali.
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La discussione storica è dunque aperta da tempo su queste questioni, ma essa ha registrato negli ultimi anni una trasformazione rapida e profonda. La sua natura storica ha ceduto il posto ad un´attualizzazione politica, ideologica e addirittura elettorale. Si è visto sorgere, nel corso delle elezioni presidenziali americane, una sorta di "partito di Dio" nell´ambito della destra conservatrice, i teo-con accanto ai neo-con con alla testa lo stesso George W. Bush sempre più infervorato e pervaso da un ruolo quasi messianico che ha saldato la sua azione politica con i sentimenti di una vasta parte del popolo.
L´analisi del voto effettuata dopo il 2 novembre è ormai univoca: Bush e i suoi strateghi elettorali hanno unito insieme la pulsione missionaria di chi assegna all´America il compito di portare nel mondo il modello americano della democrazia e del libero mercato con la pulsione altrettanto potente di chi vuole recuperare nella società la moralità tradizionale contro ogni deviazione. Ethics-con e teo-con uniti insieme presuppongono come punto di riferimento religioso, anzi ideologico, un barbuto e severo Dio degli eserciti, il Dio mosaico tonante dalle vette del Sinai, che ha molto più i tratti vetero-testamentari che non quelli del Figlio incarnato e ammantato di amore e misericordia. Non a caso le Chiese evangeliche mobilitate in occasione del voto del 2 novembre hanno indicato il loro modello di riferimento nel «maschio bianco che ha il fucile in casa e che va ogni domenica in chiesa». È l´immagine antica del pioniere alla conquista del West, con la pistola nella fondina e la Bibbia nella borsa, dei paesi delle grandi pianure e della lotta contro il popolo indiano, della giustizia amministrata direttamente sul posto con processi sommari e popolari, delle grandi mandrie transumanti dagli allevamenti alle città. E dei predicatori che richiamano gli uomini al timore di un Dio tonitruante dall´alto dei cieli, che vuole il suo popolo armato nelle coscienze e nelle fondine purché obbediente ai suoi precetti morali.
Bush è da dieci anni, prima ancora di diventare presidente degli Stati Uniti, uno dei punti di riferimento del movimento evangelico dei «rinati in Cristo», spina dorsale del fondamentalismo e del messianesimo cristiano negli Stati americani del Midwest e del Sud. Un movimento che conta 60 milioni di aderenti reclutati tra le varie Chiese protestanti e spesso in competizione con le congregazioni originarie. Si poteva pensare che questo movimento non lambisse le comunità cattoliche, ma non è stato così. Nel complesso messaggio di Papa Wojtyla, ripartito tra la condanna della guerra, la critica al consumismo e al liberismo capitalistico e la morale sessuale puritanamente tradizionale, il grosso dei cattolici americani e del loro clero ha privilegiato quest´ultimo aspetto, trasformando anche la loro Chiesa sullo stesso piano del movimento evangelico, sia pure con toni e linguaggi più moderati.
Questa comunque è l´America che ha vinto le elezioni del 2 novembre e Bush è l´uomo che la guida. È possibile che il suo secondo mandato si caratterizzi all´inizio con approcci più aperti verso un recupero di multilateralismo in politica estera perché l´America ha bisogno d´un momento di respiro sul teatro iracheno, soprattutto per quanto riguarda la compartecipazione europea ai costi finanziari della guerra. Ma la strategia complessiva non cambierà. La missione salvifica d´una America destinata ad esportare nel mondo i suoi modelli di riferimento economici, ideologici, istituzionali, servendosi tutte le volte che sia necessario del braccio militare e della superiorità tecnologica, imponendo la sua legge a tutte le altre potenze, non cambierà per la semplice ragione che Bush è un uomo di fede e la missione storica che si è dato è quella di fare della sua America l´impero del Bene contro l´impero del Male, incarnato dal terrorismo islamico, dagli Stati-canaglia ed anche dalla corruzione delle idee e dei costumi. «Dio non è neutrale», ripete spesso nei suoi discorsi e messaggi al popolo americano. «Dio è con noi». Un Dio crociato che risponde al nome di Cristo anche se ha poche attinenze con la predicazione di Gesù di Nazareth tramandata dagli evangelisti. C´è molto di Paolo in questa visione del cristianesimo combattente e molto anche del Giovanni apocalittico; molto meno di Agostino.
Ma il vero discrimine è con il liberalismo laico dell´Occidente moderno, che ridiventa in questo contesto l´antemurale della ragione contro una fede che punta a fare della religione un elemento costitutivo della politica.
In queste condizioni è evidente che il fossato tra le due sponde dell´Atlantico è diventato dopo il 2 novembre molto più profondo. È del pari evidente che i valori dell´Occidente non sono più gli stessi tra l´America e l´Europa anche se la diplomazia dei governi continuerà a mantenere in piedi la sempre più tenue ipotesi, ispirata alla realpolitik d´una recuperata convergenza all´insegna della lotta contro il terrorismo da tutti ovviamente condivisa.
Del resto, prima o poi, il problema d´un cristianesimo crociato si porrà ? si è già posto ? anche alla Chiesa cattolica e alla sua finora tenace avversione contro ogni guerra di religione e di civiltà.
Certo, esiste anche un´Europa che simpatizza con la follia teo-con e con i nuovi crociati, così come per fortuna esiste un´altra America che contrasta nettamente con quella di George Bush. Gli schieramenti su problemi così complessi sono sempre trasversali. Ma il dato nuovo è questo: dopo un breve periodo di caduta delle ideologie in favore d´un pragmatismo tutto politico, le ideologie tornano prepotentemente in campo. L´America imperiale ed evangelica ha chiaramente enunciato la propria. E l´Europa laica?
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I laici non hanno, per definizione, né papi né imperatori né re. Neppure vescovi, tantomeno vescovi-conti. Hanno, come signore di se stessi, la propria coscienza. Il senso della propria responsabilità. I princìpi della libertà eguaglianza e fraternità come punti cardinali di orientamento.
Sulla base di quei princìpi il loro percorso si è intrecciato anche con il cristianesimo e con il socialismo. Con quest´ultimo sulla base d´una eguaglianza che in nessun caso può essere disgiunta dalla libertà vissuta come inalienabile diritto degli individui al di là d´ogni discriminazione di razza, di religione, di sesso. Con il cristianesimo sulla base, anch´essa, della non-discriminazione e quindi del valore dell´individuo vivificato dalla pulsione verso la solidarietà e l´amore del prossimo.
Il sempre più spesso ricordato «perché non possiamo non dirci cristiani» di crociana fattura rappresenta un lascito storico e storicistico dal quale traluce un´inconfondibile impronta laica poiché la coscienza laica assume nel suo sé gli eventi che hanno potentemente contribuito a trasformare la realtà (e il cristianesimo è stato ed è tra i più rilevanti) privilegiandone gli aspetti dinamicamente propulsivi e inserendoli nel quadro di una modernità umanistica che concilia la fede con il rispetto dell´altro e con la libera scelta individuale.
Il laicismo ha il suo culmine nell´abolizione dell´idea stessa di "peccato". Non c´è peccato se non quello che rafforza le pulsioni contro l´altrui libertà. Non c´è peccato se non l´egoismo dell´io e del noi contro il tu e il voi. Non c´è peccato se non la sopraffazione contro l´altro e contro il diverso.
Il laico non è relativista né, tantomeno, indifferente. Soffre con il debole, soffre con il povero, soffre con l´escluso e qui sta il suo cristianesimo e il suo socialismo. Perciò il laico fa proprio il discorso della montagna. Fa propria la frusta con la quale Gesù scaccia i mercanti dal tempio della coscienza, si dà carico dell´Africa come metafora dei mali del mondo.
Il laico vuole l´affermazione del bene contro i mali, i tanti mali che abbrutiscono l´individuo sulla propria elementare sussistenza impedendogli di far emergere la propria coscienza, i propri diritti e i propri doveri al di sopra della ciotola sulla quale reclina la poca forza di cui ancora dispone per appagare i bisogni primari dell´animale nudo che è in lui.
E´ secondario che il laico abbia una fede e dia sulla base della propria fede una senso alla sua vita, oppure che non l´abbia, non creda nell´assoluto e non veda nella vita se non il senso della vita e non veda nella morte se non la restituzione della sua energia vitale ai liberi elementi dalla cui combinazione è nata la sua consapevole individualità.
Questa è a mio avviso la moralità e l´ontologia del laico ed anche la sua antropologia e la sua pedagogia. Il Cristo che perdona l´adultera e associa Maria di Magdala allo stuolo dei suoi discepoli è un laico, come il Cristo che riconosce al potere civile ciò che al potere civile spetta per organizzare la civile convivenza.
In realtà il Figlio ha profondamente modificato l´immagine del Padre che, annichilendo Giobbe, inneggia alla creazione del Leviatano come manifestazione della sua infinita e indiscutibile potenza. Con la quale annulla ogni teodicea e l´idea stessa della giustizia. Noi europei abbiamo conosciuto purtroppo il Leviatano all´opera e quindi siamo vaccinati contro ogni sua possibile incarnazione. La stessa immagine d´un qualsiasi impero contrasta con i valori dell´Occidente laico e dovrebbe contrastare ancor di più con i valori del cristianesimo e del singolo cristiano, fosse pure in nome del Bene con la maiuscola.
Per questo è vero che non possiamo non dirci cristiani ed è altrettanto vero che non possiamo non dirci laici in tempi nei quali cresce la bestiale violenza, l´inutile guerra, l´intolleranza, l´egoismo, il disconoscimento dell´altro e del diverso. I contrari di tutti questi sono i valori dei laici e con essi noi laici ci identifichiamo. È anche questa una fede, che ingloba le fedi al livello di ragione. Una fede che si affida alla volontà anziché alle illusioni e agli esorcismi contro la morte.
Personalmente mi consola pensare che la nostra energia vitale è indistruttibile e servirà anch´essa a mantenere la cosmica energia che alimenta in perpetuo la vita.
Deve la fede, intesa come verità, prevalere non solo nel contesto di ciascuna vita di credente ma anche nella vita dei non credenti, nelle decisioni politiche che riguardano tutti? Se la fede prevale, non si forma una sorta di imposizione in nome della verità religiosa che si trasforma in legge?
Queste domande nascono da un titolo di questo giornale (8 ottobre) che, dando notizia della conclusione della Settimana Sociale dei cattolici, riassumeva con la frase: "Appello del Papa ai cattolici: entrare in politica per imporre la fede". Il titolo era motivato da alcuni passaggi letti, a conclusione dell’evento cattolico, dal Card. Ruini. Il passaggio chiave era quello che attribuiva al laicismo la colpa di coltivare il relativismo (ovvero il riconoscimento di altre verità diverse dalla propria) definendolo "rischio e minaccia per la democrazia". La democrazia - secondo il testo letto da Ruini - sarebbe stata garantita solo se "fondata sulla verità". Perché "senza il radicamento nella verità l’uomo e la società rimangono esposti alla violenza delle passioni e a condizionamenti occulti". Una lettrice, la signora Anna Maria Stua, aveva scritto per dire, da credente, che "la fede non si può imporre perché appartiene alla inviolabile libertà della coscienza". L’ipotesi dell’autrice della lettera era che l’Unità, con quel titolo, aveva deformato i fatti e forzato il senso delle cose dette nella Settimana Sociale dei cattolici. La lettera della signora Stua e la mia risposta sulle pagine de l’Unità sono state seguite da numerose lettere e-mail che rendono utile tornare sull’argomento.
IL 23 ottobre avevo risposto alla lettera della signora Stua (pag. 1 e pag. 24 de l’Unità) notando due aspetti del problema: il primo è che vi è certo un’aspirazione a imporre la fede quando si chiede che essa si trasformi in legge per tutti. La seconda per notare che, per fortuna, un clima di intelligente e rispettosa convivenza esiste in Italia, accanto, e nonostante l’integralismo di molti. E usavo come testimonianza una frase di Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni, che in occasione di un dibattito con non credenti ha detto (questa era la mia citazione a memoria): "Ciascuno di noi possiede solo una piccola parte della verità. Perciò possiamo vivere accanto, ciascuno rispettoso dell’altro". Si trattava di un dialogo fra Mons. Paglia e Arrigo Levi, che per fortuna è riflessa in modo molto più completo in due libri che citerò secondo la data di pubblicazione: "Lettera a un amico che non crede" di Mons. Vincenzo Paglia, Rizzoli, 1998, e "Dialoghi sulla fede" di Arrigo Levi, Il Mulino, 2000.
Di Vincenzo Paglia ricorderò questa frase essenziale: "Ai laici e ai credenti è chiesto di inventare nuove "vie di mezzo", di interrogarsi sulle vie della salvezza, sui modi per combattere la superstizione e allontanare l’idolatria, sulle strategie per difendersi dai sincretismi ingannatori e ostacolare i fondamentalismi, su come praticare la vita interiore e difendere la pace e saper ascoltare il grido di tanti popoli" (pag. 27). Come si vede è una affermazione coraggiosa, una finestra aperta su un vasto paesaggio di comprensione reciproca fra ispirazioni diverse che corrisponde alla frase "ciascuno di noi possiede una piccola parte di verità..." che gli avevo attribuito nel mio articolo.
Il libro di Arrigo Levi che ho appena citato è notoriamente un diario in pubblico sul "dialogo delle fedi", ovvero sul come sentimenti e culture diverse convivono. Stiamo parlando di un’Italia profondamente civile che precede l’epoca sboccata dei finti credenti (si pensi alla invocazione delle radici cristiane da parte della Lega e di An)e di eventi come "il caso Buttiglione" destinato a segnare tristemente la storia della nuova Europa. Qui, nell’Italia del rispetto che stiamo citando, ogni parola ha un peso, e non è il "politicamente corretto" delle parole che conta, ma l’elaborazione attenta e misurata di passaggi difficili, da parte di persone che non si accontentano delle buone maniere e cercano, nella diversità, veri punti di contatto sia umani che culturali.
A pag. 55 del suo libro, Levi cita il Card. Martini che dice: "Le religioni sono l’esprimersi storico, dottrinale, sociale della fede e in questo esprimersi storico possono entrare valori e disvalori etnici, politici, nazionali che diventano motivo di conflitto". A questo punto Levi chiede al card. Martini: "Non vi è illogicità nel dialogo fra credenti, ciascuno dei quali ha una sua verità rivelata?". "No - replica il Cardinale - perché la verità rivelata non è una verità matematica. Verità è una parola che uso malvolentieri perché è una parola troppo grande, è una apertura su un mistero più grande, e io non riesco se non a intuire qualcosa, a balbettare qualcosa di questo mistero più grande di noi. Perciò è possibile dialogare con altri che, come me, non si accontentano delle cose che hanno davanti, se no non dialogherebbero. Citando Bobbio, l’importante è essere pensanti: non ci domandiamo se siamo credenti o non credenti, ma pensanti o non pensanti".
Queste parole del Card. Martini ad Arrigo Levi, che Levi riporta nel suo libro, corrispondono nitidamente alla citazione di Mons. Paglia da me riportata, sia pure a memoria. E ci indicano un modo di parlare di fede in un tempo e in un luogo (questa Italia) in cui la religione viene usata come strumento di intimidazione e di governo nel tentativo di isolare i miscredenti, vuoi islamici (la invocazione ripetuta alla guerra santa), vuoi "comunisti" (ovvero tutti coloro che si oppongono). Ci parla della preoccupazione morale e culturale di impedire uno scontro come conseguenza del non riconoscersi. È una testimonianza di civiltà. E per questo, in un momento difficile e torbido della vita italiana, è sembrato importante, rispondendo alla lettera della signora Stua e poi alle molte e-mail ricevute, parlarne ancora in queste pagine.
Insegnare a scuola mette in contatto con le verità del giorno: è come raccogliere uova appena fatte, ancora calde, magari con il guscio un po´ sporco. Gli storici interrogano i secoli, ma in una classe di una qualsiasi periferia italiana si ascolta il battere dei secondi. Ebbene, oggi una ragazza di quindici anni, un´allieva che non aveva mai rivelato una particolare brillantezza, ha fatto una riflessione che mi ha lasciato a bocca aperta. Eravamo negli ultimi dieci minuti di lezione, quelli che spesso si spendono in chiacchiere con gli alunni.
La ragazza raccontava di volersi comprare un paio di mutande di Dolce e Gabbana, con quei nomi stampati sull´elastico che deve occhieggiare bene in vista fuori dai pantaloni a vita bassa. Io le obiettavo che lungo la Tuscolana, alle sei di pomeriggio, passeggiano decine e decine di ragazze vestite così. Non è un po´ triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri? E da bravo professore un po´ pedante le citavo una frase di Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata. «Insomma, facevo la mia solita parte di insegnante che depreca la cultura di massa e invita ogni studente a cercare la propria strada, perché tutti abbiamo una strada da compiere. A questo punto lei mi ha esposto il suo ragionamento, chiaro e scioccante: «Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l´ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche che discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo moro o quell´altro biondo. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa informe. «Tanta disperata lucidità mi ha messo i brividi addosso. Ho protestato, ho ribattuto che non è assolutamente così, che ogni persona, anche se non diventa famosa, può realizzarsi, fare bene il suo lavoro e ottenere soddisfazioni, amare, avere figli, migliorare il mondo in cui vive. Ho protestato, mettendo in gioco tutta la mia vivacità dialettica, le parole più convincenti, gli esempi più calzanti, ma capivo che non riuscivo a convincerla. Peggio: capivo che non riuscivo a convincere nemmeno me stesso. Capivo che quella ragazzina aveva espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma che fotografava in pieno ciò che sta accadendo nella mente dei giovani, nel nostro mondo. A quindici anni ci si può già sentire falliti, parte di un continente sommerso che mai vedrà la luce, puri consumatori di merci perché non c´è alcuna possibilità di essere protagonisti almeno della propria vita. Un tempo l´ammirazione per le persone famose, per chi era stato capace di esprimere - nella musica o nella letteratura, nello sport o nella politica - un valore più alto, più generale, spingeva i giovani all´emulazione, li invitava a uscire dall´inerzia e dalla prudenza mediocre dei padri. Grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli. Oggi domina un´altra logica: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori per sempre. Chi fortunatamente ce l´ha fatta avrà una vita vera, tutti gli altri sono condannati a essere spettatori e a razzolare nel nulla. Si invidiano i vip solo perché si sono sollevati dal fango, poco importa quello che hanno realizzato, le opere che lasceranno. In periferia ho conosciuto ragazzi che tenevano nel portafoglio la pagina del giornale con le foto di alcuni loro amici, responsabili di una rapina a mano armata a una banca. Quei tipi comunque erano diventati celebri, e magari la televisione li avrebbe pure intervistati in carcere, un giorno. Questa è la sottocultura che è stata diffusa nelle infinite zone depresse del nostro paese, un crimine contro l´umanità più debole ideato e attuato negli ultimi vent´anni. Pochi individui hanno una storia, un destino, un volto, e sono gli ospiti televisivi: tutti gli altri già a quindici anni avranno solo mutande firmate da mostrare su e giù per la Tuscolana e un cuore pieno di desolazione e di impotenza.
Attenzione. In questi giorni nella Casa della libertà e in Forza italia è avvenuto un fatto nuovo, c'è stata una svolta. Non pensiamo ai sondaggi che indicano una ripresa del partito di Berlusconi. I sondaggi, quando sono fatti bene, fotografano al massimo uno stato d'animo, una richiesta. Non pensiamo neppure all'ordine che pure il capo di Forza Italia è riuscito a fare nel suo schieramento e fra i suoi alleati. Quel che è avvenuto in queste settimane, da quando, per intenderci, è stata decisa la riduzione fiscale, è molto più importante e profondo. Per la prima volta, dopo la sconfitta delle elezioni europee e dopo la evidente crisi del berlusconismo, il Cavaliere ha dimostrato di potere uscire dalla stretta. Per la prima volta, dopo il messaggio del 1994, ha inviato un altro messaggio "rivoluzionario", capace, cioè di ricompattare il suo elettorato e di ricostruire un progetto, un immaginario, una idea forte di società.
A Mestre Berlusconi ha chiarito quel che già altre volte aveva detto, ma questa volta con la forza di chi le cose le può fare. La riduzione delle tasse è un fatto strategico. L'obiettivo è che nessuno, neanche i più abbienti, paghino allo Stato più di un terzo del loro reddito. Questo - ha affermato - è un diritto naturale. Non lo ha detto solo per lisciare il pelo a chi ha di più. Lo ha detto per chiarire una idea di società e di Stato molto simile - per intenderci - a quella del "paese dei proprietari" espressa da George W. Bush, cioè di uno Stato con confini ben circoscritti e limitati, che si ritira da molti dei suoi compiti, che si affida ai singoli, alla loro libertà. La stessa idea che Giulio Tremonti, ex ministro dell'Economia e ora vicepresidente di Forza Italia, aveva erspresso in una nota intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera. «Il tema fiscale - aveva detto - non è tema economico, è il tema politico per eccellenza… è il confine fra proprietà e libertà, tra privato e pubblico».
Berlusconi non ha annunciato un programma di macelleria sociale (questa seguirà, se mai, nei tempi dovuti) ma una visione della società sulla quale spera di avere il consenso dell'elettorato, non vuole parlare di tagli anche se di tagli ne farà e ne farà fare molti, ma di battaglia di lungo periodo di cui ha individuato le tappe e i fini per cambiare valori e assi portanti del vivere sociale.
Non è detto che il progetto riesca. Ma non è un progetto di basso livello, non è un progetto tattico, non è solo a fini elettorali.
Esso ha ovviamente molte incognite. La prima: gli alleati, l'Udc e An, che sono gran parte di quel "partito della spesa" tanto, ostacolato da Tremonti, seguiranno Forza Italia in questa idea di ritirata dello Stato? Non è detto, e nuove contraddizioni possono aprirsi.
La seconda, forse più importante, è la seguente: quando si passerà dalle parole ai fatti e lo Stato inizierà effettivamente la sua cura dimagrante e alcuni servizi non verranno più assicurati quale sarà la reazione dei cittadini? Gli italiani, per fare un esempio, hanno espresso in tutte le ricerche, i sondaggi, (vedi ultimo rapporto Censis) un alto gradimento per il servizio sanitario pubblico. Che cosa avverrà quando lo Stato, ritirandosi, spingerà fette crescenti di cittadini verso forme di assistenza privata, lasciando al pubblico, secondo il modello americano del "Medicare", l'assistenza ai meno abbienti?
La terza incognita riguarda la capacità delle opposizioni. E qui si apre un capitolo molto complicato perché la strategia di Berlusconi riapre i giochi. Finora gran parte delle opposizioni ha puntato il dito e le sue speranze di rimonta sulla crisi economica, sul disagio crescente del ceto medio, sull'impoverimento drastico della parte meno abbiente del paese, sulla riduzione del potere di acquisto, sulla crisi di competitività. Ha puntato - si può dire - a un meccanismo automatico che portasse dalla crisi economica e dai suoi riflessi sociali alla necessità del cambiamento politico. Ha ragione Giuseppe Caldarola quando sul Riformista spiega che questa connessione automatica non è detto che funzioni. Ricordiamo le elezioni americane? Bush ha vinto con i voti popolari. Per lui hanno votato anche gli operai dell'Ohio colpiti in massa dalla disoccupazione. Forse - aggiungiamo - quel meccanismo automatico su cui pare voler puntare gran parte della Gad aveva qualche possibilità in più di funzionare in assenza di una strategia, di una proposta di società e di stato, della riproposizione di un immaginario di libertà, di proprietà, di efficienza; ma adesso Berlusconi pare poter riproporre tutto questo. E allora? Lo sappiamo bene. Il sogno una volta si è infranto e si può infrangere una seconda volta. Ma non è detto. Alle elezioni politiche mancano diciotto mesi, a quelle regionali meno di quattro. Quale è il progetto di società che le opposizioni propongono alle italiane e agli italiani, quale rapporto fra pubblico e privato, quale welfare? Ma anche quale idea di libertà, di libertà personale e collettiva? Quale idea dello Stato e dei servizi?
Veniamo da un periodo non troppo lontano in cui gran parte del centrosinistra è caduta in un innamoramento irresponsabile per le privatizzazioni e per la flessibilità. Oggi non sono pochi quelli che si sono ricreduti. Veniamo da un periodo non troppo lontano in cui un governo di centrosinistra ha appoggiato e fatto una guerra (Kosovo). Oggi le voci critiche e di condanna per la guerra irakena sono molte. Veniamo da un periodo in cui la politica di sinistra pareva aver delegato alla magistratura i grandi temi della libertà dei singoli. Oggi c'è più prudenza.
Ma autocritica, prudenza, dubbio, non bastano. Ci vuole il coraggio di fare una proposta sociale alternativa. E di esempi se ne potrebbero avanzare molti. Uno per tutti. Non basta dire che c'è la crisi economica ed abbracciare la Confindustria che, a sua volta, lo dice con forza. Bisogna dire che i salari sono del tutto inadeguati e proporre "contro" la Confindustria un aumento generalizzato di salari, stipendi e pensioni. E dare su questo terreno segnali veri di affidabilità. Allora le cittadine e i cittadini potranno scegliere fra una riduzione delle tasse minima e solo per i ricchi che porta alla riduzione dei servizi e un aumento reale del proprio reddito.
Abbiamo l'impressione che su questa strada la Gad sia in ritardo. Ma è una strada ineludibile per vincere. Non solo le elezioni.