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L'introduzione del concetto di invariante strutturale nella pianificazione territoriale ed urbana ha incontrato numerosi problemi applicativi. Lo scopo del libro è indagarne le ragioni e formulare una nuova definizione capace di superarli. Al centro dell’analisi si trova il rapporto fra concetti cruciali nell’interpretazione del territorio: sostenibilità dello sviluppo, risorsa, spazio, luogo, identità di luogo, statuto, strutture territoriali spazio-temporali, e le invarianti strutturali intese come strumento per produrre e riprodurre identità e qualità sociali e ambientali del territorio. Il fulcro sono l’organizzazione e i funzionamenti del territorio, i processi spazio- temporali e gli attori che se ne sono artefici. E dai valori immateriali, ma oggettivi, è necessario prendere le mosse: i valori immobiliari e i valori attribuiti dai differenti gruppi di popolazione, in termini di memoria, attribuzione di senso e identità.

Il significato profondo del lavoro risiede nella volontà di conservare e riprodurre dei valori, che non sono solo rapporti e relazioni spaziali, né sono solo rapporti o relazioni sociali, ma sono invece relazioni spaziali-temporali che mettono in rapporto natura storia e società.

L'invariante strutturale è in primo luogo il rapporto fra gruppi sociali e territori, nella sua articolazione storica. La tesi è che non ci si possa limitare agli oggetti situati nello spazio e alle relazioni spaziali ma si debbano indagare anche le relazioni ed i processi sociali che formano quelle strutture spaziali.

Non si tratta di privilegiare le relazioni sociali rispetto alla materialità del territorio ma di considerarle entrambe e quindi allargare l’orizzonte dell’analisi su due fronti: considerare accanto allo spazio assoluto quello relativo e relazionale, e assumere nell’analisi la contemporanea presenza di relazioni sociali e strutture spaziali.

Per capire le strutture spaziali è necessario conoscere il processo di urbanizzazione e quindi le relazioni sociali spaziali e temporali che lo producono. Contemporaneamente indicare come invariante strutturale un elemento sociale o culturale o economico avulso dalle sue caratteristiche spaziali cioè senza capirne e mostrane gli effetti spaziali è altrettanto problematico. L’aggancio spaziale è necessario, si tratta di due elementi, spazio e relazioni sociali, che è necessario trattare insieme, se si vuole governare il territorio.

Se dobbiamo governare il territorio dobbiamo agire sui meccanismi e sui processi che lo producono: quelli locali e quelli sovra locali, quelli materiali e quelli immateriali. Infatti la produzione del territorio non deriva solo dagli aspetti materiali, ma anche da quelli immateriali. E al centro spicca il valore delle aree, immateriale ma oggettivo, che è determinante per la sua influenza sul processo di urbanizzazione.

Gli elementi immateriali come la memoria o i valori d’uso e di scambio, non possono certo essere localizzati sul territorio al pari di una funzione, eppure giocano un ruolo fondamentale nella trasformazione territoriale e nel processo di urbanizzazione.

Le invarianti strutturali sono le strutture, contemporaneamente sociali e spaziotemporali, costitutive e relazionali che danno forma ad un territorio e ne segnano identità, qualità e riconoscibilità. Ogni invariante strutturale è caratterizzata da una propria struttura, organizzazione e funzionamento ed è prodotta dalle interazioni fra natura / storia / società. È definita dalle relazioni interne e dalle relazioni con l’esterno.

Si possono individuare tre componenti dell’invariante strutturale. La prima è la componente materiale. Comprende le conformazioni e le configurazioni territoriali; le caratteristiche fisiche ed ecologiche, i caratteri lito-idro-geo-morfologici, ecosistemici, le strutture insediative e infrastrutturali, i sistemi agroforestali, la presenza di beni comuni; le caratteristiche qualitative e gli elementi fondanti. Sono alcuni degli aspetti studiati dalla geografia, geologia, fisiografia. Concettualmente è lo spazio assoluto (Harvey 2006), in cui si situano gli oggetti materiali, gli eventi e le pratiche. È quello dove si trovano muri, ponti, porte, scale, strade, edifici, città, montagne, bacini idrografici, confini fisici e barriere ma anche le attività lavorative e di trasformazione.

La seconda componente riguarda i processi sociali, economici e naturali nel loro specifico intreccio: essi conformano i funzionamenti e l’organizzazione dell’invariante strutturale, le relazioni interne e con l’esterno; esprimono e pongono le condizioni (regole) generative e di riproduzione; sono retti dagli attori sociali attivi nella loro produzione. In base a queste modalità di funzionamento (spazio-temporale e sociale) dovranno essere definite le regole di manutenzione, d’uso e di trasformazione che ne consentono la riproduzione. Concettualmente è lo spazio relativo, quello della frizione della distanza, della circolazione e del flusso dell’energia, dell’acqua, dell’aria, delle merci, delle persone, dell’informazione, dei soldi, del capitale.

Una terza riguarda le componenti immateriali: è lo spazio relazionale, quello della memoria, della cultura e dei valori attribuiti dalla popolazione colta nelle sue differenti espressioni.Concettualmente è lo spazio relazionale, quello delle relazioni sociali, in cui le persone sono presenti nella loro pienezza, è lo spazio vissuto, ma è anche lo spazio del valore, immateriale ma oggettivo, e quindi dei differenziali di valore immobiliare che generano processi di valorizzazione e tanto peso hanno sulle trasformazioni territoriali.

Queste tre componenti rimandano ai tre concetti di spazio: assoluto, relativo e relazionale (Harvey 2006). Si tratta di strutture della spazialità che sono sempre presenti anche se pratiche sociali differenti assegnano un peso differenziato ad ognuna di esse. La semplificazione più deleteria nell’interpretare il territorio e nell’identificare le invarianti strutturali è dare preminenza ad una sola delle componenti invece che alla loro strutturante compresenza.

Ne consegue che le regole di insediamento e di trasformazione del territorio per le invarianti strutturali dovranno contemporaneamente: garantire la riproduzione degli aspetti materiali a cui si è riconosciuto carattere strutturale; preservare l’organizzazione e il funzionamento; infine dovranno gestire e governare i valori in gioco, sia quelli sociali che quelli economici. In altri termini le regole di utilizzazione e di trasformazione dovranno governare la trasformazione territoriale che riguarda questi valori.

E proprio dai valori immateriali è necessario prendere le mosse: i valori immobiliari e i valori attribuiti dalla popolazione compresa la questione della memoria, dell’attribuzione di senso e dell’identità. È essenziale la conoscenza del mercato immobiliare e di come i suoi valori si sono costituiti nel rapporto fra mercato e governo pubblico del territorio.

Un secondo passo è conoscere come questi valori e queste memorie si esprimono nel processo di urbanizzazione e trasformazione territoriale in corso, in modo tale da sapere su quali processi bisogna agire per permettere ai valori individuati come invarianti di riprodursi e quali regole di funzionamento socio-spaziali devono essere attivate.

Infine bisogna guardare alle strutture spazio-temporali che si sedimentano sul territorioindicando quali di loro devono essere preservate perché racchiudono il senso e il valore di quel territorio e perché possono essere considerate perni su cui ruota il funzionamento di quel territorio.

Le regole di trasformazione e di funzionamento debbono vertere su tutti e tre gli aspetti dell’invariante strutturale. Il maggior limite nella definizione delle invarianti strutturali nei piani ai vari livelli è stato di relegarle nel materiale, dimenticando l’immateriale, come se tutto fosse forma ed immagine e non anche contenuto.

Harvey D. (2006), Spaces of global capitalism, Verso, London - New York.

Il libro Invarianti strutturali nel governo del territorio è scaricabile gratuitamente dal sito dell'editore Firenze University Press:

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Il progetto costituzionale dell’uguaglianza, un libro a cura di Chiara Giorgi, per Ediesse. Come la crisi ha eroso la democrazia e i diritti sociali». Il manifesto, 9 aprile 2015

Nell’età del capi­ta­li­smo trion­fante, segnata dalla reto­rica del merito e dalle virtù della com­pe­ti­zione, le ragioni dell’eguaglianza sem­brano non avere più ragione di esi­stere. Eppure tutti noi sap­piamo che una demo­cra­zia non può vivere senza egua­glianza e che lo stesso costi­tu­zio­na­li­smo rischie­rebbe fatal­mente di depe­rire sem­mai dovesse rinun­ciare ad affer­mare le ragioni dell’éga­li­berté, come defi­nita da Etiénne Bali­bar in un suo recente volume. Di qui, il biso­gno di rilan­ciare nell’immediato «il pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza».

È que­sto l’appassionato appello con­te­nuto nel volume col­let­ta­neo, curato da Chiara Giorgi, docente di Sto­ria delle Isti­tu­zioni poli­ti­che all’Università di Genova (Il pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza, pre­fa­zione di Ste­fano Rodotà, Ediesse, euro 13). Un appello dive­nuto tanto più urgente quanto più la crisi eco­no­mica tende dram­ma­ti­ca­mente ad abbat­tersi su vaste aree della società can­cel­lando, giorno dopo giorno, diritti, garan­zie sociali, lavoro.

Siamo in pre­senza di una dram­ma­tica e irri­solta esten­sione delle aree del disa­gio sociale che ha, in que­sti anni, deter­mi­nato un’inedita e dila­niante «esplo­sione delle dise­gua­glianze» (così come defi­nita da Laura Pen­nac­chi). Eppure la povertà — avverte Enrico Pugliese – con­ti­nua ad essere la grande «que­stione rimossa». Né vi è da sor­pren­dersi: ci tro­viamo a vivere una fase sto­rica che ha fatto della com­pe­ti­zione il motore dell’organizzazione sociale e del mer­cato il modello etico sul quale costruire le rela­zioni umane.

Una vera e pro­pria offen­siva poli­tica e cul­tu­rale che ha le sue ori­gini agli inizi degli anni Ottanta quando, in nome del dogma libe­ri­sta, si diede vita (con gli ese­cu­tivi That­cher e Rea­gan) a una nuova fase del governo dell’Occidente. È da que­sta svolta neo­con­ser­va­trice, teo­riz­zata sin dagli anni Set­tanta dalla Tri­la­te­ral, che trarrà forza quel lento (ma per­va­sivo) pro­cesso di dis­so­lu­zione del costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico che rischia di oggi di con­su­marsi sotto nostri occhi. Ber­sa­glio pri­vi­le­giato di que­sta offen­siva sarà, non a caso, l’idea costi­tu­zio­nale di egua­glianza e la con­vin­zione, ad essa sot­tesa, che «senza egua­glianza la libertà si chiama privilegio».

Di qui l’esigenza — espressa con toni mar­xiani da Gae­tano Azza­riti — di ripren­dere «la lotta rivo­lu­zio­na­ria per l’uguaglianza di ognuno come con­di­zione neces­sa­ria per il libero svi­luppo di tutti», coin­vol­gendo in que­sto movi­mento sto­rico non solo i cit­ta­dini, ma anche i migranti. Per il costi­tu­zio­na­li­sta Azza­riti, l’eguaglianza — per inve­rarsi nuo­va­mente nella sto­ria — ha per­tanto biso­gno di tor­nare ad essere il ter­reno prio­ri­ta­rio di azione di tutti gli esclusi, gli stra­nieri, i discri­mi­nati per sesso, razza, lin­gua, reli­gione, opi­nioni poli­ti­che, con­di­zioni per­so­nali e sociali. Sono que­sti, d’altronde, i sog­getti a cui si rivolge l’art. 3 della Costi­tu­zione repub­bli­cana: il «capo­la­voro isti­tu­zio­nale» di Lelio Basso.

Ed è pro­prio all’impegno costi­tuente di Basso e al suo «capo­la­voro» che Chiara Giorgi dedica il suo sag­gio, disve­lan­done accu­ra­ta­mente, pagina dopo pagina, genesi e svi­luppi di que­sta norma-principio. Norma dalla quale trar­ranno con­si­stenza, a par­tire dalla fine degli anni ses­santa, non solo i diritti sociali, ma più in gene­rale, i pro­cessi di costru­zione dello Stato democratico-sociale (sulla «por­tata rivo­lu­zio­na­ria del prin­ci­pio dello Stato sociale», con par­ti­co­lare rife­ri­mento alla Legge fon­da­men­tale tede­sca, il volume con­tiene un inte­res­sante con­tri­buto di Erhard Denninger).

Ma il ten­ta­tivo di coniu­gare libertà ed egua­glianza, diritti e demo­cra­zia è espres­sione di un’asfittica (in quanto di matrice esclu­si­va­mente occi­den­tale) e ora­mai deca­dente pre­tesa del costi­tu­zio­na­li­smo o può tor­nare, anche nel mondo glo­ba­liz­zato, ad assu­mere pre­gnanza poli­tica e legit­ti­mità cul­tu­rale? Quale è la forza pro­pul­siva di cui dispone oggi il «pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza» in Europa e nel resto del mondo?

A que­ste tema­ti­che il libro dedica la sua parte cen­trale, ospi­tando un «con­fronto tra le espe­rienze costi­tu­zio­nali dell’Unione euro­pea e dell’America Latina»: dalla vicenda costi­tu­zio­nale bra­si­liana, rico­struita da Mar­celo Cat­toni a par­tire dall’art. 3 della Carta che affida alla Repub­blica fede­rale il com­pito di «sra­di­care la povertà e l’emarginazione e ridurre le dise­gua­glianze sociali e regio­nali», al caso argen­tino alle prese con la «muta­zione anti­e­gua­li­ta­ria» e la «seces­sione degli ultra­ric­chi» (rico­struito da Isi­doro Cheresky).

Il volume con­tiene, altresì, due pre­ge­voli saggi di Pie­tro Costa e di Luigi Fer­ra­joli. Costa, dopo aver rico­struito i tra­guardi sto­rici del prin­ci­pio di egua­glianza, si con­fronta con le dram­ma­ti­che con­se­guenze pro­dotte dalla crisi eco­no­mica sui diritti sociali, sulla cre­scita delle dise­gua­glianze e, più in gene­rale, sulla tenuta degli assetti costi­tu­zio­nali. Sulla stessa scia, si col­loca anche il con­tri­buto di Luigi Fer­ra­joli che vede nel prin­ci­pio di egua­glianza sociale il con­no­tato fon­da­men­tale del costi­tu­zio­na­li­smo, l’asse di con­tatto che ha sem­pre legato e «lega le tre clas­si­che parole della Rivo­lu­zione fran­cese: liberté, éga­lité, fra­ter­nité, rive­lan­dosi così, allo stesso tempo, pre­sup­po­sto dei diritti di libertà e fon­da­mento del prin­ci­pio di fra­tel­lanza (inteso soprat­tutto come soli­da­rietà sociale).

Il signi­fi­cato rivo­lu­zio­na­rio del motto dell’89 fran­cese è però pro­gres­si­va­mente depe­rito nel corso degli anni. Anche per­ché que­ste parole sono state, nel tempo recente, sur­ret­ti­zia­mente uti­liz­zate l’una con­tro l’altra dalle poli­ti­che libe­ri­ste e dalla tra­vol­gente avan­zata della cul­tura delle destre. Gli esiti sono sotto i nostri occhi: com­pres­sione degli spazi demo­cra­tici di libertà, esplo­sione delle disu­gua­glianze e delle aree di povertà, rigur­giti anti­so­li­da­ri­stici con forti con­no­tati raz­zi­sti e neo­fa­sci­sti.

A fronte di tale con­te­sto, spetta per­tanto alla sini­stra ten­tare di sta­bi­lire un nuovo ter­reno di con­nes­sione tra que­sti prin­cipi, rifon­dan­done coe­ren­te­mente le istanze, sal­va­guar­dan­done i valori, modu­lan­done gli obiet­tivi. Dal per­se­gui­mento del «pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza» dipende anche il suo futuro.

Da giovedì 9 a domenica 12 aprile, torna a Pistoia la rassegna Leggere la Città, organizzata dal Comune di Pistoia. Quest’anno ha per tema lo spazio pubblico. Interverranno, tra gli altri, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Ilaria Boniburini, Paolo Maddalena, Antonietta Mazzette (segue qui)

Da giovedì 9 a domenica 12 aprile, torna aPistoia la rassegna Leggere la Citta’, promossa e organizzata dal Comune diPistoia. Quest’anno ha per tema Lo spazio pubblico.


La rassegna, unica nel suogenere, rende omaggio anche nel titolo al grande architetto pistoiese GiovanniMichelucci, richiamando il suo libro “Pistoia: leggere una città”. Leggere lacittà come un libro di pietra, leggere la città variabile, la città tenda, lacittà del dialogo sono tra le pagine più belle del pensiero di Michelucci che,attento al disagio urbano, al tessuto degradato e a quello marginale, mise alcentro delle sue architetture le persone e il loro vivere.

Quattro giorni di incontri, lezioni, mostre,concerti, spettacoli e laboratori faranno di Pistoia la casa del pensierourbano per riflettere sullo spazio pubblico, questo spazio collettivo, luogo dipassaggio e di incontro, da leggere e interrogare insieme a scrittori, artisti,critici e storici dell’arte, critici teatrali, antropologi, poeti, giuristi,pedagogisti, filosofi, teologi, ingegneri, architetti, paesaggisti, urbanisti,sociologi e giornalisti.

Il rapporto inscindibile tra lo spazio pubblico e lacomunità è il principale filo conduttore della rassegna: una comunità creaspazi pubblici nei quali può vivere, rappresentarsi e perpetuarsi; gli spazipubblici, a loro volta, definiscono e connotano l'identità di unacomunità.

Nei quattro giorni della rassegna numerosi gli interventidi persone note ai frequentatori di eddyburg.
L’intervento di apertura sarà diEdoardo Salzano, e avrà come titolo “Spazi pubblici, cerniera tra città esocietà”, Vezio De Lucia dialogherà con Ugo Perone, su “Ripensare lo spaziopubblico”, Ilaria Boniburini parlerà sul tema “La lotta per lo spazio pubblicocome pratica di cambiamento”, Paolo Maddalena dedicherà il suo intervento al “Rapportotra territorio e sovranità”, e Antonietta Mazzette al tema “La città trapubblico e privato.

Ilricchissimo programma è scaricabile qui: Leggere la città 2015. Pistoia è unabellissima città, il sindaco Samuele Bertinelli, la sua giunta e il personaledegli uffici credono nell’utilità dell’urbanistica e nell’importanza dellospazio comune. Che volete di più?

E' uscita l'edizione cartacea di
Rottama Italia,
Edizioni Altreconomia, 44 pagine €12,00


Rottama Italia
Perché lo Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro.

Testi di: Tomaso Montanari, Paolo Maddalena, Giovanni Losavio, Massimo Bray, Edoardo Salzano, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Salvatore Settis, Anna Donati, Maria Pia Guermandi, Pietro Dommarco, Domenico Finiguerra, Anna Maria Bianchi, Antonello Caporale, Carlo Petrini, Wu Ming, Luca Martinelli, Pietro Raitano

e disegni di: Sergio Staino, Ellekappa, Altan, Giannelli, Danilo Maramotti, Mauro Biani, Giovanni Beduschi, Vincino, Massimo Bucchi, Giuliano, Vauro Senesi, Tiziano Riverso, Giorgio Franzaroli

«La ferocia delle conquiste i primi governi “tecnici” la sensazione di fine del mondo». Un saggio di Glauco Maria Cantarella ci ricorda che anche i nostri avi, creatori di quella che oggi è la nostra civiltà, avevano comportamenti non meno efferati di quelli che oggi imperversano sull'altra sponda del Mediterraneo.

La Repubblica, 10 marzo 2015

«SONO arrivati. Sono sanguinari, sono selvaggi… Uccidere e massacrare è il loro divertimento». Tagliano teste, arrostiscono, cavano occhi, amputano mani, piedi, nasi. Sono d’oltremare. Ma non vengono dall’altra sponda del Mediterraneo. Vengono dal Nord. Non sono islamici. Anzi, sono il terrore dei musulmani. La ferocia è il loro biglietto da visita, ne fanno un deliberato uso mediatico.

Un loro capo militare, Ruggero (non l’assai più tardo Ruggero di Sicilia ma

Ruggero di Toeni), attorno agli anni Venti del Primo secolo riconquista ai Cristiani la Spagna terrorizzando i Saraceni: ogni giorno fa squartare e cuocere nei calderoni un prigioniero musulmano, ne dà da mangiare la metà agli altri prigionieri e si riserva il resto per sé e i suoi.
Poi fa di tutto perché si risappia: ne fa scappare alcuni apposta perché vadano a raccontarlo. Testimonianza di Ademaro di Chavannes, cronista aquitano quasi loro contemporaneo. Ci tengono alla loro fama di “crudelissima gente”.

Sono i normanni. Inutilmente Carlo Magno aveva proibito i commerci di armi con loro. Si erano specializzati nel ruolo di strumenti e cani dei potenti in lotta tra di loro. Si erano resi indispensabili. Un ramo si sarebbe impadronito della parte della Francia che si affaccia sulla Manica, poi di tutta l’Inghilterra, restando vassalli del Re di Francia. Un altro ramo era approdato da tempo in Sicilia. Poi, passando per la Puglia, erano arrivati in Campania, chiamati dai signori longobardi di Salerno e Capua, infine si erano insediati in un loro castello a Canossa. Controllavano le vie di comunicazione, non un territorio preciso e delimitato. Un po’ come l’Is a cavallo di Iraq, Siria e Libia. Si facevano chiamare marchesi ma non avevano nemmeno una marca. Eppure nel giro di pochi decenni avrebbero finito col dare origine dal nulla all’invenzione statuale di più lungo periodo della storia italiana sin dalla Repubblica romana, il regno dell’Italia meridionale.

È uno dei quadri, anzi delle “cerniere”, su cui fa perno l’ultimo lavoro di Glauco Maria Cantarella, il Manuale della fine del mondo, sottotitolo Il travaglio dell’Europa medievale , pubblicato da Einaudi. La “fine del mondo” temuta al volgere del primo millennio, a dire il vero non c’entra. Se ne discettava da molti secoli e ne riparlavano ogni volta che le cose sembravano andar peggio. Ma allora non esisteva nemmeno il concetto di secolo, che sarebbe stato inventato molto più tardi. Anche il “Medioevo” sarebbe stato inventato più tardi, solo nel ‘500. Oggi gli storici concordano nel considerarla «un’età né più buia né più luminosa di altre ». Semmai, leggendo questo libro, che segue gli innumerevoli altri che questo studioso gli ha dedicato, si potrebbe parlare di “Medioevo continuo”. Che ci evoca qualcosa del nostro presente. O forse addirittura del nostro futuro.

Non bisogna fraintendere. Cantarella, colonna degli studi di storia dell’Europa medievale e delle Istituzioni politiche medievali all’Università di Bologna, è uno storico serissimo, non gli si possono imputare “attualizzazioni” ad effetto, trasposizioni tirate, analogie superficiali. Semmai pignoleria quasi maniacale sulle “fonti” e sugli aggiornamenti continui nel campo di cui si occupa da moltissimi anni. In quell’epoca lui è di casa. Frequenta i protagonisti e ne conosce a menadito le complicate vicende, il modo di far politica, di ragionare, di giustificare, di far propaganda. Sbircia persino nelle loro camere da letto. Il suo “manuale” è una summa da grande specialista. Che però evoca anche nel lettore non specialista o per mestiere schiavo dell’attualità una gragnuola di suggestioni.

Il secolo di cui parla questo libro non è quello della fine del mondo, ma degli stratagemmi per non farlo finire. Dai Papi che si facevano notare solo per la “cieca cupidigia” (fagiano, oppure gallo veniva soprannominato Giovanni XVIII, boccadiporco Sergio IV) si passa a quelli che invece fanno politica per venire ad un nuovo modus vivendi con l’Imperatore e i nuovi regni in formazione e a nuovi ingegnosi compromessi sulle investiture, cioè le nomine dei vescovi, insomma a chi dovesse far capo chi incassava i tributi ed esercitava poteri di polizia, oggi diremmo le nomine tout court . Fu una riforma istituzionale infinitamente più complessa di quelle su cui si discute e si litiga oggi, che impegnò i migliori specialisti e per la quale, tra alti e bassi, rotture e ricomposizioni, colpi di scena e ripensamenti ci volle più di un secolo.

Era anche l’epoca in cui si affacciavano in scena veri e propri “professionisti del governo”. «Oggi forse li chiameremmo tecnici», nota Cantarella. Solo molto, ma molto più tardi sarebbero arrivati quelli che chiamiamo “politici”. Molti di questi “tecnici” erano di grande levatura. I Normanni, che pure avevano esordito come feroci mercenari e briganti, in Sicilia avevano messo in piedi una cancelleria coi fiocchi, in cui si governava in tre lingue, arabo, greco e latino, e si impiegavano non solo musulmani ma anche “tecnici” di valore internazionale importati dall’Inghilterra come Thomas Brown (o Le Brun). Erano stati loro a inventare lo “Scacchiere”, la tavola su cui si computavano, con procedimenti matematici d’avanguardia, rendite e cespiti delle baronie, e che ancora oggi dà il nome al ministero dell’economia britannico. Palermo quasi come Bruxelles. Ma forse non funzionava così bene, se poi il Mezzogiorno arrivò tanto disastrato all’Unità, come un agglomerato di feudi inespugnabili, impervio al senso dello Stato. Colpa degli Angioini, degli Aragonesi, degli Spagnoli e dei Borboni (e magari degli intoccabili Svevi)? O di troppa tecnica e poca politica?

Quanto alle città, apprendiamo che prosperano grazie alle loro turbolenze. «Comune, nome nuovo e pessimo», lamentano i cronisti dell’epoca. I cives hanno la mala consuetudo di ribellarsi ai loro vescovi (e quindi alla potestas imperiale, quindi alle prerogative del governo) negandogli le imposte, «l’affitto dei mulini e il censo solito delle navi e la rendita delle case», e tagliano i boschi e demoliscono «la città vecchia per costruirne una più grande». Pretendono persino che i contadini paghino i tributi a loro… Succede in Lombardia, ma anche in Francia, in Castiglia, in Renania… il disordine investe tutta l’Europa. Finché zona per zona, caso per caso, per fronteggiare l’emergenza, dovranno inventarsi nuovi compromessi istituzionali differenziati…

PIl manifesto, 25 febbrai 2015

Scisso tra le impo­si­zioni euro­pee e la dura con­cre­tezza dei fatti, il mini­stro dell’Economia Pier­carlo Padoan pro­prio qual­che giorno fa ha ammesso, in un’intervista all’Espresso, che ciò che finora non ha fun­zio­nato nel governo Renzi sono state le pri­va­tiz­za­zioni. Dif­fi­cile, nono­stante l’ideologia domi­nante cer­chi di far pen­sare il con­tra­rio, non ren­dersi conto che, nella situa­zione eco­no­mica attuale, disfarsi di pezzi dello Stato voglia dire sven­derli al miglior offe­rente. Lo stesso discorso vale per la Gre­cia di Tsi­pras, dove le pres­sioni più forti sono per pro­se­guire il pro­cesso di alleg­ge­ri­mento del patri­mo­nio pub­blico, anche se per for­tuna più nes­suno pro­pone di met­tere all’asta il Partenone.

Ben ven­gano, allora, messe a punto giu­ri­di­che, innan­zi­tutto, di una mate­ria che attiene al diritto pub­blico. Alberto Luca­relli, pro­fes­sore all’Università Fede­rico II di Napoli, è uno stu­dioso di quei beni, pub­blici per appar­te­nenza ma da non lasciare alla gestione sta­tale, che ven­gono defi­niti “comuni”. Accorto a non sgan­ciare mai la teo­ria dalla tec­nica giu­ri­dica, di fronte all’esondare di defi­ni­zioni che rischiano di annac­quare defi­ni­ti­va­mente il poten­ziale anti­pri­va­tiz­za­tore, e dun­que anti­li­be­ri­sta, dei beni comuni, lo stu­dioso par­te­no­peo ha sen­tito l’esigenza di peri­me­trare il campo d’azione, par­tendo dalla com­mis­sione Rodotà dalla quale tutto era comin­ciato, qual­che anno fa. Lo ha fatto con un lungo arti­colo pub­bli­cato sulla rivi­sta on line Costi­tu­zio­na­li­smo (si può leg­gere inte­gral­mente su www.costi tuzionalismo.it), nel quale, affron­tando la que­stione del dema­nio pub­blico, ne fa un ter­reno d’azione della dot­trina dei beni comuni.

Ferma restando la pro­prietà pub­blica, dun­que, cos’è che distin­gue un bene comune dagli altri? Luca­relli respinge la dot­trina della “terza via”, né sta­tale né pri­vata, della pro­prietà di sud­detti beni, ma è con­vinto che, piut­to­sto che la que­stione pro­prie­ta­ria, debba porsi quella della fun­zione: i beni comuni non sono gestiti dallo Stato ma nep­pure pos­sono sca­dere nella logica della con­ces­sione, che sostan­zial­mente pri­va­tizza il bene. Ciò che è fon­da­men­tale è la loro fun­zione sociale, a bene­fi­cio di una comu­nità che non è quella delle «pic­cole patrie» ma è inter­pre­tata, con il filo­sofo Roberto Espo­sito, come «com­po­sta da sog­getti attra­ver­sati da una dif­fe­renza e legati dalla mede­sima urgenza di fruire del bene». Un legame fun­zio­nale, dun­que, non esclu­dente e nep­pure legato a un ter­ri­to­rio, non pro­prie­ta­rio ma inteso come «un dono nei con­fronti degli altri». È quest’ultimo aspetto, per Luca­relli, che apre le porte a una nuova fun­zione del diritto pub­blico ed è il modo per supe­rare una con­ce­zione dello Stato che, oggi che ci tro­viamo in pieno «ciclo del pri­vato», per dirla con lo sto­rico Paul Gin­sborg, segna il passo.

Un lavoro pre­zioso, dun­que, che defi­ni­sce gli stru­menti, teo­rici e con­creti, per un’alternativa reale e li mette a dispo­si­zione delle Syriza e dei Pode­mos di casa nostra che inten­dano servirsene/l2:r

"Questione abitativa e trasformazioni urbane": questo il sottotitolo del libro di Gaetano Lamanna, di cui pubblichiamo la prefazione: un libro che ragiona «sulla difficoltà di vivere e di abitare oggi, sviluppando con padronanza e con chiarezza (e con lingua asciutta, frasi brevi ed essenziali) i temi generali e quelli specifici».

L’area sempre più vasta del disagio abitativo in Italia è il tema che Gaetano Lamanna affronta con passione e competenza. La passione del sindacalista militante, la competenza di chi ha studiato e frequentato la materia. Non posso non ricordare che proprio sul tema della casa, e più in generale sulla condizione urbana, il sindacato diventò protagonista della vita pubblica alla fine degli anni Sessanta, contribuendo ad avviare «la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica» (Paul Ginsborg). Tutto cominciò con lo sciopero generale del 3 luglio 1969, a Torino, dove il problema delle abitazioni era stato esasperato dalla decisione della Fiat di assumere quindicimila nuovi addetti da reclutare nel Mezzogiorno, il che avrebbe determinato un pesante aggravamento delle condizioni di vita. La Fiat propose addirittura di costruire baracche nei comuni di cintura e nelle fabbriche dismesse (tolto il letto e le suppellettili, restava uno spazio libero di un metro e sessantacinque centimetri quadrati per persona).

A mano a mano, il movimento si estese da Torino a tutta l’Italia. Per la prima volta, non solo le condizioni di lavoro, ma anche quelle di vita nella città, divennero il terreno di un forte scontro sociale che investì l’intero paese e culminò con il grande sciopero generale del 19 novembre 1969, per la casa e l’urbanistica. Nonostante la violenta reazione degli interessi colpiti (le bombe del 12 dicembre a Milano, le stragi e la strategia della tensione) si raggiunsero risultati importanti, a cominciare dalla nuova legge per la casa del 1971 che riorganizzò le forme, gli strumenti e le modalità dell’intervento pubblico in edilizia. A essa seguirono nel 1977 la legge sul regime dei suoli, l’anno successivo l’equo canone e il piano decennale per l’edilizia.

Parafrasando Giorgio Ruffolo, fu l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico. Ma durò poco. Con gli anni Ottanta è cominciata la controriforma, e nel giro di pochi anni sono state cancellate una dopo l’altra le conquiste del ventennio precedente. Sono cadute la legge Bucalossi, le norme sugli espropri e quelle per il contenimento degli affitti, fino alla sostanziale dissoluzione dell’edilizia pubblica.

Ancora peggio con la crisi che dal 2008 continua a tormentare in primo luogo le classi sociali più sfavorite. Di questo soprattutto tratta il libro, della difficoltà di vivere e di abitare oggi, sviluppando con padronanza e con chiarezza (e con lingua asciutta, frasi brevi ed essenziali) i temi generali e quelli specifici, la fiscalità, la tassazione immobiliare, la sempre più pressante domanda inevasa, l’esclusione abitativa, il nodo mai risolto del contenimento della rendita. Lamanna ci spiega come nella politica della casa il valore d’uso (l’abitazione come tetto, spazio domestico) ha finito con l’essere sostituito dal valore di scambio (la casa come funzione finanziaria, come veicolo di risparmio). Non cade nella trappola del social housing all’italiana, “un bluff, o meglio un imbroglio”, business allo stato puro, i cui unici beneficiari sono i costruttori. E al riguardo non salva nessuno, denunciando «il ruolo primario, ma inefficace, delle Regioni».

Approfondisce in particolare l’analisi di una della più drammatiche condizioni abitative, quella degli anziani. Gli anziani soli, anzi le anziane, le vedove, più numerose per il minor tasso di mortalità delle donne. Analizza lucidamente le alternative di cui si discute: il ricovero, la soluzione residenziale, quella domiciliare, il cohousing (già oggetto di interesse di fondi immobiliari e di manovratori della rendita). Ma scrive che se togli un anziano dal suo spazio «lo vedrai deperire in pochi mesi, perdere la voglia di vivere». Sradicarli dal loro ambiente è una violenza. La via maestra è mantenere gli anziani nelle proprie case, senza cedere al fascino o al ricatto del nuovo che avanza.

Alla completezza dell’analisi settoriale fa da contrappeso l’attenzione con la quale Lamanna inquadra la politica della casa negli scenari più complessi ma non meno deprimenti delle politiche finanziarie e territoriali. “Rendita crescente, reddito calante” è il titolo di un capitolo che racconta della stretta correlazione fra declino dell’industria e sviluppo immobiliare. Una delle conseguenze del perverso intreccio fra mattone e finanza è stata l’immane valorizzazione delle aree urbane centrali, con l’espulsione dei residenti costretti a trasferirsi in periferie sempre più lontane, stressati dal traffico e dall’alienazione. Alla fine, l’urbanistica è stata obliterata, e anche da questo punto di vista destra e sinistra non sono riconoscibili. «Le amministrazioni locali – scrive Lamanna – hanno dovuto rincorrere i processi anziché programmarli. E i condoni edilizi a livello nazionale, le continue sanatorie a livello locale, tramite varianti, deroghe, cambi di destinazione d’uso degli immobili, sono stati rimedi peggiori del male». Ma di che meravigliarsi, nel 2005 non fu Piero Fassino, allora segretario dei democratici di sinistra, in un’intervista al Sole 24 ore, a riconoscere agli speculatori immobiliari il rango e la dignità di imprenditori?

Nel libro comanda il pessimismo, non si colgono orizzonti di cambiamento a portata di mano. Inutile illudersi e illudere che si possano facilmente riprendere linee di riforma, svolte e ripensamenti rispetto ai disastri dell’ultimo trentennio. Lamanna fa capire che per ricominciare la strada sarà lunga, faticosa, disseminata di insidie. Ma non viene meno al dovere di proporre istruzioni per il futuro. E ho specialmente apprezzato il suo schierarsi a favore di impostazioni alternative in materia di urbanistica, per il recupero e la fine delle espansioni, consapevole che il buongoverno urbanistico è la prima condizione per ridurre il disagio abitativo.

La Federal Reserve e la crisi finanziaria", il libro di Ben S. Bernanke, che ne è stato governatore in America negli anni caldi. Le iniezioni di liquidità non sono tutto e non abbattono l'instabilità del mercato». Il manifesto, 13 gennaio 2015


Sono pas­sati sette anni dall’inizio della crisi economico-finanziaria più grave dal secondo dopo­guerra ad oggi. È tempo di bilanci. Ma poi­ché il periodo di crisi è lungi dall’essere supe­rato, tali bilanci sono neces­sa­ria­mente prov­vi­sori.
Tra que­sti, degno di nota è sicu­ra­mente quello di Ben S. Ber­nanke, gover­na­tore della Fede­ral Reserve Usa (Fed), pro­prio durante il periodo caldo della crisi e sosti­tuito alla guida della Banca Cen­trale Sta­tu­ni­tense a par­tire dal 6 gen­naio 2014 da Janet L. Yal­len, già sua vice dall’ottobre 2010. Si tratta di quat­tro semi­nari tenuti alla George Washing­ton Uni­ver­sity nel marzo del 2012, i cui video sono dispo­ni­bili al sito uffi­ciale: http:// www .fede ral re serve .gov/ new sevents/lectures/about.htm e la cui ver­sione scritta è ora dispo­ni­bile in ita­liano nel volume La Fede­ral Reserve e la crisi finan­zia­ria (Il Sag­gia­tore, trad. di Adele Oli­vieri, pp. 175, euro 16).
Con un lin­guag­gio sem­plice e chiaro, nel primo semi­na­rio, Ber­nanke descrive il ruolo della Banca Cen­trale e i suoi obiet­tivi. Nel secondo, la for­ma­zione da sto­rico eco­no­mico (Ber­nanke ha scritto infatti un libro sulla Grande Depres­sione degli anni Trenta) prende il soprav­vento, quando l’ex gover­na­tore descrive la crisi del ’29–30, gli errori dell’allora Fed, le deci­sioni politiche-economiche (New Deal) che ne hanno con­sen­tito la fuo­riu­scita (uni­ta­mente all’impegno mili­tare Usa nella seconda guerra mon­diale, aggiun­ge­remmo noi) e il suo ruolo nella cre­scita eco­no­mica del dopoguerra.

Dopo il panico

Negli ultimi due semi­nari, si ana­liz­zano le cause dell’attuale crisi finan­zia­ria e le sue con­se­guenze sul sistema eco­no­mico glo­bale. Al riguardo, nella lezione finale, ci si sof­ferma sull’analisi di come il ruolo della Fed sia stato deci­sivo a sven­tare la minac­cia di un tra­collo finan­zia­rio, soprat­tutto nel bien­nio 2009-10.
La tesi prin­ci­pale di Ber­nanke, come è anche ripor­tato nella IV di coper­tina, è che: «Gli Stati Uniti hanno scon­giu­rato il col­lasso finan­zia­rio e hanno imboc­cato la via della ripresa». Gra­zie soprat­tutto all’operato della Fede­ral Reserve.
Il com­pito delle Ban­che Cen­trali è duplice: da un lato, «per­se­guire la sta­bi­lità macroe­co­no­mica, ossia una cre­scita rego­lare dell’economia, evi­tando ampie flut­tua­zioni e man­te­nendo un’inflazione mode­rata e sta­bile», dall’altro, «pro­muo­vere la sta­bi­lità finan­zia­ria…, in par­ti­co­lare pun­tando a scon­giu­rare le crisi e le ondate di panico o, quan­to­meno, miti­garne gli effetti». Se nella crisi del ’29–30, l’intervento della Fed era stato meno pronto e comun­que ina­de­guato a con­tra­stare l’ondata di panico e a essere pre­sente come pre­sta­tore di ultima istanza, nella crisi del 2008–9 tali errori non si sono ripetuti.
Sulla base di que­sto assunto, Ber­nanke giu­sti­fica così l’interventismo imme­diato della Fed all’indomani del fal­li­mento della Leh­mann Bro­thers. Un inter­ven­ti­smo (accu­sato da destra di sta­ta­li­smo) che si è fon­dato su un dop­pio pila­stro. Nell’immediato, si è pro­ce­duto all’acquisto dei titoli in caduta libera e all’erogazione di pre­stiti alle prin­ci­pali società finan­zia­rie che erano sull’orlo del fal­li­mento: ci rife­riamo in par­ti­co­lare al colosso assi­cu­ra­tivo Aig (un pre­stito fede­rale di circa 40 mld di dol­lari) e alla nazio­na­liz­za­zione di fatto delle due società par­zial­mente pub­bli­che (GSE, Government-Sponsored Enter­prise) Fan­nie Mae e Fred­die Mac, le due finan­zia­rie prin­ci­pal­mente coin­volte nel crollo dei sub­prime. Nel medio ter­mine, la Fed ha invece intra­preso una poli­tica di quan­ti­ta­tive easing, fina­liz­zata a garan­tire la neces­sa­ria liqui­dità per il sosten­ta­mento e la ripresa dei mer­cati finanziari.
Ber­nanke dedica alcune pagine a giu­sti­fi­care que­sti inter­venti che rom­pono con l’ortodossia neo­li­be­rale e mone­ta­ri­sta, sia affer­mando che non vi era alter­na­tiva visto la gra­vità della crisi, sia mostrando come il ruolo di pre­sta­tore di ultima istanza non abbia influito in maniera deter­mi­nante sul debito pub­blico Usa (quasi rad­dop­piato negli anni della crisi), in quanto tutti pre­stiti ero­gati sono stati poco alla volta rim­bor­sati sino all’ultimo dol­laro. E anche le quote socie­ta­rie pri­vate acqui­state dallo Stato sono state suc­ces­si­va­mente riven­dute sul mer­cato pri­vato (vedi, ad esem­pio, il caso Chrysler).
Obiet­tivo della poli­tica della Fed non è mai stato quello di sosti­tuirsi al mer­cato pri­vato e al libero scam­bio, ma piut­to­sto riba­dirne il pri­mato, in una fase con­giun­tu­rale dove lo stesso mer­cato pri­vato aveva dimo­strato una sua inef­fi­cienza, a prezzo di costi sociali (in ter­mini di disoc­cu­pa­zione e sta­gna­zione dei red­diti). Ber­nanke si sof­ferma sul ruolo posi­tivo, ma tran­si­to­rio e anti­ci­clico, della poli­tica mone­ta­ria, per riba­dire che — in ogni caso — la Banca Cen­trale è ancora in grado di indi­riz­zare e gover­nare i mer­cati finanziari.
Qui sta il punto prin­ci­pale. È pro­prio vero che le Ban­che Cen­trali sono ancora in grado di con­trol­lare i mer­cati finan­ziari? O que­sta è un’illusione super­fi­ciale, sotto la quale si nasconde una realtà assai diversa? Ber­nanke mette a con­fronto la man­cata rispo­sta della Fed (soprat­tutto come pre­sta­tore di ultima istanza) nella Grande Depres­sione con il posi­tivo inter­vento del 2009. Impli­ci­ta­mente si sup­pone che il ruolo dei mkt finan­ziari sia rima­sto più o meno lo stesso: sem­plice rial­lo­ca­zione di rispar­mio (ovvero moneta già in cir­co­la­zione nel sistema eco­no­mico) dalle fami­glie alle imprese e allo Stato. Ma nel bio-capitalismo cogni­tivo e finan­zia­riz­zato non è più così, o almeno, non è più solo così.
Oggi i mkt finan­ziari gio­cano un ruolo di ben altro spes­sore: sono fonte di finan­zia­mento dell’attività inno­va­tiva tra­mite le plu­sva­lenze, sosti­tui­sco sem­pre più il wel­fare pub­blico con forme (pri­vate) di sicu­rezza sociale favo­rendo pro­cessi di gover­nance debi­to­ria che aumen­tano in modo nuovo la sus­sun­zione del lavoro al capi­tale, met­tono in moto un mol­ti­pli­ca­tore finan­zia­rio assai distorto che, sosti­tuendo in parte quello tra­di­zio­nale key­ne­siano (agito dal defi­cit spen­ding), influenza la domanda aggre­gata ma favo­rendo la pola­riz­za­zione dei red­diti. In altre parole, i mkt finan­ziari oggi det­tano la gover­nance del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo e non svol­gono più quel ruolo mar­gi­nale (sep­pur fon­da­men­tale) dell’epoca for­di­sta, fun­zio­nale alla rea­liz­za­zione mone­ta­ria del profitto.
In un simile con­te­sto, la gover­nance isti­tu­zio­nale (banca cen­trale e governo) tende ad essere subor­di­nata alla dina­mica degli mkt finan­ziari. Una dina­mica che sem­pre più dipende dallo svi­luppo delle con­ven­zioni finan­zia­rie, sulla base di un pode­roso pro­cesso di con­cen­tra­zione che oggi si fonda sul con­trollo dei flussi finan­ziari e non più sulla pro­prietà effet­tiva dei titoli.

Flussi e riflussi

Ne con­se­gue che la poli­tica mone­ta­ria viene decisa in fun­zione delle tra­iet­to­rie spe­cu­la­tive che le oli­gar­chie finan­zia­rie auto­no­ma­mente per­se­guono. Le Ban­che Cen­trali (anche la Fed) non può far altro che asse­con­dare pas­si­va­mente tali dina­mi­che, pena il rischio di aumen­tare un’instabilità che è già, di per se stessa, siste­mica e strut­tu­rale. La Fed, da que­sto punto di vista, a dif­fe­renza della Bce (che ha scon­tato per ragioni geo­po­li­ti­che e di ottu­sità ideo­lo­gica un ritardo che oggi paghiamo nel seguirne le orme), è stata abile non tanto a con­trol­lare e a indi­riz­zare i mer­cati finan­ziari ma piut­to­sto a assecondarli.

Non è un caso che appena ha cer­cato di libe­rarsi da que­sta dipen­denza (come è suc­cesso nell’estate scorsa quando il diret­to­rio Fed ha mani­fe­stato l’intenzione di ridurre dra­sti­ca­mente l’iniezione di liqui­dità – tape­ring), la rispo­sta del potere finan­zia­rio è stata tale da scon­si­gliarne l’applicazione, almeno fin­tanto che la crea­zione di nuova liqui­dità non tro­vava una nuova fonte. È in parte ciò che sta acca­dendo oggi con l’aumento di flussi di capi­tale inter­na­zio­nale verso gli Usa, a seguito delle ten­sioni valu­ta­rie che si sono veri­fi­cate nell’ultimo anno: a riprova che la sta­bi­lità finan­zia­ria è ben lungi dall’essere assicurata.
«L'autore dialoga con l'ultimo libro di Stefano Rodotà, edito da Laterza,

Solidarietà, un'utopia necessaria. L'analisi di una parola apparentata a molte altre (natu­ra­lità, mora­lità, carità, assi­stenza, bene­fi­cenza, fra­ter­nità, dove­ro­sità, diritto, egua­glianza e gra­tuità, che la lam­bi­scono, inve­stono, assu­mono e la inter­pre­tano cur­van­dola al loro spi­rito ed essenza. Il manifesto, 8 gennaio 2015

Col suo ultimo libro (Soli­da­rietà, un’utopia neces­sa­ria, Laterza, pp.141, euro 14) Ste­fano Rodotà allarga il campo dell’impegno scien­ti­fico e poli­tico nella lotta per i diritti che, da decenni, ha ingag­giato con tena­cia inin­ter­rotta e con suc­cesso non solo dot­tri­nale. Lo amplia alle pre­con­di­zioni, ai con­net­tivi dei diritti e che ne sono forse anche i nuclei pri­mi­geni. A deno­mi­narli è un nome: prin­cipi. E, mai come a que­sto pro­po­sito, il nome è la cosa.

Di que­sti con­net­tivi Rodotà sce­glie la soli­da­rietà, il più com­plesso (a que­sto pro­po­sito il rin­vio è all’intervista rila­sciata a Roberto Cic­ca­relli sulle pagine di que­sto gior­nale il 4 dicem­bre). Com­plesso per­ché ha una sto­ria par­ti­co­lar­mente intrec­ciata con quella di altri con­net­tivi. Com­plessa per­ché matrici diverse la hanno moti­vata come pro­pria deri­va­zione, con­no­tan­dola con le rela­tive impronte, intanto che altri con­net­tivi pro­va­vano ad assor­birla. Natu­ra­lità, mora­lità, carità, assi­stenza, bene­fi­cenza, fra­ter­nità, dove­ro­sità, diritto, egua­glianza e gra­tuità lam­bi­scono, inve­stono, assu­mono la soli­da­rietà e la inter­pre­tano cur­van­dola al loro spi­rito ed essenza. Ognuna di esse, in verità, ha svolto un ruolo che va rico­no­sciuto almeno come rive­la­zione della pos­si­bi­lità e della pra­tica di un’esigenza umana mai del tutto sradicata.

Rodotà ne fa la sto­ria degli ultimi secoli e ne descrive le movenze e i ruoli col­la­te­rali che ha svolto e anche le valenze stru­men­tali che ha saputo espri­mere. Ma sa distin­guere, sepa­rare, sa indi­vi­duare le impronte che pos­sono come assor­birla ed esau­rirne — e anche degra­darne — l’essenza. Sa, soprat­tutto, sce­gliere il fon­da­mento sicuro su cui costruire la soli­da­rietà come prin­ci­pio. È quello del diritto, della norma giu­ri­dica. Pro­se­gue così l’alto e nobile inse­gna­mento di quel padre del costi­tu­zio­na­li­smo che for­mu­lava la prima enun­cia­zione dei diritti sociali attri­buendo allo stato gli obbli­ghi di offrire a «tutti i cit­ta­dini la sus­si­stenza assi­cu­rata, il nutri­mento, un abbi­glia­mento decente, e un genere di vita che non sia dan­noso alla salute», Montesquieu.

La soli­da­rietà è così che si con­cre­tizza. Per poter essere prin­ci­pio giu­ri­dico, deve poi dispie­garsi in diritti. È il modo in cui si libera dalle tante impronte che la hanno segnata. Da quelle impresse da una incerta natu­ra­lità, dalla inerme mora­lità, dalla dove­ro­sità a irri­tante garan­zia della pro­prietà, dalla eva­ne­scente fra­ter­nità, a quelle, ine­so­ra­bil­mente mor­ti­fi­canti, della carità, della assi­stenza e della bene­fi­cenza. È il modo in cui si eleva a fonte riven­di­ca­tiva della dignità umana.

Ma ha di fronte il mondo della glo­ba­liz­za­zione. Che è quello del mer­cato capi­ta­li­stico, per­ciò della pro­prietà pri­vata e del pro­fitto, del trionfo dell’una e dell’altra da trent’anni cele­brato senza pause e senza limiti alla deva­sta­zione delle con­qui­ste di civiltà che l’idea e le forze della soli­da­rietà ave­vano rag­giunto. È il mondo della bar­ba­rie postmoderna.

Rodotà non lo accetta, invita a riflet­tere sulla tor­tuosa sto­ria della soli­da­rietà, sulle poli­ti­che sociali che furono impo­ste dalle forze che ne ave­vano neces­sità e che ebbero ascolto nelle dot­trine giu­ri­di­che e poli­ti­che che ne recla­ma­rono forme di rico­no­sci­mento. Forme diver­si­fi­cate che anda­vano dal cor­po­ra­tivo, al cari­ta­te­vole, al com­pas­sio­ne­vole, al mutua­li­smo con­ta­dino ed ope­raio. E che, pur nei limiti e con le tor­sioni che le carat­te­riz­za­vano, testi­mo­niano tut­ta­via una pos­si­bi­lità di affer­ma­zione plu­ra­li­stica del prin­ci­pio. Con­sen­tendo in tal modo che per «l’adempimento dei doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica eco­no­mica e sociale» dell’articolo 2 della Costi­tu­zione, all’insostituibile e pre­va­lente azione isti­tu­zio­nale pos­sano aggiun­gersi ini­zia­tive sociali (volon­ta­riato, terzo set­tore) alla base della forma-stato. A que­sto pro­po­sito, va rico­no­sciuto a Rodotà il merito di pro­porre un’interpretazione di quest’articolo della Costi­tu­zione che, nell’affermare che la Repub­blica «richiede» l’adempimento dei doveri della soli­da­rietà, estende al mas­simo i desti­na­tari della norma, uni­ver­sa­lizza la sua effi­ca­cia.

Affronta la que­stione del Wel­fare State, della sua ori­gine e crisi. Ne rico­strui­sce la mol­te­pli­cità dei signi­fi­cati, mostra come e per­ché il Wel­fare deno­mina una spe­ci­fica forma di stato costruen­dola pro­prio intorno alla soli­da­rietà. Una forma di stato che, a par­tire dai prin­cipi fon­da­men­tali che furono enun­ciati nei primi arti­coli della nostra Costi­tu­zione e pro­se­guen­done il dise­gno nor­ma­tivo per la forma-stato della con­tem­po­ra­neità, ride­fi­ni­sce la per­sona umana come cen­tro di rife­ri­mento della soli­da­rietà, sia come tito­lare del diritto sia come desti­na­ta­rio del dovere di soli­da­rietà. La ride­fi­ni­sce in ter­mini di cit­ta­di­nanza tanto com­pren­siva di diritti inte­grati l’un l’altro da assi­cu­rare il ben-essere, l’autodeterminazione, cioè il potere di crearsi un’esistenza digni­tosa, a pro­get­tarla come cre­di­bile pro­spet­tiva, a viverla come effet­tiva con­di­zione umana.

Ma quando, dove, come? Di cos’altro è indice, in quale con­te­sto la si può con­cre­tiz­zare, con quale altro pro­dotto sto­rico, per essere stata sto­ri­ca­mente deter­mi­nata, la soli­da­rietà può e deve con­vi­vere? Chi può assi­cu­rarla nella mate­ria­lità dei rap­porti umani esi­stenti, chi la può soste­nere alla base degli ordi­na­menti giu­ri­dici vigenti, insomma, di quale e quanta forza sociale dispone la soli­da­rietà oggi?

Rodotà non nasconde affatto che il pro­dut­tore sto­rico della soli­da­rietà, degli isti­tuti che la hanno con­cre­tiz­zata, dei diritti che ha gene­rato, il movi­mento ope­raio, insomma, è stato fran­tu­mato e che non c’ è più nes­suno in grado di con­te­nere e respin­gere le pre­tese e l’arbitrio dei costrut­tori del «nuovo ordi­na­mento nor­ma­tivo gover­nato da un potere sovrano, quello delle grandi società trans­na­zio­nali che dav­vero si pon­gono come il sog­getto sto­rico della fase pre­sente». La fase cioè dell’avvento e del con­so­li­da­mento del domi­nio glo­bale del capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta, il nemico sto­rico e strut­tu­rale della solidarietà.

Cosa oppor­gli che sia cre­di­bile e per­ciò con­sen­ta­neo, col­le­ga­bile, cor­ri­spon­dente anche nella pro­spet­tiva dell’esigenza sem­pre più pres­sante dell’universalizzazione della soli­da­rietà? Rodotà non deflette dalla più rigo­rosa coe­renza con le pre­messe, e le scom­messe, da cui parte. Non cre­dendo alla emer­sione di sog­getti sto­rici che pos­sano, nel breve periodo, ripren­dere con suc­cesso la lotta del movi­mento ope­raio per la soli­da­rietà, intra­vede però foco­lai di resi­stenza e di con­tra­sto al potere sovrano delle cen­trali trans­na­zio­nali del capi­ta­li­smo neoliberista.

Al sociale fran­tu­mato, al poli­tico ser­vente l’economico per aver abdi­cato a suo favore, il giu­ri­dico gli sem­bra con­fer­marsi come cre­di­bile poten­ziale di pro­du­zione della soli­da­rietà. In una sen­tenza recen­tis­sima della Corte di giu­sti­zia dell’Ue scorge una sorta di riven­di­ca­zione della pre­va­lenza dei diritti fon­da­men­tali rico­no­sciuti dalla Carta di Nizza sull’interesse eco­no­mico di una cor­po­ra­tion trans­na­zio­nale della forza di Goo­gle. Attri­bui­sce a que­sta sen­tenza l’efficacia costi­tu­tiva di «una nuova gerar­chia fon­data sui prin­cipi… espressi dai diritti fon­da­men­tali». Come se, per incanto, rove­sciando la sua giu­ri­spru­denza di favore al prin­ci­pio della con­cor­renza e a danno dei diritti del lavoro, la Corte di Lus­sem­burgo avesse abro­gato quella che Rodotà chiama la «con­tro costi­tu­zione» dell’Ue, fon­data sul Fiscal Com­pact e che, invece, io credo che sia la vera «costi­tu­zione» euro­pea. Come se, la stessa Corte, avesse anche espunto dal Trat­tato sul fun­zio­na­mento dell’Ue le norme che impon­gono come vin­colo asso­luto della dina­mica e come fine dell’Unione «l’economia di mer­cato aperta ed in libera con­cor­renza». Qui l’amore paterno dell’eccellente ma non soli­ta­rio legi­sla­tore della Carta di Nizza ha fatto aggio sull’acutissimo spi­rito cri­tico del giurista.

Ma, a riflet­tere, chissà: que­sta interpretazione-ricostruzione ope­rata da Rodotà potrebbe anche assu­mere valore pre­co­niz­zante di un pro­cesso che l’astuzia della sto­ria del diritto futuro, gra­zie ad una raf­fi­na­tis­sima erme­neu­tica, con tacite abro­ga­zioni e prov­vide addi­zioni, con­senta che i prin­cipi che Rodotà ha ride­fi­nito acqui­stino effet­ti­vità giu­ri­dica. Sic­ché da «uto­pia neces­sa­ria» diventi espe­rienza vivente quella soli­da­rietà che il movi­mento ope­raio si inventò e che Rodotà ricorda come rap­porto tra eguali e per­ciò auten­tica. Affiora così il tema dell’eguaglianza. Quello sul quale chi scrive sta aspet­tando il mag­gior defen­sor dei diritti del nostro tempo.

«Le idee del rapporto di S

bilanciamoci! sono il frutto dei calcoli di esperti ed economisti incrociati con le idee delle associazioni che lavorano su alcune grandi questioni aperte sulle quali la politica potrebbe intervenire più e meglio, dall'ambiente, al disagio sociale, all'immigrazione, passando per la cultura». Pagina99.it, 27 novembre 2014

Conti pubblici

La rete di 64 associazioni presenta il suo rapporto 2015. Mantenendo il parametro del pareggio di bilancio e lavorando su fiscalità e tagli alla spesa pubblica sbagliata si troverebbero le risorse per un reddito minimo, la tutela del territorio e risorse per il welfare

Ci risiamo: la discussione sulla legge di stabilità si avvicina – un tempo la chiamavano Finanziaria – e puntuale, come dal 2000 in poi, arriva il rapporto di Sbilanciamoci!, la rete di associazioni, Ong e altre organizzazioni della società civile che ogni anno guarda ai conti dello Stato e cerca di farsi un'idea su come e dove trovare soldi per dare risposte a bisogni diversi dal pareggio di bilancio. Come ogni anno il rapporto è dettagliato, ricco di numeri e attento a individuare la copertura necessaria alle misure proposte.

Le idee del rapporto sono il frutto dei calcoli di esperti ed economisti incrociati con le idee delle associazioni che lavorano su alcune grandi questioni aperte sulle quali la politica potrebbe intervenire più e meglio, dall'ambiente, al disagio sociale, all'immigrazione, passando per la cultura. Il rapporto 2015 contiene 84 proposte e rispetta l'idea del pareggio di bilancio “dimostrando che la quantità delle risorse pubbliche disponibili non è l’unica variabile che condiziona l’impianto della legge di stabilità. Il punto dirimente resta quale modello di economia, di società e di democrazia si ha in mente”, si legge nell'introduzione al rapporto.

Il quadro sociale ed ambientale dell'Italia è quel che è, sostengono le decine di realtà della società civile che danno vita alla campagna e per cercare di invertire la rotta occorre affrontare “i buchi neri del declino del nostro paese: l’economia in declino, un’occupazione in calo e sempre più precaria, un sistema di istruzione e di ricerca pubblico indebolito dai progressivi tagli, un disagio sociale crescente che consegna alla povertà assoluta sei milioni di persone, politiche sociali fragili e sempre più delegate alla famiglia, un patrimonio naturale e culturale in abbandono”. Le associazioni criticano l'austerità imposta dall'Europa alla quale, sostengono, i governi che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno saputo opporre nessuna alternativa.

La contromanovra di Sbilanciamoci prevede due assi portanti sul piano delle entrate: una redistribuzione del prelievo fiscale che sposti risorse disponibili dalla ricchezza alla povertà e dai grandi patrimoni e rendite al reddito da lavoro e di impresa; tagli alla spesa pubblica che la campagna chiama “tossica”: meno soldi per Difesa e grandi opere, a sanità e istruzione private per reperire risoprse da impegnare in recupero del territorio, ricerca, istruzione, servizi di welfare.

Di seguito una sintesi delle proposte delle 46 organizzazioni

Riduzione di un punto delle aliquote sui primi due scaglioni, l’aumento di tre punti delle aliquote sul IV e sul V scaglione e la creazione di un VI scaglione, oltre 100mila euro, con aliquota al 50%. Si propone l’aumento di 100 euro delle detrazioni Irpef su redditi da lavoro e pensioni, l’abolizione del regime di tassazione separata per le rendite finanziarie (attualmente al 26%) e della cedolare secca sugli affitti a canone libero (oggi al 21%), con assoggettamento di questi redditi all’Irpef.

Iva: si inverte la tendenza all’aumento, riportando l’aliquota base dal 22% al 21%.

Tassazione del patrimonio: si prevede l’introduzione di un’imposta patrimoniale con aliquote progressive, che nella componente immobiliare operi una redistribuzione a parità di gettito (sostanzialmente esentando i ceti bassi), mentre nella componente finanziaria generi entrate aggiuntive per 4 miliardi (2 dalle famiglie e 2 dalle imprese). La franchigia sulla tassa di successione verrebbe ridotta a 100mila euro con, anche in questo caso, aliquote di tassazione crescenti con la ricchezza. Gli interventi su Irpef e Iva proposti costerebbero rispettivamente 0,9 e 4 miliardi, mentre la tassazione di patrimoni e successioni genererebbe equivalenti entrate aggiuntive.

Altre specifiche misure settoriali genererebbero risorse aggiuntive da impiegare per finanziare la spesa pubblica utile. Tra queste: la tassazione aggiuntiva sui capitali già scudati (5 miliardi), la revoca del condono sui concessionari di videogiochi (2,1 miliardi), il rafforzamento della tassa sulle transazioni finanziarie (0,8 miliardi), la tassazione degli immobili tenuti vuoti (400 milioni), misure di contrasto al canone nero e irregolare (250 milioni), la tassazione dei profitti del settore del lusso (200 milioni) e nocivi, come l’emissione di Co2 delle auto (500 milioni), l’adeguamento dei canoni di concessione per le attività estrattive (205 milioni) e delle acque minerali (250 milioni), le misure fiscali penalizzanti per il rilascio del porto di armi (170 milioni).

Tagli alla spesa

Cancellare gli stanziamenti previsti dalla legge di stabilità 2015 per le scuole private (471,9 milioni) e di sostituire con insegnamenti alternativi l’ora di religione nelle scuole il cui costo è stimato in 1,5 miliardi di euro. La revisione dei criteri di valutazione dei falsi invalidi potrebbe generare un risparmio di 250 milioni.

Si chiedono una riduzione degli stanziamenti per le Grandi infrastrutture strategiche dannose per l’ambiente (1,5 miliardi), l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta che esamini lo stato delle convenzioni con le strutture sanitarie private, che generano molti sprechi e abusi (1 miliardo) e l’eliminazione del bonus bebè (202 milioni) a vantaggio della riduzione delle rette per gli asili pubblici.

Si propongono la chiusura dei Cie e dei CARA (191,9 milioni) e la riduzione delle spese militari portando entro il 2016 il livello degli effettivi delle Forze armate a 150.000 unità (400 milioni), eliminando l’ausiliaria per una fascia di ufficiali superiori (440 milioni), azzerando la parte di fondi iscritti al bilancio del ministero per lo Sviluppo Economico a disposizione del Ministero della Difesa per sostenere le industrie a produzione militare per specifici programmi d’armamento (2,2 miliardi). Restano naturalmente le richieste storiche di Sbilanciamoci!: la rinuncia al programma di acquisto degli F-35 (500 milioni) e della seconda serie di sommergibili U-212 (210 milioni) e il ritiro da tutte le missioni a chiara valenza aggressiva (600 milioni).

4 miliardi sono destinati ad un Piano di investimenti pubblici per creare occupazione nel settore dei trasporti ferroviari locali, stabilizzare il personale paramedico precario, assumere figure professionali stabili per combattere gli abbandoni scolastici e mettere in sicurezza il nostro territorio. 900 milioni sono invece destinati a finanziare la ricerca di base e applicata con l’istituzione di un Fondo venture capital “Industrial Compact 2020: industrializzazione della R&S”. Si propone inoltre di attribuire le risorse messe a bilancio per il credito di imposta a favore delle imprese che investono in ricerca ai bilanci degli enti di ricerca pubblici nazionali (costo zero).

Sperimentazione di una misura di reddito minimo garantito

Con 4 miliardi sarebbe possibile garantire 500 euro al mese individuali a circa 764 mila persone che si trovano in condizioni di povertà assoluta, ovvero con una capacità di spesa mensile inferiore a un paniere di beni di “sussistenza” e che sono in cerca di occupazione. Siamo consapevoli che il finanziamento di un vero e proprio reddito di cittadinanza richiederebbe la rivisitazione dell’intero sistema delle politiche del lavoro, sociali e fiscali e un investimento ingente, improbabile nell’attuale contesto economico e politico, ma riteniamo fondamentale l'inizio di una sperimentazione di questo tipo, mancante in Europa, soltanto in Italia e Grecia.

Cultura e conoscenza

Cultura, scuola e università sono state duramente colpite dalla miopia dei tagli lineari degli ultimi anni. Per rafforzare le politiche culturali Sbilanciamoci! propone la costituzione di un fondo rotativo per la ristrutturazione degli spazi di proprietà pubblica da destinare allo svolgimento di attività culturali (20 milioni), misure di sostegno all’accesso alla cultura per studentesse e studenti (20 milioni), l’introduzione di un credito di imposta per le produzioni musicali di artisti emergenti (10 milioni), un’integrazione del Fondo Unico per lo Spettacolo (95 milioni) e del Fondo per le associazioni di promozione cinematografica (300mila euro).

Per migliorare il sistema di istruzione pubblico si propone di varare una piano ventennale per l’edilizia scolastica (1 miliardo per il 2015), di finanziare la legge 440/97 (300 milioni) e garantire il diritto allo studio (300 milioni), di promuovere progetti che favoriscano l’alternanza scuola-lavoro (200 milioni), di costituire un fondo per l’innalzamento dell’obbligo scolastico e per l’integrazione (200 milioni), di finanziare la promozione di progetti studenteschi (10 milioni) e la formazione di docenti curricolari per l’inclusione degli alunni con disabilità (20 milioni). 800 milioni sono destinati a incrementare il Fondo di finanziamento ordinario dell’università e 400 milioni a garantire la copertura totale delle borse di studio.

Case senza persone e persone senza case

Nella legge di stabilità non ci sono risorse per la politica sociale sulla casa. Ma sono circa 700.000 le domande di alloggi popolari non soddisfatte e 70.000 le sentenze di sfratto ogni anno, aumentate a seguito degli effetti della crisi. 30 mila sono gli alloggi di edilizia residenziale pubblica non assegnati perché bisognosi di ristrutturazione. Si propone di investire di più nel recupero di immobili di proprietà pubblica per uso abitativo (1 miliardo) e nel sostegno sociale all'affitto (300 milioni) e di integrare il Fondo per la morosità incolpevole (300 milioni).

Lo sviluppo è verde

Non c’è futuro senza salvaguardia dell’ambiente. Per attuare una strategia per l’adattamento ai cambiamenti climatici e alla manutenzione del territorio servirebbero investimenti per 2 miliardi di euro per i prossimi 20 anni. Recuperando le risorse dal taglio delle grandi opere e dalla tassazione delle attività che danneggiano l’ambiente, Sbilanciamoci! chiede che nella Legge di Stabilità 2015 siano stanziati a questo scopo almeno 500 milioni di euro. Si propone inoltre di integrare il Bilancio del Ministero per l’ambiente di 100 milioni, di costituire un fondo di rotazione per le demolizioni delle opere abusive (150 milioni), di varare un piano nazionale per la mobilità sostenibile (1 miliardo), di promuovere l’installazione di impianti fotovoltaici con accumulo (200 milioni), di tutelare le aree protette (30 milioni).

Spendere di più e meglio per proteggere le persone

I diritti sociali non sono un lusso né una merce. Per contrastare le scelte di privatizzazione in corso da tempo, Sbilanciamoci! propone di integrare il Fondo Nazionale Politiche Sociali (1,164 miliardi) per riportarlo ai livelli del 2008, impiegare le risorse stanziate per il bonus bebè per ridurre le rette degli asili nido pubblici (costo zero), integrare il Fondo per la non autosufficienza (350 milioni) e quello per l’infanzia (15,2 milioni), varare misure per l’invecchiamento attivo (1 milione) e per l’inclusione attiva delle persone con disabilità (50 milioni). L’inserimento sociale dei detenuti potrebbe avvenire a costo zero.

Ridurre i ticket sanitari e rafforzare la medicina territoriale servirebbe 1 miliardo recuperabile rivedendo le convenzioni con le strutture sanitarie private. Per promuovere le politiche di genere sono fondamentali provvedimenti come l’assegno di maternità universale (900 milioni), incentivi nei settori della formazione tecnico-scientifica delle donne (275,1 milioni) e, visto il pericoloso aumento della violenza sulle donne, un finanziamento per nuovi centri anti-violenza (50 milioni).

L’ampliamento degli interventi di inclusione sociale e lavorativa dei cittadini stranieri (60,9 milioni), l’abolizione della tassa di soggiorno (26 milioni), il rafforzamento del sistema nazionale di lotta contro le discriminazioni e il razzismo (30 milioni) e il varo di un piano nazionale di smantellamento dei “campi nomadi” potrebbero arginare, se accompagnati da un rafforzamento delle politiche di welfare generali, l’ondata di razzismo che sta travolgendo di nuovo il nostro paese.

«Per quanto sia impor­tante avere un’occupazione, essa non è tut­ta­via suf­fi­ciente per la rea­liz­za­zione delle per­sone; il loro benes­sere non è favo­rito se le esi­genze pro­dut­tive impon­gono con­di­zioni squi­librate di sovraoc­cu­pa­zione che costrin­gono a una «rin­corsa per­ma­nente» a mag­giori con­sumi o a con­di­zioni di sot­toc­cu­pa­zione che depri­mono la qua­lità della vita».

Il manifesto, 28 novembre 2014 (m.p.r.)

Il rap­porto tra oppor­tu­nità di vita e qua­lità della stessa si pre­senta con­trad­dit­to­rio fin dagli anni Settanta quando, come rico­strui­sce Ste­fano Fas­sina nella pre­fa­zione al libro di Aldo Carra Più ugua­glianza, più benes­sere. Per­corsi pos­si­bili in tempi di crisi (Ediesse, pp. 156, euro 12), emer­gono i limiti di uno svi­luppo che, pur in forte cre­scita pro­dut­tiva, è inca­pace a rispon­dere alla domanda di mag­giore qua­lità del lavoro e di esten­sione del wel­fare. Il volume sarà pre­sen­tato oggi a Roma da chi scrive, Ste­fano Fas­sina e Norma Ran­geri in un incon­tro con l’autore (appun­ta­mento alle ore 18 alla chiesa val­dese, Via Marianna Dio­nigi 59). Il «ben-essere» (well-being) al quale si rife­ri­sce Carra non è la sod­di­sfa­zione dei soli biso­gni per­so­nali con beni di mer­cato, e ser­vizi pub­blici, ma anche delle esi­genze che atten­gono alla rea­liz­za­zione per­so­nale e sociale degli indi­vi­dui e, in que­sto senso, si con­trap­pone al Pil quale misura dei risul­tati eco­no­mici di un paese.

Il well-being incon­tra un limite nel modello pro­dut­tivo esi­stente per la subor­di­na­zione che impone al lavoro e per le disu­gua­glianze che genera nella società. Key­nes aveva visto giu­sto nel pre­ve­dere l’enorme cre­scita della pro­dut­ti­vità del XX secolo, ma non aveva visto giu­sto nel rite­nere che, appa­gati i biso­gni pri­mari, ci sarebbe stato tutto lo spa­zio per sod­di­sfare le neces­sità di più alto livello. Le cose non sono andate così; il sistema capi­ta­li­stico, per non intac­care il suo assetto sociale, ha accom­pa­gnato la sua cre­scita con la tra­sfor­ma­zione dei modelli di con­sumo indu­cendo i biso­gni neces­sari all’assorbimento dei «suoi» pro­dotti in un cir­cuito «infer­nale tra svi­luppo che genera biso­gni e ricerca di sod­di­sfa­zione dei biso­gni che genera sviluppo».

Il grande inganno
Per quanto sia impor­tante avere un’occupazione, essa non è tut­ta­via suf­fi­ciente per la rea­liz­za­zione delle per­sone; il loro benes­sere non è favo­rito se le esi­genze pro­dut­tive impon­gono con­di­zioni squi­librate di sovraoc­cu­pa­zione che costrin­gono a una «rin­corsa per­ma­nente» a mag­giori con­sumi o a con­di­zioni di sot­toc­cu­pa­zione che depri­mono la qua­lità della vita. Entrambi i casi pena­liz­zano le attività rela­zio­nali che pos­sono met­tere in discus­sione «i ruoli sociali, la sepa­ra­zione tra lavoro pro­dut­tivo e lavori dome­stici e di cura, la rela­zione tra tempi di vita e di lavoro». Per con­tra­stare la per­dita di valore del lavoro è neces­sa­rio pen­sare (sono citati Pierre Car­niti e Bruno Tren­tin) alla ridu­zione degli orari e alla redi­stri­bu­zione del lavoro in un’ottica «di lavo­rare meno per vivere meglio». Ste­fano Fas­sina ricorda oppor­tu­na­mente nella sua pre­fa­zione le parole di Pie­tro Mar­ce­naro che soste­neva una redi­stri­bu­zione del tempo di lavoro capace di tener conto della «dispo­ni­bi­lità dif­fe­ren­ziata verso il lavoro e dei diversi biso­gni di red­dito» in modo da com­pren­dere «l’organizzazione dell’insieme delle scelte di vita di una per­sona». Pro­spet­tiva che, intrec­ciata a quel red­dito minimo garan­tito auspi­cato dall’Unione Euro­pea, darebbe sostanza a pro­getti di «lavoro di cit­ta­di­nanza attiva».

Una realtà di «minori occu­pati che lavo­rano di più» genera una siste­ma­tica disu­gua­glianza che, come espli­cita il titolo (Più ugua­glianza, più benes­sere), costi­tui­sce un vin­colo all’opportunità di scelta della pro­pria vita. Carra parla giu­sta­mente, a que­sto pro­po­sito, di «grande inganno» per­pe­trato da que­gli eco­no­mi­sti che teo­riz­zano che la disu­gua­glianza fac­cia bene; che il mer­cato pre­mia il merito; che pri­vi­le­giare l’utilizzo dei pochi che dispon­gono di mag­giori risorse fa «sgoc­cio­lare» red­dito e oppor­tu­nità su coloro che non ne sono dotati; che l’esclusione dei molti è giu­sti­fi­cata, anzi auspi­cata per la mag­giore «effi­cienza» dell’economia, dato che i costi sociali e per­so­nali dell’esclusione (disoc­cu­pa­zione e pre­ca­riz­za­zione) non sono costi eco­no­mici (da inclu­dere nel Pil).

La classe diri­gente non rie­sce solo a creare regole fun­zio­nali ai suoi inte­ressi, ma anche a con­vin­cere che i rap­porti da lei impo­sti rispon­dono alle esi­genze dei loro subor­di­nati; accet­tare la «pre­di­ca­zione della disu­gua­glianza come valore posi­tivo» signi­fica rati­fi­care di fatto la vit­to­ria cul­tu­rale dell’individualismo, con­su­mi­smo, libe­ri­smo. Si può uscire da que­sta trap­pola solo pro­po­nendo una poli­tica alter­na­tiva che abbia nel lavoro il segno tan­gi­bile dell’uguaglianza e della libertà. In que­sta ten­sione etico-religiosa – i rife­ri­menti a papa Fran­ce­sco e al pen­siero cat­to­lico e socia­li­sta sono fre­quenti – si col­loca la pro­po­sta «mini­ma­li­sta» di Carra per «con­vin­cerci e con­vin­cere» che l’uguaglianza è oggi pos­si­bile e neces­sa­ria e che per rag­giun­gerla non vi è biso­gno di obiet­tivi radi­cali di rivol­gi­mento, ma per­corsi che la rico­strui­scano «a par­tire da tutti gli aspetti della vita quo­ti­diana delle persone».

La ricerca di Carra si appog­gia sulle ana­lisi, e sugli indi­ca­tori di Benes­sere Equo e Soste­ni­bile (Bes), ela­bo­rate dalla Com­mis­sione Istat-Cnel alla quale ha par­te­ci­pato come mem­bro. Sulla base dell’architettura del Bes, egli indi­vi­dua gli obiet­tivi volti a con­tra­stare le mol­te­plici situa­zioni di disu­gua­glianze che si pre­sen­tano nei micro­con­te­sti sociali, fami­liari e cul­tu­rali della vita quo­ti­diana. I set­tori del lavoro, del benes­sere eco­no­mico, della salute e dell’istruzione sono quelli nei quali più forte è l’incidenza delle disu­gua­glianze e sono quindi i campi sui quali si con­cen­tra la sua atten­zione e la sua pro­po­sta di micro­pro­getti che viene svi­lup­pata adot­tando tre chiavi di let­tura delle disu­gua­glianze (di genere, di gene­ra­zione, territoriali).

Un problema di governo
Carra assume che disu­gua­glianza e benes­sere sono una rile­vante que­stione nazio­nale, così come rile­vante è l’idea di una sua gestione set­to­riale. È una pro­po­sta che, richie­dendo una testa cen­trale e gambe locali, fa emer­gere il nodo poli­tico di una poli­tica eco­no­mica progressiva.

Nel libro l’azione pub­blica fa rife­ri­mento a una testa, a un governo nazio­nale, che non sem­bra avere tra i suoi obiet­tivi quelli auspi­cati e a gambe, gli enti locali, non sem­pre dotati di ade­guate competenze e volontà (Fabri­zio Barca potrebbe meglio qua­li­fi­care que­sto aspetto) e tanto meno auto­no­mia finan­zia­ria; non meno secon­da­rio è il con­te­sto cul­tu­rale che fal­ci­dia tutte le pro­po­ste non con­formi all’esistente visione di poli­tica eco­no­mica. Ma, se non si accetta l’egemonia poli­tica e cul­tu­rale domi­nante, come non l’accetta Carra, l’ambizioso pro­getto del libro richiede di tro­vare teste e gambe in grado di dare una rispo­sta posi­tiva all’aspirazione di più ugua­glianza e più benes­sere; in sostanza, il nodo è come e dove sono i poteri, le forze (sociali, poli­ti­che, di movi­mento) capaci di mobi­li­tarsi, all’interno di una visione glo­bale, in uno sforzo comune per più ugua­glianza e più benessere?

La narrativa controversa come il decennio. «Periodo così cupo e con­tro­verso nell’immaginario collettivo, anche il momento di mas­sima appli­ca­zione dei prin­cipi costi­tu­zio­nali» (Gabriele Vitello, L’album di fami­glia. Gli anni di piombo nella nar­ra­tiva ita­liana). Il manifesto, 23 novembre 2014

Il rap­porto fra i cosid­detti «anni di piombo» e la nar­ra­tiva ita­liana è al cen­tro del bel sag­gio di Gabriele Vitello, stu­dioso for­ma­tosi alla scuola di Romano Lupe­rini e dot­tore di ricerca all’Università di Trento (L’album di fami­glia. Gli anni di piombo nella nar­ra­tiva ita­liana, Tran­seu­ropa, euro 14,90). L’autore si chiede per­ché non esi­sta un grande romanzo sul ter­ro­ri­smo ita­liano, nono­stante quasi tutti i nostri mag­giori scrit­tori si siano acco­stati al tema: da Leo­nardo Scia­scia a Nata­lia Ginz­burg, da Pier­paolo Paso­lini ad Alberto Mora­via. Vitello affronta la que­stione con gli stru­menti della cri­tica e della sto­ria let­te­ra­ria, aprendo all’occorrenza anche la cas­setta degli attrezzi dei cul­tu­ral stu­dies.

Vitello esa­mina un nucleo con­si­stente di testi let­te­rari sugli «anni di piombo» apparsi fra gli anni 70 e oggi, sce­glien­doli fra quelli che hanno posto al cen­tro della nar­ra­zione le dina­mi­che fami­liari. Un topos che risulta cen­trale nella pro­du­zione let­te­ra­ria sul ter­ro­ri­smo, spe­cie quello di sini­stra. Si spiega così il titolo pre­scelto, L’album di fami­glia, il quale riprende la cele­bre for­mula uti­liz­zata da Ros­sana Ros­sanda nel 1978, su que­sto gior­nale, per descri­vere i legami fra la cul­tura dei ter­ro­ri­sti e quella della tra­di­zione comu­ni­sta. La scon­tata let­tura edi­pica del ribel­li­smo gio­va­nile e della stessa lotta armata – come lotta dei figli con­tro i padri – non con­vince l’autore. Muo­vendo dalla rifles­sione del laca­niano Mas­simo Recal­cati sulla «eva­po­ra­zione del padre», Vitello evi­den­zia piut­to­sto la fra­gi­lità della figura paterna e l’esaurimento del suo ruolo tradizionale.

I romanzi stu­diati dall’autore attra­ver­sano due fasi distinte della nar­ra­tiva ita­liana: quella post­mo­derna, segnata da una sorta di «divor­zio» con la sto­ria, e quella più vicina ai canoni rea­li­sti, affer­ma­tasi a par­tire dalla metà degli anni 90. Se i romanzi della prima fase pre­fe­ri­scono evo­care le paure e gli spet­tri della sta­gione ter­ro­ri­stica, quelli più recenti cer­cano di ricu­cire un rap­porto con i fatti reali, rita­glian­dosi uno spa­zio fra altri stru­menti di comu­ni­ca­zione, come il cinema o la tele­vi­sione, forse più capaci di influen­zare il discorso pub­blico sul ter­ro­ri­smo. La pro­du­zione let­te­ra­ria esa­mi­nata, tut­ta­via, nel com­plesso non sem­bra essere stata all’altezza delle cir­co­stanze rie­vo­cate.

Per­ché? Forse, seguendo l’analisi di Vitello, si potrebbe indi­vi­duare come causa una certa dif­fi­coltà da parte degli intel­let­tuali di cogliere le reali poste in gioco e la por­tata delle tra­sfor­ma­zioni in atto negli anni 70. Si è trat­tato tal­volta di una con­sa­pe­vole sfi­du­cia nella pos­si­bi­lità di giun­gere a una rico­stru­zione razio­nale della sto­ria di que­gli anni, talal­tra di una rimo­zione delle cir­co­stanze reali e delle respon­sa­bi­lità dei sog­getti sociali coin­volti nel terrorismo.

Gli anni 70 sono, d’altra parte, fra i più com­plessi della sto­ria dell’Italia repub­bli­cana. Come ricorda l’autore, la cate­go­ria di «anni di piombo» non rende ragione delle tante sfac­cet­ta­ture di quel decen­nio. Quel periodo, così cupo e con­tro­verso nell’immaginario col­let­tivo, è anche il momento di mas­sima appli­ca­zione dei prin­cipi costi­tu­zio­nali. Lo Stato sociale (sep­pure mal­con­cio e sbi­lenco) che ormai da anni è sotto attacco ha cono­sciuto pro­prio allora i momenti fon­da­men­tali della sua costru­zione. Tutto que­sto è avve­nuto in un con­te­sto in cui la vio­lenza poli­tica sem­brava con­no­tare molte delle espres­sioni di rin­no­va­mento sociale, innal­zando il livello di tol­le­ranza della società e degli stessi intel­let­tuali nei con­fronti delle armi
«L'obiettivo esplicito e perseguito (e purtroppo raggiunto) dal neoliberismo era (è) quello di voler essere non solo una teoria economica ma una autentica antropologia, per la edificazione di un uomo nuovo neoliberista la cui vita fosse (sia) solo economica». Una recensione dell'ultimo libro di Marco Revelli.

Sbilanciamoci.info, 11 novembre 2014

La curva di Laffer e la curva di Kuznets. Sono questi gli obiettivi centrali dell’analisi di Marco Revelli nel suo ultimo saggio breve sul tema della disuguaglianza, uscito tra gli Idòla di Laterza e che riprende e sviluppa un tema al centro dell’attenzione (Luciano Gallino, Mario Pianta, Joseph Stiglitz e ora anche Thomas Piketty) con un titolo ad effetto ma sempre replicato dalla realtà: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero! La curva di Laffer e quella di Kuznets: due favole economiche nate in epoche diverse (la prima, nel 1974 e – secondo una leggenda metropolitana probabilmente falsa ma capace di colpire l’immaginario collettivo - disegnata da Laffer su un tovagliolo di un noto ristorante di Washington; la seconda, risalente invece al 1955), ma usate come armi pesanti nella costruzione e nella propagazione dell’ideologia neoliberista. Ideologia.

Oppure e forse meglio (e oltre Revelli, ma con Foucault) come biopolitica/bioeconomia neoliberale (concetto che preferiamo), posto che l’obiettivo esplicito e perseguito (e purtroppo raggiunto) dal neoliberismo era (è) quello di voler essere non solo una teoria economica ma una autentica antropologia, per la edificazione di un uomo nuovo neoliberista la cui vita fosse solo economica e a mobilitazione incessante e a flessibilità crescente (lavoratore, consumatore, poi imprenditore di se stesso, precario, nodo della rete), uccidendo il vecchio soggetto illuministico titolare di diritti e trasformandolo in oggetto economico, in merce di se stesso, in capitale umano, in nodo di un apparato. Una biopolitica neoliberista che ovviamente si è subito trasformata in tanatopolitica, perché doveva produrre, per raggiungere il proprio scopo la distruzione (appunto la morte) della società e della socialità, della democrazia politica ed economica, facendo della disuguaglianza il suo target da perseguire e dell’impoverimento la sua disciplina (ancora Foucault) capillare. Qualcosa di paradossale e di assolutamente irrazionale (oltre che di anti-moderno) – appunto: la produzione deliberata di disuguaglianza – ma che tuttavia ha conquistato il cuore di troppi economisti e l’opportunismo di troppi politici diventando spirito del tempo ottuso e ostinato ma capace di volare sull’intero globo.

Questa opzione disegualitaria, se non (scrive Revelli) “apertamente anti-egualitaria”, questa ideologia della disuguaglianza necessaria continua infatti ad essere parte integrante o base strutturante di quella “dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso”. Disuguaglianze crescenti e quindi e conseguentemente lotta di classe vinta dai ricchi contro il resto del mondo. Attraverso i piani diaggiustamento strutturale del Fondo monetario e della Banca mondiale, le politiche di deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro, la riduzione dei diritti sociali, oggi l’austerità europea e le riforme strutturali di Draghi, di Angela Merkel e di Matteo Renzi (strutturale: una parola magica per una pedagogia finalizzata alla strutturazione e alla costruzione - è una biopolitica e insieme una forma di costruttivismo - della società come mercato).

Quella uguaglianza che era “l’idea regolativa” o la meta da raggiungere nei trenta gloriosi o nell’età dell’oro del secolo breve secondo Hobsbawm, è stata così rovesciata nel perseguimento dell’obiettivo opposto e contrario, quello appunto della disuguaglianza. Una svolta copernicana, scrive Revelli, che ha avuto “come naturale complemento della supply-side economy – e sua copertura morale – la cosiddetta teoria del trickle-down (letteralmente, ‘gocciolamento)”, per cui se si favoriscono i soggetti che trainano lo sviluppo economico - i capitalisti, i grandi investitori, il potere finanziario – si genera spontaneamente un meccanismo virtuoso “il quale crea ricchezza aggiuntiva e in parte la ridistribuisce per una sorta di ‘forza di gravità’ naturale, senza che l’intervento dello Stato giunga a turbare o inceppare il meccanismo”.

Dunque, la curva di Laffer, favola di uno sconosciuto professore di una periferica business school e diventata poi icona della Reaganomics, sulla base di un ipotetico trade-off tra aliquote ed entrate fiscali. E la curva di Kuznets, secondo la quale un accelerato sviluppo economico produce sì, in una prima fase, disuguaglianze crescenti ma solo fino a un punto di svolta, superato il quale il sistema comincia invece a generare uguaglianza. Nata senza pretendere di avere un valore predittivo né prescrittivo, negli anni Settanta ne venne fatto invece un uso ideologico “al fine di neutralizzare le critiche nei confronti degli effetti disegualitari del modello di sviluppo patrocinato dai fautori della supply-side economy e di propagandare le spregiudicate politiche di imposizione del modello neoliberista ai paesi in via di sviluppo, nonostante gli effetti negativi sui loro equilibri sociali”. Una sua variante venne applicata anche ai temi ambientali, dove era l’inquinamento a scendere, dopo una iniziale fase di sua necessaria crescita.

Due curve-icona, due feticci neoliberisti che Revelli smonta – con una lunga sequenza di statistiche e di analisi empiriche e legando il tema dei redditi calanti ai debiti crescenti (soprattutto privati, come modo per disinnescare politicamente e socialmente l’impoverimento prodotto) – dimostrandone l’assoluta falsità. Le disuguaglianze sono cresciute. La crisi prodotta dal neoliberismo resta crisi e anche l’ambiente è messo sempre peggio, come dimostrato dall’ultimo Rapporto dell’Ipcc dell’Onu. Come falsa era la congettura del gocciolamento.

Citando Keynes e la sua metafora delle giraffe dal collo lungo, Revelli conclude che tale teoria ha semmai “giustificato e incentivato la tendenza bulimica dei colli lunghi”. Favorendo appunto l’avidità delle giraffe dai colli lungi, anzi lunghissimi: gli gnomi di Wall Street e i “velieri corsari dei mercati finanziari”, gli uomini di banca, gli hedge-fund, i conti off-shore (e ora potremmo aggiungere Juncker e il suo Lussemburgo-paradiso fiscale). Mentre le giraffe dal collo corto – che deve restare corto o farsi sempre più corto – continuano a generare una ricchezza “che viene sistematicamente risucchiata in alto, nel circuito da loro inattingibile di una finanza onnipervasiva, diventata principio di organizzazione principale dello stesso assetto produttivo globale e, insieme, proprietaria degli ambiti decisionali strategici, a cominciare da quello politico”.

Revelli, da par suo e con il suo stile, smonta dunque il paradigma (l’ideologia o la biopolitica/tanatopolitica) neoliberista. Ma questo paradigma resta saldamente al potere. Smontare il suo hardware è dunque necessario come necessario è non smettere mai di farlo, altrimenti la sua egemonia e il suo dominio resteranno tali per sempre. Senza dimenticare tuttavia di smontare anche il software (il pensiero unico, il senso comune dominante, l’accettazione del principio per cui non ci sarebbero alternative al capitalismo, la falsa individualizzazione offerta dal consumo, la condivisione in rete, i social network) che incessantemente e contro ogni evidenza, lo giustifica e lo legittima.

Una preziosa iniziativa per la conservazione e lo studio della cultura ambientalistica italiana: un'ampia antologia degli scritti di Giorgio Nebbia, curati da Luigi Piccioni , disponibili per tutti sul sito della Fondazione Luigi Micheletti. Pubblichiamo la presentazione e il sommario dell'opera .

Altronovecento, n. 26, ottobre 2014

Il “come” e i“perché” di questo libro
di Luigi Piccioni


Nella vasta produzione scientifica e civile di Giorgio Nebbia - nato a Bologna nel 1926, chimico, professore emerito di merceologia all’Università di Bari, ecologista dalla metà degli anni Sessanta e parlamentare dal 1983 al 1992 - gli scritti riguardanti la storia dell’ambiente e dell’ambientalismo occupano un posto di assoluto rilievo. Oltre a nutrire un vivo interesse per il passato, Nebbia è infatti convinto che tutti i fenomeni naturali, sociali e culturali incorporino un'imprescindibile dimensione storica e che ignorando tale dimensione ci si preclude la possibilità di comprenderli. Nebbia ha finito così col costruire dai primi anni Settanta in poi, pezzo dopo pezzo, il più ricco corpus di scritti di storia ambientale realizzato in Italia, contraddistinto da un esemplare equilibrio tra rigore, chiarezza e leggibilità. Un corpus che attende ancora di essere adeguatamente valorizzato dagli storici ma che merita di essere conosciuto e utilizzato ben al di là dei confini accademici tanto più che esso è rivolto anzitutto alla società civile nel senso più ampio.

L’antologia di 434 pagine che costituisce il quaderno n. 4 della rivista telematica “altronovecento” è composta da 54 articoli e saggi scelti tra gli oltre 350 scritti di storia ambientale pubblicati da Nebbia. L’opera è suddivisa in sette sezioni tematiche che comprendono tra l’altro la storia delle merci, dei rifiuti e delle frodi, quella delle neotecniche come la dissalazione e l’energia eolica, l’analisi in chiave ecologica di ampie fasi o di importanti processi storici, la storia dell’ambientalismo e dei suoi protagonisti, i rapporti tra ecologia e marxismo e, ultima ma non meno importante, la problematica della conoscenza storica in sè: archivi, memoria, uso della storia.

L'antologia è introdotta dal curatore dell’'opera, Luigi Piccioni dell’Università della Calabria, che illustra i criteri di scelta e di ordinamento degli scritti e ricostruisce il profilo del Giorgio Nebbia storico dell’ambiente dell’ambientalismo. Alla realizzazione dell’opera hanno contribuito Pier Paolo Poggio e Fabio Ghidini della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia.

Il sommario

Il "come" e i "perché" di questo libro (Luigi Piccioni)
Sezione prima. Il racconto di una vita
La natura e le merci nelle ricerche di Giorgio Nebbia. Pier Paolo Poggio intervista Giorgio Nebbia
Sono un nipote di Ciamician anch'io
Mi ricordo di Franco

Sezione seconda. Le merci: produzione, contraffazioni, rifiuti, inquinamento
Tecnica e ambiente dalle origini al Duemila
Le merci della conquista
Piccola storia delle frodi [con Gabriella Menozzi Nebbia]
Breve storia dei rifiuti
Il caso Bossi e la nascita dell'industria chimica a Milano
Il peggiore di tutti
Love Canal: una bomba a orologeria

Sezione terza. Per una storia delle neotecniche
Breve storia della dissalazione [con Gabriella Menozzi Nebbia]
Breve storia dell'energia solare

Sezione quarta. Fasi, processi, eventi storici
Ecologia e comunismo. Ma davvero non avevano capito niente?
Il secolo XX: per una rilettura ecologica
A ottant'anni dal New Deal
L'ingegneria dello sterminio
Hiroshima anni dopo
Bisogno di storia: crescita, declino e resurrezione (?) dell'energia nucleare in Italia
A anni dalla Populorum progressio
Il Settantatre
Seveso, anni fa

Sezione quinta. L'ecologia e l'ecologismo
Breve storia della contestazione ecologica
L'ecologismo americano. I temi fondamentali
I Limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito -
Risanamento economico-ambientale e lotta allo spreco. Ripensando il 'progetto a medio termine'
Ecologia e ecologismi

Sezione sesta. L'ambientalismo: precursori e maestri, protagonisti, esperienze collettive
George Perkins Marsh. Prevedere e prevenire, un monito disatteso
Vladimir Vernadskij
Alfred Lotka
Lewis Mumford, alla ricerca di una società neotecnica
Rachel Carson e la primavera dell'ecologia
Un pioniere dell'ecologia: Girolamo Azzi
Bertrand Russell 'ecologo'
Bertrand de Jouvenel
Scienza e pace. Linus Pauling nel centenario della nascita
Nicholas Georgescu-Roegen, un economista del dissenso
Kenneth Boulding: un ricordo
Ricordo di Barry Commoner
Mi ricordo di Aurelio
Ricordo di Laura Conti
Laura Conti, un amore per la vita
Ricordo di Antonio Cederna
Dario Paccino, un ecologo inquieto
Ricordo di Fabrizio Giovenale
Ricordo di Alfredo Todisco
25° anniversario di Italia Nostra
Io e CerviaAmbiente
Auguri Legambiente

Sezione settima. La memoria, la storiografia, gli archivi
Per una definizione di storia dell'ambiente
Importanza degli archivi e della memoria
La ricerca storica come condizione imprescindibile per affrontare il problema delle aree industriali inquinate
"Prefazione" a Walter Giuliano, La prima isola dell'arcipelago
"Prefazione" a Edgar Meyer, I pionieri dell'ambiente
"Presentazione" a Marino Ruzzenenti, Un secolo di cloro e … PCB

Il manifesto, 28 marzo 2014

Se per Ari­sto­tele la rap­pre­sen­ta­zione tea­trale pro­duce la puri­fi­ca­zione libe­ra­trice delle pas­sioni umane più irra­zio­nali e quindi dele­te­rie, tanto che il più grande dei suoi disce­poli, Teo­fra­sto, si spinge a defi­nire la tra­ge­dia come la messa in scena della «cata­strofe di un destino eroico», allora com­pren­diamo il motivo di fondo che ha spinto Luciano Can­fora a rias­su­mere la que­stione dell’utopia in que­sti ter­mini: Ari­sto­fane con­tro Pla­tone. Il tea­tro del primo, insomma, nella fat­ti­spe­cie della com­me­dia «Eccle­sia­zuse» («Le donne all’assemblea»), come cura catar­tica rispetto alle pas­sioni uto­pi­sti­che, e foriere di regimi liber­ti­cidi, con­te­nute nell’opera filo­so­fica e poli­tica del secondo.

Esce in que­sti giorni l’ennesima fatica del noto filo­logo barese, con il titolo . Ari­sto­fane con­tro Pla­tone (Laterza, pp. 448, euro 18). L’incontro è stata l’occasione per discu­terne gli snodi fondamentali.

La «crisi dell’utopia», come già emer­geva nelle pie­ghe del suo libro pre­ce­dente («Inter­vi­sta sul potere», Laterza 2013), sem­bra più una crisi dello stu­dioso Can­fora che, da uomo della sini­stra radi­cale, sente ora di dover evi­den­ziare, pur senza il mani­chei­smo di Pop­per, eccessi e drammi del pen­siero uto­pi­stico da Pla­tone a Marx. È così?
Ho sem­pre avver­sato l’espressione «sini­stra radi­cale»: a) per­ché radi­cale è agget­tivo comun­que con­nesso alla figura dete­riore di Marco Pan­nella e dei suoi seguaci; b) per­ché la auto­com­pia­ciuta defi­ni­zione di «sini­stra radi­cale» è appan­nag­gio di espo­nenti dan­nun­ziani come Ber­ti­notti e Ven­dola; c) sin dal 1976 ho scritto e cer­cato invano di far pub­bli­care su «Rina­scita» che i comu­ni­sti dopo la seconda guerra mon­diale sono diven­tati, con grande merito, i pro­ta­go­ni­sti prin­ci­pali della lotta per una demo­cra­zia pro­gres­siva; non pote­vano, se non ridu­cen­dosi a mac­chiette pate­ti­che, pre­ten­dere di rima­nere le stesse per­sone che nel 1917–1920 sogna­rono l’attualità della rivo­lu­zione e furono scon­fitti. Il movi­mento comu­ni­sta dopo la seconda guerra mon­diale è stato la migliore incar­na­zione della social­de­mo­cra­zia: movi­mento poli­tico fon­dato da Carlo Marx e Fede­rico Engels. Per chia­rezza: il movi­mento comu­ni­sta è agli anti­podi della nevrosi radi­cale. Solo nella con­fu­sione men­tale ses­san­tot­te­sca i due con­cetti rischia­rono di confondersi.

Veniamo al libro, e alla sua ripro­po­si­zione della vexata quae­stio che vede in Ari­sto­fane l’aggressore del nucleo con­cet­tuale della «Repub­blica» platonica.
Nel 220° anni­ver­sa­rio della dis­ser­ta­zione del grande, e dimen­ti­ca­tis­simo, stu­dioso tede­sco Mor­gen­stern, mi è parso giu­sto ripren­dere dalle basi una discus­sione che si tra­sci­nava tra alterne vicende. Ho pre­fe­rito enu­cleare i due punti cru­ciali: 1) tutti ammet­tono coin­ci­denze, anche ver­bali, tra la com­me­dia ari­sto­fa­nea «Eccle­sia­zuse» e il quinto libro della «Repub­blica»; 2) l’obiezione che ren­deva i moderni esi­tanti o pro­tesi a ricer­care spie­ga­zioni assurde con­si­steva nella cro­no­lo­gia (Ari­sto­fane ver­rebbe prima). In realtà la data dell’«Ecclesiazuse» è più tar­diva di quel che si crede e Pla­tone, per parte sua, aveva già dif­fuso il nucleo del suo pen­siero sulla «kal­li­po­lis» prima del viag­gio in Sici­lia (389 a.C.).

Lei parla di uno «scan­dalo Pla­tone». Il filo­sofo greco rivo­lu­zio­na­rio al punto di pro­porre quell’emancipazione egua­li­ta­ria della donna a cui non per­ven­nero nep­pure Marx ed Engels. Eppure il pen­siero fem­mi­ni­sta non l’ha amato. Ci spiega il suo punto di vista?
Con­viene distin­guere due piani: da un lato l’effetto di rot­tura costi­tuito dalla pro­po­sta pla­to­nica della parità uomo-donna (libro IV della Repub­blica), dall’altro il pre­sup­po­sto intrin­se­ca­mente «maschile» della for­mula «comu­nanza delle donne» (libro V). Que­sta for­mula implica chia­ra­mente una visione distorta che fini­sce con l’equiparare donne e beni mate­riali come pro­prietà. Ed è pro­prio su que­sto punto debole, con­tra­stante col pre­sup­po­sto della parità, che fa leva effi­ca­ce­mente Ari­sto­fane nella com­me­dia «Le donne all’assemblea», soprat­tutto nel finale. Come mi è acca­duto di scri­vere, Ari­sto­fane fa sal­tare la Kal­li­po­lis pla­to­nica, assu­mendo come punto di forza pro­prio que­sta contraddizione. Resta il fatto che l’intuizione della parità è un enorme passo in avanti nei con­fronti della men­ta­lità greca di età arcaica e clas­sica: la con­tro­prova di ciò è nella osti­lità dispie­gata dai Padri della chiesa cri­stiana con­tro Pla­tone, per l’appunto a causa della pro­pu­gnata idea della parità uomo-donna.

In più punti del suo libro emerge una riva­lu­ta­zione del cosid­detto socia­li­smo uto­pi­stico, a tratti per­sino dileg­giato da Marx ed Engels. Può spie­garci il senso della sua «riscoperta?»
L’espressione socia­li­smo uto­pi­stico spetta soprat­tutto ad Engels, nel troppo cele­bre opu­scolo «Il pas­sag­gio del socia­li­smo dall’utopia alla scienza» (con­si­stente nei primi capi­toli dell’anti-Dühring). Nel III capi­tolo del «Mani­fe­sto del par­tito comu­ni­sta» – nel quale ven­gono pas­sati in ras­se­gna i socia­li­smi pre­ce­denti – ven­gono col­lo­cati sotto una luce nega­tiva sia i pas­sa­ti­sti che auspi­cano un ritorno alle società arcai­che, bol­lati come «socia­li­smo medie­vale», sia i socia­li­sti fran­cesi con­tem­po­ra­nei pro­tesi alla attua­zione di riforme sociali radi­cali. Come è chiaro si tratta di cose molto diverse, messe tutte insieme e som­ma­ria­mente defi­nite tutte uto­pi­sti­che. Oggi con­sta­tiamo che il pro­getto di tra­sfor­ma­zione totale dei rap­porti di pro­du­zione in senso col­let­ti­vi­stico è finito su un bina­rio morto e che invece il gra­dua­li­smo rifor­mi­stico della social­de­mo­cra­zia appare come la sola forma con­creta di rin­no­va­mento della società. Di con­se­guenza i cosid­detti «uto­pi­sti» sono diven­tati i «rea­li­sti» e i loro cri­tici «scien­ti­fici» sono rifluiti nel grande mare dell’utopia.

Uno dei tratti più sto­rio­gra­fi­ca­mente azzar­dati del suo libro con­si­ste nell’istituzione di un nesso fra la cop­pia Socrate/Platone e Hegel/Marx. Quali i punti di con­tatto e di dif­for­mità da lei evidenziati?
L’analogia tra le due cop­pie filo­so­fi­che è di imme­diata evi­denza. Marx stesso con­si­dera il pro­prio pen­siero un capo­vol­gi­mento mate­ria­li­stico del nucleo ori­gi­nale del pen­siero hege­liano. Inol­tre, al di là degli ele­menti bio­gra­fici, ricordo il tra­gitto che un tempo veniva sin­te­tiz­zato nella for­mula «da Socrate a Pla­tone, dal con­cetto all’idea» (capo­vol­gi­mento in senso idea­li­stico del pen­siero di Socrate). La dif­fi­coltà, sem­mai, con­si­ste nel fatto che di Socrate, diver­sa­mente che di Hegel, non abbiamo l’opera scritta, bensì le molte para­frasi dovute ai suoi allievi. Il più geniale dei quali, cioè Pla­tone, ha esco­gi­tato la tro­vata di mesco­lare il suo pro­prio pen­siero con quello del mae­stro (Socrate è per­sona loquens di tutti i dia­lo­ghi, tranne i Nomoi).

Pla­tone rap­pre­senta la ragione uto­pi­stica, costan­te­mente alla ricerca del «sogno di una cosa». Ari­sto­fane la ragione bef­farda, pronta a col­pire la prima con le armi del rea­li­smo e dell’ironia. Quali, secondo lei, gli esiti di que­sta dia­let­tica storica?
La vit­to­ria del rea­li­smo bef­fardo nei con­fronti di ogni genere di pro­po­sta inno­va­tiva, bol­lata come uto­pi­stica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripe­tersi siste­ma­ti­ca­mente tale sce­na­rio. Il rea­li­smo bef­fardo fa capo al senso comune, che tal­volta vien voglia di defi­nire «il sesto senso degli idioti».

Introduzione al libro Rottama Italia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, edito e distribuito gratuitamente da Altreconomia. Testi di 16 sapienti autori e 13 graffianti artisti.

Perché vogliamo che l’Italia cambi verso. Ma davvero. Vogliamo un Paese moderno. E cioè un Paese che guardi avanti. Un Paese che sappia distinguere tra cemento e futuro. E scelga il futuro. Vogliamo un Paese in cui chiamiamo sviluppo ciò che coincide con il bene di tutti, e non con l’interesse di pochi. Un Paese in cui lo sviluppo sia ciò che innalza -e non ciò che distrugge- la qualità della nostra vita. Un Paese che cresca, e non un Paese che divori se stesso. Un Paese capace di attuare il progetto della sua Costituzione. Una Costituzione che da troppo tempo “è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”, una Costituzione in cui “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo” (Piero Calamandrei).

Il decreto Sblocca-Italia è, invece, un doppio salto mortale all’indietro. Un terribile ritorno a un passato che speravamo di aver lasciato per sempre. Un passato in cui “sviluppo” era uguale a “cemento”. In cui per “fare” era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili, e non obiettivi da raggiungere.

Giuseppe Dossetti avrebbe voluto che nella Costituzio- ne ci fosse questo articolo: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino”.

La prima, e più importante, resistenza allo Sblocca Italia passa attraverso la conoscenza, l’informazione, la possibilità di farsi un’opinione e di farla valere. Discutendone nelle piazze e nei teatri, nelle televisioni e alla radio. Richiamando al progetto della Costituzione i nostri rappresentanti in Parlamento. E, se necessario, anche ricorrendo al referendum: se -alla fine e nonostante tutto- questo sciagurato decreto “Rottama-Italia” diventerà legge dello Stato.

Perché non siamo contro lo Sblocca Italia. Siamo per l’Italia.

«Il manifesto, 8 ottobre 2014

Non era mai acca­duto prima d’ora che un nutrito gruppo di intel­let­tuali, giu­ri­sti, sto­rici dell’arte, eco­no­mi­sti e ambien­ta­li­sti scri­ves­sero un instant book con­tro un decreto legge del governo. Non sono man­cate cri­ti­che a ogni prov­ve­di­mento legi­sla­tivo, ma arri­vare a pro­durre un orga­nico libro segnala la gra­vità con­te­nuti nel decreto. Esce oggi un agile volume infor­ma­tico Rot­ta­mi­ta­lia edito da Altre­co­no­mia, ideato da Ser­gio Staino e curato da Tomaso Mon­ta­nari. Il libro si può sca­ri­care sul sito www​.altre​co​no​mia​.it/​r​o​t​t​a​m​a​i​t​a​lia e lo potete tro­vare anche sulla edi­zione on line de Il Mani­fe­sto.

Sono due i motivi che hanno reso pos­si­bile il volume. In primo luogo i con­te­nuti che denun­ciano la gra­vità della crisi di pro­spet­tiva delle classi diri­genti del paese. Sba­glie­rebbe infatti chiun­que pen­sasse che siamo di fronte al pen­siero di Renzi, di Lupi o di qual­siasi altro espo­nente di secondo piano del governo. Il decreto è stato scritto diret­ta­mente dalle lobby che nel sonno della poli­tica, domi­nano incon­tra­state il paese.

Gli arti­coli che libe­ra­liz­za­zino le pos­si­bi­lità di tri­vel­la­zioni petro­li­fere in ogni parte del paese sono da anni richie­ste dai petrolieri.

Le norme che annul­lano il potere di con­trollo delle Soprin­ten­denze nella tutela dell’ambiente sono da anni nell’agenda dalla lobby delle grandi opere. Quelle che met­tono le basi per una nuova fase di cemen­ti­fi­ca­zione delle città sono volute dalla lobby dei pro­prie­tari immo­bi­liari. Le norme che faci­li­tano la ven­dita del patri­mo­nio immo­bi­liare dello Stato sono chie­ste a gran voce dal mondo finan­zia­rio inter­na­zio­nale. E, infine, un intero capo del prov­ve­di­mento (il quarto) affida il futuro delle opere pub­bli­che e delle città alla finanza di rapina respon­sa­bile della crisi mon­diale di que­sti anni.

La gra­vità dello «Sblocca Ita­lia» sta dun­que in que­sto qua­dro gene­rale. Una classe diri­gente inca­pace di fare i conti con il fal­li­mento delle ricette neo­li­be­ri­ste vuole con­ti­nuare ancora con le stesse poli­ti­che distrug­gendo ulte­rior­mente la strut­tura dello Stato. Men­tre ad esem­pio la tas­sa­zione sulle imprese e sulle fami­glie cre­sce senza sosta, con alcuni arti­coli si rega­lano milioni di euro alle grandi imprese che si spar­ti­scono da decenni il sistema delle grandi opere. Sono infatti pre­vi­sti gene­rosi sconti fiscali per le società con­ces­sio­na­rie. Milioni di euro che pas­sano dalle fami­glie ita­liane sem­pre più impo­ve­rite ai soliti noti. Il caso ha voluto che negli stessi giorni in cui Renzi pro­po­neva tali scon­cezze, la Corte dei Conti ha accer­tato che solo nel periodo 2006 – 2010 per la costru­zione della linea «C» della metro­po­li­tana di Roma, devono essere resti­tuiti 370 milioni ingiu­sta­mente gua­da­gnati per­ché le regole sono state can­cel­late e non ci sono più stru­menti di con­trollo. Cio­no­no­stante con­ti­nua la rumo­rosa invet­tiva con­tro la «buro­cra­zia» e con lo Sblocca Ita­lia si allen­tano ulte­rior­mente le regole. Lo stesso Raf­faele Can­tone, in sede di audi­zione par­la­men­tare ha dato l’allarme su que­sto punto.

Ma il libro segnala anche una impor­tante novità: la matu­ra­zione di una visione alter­na­tiva del futuro dell’Italia che in que­sti anni si è ali­men­tata nelle tante ver­tenze ter­ri­to­riali e che è oggi arri­vata ad una con­vin­cente sin­tesi. La pre­messa al libro fir­mata da Paolo Mad­da­lena, vice pre­si­dente eme­rito della Corte Costi­tu­zio­nale, si inti­tola «Fuori della Costi­tu­zione» e ragiona sul fatto che il decreto è con­tra­rio alla carta fon­da­men­tale in tutte le norme che affi­dano il futuro dei ter­ri­tori e delle città ai pri­vati invece e che sven­dono il patri­mo­nio pubblico.

Nel libro, insomma, si ritrova il filo del ragio­na­mento sulla piena attua­zione della Costi­tu­zione ela­bo­rato da Sal­va­tore Set­tis nel suo Pae­sag­gio, Costi­tu­zione Cemento(2012) e com­ple­tato sem­pre da Set­tis con Mad­da­lena in Costi­tu­zione incom­piuta(2013, con Leone e Mon­ta­nari) e poi ulte­rior­mente per­fe­zio­nato da Mad­da­lena in Il ter­ri­to­rio bene comune degli ita­liani (2014). Il legame con la Costi­tu­zione for­ni­sce un’inedita forza uni­fi­cante alle tante lotte dei comi­tati che un’accorta pro­pa­ganda ha bol­lato come affette da sin­drome del nimby e che sono invece l’unico stru­mento in mano alla popo­la­zione per opporsi ai Rot­ta­ma­tori d’Italia.

«Rot­tama Ita­lia» nasce da un’idea di Ser­gio Staino, ed è stato curato da Tomaso Mon­ta­nari. Hanno par­te­ci­pato — gra­tui­ta­mente– al pro­getto Elle­kappa, Altan, Tomaso Mon­ta­nari, Pie­tro Rai­tano, Gian­nelli, Mauro Biani, Paolo Mad­da­lena, Gio­vanni Losa­vio, Mas­simo Bray, Mara­motti, Edoardo Sal­zano, Buc­chi, Paolo Ber­dini, Vezio De Lucia, Riverso, Sal­va­tore Set­tis, Bedu­schi, Vin­cino, Luca Mar­ti­nelli, Anna Donati, Fran­za­roli, Maria Pia Guer­mandi, Vauro, Pie­tro Dom­marco, Dome­nico Fini­guerra, Giu­liano, Anna Maria Bian­chi, Anto­nello Capo­rale, Staino, Carlo Petrini.

Di grande attualità il libro

I Signori delle autostrade di Giorgio Ragazzi, edizioni Il Mulino, 2008 di cui avevamo già pubblicato alcuni brani all'esordio. Ora riprendiamo la prefazione di Anna Donati.

Questo libro curato dal prof. Giorgio Ragazzi ricostruisce la storia delle concessionarie autostradali dagli anni ’20 ad oggi in Italia. E’ un libro utile perchè mette in luce con rigore e ricchezza di documentazione una storia mai scritta delle regole, dei sussidi, investimenti, tariffe, durata delle concessioni, che hanno determinato il rapporto tra la Stato e le concessionarie autostradali, pubbliche o private che fossero.

Un rapporto che ha subito molte evoluzioni, partendo dalle prime e limitate concessionarie private degli anni ‘20, alla massiccia estensione della rete con le concessionarie pubbliche degli anni ‘60, fino ad arrivare alle privatizzazioni degli anni ’90, del 78% della rete lunga ormai 6840 km. Una ricostruzione che non tralascia i rilevanti ed irrisolti problemi di regolazione oggi più aperti che mai, oggetto di recenti interventi normativi, che alimentano il dibattito politico e le polemiche tra i diversi soggetti in campo e che proseguiranno di certo nei prossimi anni.

Lo studio dimostra che essendo le concessionarie inizialmente prevalentemente pubbliche, dell’IRI o di enti locali, Ministri ed Anas “sono state sempre molto benevoli nel loro confronti, alle spalle degli utenti” perché in fondo si trattava pur sempre di interesse pubblico.

Ma quando arrivano alla fine degli anni ’90 le privatizzazioni questo atteggiamento non cambia, anzi con la vendita della Società Autostrade si innesta una vera e propria “cuccagna” di cui hanno beneficiato anche gli azionisti privati. Scrive Giorgio Ragazzi che è stato «l’obiettivo di massimizzarne il valore che ha indotto alla proroga generalizzata delle concessioni alla fine degli anni 90 ed all’introduzione di un price cap particolarmente favorevole per le concessionarie, per non parlare delle clausole privilegiate inserite nella convenzione di Autostrade».

E’ andata proprio cosi. Il primo Governo Prodi ha intrapreso la strada della privatizzazione per l’urgenza di fare cassa senza adottare preventivamente norme stringenti di regolazione del settore capaci di tutelare in modo adeguato l’interesse generale, per determinare tariffe e profitti delle concessionarie senza essere “catturato” da interessi privati, da interessi locali e da interessi politici.

Per la verità fin dalle nuove norme del 1992, il Cipe ha emanato diverse direttive per costruire un quadro regolatorio del settore, arrivando alla direttiva interministeriale Ciampi-Costa del 1998, che ha fissato regole innovative e stringenti. Regole che poi, come ben ricostruisce il libro, non sono state applicate se non in modo assai elastico e comunque sempre favorevole alle concessionarie autostradali.

Quando cinque anni dopo, alla prima verifica, sono risultati evidenti l’andamento positivo degli utili e degli extraprofitti, gli aumenti tariffari ed i mancati investimenti, invece di riequilibrare e regolare, il Governo Berlusconi ha nuovamente assecondato le concessionarie. E per evitare le esortazioni a cambiare rotta del Nars, dell’Autorità Antitrust e della Corte dei Conti, è stata approvata con legge in Parlamento la nuova Convenzione di Autostrade per l’Italia, con un emendamento del Governo in un decreto legge in scadenza.

Solo nel 2006, su proposta del secondo Governo Prodi, il Parlamento ha approvato nuove norme di regolazione delle concessionarie autostradali che stabilivano che allo scadere dei piani economico-finanziari e comunque entro un anno tutte le convenzioni dovevano essere riscritte per meglio tutelare l’interesse pubblico. Un autentico e positivo cambio di rotta, che però non ha completamente retto all’offensiva delle concessionarie: contestazioni dalla Commissione Europea e delibere Cipe di attuazione che nel giro di sei mesi hanno limitato drasticamente il campo di applicazione solo a nuovi investimenti.

Ma appena insediato, nel giugno 2008, il nuovo Governo Berlusconi ha già annientato questa riforma delle concessionarie autostradali. Con un semplice emendamento ad un Decreto Legge approvato dal Parlamento, ha modificato le norme ed approvato per “legge” tutte le nuove convenzioni già sottoscritte tra Anas e concessionarie. Un’approvazione “per legge” che elimina il parere del Nars, del Cipe e del Parlamento, che avevano osato avanzare obiezioni e richiesto maggiori garanzie e controlli per l’interesse pubblico nelle nuove convenzioni.

Chi trarrà ì maggiori benefici da questa automatica approvazione è certamente Autostrade per l’Italia, la concessionaria che fa capo al gruppo Benetton, che si vedrà riconoscere aumenti tariffari di almeno il 70% dell’inflazione reale, da sommare a parametri di remunerazione degli investimenti, per tutta la durata della concessione fino al 2038.

Via dunque il price cap, la qualità del servizio, la tutela dei consumatori e la realizzazione degli investimenti correlati alla tariffa: una autentica controriforma a solo vantaggio delle concessionarie e che ridimensiona gli strumenti di controllo e regolazione dello Stato nel settore autostradale, già debolissimi.

Ma proprio questo libro dimostra senza equivoci che nuove regole servono e che devono essere applicate con rigore e senza discrezionalità a tutte le concessionarie, così come devono essere fermate le ulteriori proroghe delle concessionarie, in coerenza con le direttive europee, per evitare il perpetuarsi di limitazioni della concorrenza e del mercato. Del resto i tempi lunghi delle durata di molte concessionarie ( la Società Autostrade per l’Italia scade nel 2038) condizionano evidentemente il futuro del settore.

C’è quindi molta strada da fare per passare dal vecchio sistema di concessioni pubbliche ad un nuovo quadro di regole eque e trasparenti tra Stato ed imprese private. Un capitolo di questo volume contiene riflessioni e proposte per il confronto sul futuro delle concessionarie in Italia.

Prima di tutto, dovrebbe essere istituita una Autorità dei Trasporti, prevista ormai da10 anni, per attuare il sistema di regolazione nelle concessionarie ( e non solo quelle autostradali), così come è avvenuto con successo nel campo dell’Energia e delle Comunicazioni. Strumento di regolazione e di tutela degli utenti indispensabile per evitare che la discrezionalità, le pressioni indebite sulla politica o della politica o peggio ancora quelle clientelari abbiano la meglio. E che attui naturalmente gli indirizzi strategici e le regole adottate dalle scelte politiche.

Secondo, va ridefinito il ruolo dell’Anas come soggetto gestore, oggi invece concedente e regolatore, a volte concessionario, a volte in società miste od in competizione con le stesse concessionarie autostradali.

Terzo, bisogna fare una accurata riflessione sul ruolo odierno delle autostrade nel campo della mobilità e dei trasporti, che non possono essere prolungate e raddoppiate all’infinito come i piani delle Concessionarie chiedono costantemente di fare, in un circolo vizioso di nuovi investimenti per ottenere nuove proroghe. Le autostrade nate per la lunga distanza, per accorciare l’Italia, sono oggi diventate le reti per il trasporto quotidiano di breve e media distanza, ma ugualmente si ripropongono grandi autostrade di transito con sistemi chiusi a casello, indifferenti al territorio da servire. Qui serve una forte innovazione di prodotto, con infrastrutture intelligenti, con sistemi aperti e fortemente connessi con la rete locale, con sistemi di pagamento telematici, oggi possibili con le nuove tecnologie.

Quarto, serve riprendere il suggerimento dal Piano Generale dei Trasporti e della Logistica, riproposto anche nel presente volume, di inserire l’uso del pedaggio come uno strumento di politica dei trasporti e di finanziamento delle infrastrutture sostenibili, che implica quindi la necessità di rescindere il legame stringente ed esclusivo oggi esistente tra pedaggi pagati dagli utenti, ricavi delle concessionarie, ed investimenti sulla stessa rete autostradale. Discorso assai complesso e di non facile attuazione ma in fondo l’accantonamento della società Autobrennero per gli investimenti ferroviari o l’applicazione in Italia della direttiva Eurovignette che dovremo adottare entro un anno per la tassazione del traffico pesante, vanno esattamente in questa direzione.

Per queste ragioni il libro di Giorgio Ragazzi è utile, perché anche in questo campo, solo capendo la nostra storia passata e recente, possiamo guardare responsabilmente al futuro.

12 giugno 2008

Segnalazioni
Qui alcune pagine del libro I Signori delle autostrade.
Sulle questioni inerenti le autostrade del decreto Sblocca Italia si vedano su eddiburg:
di Tito Boeri Autostrade e Fondazioni, i due veri poteri forti, di Ivan Berni Le autostrade verso il nulla non sono il futuro, di Giorgio Ragazzi Per le autostrade la fine della concessione non arriva mai Autostrade dalle concessioni infinite, di Sergio Rizzo La lobby delle società autostradali trova lo svincolo per saltare le gare. Nei nostri archivi altri documenti facilmente raggiungibili con il cerca

Stralci di un intervento del filosofo marxista Cornelius Castoriadis realizzato durante una conversazione con Christopher Lasch e Michael Ignatieff. Comune-info.net, 24 settembre 2014

La versione completa la trovate in libreria: La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo (di C. Castoriadis e C. Lasch). Filosofo marxista e psicoanalista di origine greca, Castoriadis (1922-1997) è stato, tra le altre cose, uno dei fondatori in Francia del gruppo e della rivista “Socialisme ou Barbarie” (1949-1965).

( …. ) Penso che la conflittualità sociale e politica sia stata estremamente importante, anche se, contrariamente al luogo comune marxista, la storia della società non è la storia della lotta di classe. Di solito gli schiavi, gli oppressi, i contadini poveri eccetera, sono rimasti al loro posto, hanno accettato lo sfruttamento e l’oppressione, arrivando a benedire gli zar. Ma la caratteristica specifica del nostro mondo, del mondo occidentale, è stata precisamente questa dinamica interna del conflitto, questo mettere costantemente in discussione la società. Il che ha generato quello che definirei il carattere duale delle società occidentali. I marxisti le chiamano società capitaliste. E questo è un aspetto. L’altro aspetto è che esse sono anche società dove, a partire dal XII secolo, le lotte per l’emancipazione, per la democrazia, per la limitazione dei poteri dello Stato eccetera, si sono sedimentate in istituzioni, in tipi antropologici che non coincidono con i sudditi dello zar, o dell’imperatore cinese, o dell’imperatore azteco.

Ci sono dunque stati questi due elementi. Il secondo elemento, ovvero ilconflitto, per gran parte del XIX secolo e fino agli anni Trenta-Quaranta del XX secolo ha assunto la forma dei movimenti operai, ma anche quella della prima ondata del movimento femminista, quella più genuina. Perché il vero femminismo non è Betty Friedan, ma la prima ragazza che, ignorando le obiezioni della sua famiglia, ha avuto il coraggio di iscriversi alla facoltà di medicina e di guardare i corpi nudi di uomini morti. O la prima donna che nel 1808 è entrata a far parte di un sindacato.

Certo, queste donne, per una ragione o per l’altra, hanno mancato l’obiettivo: a causa del totalitarismo bolscevico per un verso e a causa dell’appiattimento della socialdemocrazia al capitalismo per l’altro. Ed è stata proprio questa deriva che ha portato la gente a concludere che non c’è più niente da fare, per cui tanto vale trincerarsi nel privato. Il che, peraltro, corrisponde al movimento intrinseco del capitalismo: espansione dei mercati, società del consumo, obsolescenza programmata eccetera, e più in generale espansione del dominio sulle persone, non solo in quanto produttori, ma anche in quanto consumatori.

( …. )

La libertà nonè qualcosa di facile, non è un concetto semplice. In un certo senso, se parliamo di libertà vera, direi che ci troviamo di fronte a un concetto tragico. Proprio come la democrazia è un regime tragico. Perché non ci sono limiti esterni, non ci sono teoremi matematici che possano dirti: «è qui che bisogna fermarsi». La democrazia è quel regime politico che ci consente di affermare che noi facciamo le nostre leggi a partire dalla nostra morale, la nostra morale condivisa. Questa morale però, e qui mi rivolgo al mio amico cripto-cristiano Christopher, anche se venisse a coincidere con la legge mosaica o con il Vangelo non varrebbe solo perché è scritta lì, ma perché noi, in quanto corpo politico, l’accettiamo, e facendola nostra diciamo: «non uccidere». L’autorità non viene da Dio. Anche se il 90 per cento della popolazione è credente e accetta l’autorità dei comandamenti divini, per la società politica l’autorità non viene da Dio, ma dalla decisione dei cittadini. I cittadini sono dunque sovrani.

«L’Occidente, come è noto, pre­fe­ri­sce in pre­va­lenza non vedere le con­di­zioni di povertà, insta­bi­lità, ten­sioni e guerra in cui vivono tan­tis­simi abi­tanti del pia­neta, e men­tre, siamo tutti a parole favo­re­voli all’uguaglianza e all’apertura, con­ti­nuiamo a costruire for­tezze per pro­teg­gerci dalle minacce locali e rin­sal­diamo i con­fini dei nostri paesi per impe­dire che "gli altri" vi entrino, o che ne entrino troppi».

Il manifesto, 24 settembre 2014

Un incontro a Pordenonelegge con la studiosa dell'«istituzione famiglia», in Italia per presentare il suo ultimo libro «L'amore a distanza», scritto con il marito Ulrich Beck.

Isa­beth Beck-Gernscheim ha una for­ma­zione cul­tu­rale che nelle facoltà ita­liane potrebbe essere con­si­de­rata eccen­trica, anche se ormai la trans­di­sci­pli­na­rietà tra filo­so­fia, socio­lo­gia e psi­co­lo­gia comin­cia ad essere pre­sente. Almeno tra chi rie­sce a supe­rare le for­che cau­dine dei tagli alla ricerca scien­ti­fica, che carat­te­rizza da oltre un ven­ten­nio l’Italia. Apprez­zata stu­diosa sull’«istituzione fami­glia», è docente da molti anni presso l’Università di Monaco. In Ita­lia è stato tra­dotto solo il volume scritto assieme a Ulrich Beck, teo­rico della «società del rischio», non­ché suo com­pa­gno di vita (L’amore a distanza, Bol­lati Borin­ghieri). Eli­sa­beth Beck è stata ospite a Por­de­no­ne­legge. Ed è nella città friu­lana che è avve­nuta l’intervista.

Il suo nuovo libro «L’amore a distanza», scritto con Ulrich Beck, è un’analisi ricca e sfac­cet­tata dello sce­na­rio, pro­fon­da­mente cam­biato, delle rela­zioni d’amore nel mondo glo­ba­liz­zato. Esa­mina le modi­fi­ca­zioni che si sono pro­dotte, i rischi insiti nei dif­fe­renti codici cul­tu­rali di cui, il più delle volte, si è ignari, i para­dossi e le oppor­tu­nità inat­tese che offrono per ali­men­tare la mixo­fi­lia, cioè il pia­cere di incon­trare e inte­ra­gire con chi è diverso da noi. Lei scrive di «fami­glie glo­bali». Cosa intende con que­sta espressione?

Il pro­blema, quando si parla delle nuove con­fi­gu­ra­zioni fami­liari che coin­vol­gono appunto l’amore a distanza e l’intersecarsi del Primo e del Terzo Mondo, è la foca­liz­za­zione su ambiti spe­ci­fici come le cop­pie bina­zio­nali o le ado­zioni trans­na­zio­nali. Le fami­glie glo­bali coin­vol­gono que­sti ma anche molti altri aspetti e a noi inte­res­sava svi­sce­rare, sullo sfondo di un qua­dro dram­ma­ti­ca­mente dise­guale, l’interconnessione di tutte que­ste tema­ti­che: per descri­verle, dalle «fami­glie glo­bali mul­ti­lo­cali» in cui i part­ner vivono in nazioni o con­ti­nenti diversi ma con­di­vi­dono la stessa cul­tura, alle «fami­glie mul­ti­na­zio­nali o mul­ti­con­ti­nen­tali» in cui le cop­pie vivono insieme ma i cui mem­bri pro­ven­gono da cul­ture dif­fe­renti. Ma anche per cer­care di com­pren­dere se tutti gli sforzi e spesso le sof­fe­renze a cui si assog­get­tano i pro­ta­go­ni­sti di que­ste nuove costel­la­zioni fami­liari con­ten­gano il germe di un miglio­ra­mento della salute del nostro mondo.

Il «qua­dro dram­ma­ti­ca­mente dise­guale» che men­ziona è reso con acu­tezza quando parla dei tra­pianti di organi dei poveri del mondo in corpi dei ric­chi che pos­sono com­prarli, in una «moderna forma di sim­biosi» in «pae­saggi cor­po­rei degli indi­vi­dui» dove «si fon­dono ’razze’, classi, nazioni e reli­gioni», con i «corpi dei ric­chi (che) si tra­sfor­mano in pat­ch­work com­po­sti arti­fi­cial­mente, men­tre quelli dei poveri diven­tano magaz­zini di ricam­bio». O quando descrive le donne che devono abban­do­nare i loro figli e mariti per andare in un altro paese per pren­dersi cura di figli di per­sone agiate. Come si può imma­gi­nare che que­sto spec­chio del capi­ta­li­smo glo­bale possa miglio­rare il mondo in cui viviamo?

L’Occidente, come è noto, pre­fe­ri­sce in pre­va­lenza non vedere le con­di­zioni di povertà, insta­bi­lità, ten­sioni e guerra in cui vivono tan­tis­simi abi­tanti del pia­neta, e men­tre, pre­scin­dendo dai fasci­smi che rico­min­ciano a rispun­tare in Europa come con­se­guenza della crisi e del risen­ti­mento che suscita, siamo tutti a parole favo­re­voli all’uguaglianza e all’apertura, con­ti­nuiamo a costruire for­tezze per pro­teg­gerci dalle minacce locali (che spesso assu­mono le sem­bianze di uno stra­niero) e rin­sal­diamo i con­fini dei nostri paesi per impe­dire che «gli altri» vi entrino, o che ne entrino troppi. In realtà, per un verso, men­tre si pro­clama la fine del cosmo­po­li­ti­smo, che si occupa di norme, noi con­fi­diamo nella cosmo­po­li­tiz­za­zione, cioè l’interdipendenza non solo eco­no­mica e poli­tica, ma anche etica tra sin­goli, gruppi e nazioni, che si occupa di fatti e che si svi­luppa dal basso e dall’interno, in ciò che avviene quo­ti­dia­na­mente, e che spesso resta inav­ver­tita. Per esem­pio, le donne che dal Sud del mondo arri­vano in Occi­dente, pren­dono atto di una tan­gi­bile pos­si­bi­lità di vivere il rap­porto con l’uomo su un altro piano, molto meno avvi­lente per loro.

Pare però che l’Occidente, anche nelle rela­zioni amo­rose, si stia avvi­tando su se stesso in una dimen­sione indi­vi­dua­li­stica che pre­scinde dalle «per­sone», dove il verbo «per-sonare» implica il «sonare attra­verso» altre per­sone, inten­dendo la libertà come un qual­cosa che si rea­lizza insieme agli altri, come scrive Magatti nel suo ultimo libro «Gene­ra­tivi di tutto il mondo, uni­tevi». Jac­ques Attali nel 2007 ha pub­bli­cato « Amours», in cui esal­tava l’amore mul­ti­plo, la poliu­nione, la poli­fe­deltà e imma­gi­nava un futuro di rela­zioni aperte in cui la bises­sua­lità sarebbe la norma, un netlo­ving in cui «per­sonne n’appartiendra à per­sonne». Ma il «nostro» mondo è solo un ottavo del mondo intero, e altrove il desi­de­rio di una fami­glia sta­bile, di un luogo dove sen­tirsi dav­vero «a casa» è par­ti­co­lar­mente sentito…

Ogni movi­mento implica una bidi­re­zio­na­lità, e certo le tra­sfor­ma­zioni avven­gono attra­verso un reci­proco con­di­zio­na­mento. Il rispetto e l’onore, che gover­nano le tran­sa­zioni e gli equi­li­bri di tanta parte del Sud del mondo, sono stati smar­riti nella sfre­na­tezza indi­vi­dua­li­stica della nostra civiltà, ma gra­zie alle nuove rap­pre­sen­ta­zioni che emer­ge­ranno potremo forse tor­nare a con­si­de­rarli valori fondanti.

Sono nume­ro­sis­simi gli esempi let­te­rari che pun­teg­giano la sua ricerca socio­lo­gica, etno­gra­fica e antro­po­lo­gica. Si impara molto dal romanzo di Moh­sin Hamid «Il fon­da­men­ta­li­sta rilut­tante», non solo rispetto allo scon­tro di civiltà e all’«inversione bio­gra­fica» di cui lei parla nel libro, ma anche rispetto alla rela­zione del pro­ta­go­ni­sta con la ricca e fra­gile ragazza ame­ri­cana di cui si inna­mora. Zyg­munt Bau­man sostiene nella sua ultima opera «La scienza della libertà» che la let­te­ra­tura è una sorella della socio­lo­gia. Può essere pre­ziosa per­ché le per­mette di cogliere que­gli ele­menti dell’esperienza sog­get­tiva che sono costi­tu­tivi del nostro essere nel mondo e che fini­reb­bero altri­menti nel dimen­ti­ca­toio qua­lora ci si limi­tasse ad ana­lisi quan­ti­ta­tive pun­tuali quanto aride. È d’accordo con lui?

Cer­ta­mente. Infatti, fin dal primo capi­tolo, pun­tello il mio stu­dio men­zio­nando tre romanzi che sono diven­tati dei best-seller e che ren­dono più vivido il mio discorso. Il primo, di Marina Lew­ycka, che riprendo poi nel quinto capi­tolo per par­lare delle migranti che cer­cano marito in paesi più for­tu­nati, rende con evi­denza sen­si­bile «l’altra fac­cia della luna» dell’emigrazione fem­mi­nile, voli­tiva e rapace, attra­verso la sto­ria di una bel­lis­sima donna ucraina di 36 anni che sposa un inglese ottan­ta­quat­trenne e ricor­rendo alle sue affi­late armi di sedu­zione lo spreme come un limone fin­ché il suo patri­mo­nio si esau­ri­sce e con esso fini­sce anche il matri­mo­nio.

Il secondo, di Betty Mah­moody, è la sto­ria auto­bio­gra­fica di una donna del nor­da­me­rica che sposa un ira­niano e si lascia con­vin­cere da lui a seguirlo nel suo paese d’origine con la figlia per ritro­var­visi seque­strata, defrau­data di qua­lun­que libertà d’espressione, fin­ché dopo un anno e mezzo non rie­sce a fug­gire e a ridare così a sé e alla figlia la libertà. È molto impor­tante cogliere il punto di vista, le per­ce­zioni e le emo­zioni di chi vive una situa­zione e senza nar­rarne la sto­ria tutto que­sto ovvia­mente non è pos­si­bile.
Nel terzo romanzo men­zio­nato pre­do­mina l’umorismo che sca­tu­ri­sce dal confronto-scontro fra la gio­iosa ten­denza all’improvvisazione degli ita­liani e il rigore tal­volta un po’ cupo dei tede­schi. Penso che anche il cinema rive­sta un ruolo impor­tante nel ren­dere «carne e san­gue» le tra­sfor­ma­zioni in atto. Parlo anche del libro tra­spo­sto nel film Lost in Trans­la­tion dove per la pro­ta­go­ni­sta si alter­nano, alla domanda «spo­sarsi, sì o no?», la rispo­sta polacca, di ripulsa, e quella ame­ri­cana, di accet­ta­zione.
In que­sta meta­mor­fosi che stiamo vivendo, le nostre ambi­va­lenze si accre­sce­ranno, ma alla fine spe­riamo pre­val­gano rispo­ste che ren­dano migliori le nostre vite comuni.

La nostra sfortuna è stata nella coincidenza storica tra due eventi: da un lato, cresceva la consapevolezza della catastrofe planetaria cui lo sviluppo del capitalismo ci stava conducendo; dall'altro, negli stessi l'ideologia e la prassi di quel devastante sviluppo divenivano dominanti. Il manifesto, 21 settembre 2014

Non siamo riu­sciti a dimi­nuire le emis­sioni per­ché alla fine le cose che dob­biamo fare sono in con­tra­sto con il «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», e cioè con l’ideologia che domina da quando ten­tiamo di tro­vare il modo per uscire da que­sta crisi. Non riu­sciamo a sbloc­care la situa­zione per­ché le azioni che offri­reb­bero mag­giori pos­si­bi­lità di evi­tare la cata­strofe (e che andreb­bero a bene­fi­cio di un’ampia mag­gio­ranza) rap­pre­sen­tano una grave minac­cia per una élite mino­ri­ta­ria che tiene com­ple­ta­mente sotto con­trollo la nostra eco­no­mia, i nostri pro­cessi di deci­sione poli­tica e la mag­gior parte dei mezzi di comunicazione.

Forse il pro­blema non sarebbe stato insor­mon­ta­bile se fosse emerso in un momento sto­rico diverso ma per grande sfor­tuna di tutti noi, la comu­nità scien­ti­fica è giunta a for­mu­lare la sua dia­gnosi deci­siva sulla minac­cia cli­ma­tica pro­prio nel momento in cui le élite assa­po­ra­vano un potere poli­tico, cul­tu­rale e intel­let­tuale senza para­goni se non con i primi anni Venti del ’900. Governi e scien­ziati, infatti, hanno comin­ciato a par­lare seria­mente di tagli dra­stici alle emis­sioni di gas serra nel 1988 — pro­prio l’anno in cui si pro­filò quella che si sarebbe chia­mata «glo­ba­liz­za­zione» e l’anno in cui fu fir­mato il Nafta, l’accordo sulla più grande intesa com­mer­ciale del mondo. All’inizio, tra il Canada e gli Stati Uniti, diven­tato poi, con l’inclusione del Mes­sico, l’accordo Nafta.

Quando gli sto­rici osser­ve­ranno in retro­spet­tiva i nego­ziati inter­na­zio­nali dell’ultimo quarto di secolo vedranno due pro­cessi cru­ciali spic­care sugli altri. Il primo sarà quello del nego­ziato mon­diale sul clima, che pro­cede avan­zando a stento, senza mai rag­giun­gere i pro­pri obiettivi. L’altro sarà il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione delle grandi imprese, che invece avanza spe­dito di vit­to­ria in vittoria (…).

I tre pila­stri su cui si fon­dano le poli­ti­che di que­sta nuova era li cono­sciamo bene: pri­va­tiz­za­zione della sfera pub­blica, dere­go­la­men­ta­zione di tutte le atti­vità di impresa e sgravi fiscali alle mul­ti­na­zio­nali, tutti pagati con tagli alla spesa statale.

Molto è stato scritto sui costi reali di que­ste poli­ti­che: l’instabilità dei mer­cati finan­ziari, gli eccessi dei super ric­chi, la dispe­ra­zione di poveri sem­pre più sfrut­tati, lo stato fal­li­men­tare di infra­strut­ture e ser­vizi pubblici. Pochis­simo, invece, è stato scritto sul modo in cui il fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato, sin dai primi momenti, ha sabo­tato in maniera siste­ma­tica la nostra rispo­sta col­let­tiva al cam­bia­mento cli­ma­tico, una minac­cia che si è pro­fi­lata pro­prio quando quella ideo­lo­gia era al suo apice.

Il pro­blema cen­trale è che l’abbraccio mor­tale eser­ci­tato in que­sto periodo dalla logica di mer­cato sulla vita pub­blica fa appa­rire le rea­zioni più ovvie e dirette alle que­stioni cli­ma­ti­che come un’eresia poli­tica. Per fare un esem­pio: come si può inve­stire mas­sic­cia­mente in ser­vizi pub­blici e infra­strut­ture a emis­sioni zero in un momento in cui la sfera pub­blica viene siste­ma­ti­ca­mente sman­tel­lata e sven­duta? I governi come pos­sono rego­la­men­tare, tas­sare e pena­liz­zare pesan­te­mente le aziende di com­bu­sti­bili fos­sili in un momento in cui qual­siasi mano­vra del genere viene liqui­data come un resi­duo di comu­ni­smo auto­ri­ta­rio? E, infine, come si può dare soste­gno e tutele al set­tore delle ener­gie rin­no­va­bili per sosti­tuire i com­bu­sti­bili fos­sili quando «pro­te­zio­ni­smo» è diven­tata una parolaccia?

Se fosse stato diverso, il movi­mento per il clima avrebbe ten­tato di sfi­dare l’ideologia estrema che sta osta­co­lando tante azioni sen­sate, avrebbe unito le forze con altri set­tori per dimo­strare che il potere delle cor­po­ra­tion, lasciato senza freni, rap­pre­senta una grave minac­cia per l’abitabilità del pianeta.

Gran parte del movi­mento per il clima, invece, ha spre­cato decenni pre­ziosi nel ten­ta­tivo di inca­strare la chiave qua­drata della crisi cli­ma­tica nella toppa rotonda del «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», alla ricerca infi­nita di solu­zioni al pro­blema che fos­sero for­nite dal mer­cato stesso.

(Traduzione di Barbara Del Mercato)
«Riproposta dal Saggiatore

L’immaginazione sociologica del teorico statunitense, assente nelle librerie da decenni. Un libro ancora attuale nella sua capacità di svelare e denunciare i limiti della parcellizzazione nella produzione culturale». Il manifesto, 4 settembre 2014

Quando esce, il suo nome è già noto ed è asso­ciato a due saggi che hanno ter­re­mo­tato il palu­dato mondo delle cosid­dette scienze sociali sta­tu­ni­tensi. Negli anni Cin­quanta, Char­les Wright Mills aveva, infatti, messo sotto accusa la for­ma­zione e i mec­ca­ni­smi di sele­zione delle élite al potere e l’ascesa dei «col­letti bian­chi», quel ceto medio che occu­pava il cen­tro della scena sociale, spo­de­stando dal podio il self made man, figura mitica attra­verso la quale gli Stati Uniti erano pre­sen­tati il regno delle infi­nite pos­si­bi­lità di suc­cesso. Lo scan­dalo delle sue opere veniva dal fatto che Wright Mills, in pieno mac­car­ti­smo, non esi­tava a citare Karl Marx e a soste­nere che negli scritti dell’economista mar­xi­sta Paul Sweezy ci sono molti ele­menti utili a dif­fe­renza di quanto invece si poteva e si può tro­vare tro­vare negli scritti degli eredi del libe­rale John Stuart Mill. Alle accuse di essere un comu­ni­sta mime­tico, Wright Mills rispon­deva sar­ca­sti­ca­mente che se inter­ro­gato non avrebbe avuto remore a defi­nirsi un wob­bly, evo­cando la breve e tut­ta­via impor­tante espe­rienza di sin­da­ca­li­smo rivo­lu­zio­na­rio che nei primi venti anni del Nove­cento, prima cioè che inter­ve­nisse la poli­tica di annien­ta­mento dell’Iww (Indu­strial wor­kers of world), aveva espresso le posi­zioni poli­ti­che più radi­cali nella sfera pub­blica sta­tu­ni­tense. E altret­tanto pro­vo­ca­to­ria­mente da lì a pochi anni scri­verà una serie di ritratti dei «mar­xi­sti» più signi­fi­ca­tivi del Nove­cento, men­tre nel 1960 sosterrà, con un lungo e discusso sag­gio, la rivo­lu­zione cubana, con­si­de­rata una pos­si­bile alter­na­tiva sia al capi­ta­li­smo che al socia­li­smo di stato di stampo sovie­tico.
I saggi sulle élite e sui col­letti bian­chi ave­vano quindi tra­sfor­mato un pro­met­tente stu­dioso in una figura cen­trale nella socio­lo­gia sta­tu­ni­tense. La pub­bli­ca­zione de L’immaginazione socio­lo­gica (ora ripro­po­sta dal Sag­gia­tore, pp. 244, euro 13) nel 1959 può quindi essere con­si­de­rata la parte con­clu­siva del trit­tico ini­ziato con il testo sulle élite. Con que­sto libro, Wright Mills si dà un obiet­tivo ambi­zioso e per rag­giun­gerlo sa che deve misu­rarsi non solo con «scuole di pen­siero» che fanno il cat­tivo e buon tempo nelle facoltà sta­tu­ni­tensi, ma anche con il potere sociale che espri­mono gra­zie al fatto che sono diven­tate le ancelle del potere eco­no­mico e poli­tico.
Da una parte c’è il fun­zio­na­li­smo di Tal­cott Par­son – defi­nito iro­ni­ca­mente da Wright Mills la «Grande Teo­riz­za­zione» -, dall’altra l’empirismo radi­cale di Paul Lazar­sfeld. Il primo rite­neva che le scienze sociali doves­sero svi­lup­pare modelli di inter­pre­ta­zioni della realtà astraen­dosi dai rap­porti di forza pre­senti nella società capi­ta­li­ste: modelli che dove­vano eli­mi­nare ogni spe­ci­fi­cità sto­rica, ogni dif­fe­renza esi­stente tra realtà segnate da un alto tasso di ete­ro­ge­neità per poi essere appli­cati indif­fe­ren­te­mente sia a società capi­ta­li­ste che quelle stig­ma­tiz­zate come «sot­to­svi­lup­pate».
Verso la «Grande teo­riz­za­zione» Wight Mills usa parole sprez­zanti verso lo stile crip­tico che la con­trad­di­stin­gue, pre­sen­tando pagine di esi­la­rante let­tura lad­dove pro­pone invo­luti brani tratti dai libri di Par­son per poi sin­te­tiz­zarli in poche righe. L’oscurità della «Grande teo­riz­za­zione» è dun­que da con­si­de­rare un ordine del discorso, direbbe il dili­gente ammi­ra­tore di Michel Fou­cault, che legit­tima il potere costituito.

Tra biografia e storia

L’altro ber­sa­glio pole­mico è l’empirismo radi­cale Lazar­sfeld, il socio­logo austriaco coau­tore di uno dei più impor­tanti ana­lisi sulla disoc­cu­pa­zione - I disoc­cu­pati di Marien­thal - e tra­sfe­ri­tosi negli Stati Uniti nel 1933, diven­tando uno delle figure di primo piano della Colum­bia Uni­ver­sity (la stessa dove inse­gnava Wright Mills) e della socio­lo­gia ame­ri­cana. Rispetto alla cen­tra­lità dei fatti e l’irrilevanza della teo­ria pro­spet­tate da Lazar­sfeld, Wright Mills sostiene invece che l’«immaginazione socio­lo­gica» è indi­spen­sa­bile, per­ché con­sente di cogliere sia le ten­sioni, i sen­ti­menti indi­vi­duali, met­ten­doli però in rela­zione con lo svi­luppo sto­rico e le rela­zioni allar­gate che accom­pa­gnano il suo stare in società: «l’immaginazione socio­lo­gica - scrive Wright Mills - ci per­mette di affer­rare la bio­gra­fia e sto­ria e il loro mutuo rap­porto nell’ambito della società». Inol­tre, per rela­zioni sociali lo stu­dioso ame­ri­cano intende anche il ruolo che hanno le divi­sioni in classe nello vita indi­vi­duale, la «com­po­si­zione sociale» delle élite, non­ché il tipo di lavoro che i sin­goli svol­gono. Anche in que­sto caso, l’ironia e il sar­ca­smo la fanno da padrone, in par­ti­co­lare modo quando il let­tore è invi­tato a svol­gere un espe­ri­mento men­tale per cer­care come sia pos­si­bile defi­nire la tota­lità di una realtà sociale, ele­vando a modello gene­rale ciò che accade in una pic­cola e pro­vin­ciale cit­ta­dina, pre­sen­tando come un aggre­gato sta­ti­stico di com­por­ta­menti, igno­ran­done sto­ria, stra­ti­fi­ca­zione sociale e «raz­ziale», flussi migra­tori, il ruolo svolto dalla reli­gione come anche dell’amministrazione poli­tica locale e da quella fede­rale. In altri ter­mini, le «scienze sociali» devono ope­rare affin­ché il «pre­sente si pre­senti come sto­ria», evo­cando il titolo di un testo che Paul Sweezy scrisse per con­tra­stare la nor­ma­liz­za­zione della pro­du­zione cul­tu­rale sta­tu­ni­tense dopo l’impegno pub­blico degli intel­let­tuali a favore delle riforme sociali e poli­ti­che pro­po­ste durante il New Deal.

La cen­tra­lità asse­gnata alla sto­ria fa sì che Wright Mills, e siamo nel 1959, parli espres­sa­mente dell’avvento del post­mo­derno — la «Quarta epoca» — visto che ogni for­ma­zione sociale prende forma, si svi­luppa per poi decli­nare, lasciando il posto ad un’altra for­ma­zione sociale. Da que­sto punto di vista emerge una ina­spet­tata «attua­lità» del suo invito a con­te­stua­liz­zare sto­ri­ca­mente la realtà sociale, senza nes­suna con­ces­sione a un rela­ti­vi­smo e a un gene­rico plu­ra­li­smo teo­rico. Wright Mills è uno stu­dioso del capi­ta­li­smo, ne vuole cogliere le inva­rianti ma anche le discon­ti­nuità. Ma emerge anche la sua inat­tua­lità, lad­dove con­si­dera l’«ethos buro­cra­tico» come una carat­te­ri­stica del post­mo­derno pros­simo a venire, vista invece la cen­tra­lità che l’individuo pro­prie­ta­rio ha assunto nelle società con­tem­po­ra­nee. Non una società abi­tata da «robot docili» affi­liati a una orga­niz­za­zione vin­co­lata a un ethos buro­cra­tico, bensì uomini e donne che vedono nella rescis­sione dei suoi legami sociali il pre­lu­dio a una libertà radi­cale. Va però detto che L’immaginazione socio­lo­gica, nella sua inat­tua­lità, è pur sem­pre un godi­bile anti­doto verso la reto­rica reto­rica indi­vi­dua­li­sta del neo­li­be­ri­smo, lad­dove ne svela il carat­tere ideo­lo­gico, per­for­ma­tivo dei rap­porti sociali.

Autonomie universitarie

È su que­sto cri­nale che il volume rivela infine sen­tieri di ricerca che andreb­bero ripresi. La denun­cia del ruolo delle «scienze sociali» come disci­pline volte a costruire il con­senso al potere costi­tuito, la denun­cia del carat­tere ottun­dente della par­cel­liz­za­zione del sapere che carat­te­riz­zava e carat­te­rizza la pro­du­zione cul­tu­rale hanno infatti una forza per­sua­siva in con­tro­ten­denza rispetto a quando accade nelle facoltà uni­ver­si­ta­rie al di là e al di qua dell’Atlantico, dove la ten­denza a defi­nire «ogget­tivi» cri­teri di valu­ta­zione e a misu­rare la qua­lità della ricerca scien­ti­fica e sociale in base al loro uti­lizzo eco­no­mico la fanno da padrone. Inte­res­sante sono quindi le pagine sull’autonomia dell’università dai poteri eco­no­mici e poli­tici: ele­mento tutt’ora indi­spen­sa­bile per garan­tire l’indipendenza dello stu­dioso e per argi­nare la ten­denza a misu­rare in base ai pro­fitti deri­vanti, diret­ta­mente come pro­prietà intel­let­tuale o indi­ret­ta­mente come inno­va­zione, dalla pro­du­zione cul­tu­rale.
Dun­que un libro che andrebbe riletto non per cer­care lumi sul pre­sente, ma per acqui­sire un’attitudine cri­tica rispetto la realtà capi­ta­li­stica, facendo così i conti con le tra­sfor­ma­zione che l’hanno carat­te­riz­zato. Non per riven­di­care una imma­co­lata auto­no­mia dello stu­dioso, ma per svi­lup­pare un’attitudine woo­bly, par­ti­giana nella pro­du­zione cul­tu­rale. L’unica che con­sente dav­vero di cono­scere la realtà.
Un libro su un tema decisivo per comprendere come la città e il territorio possano divenire più belli e più equi:

Senza pro­prietà non c’è libertà [falso], di Ugo Mattei (Laterza). Il manifesto, 29 agosto 2014

Il neo­li­be­ra­li­smo con­tem­po­ra­neo è un grande con­su­ma­tore di libertà, ricor­dava Michel Fou­cault durante quei corsi che, in presa diretta, pro­va­vano a capire cosa stava acca­dendo sul finire degli anni Set­tanta, quando la crisi del wel­fare state comin­ciava ad essere gestita in modo aggres­sivo da nuovi pro­ta­go­ni­sti. Con­su­mare libertà signi­fica evi­den­te­mente nutrir­sene per il pro­prio fun­zio­na­mento: ma, allo stesso tempo, con­trol­larla e gover­narla con­ti­nua­mente, lascian­done ben poca. Nel suo recente «Senza pro­prietà non c’è libertà» (Falso!), uscito per la col­lana Idòla di Laterza (pp. 78, euro 9), Ugo Mat­tei sce­glie come obiet­tivo pole­mico il dispo­si­tivo prin­ci­pale attra­verso cui il libe­ra­li­smo ha reso «con­su­ma­bile» la libertà: la costru­zione sto­rica di un nesso, tanto stretto quanto men­zo­gnero, tra libertà e pro­prietà. Mat­tei, coi toni mar­tel­lanti del pam­phlet, mostra come, al con­tra­rio, la pro­prietà sia sem­pre ser­vita a rimet­tere ordine con­tro le ten­ta­zioni di una libertà ecce­dente e a distrug­gere le pos­si­bi­lità di una libertà in comune. La genesi della sovrap­po­si­zione tra libertà e pro­prietà è facil­mente rin­trac­cia­bile nel costi­tu­zio­na­li­smo libe­rale «clas­sico». Lo pro­cla­merà sir Wil­liam Black­stone a chiare let­tere nel tardo Set­te­cento: la difesa della libertà coin­cide senza scarti con la difesa della pro­prietà pri­vata. Senza pro­prietà, che è «domi­nio dispo­tico» sulle cose, si cadrebbe ine­vi­ta­bil­mente sotto il domi­nio degli altri.

La legge del potere

Era stato John Locke, un secolo prima, a trac­ciare le linee fon­da­men­tali di que­sto modello. Prima mossa: la pro­prietà è la vera garan­zia della libertà, da cui discende che il vero sog­getto libero è quello pro­prie­ta­rio. Attorno alla pro­prietà si costrui­sce, anzi, la stessa strut­tura del sog­getto. Il sog­getto giu­ri­dico è libero in quanto pro­prie­ta­rio della pro­pria per­sona e, prima ancora, del pro­prio lavoro. In secondo luogo, il sovrano è il garante della libertà/proprietà. Lo Stato è uno stru­mento fina­liz­zato alla tutela del sog­getto pro­prie­ta­rio: di qui l’asimmetria sto­rica, for­te­mente sot­to­li­neata da Mat­tei, tra la forte difesa della pro­prietà pri­vata nei con­fronti del pub­blico e l’assenza di ogni rime­dio quando invece è il pub­blico stesso a voler pri­va­tiz­zare. Terzo e fon­da­men­tale momento: prima ancora della distin­zione tra pub­blico e pri­vato, tra sovrano e sog­getto, inter­viene un atto di espro­pria­zione, di rot­tura del comune, costi­tu­tivo di quella stessa distin­zione. In altri ter­mini: pro­prietà e sovra­nità, lungi dall’opporsi l’una all’altra, sono due aspetti della stessa forza appro­pria­tiva, della mar­xiana accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria.

Sono i due aspetti, per­fet­ta­mente sim­me­trici, della pro­prietà pri­vante, di cui Mat­tei segue le tracce: il primo è quello appro­pria­tivo, il secondo la capa­cità di pro­durre e for­giare il sog­getto pro­prie­ta­rio. Al di là dei modi attra­verso i quali il diritto ha sem­pre pro­vato a nor­ma­ti­viz­zare e ad addol­cire la sua vio­lenza, l’origine della pro­prietà richiama comun­que il sac­cheg­gio, il pre­mio pro­messo ai sol­dati per la con­qui­sta. Mat­tei pre­senta alcuni foto­grammi molto vividi di quella che defi­ni­sce una tas­so­no­mia geno­cida: dalla pro­prietà fon­dia­ria indi­vi­duale inglese, la free tenuresigni­fi­ca­ti­va­mente fatta risa­lire a Guglielmo il Con­qui­sta­tore, alla con­qui­sta delle Ame­ri­che, quando, ricorda Mat­tei, sulla Santa Maria venne imbar­cato un notaio, pronto a cer­ti­fi­care l’avvenuto acqui­sto a titolo ori­gi­na­rio; sino alla scena delleenclo­su­res, quando Locke, segre­ta­rio per­so­nale di un grande pro­prie­ta­rio ter­riero, san­ti­fica giu­ri­di­ca­mente l’appropriazione delle terre.

Dopo il saccheggio

In modo molto appas­sio­nato, Mat­tei ci ricorda anche come tutta que­sta sto­ria sia stata can­cel­lata dall’insegnamento uni­ver­si­ta­rio main­stream del diritto, com­plice la pro­fes­sio­na­liz­za­zione spinta delle facoltà di giu­ri­spru­denza. Accanto all’origine appro­pria­tiva e vio­lenta, la pro­prietà pri­vante però ha anche l’aspetto, appa­ren­te­mente più soft, della costru­zione del sog­getto pro­prie­ta­rio: è pro­du­zione di sog­get­ti­vità, non solo sac­cheg­gio e con­qui­sta. Ma anche que­sta seconda fac­cia mostra quanto sia fal­lace il bino­mio proprietà/libertà: il rap­porto con la libertà è molto pro­ble­ma­tico, infatti, non solo per gli esclusi e gli spos­ses­sati, ma per­sino per i pro­prie­tari stessi. La pro­prietà pro­duce assog­get­ta­mento per lo stesso pro­prie­ta­rio: Mat­tei ricorda a buona ragione come la pro­messa del tutti pro­prie­tari della pro­pria casa abbia fun­zio­nato, all’inizio della crisi, come potente spinta all’indebitamento. Anche qui, non c’è nes­sun «pub­blico» più o meno «buono» che abbia fun­zio­nato da pro­te­zione con­tro i mec­ca­ni­smi di spos­ses­sa­mento: sem­mai invece è pro­prio «la sim­biosi mutua­li­stica tra Stato e pro­prietà pri­vata», scrive Mat­tei, a ripro­durne con­ti­nua­mente le con­di­zioni.

Oggi che la pro­prietà si pre­senta con il suo volto estrat­tivo al di fuori di qual­siasi media­zione wel­fa­ri­stica, il con­fronto si spo­sta neces­sa­ria­mente sul ter­reno poli­tico costi­tuente: è evi­dente, e Mat­tei lo fa emer­gere in pieno, che ria­prire il discorso dei beni comuni, degli usi, della riap­pro­pria­zione, è pos­si­bile solo attra­verso isti­tu­zioni con capa­cità gene­ra­tive che si pon­gano oltre quella pola­rità pubblico/privato che ha segnato la sto­ria del costi­tu­zio­na­li­smo. Ter­reno costi­tuente, ci sem­bra, non può qui che signi­fi­care un pro­cesso di rot­tura di quella pola­rità, e non sem­pli­ce­mente uno spa­zio «terzo», più o meno equi­di­stante da pub­blico e pri­vato. Mat­tei parla a que­sto pro­po­sito di una pro­prietà gene­ra­tiva, sot­to­li­neando però con forza che si tratta dell’opposto della pro­prietà quale la cono­sciamo: da parte nostra, lasce­remmo cadere senza nes­sun rim­pianto anche il nome, se non altro per amor di puli­zia con­cet­tuale. Ma, al di là delle que­stioni ter­mi­no­lo­gi­che, l’importante ora è che la cri­tica della pro­prietà rie­sca a porsi all’altezza delle tra­sfor­ma­zioni radi­cali della pro­prietà stessa.

Le questioni da affrontare

La forza estrat­tiva della pro­prietà ha oggi dimen­sioni quan­ti­ta­tive, ma soprat­tutto qua­li­ta­tive e inten­sive, nuove: è oggi diven­tata estra­zione di valore dall’intera società, attra­verso mol­te­plici e intri­cate forme di sfrut­ta­mento del lavoro e forme di spos­ses­sa­mento delle risorse, cogni­tive e mate­riali. In que­sto qua­dro, un radi­ca­mento reale sul ter­reno costi­tuente richiede che si affronti diret­ta­mente il pro­blema dell’organizzazione poli­tica di que­ste lotte e della loro con­nes­sione più ampia con le lotte del lavoro vivo in tutte le sue forme. Solo se i movi­menti dei beni comuni attra­ver­se­ranno in pieno, come già hanno a tratti mostrato di saper fare, le que­stioni gene­rali della coo­pe­ra­zione sociale nella metro­poli, della crisi del wel­fare, del red­dito, potremo evi­tare il rischio che la forza anti­pro­prie­ta­ria dei beni comuni sia rias­sor­bita in un paci­fi­cato com­mons mana­ge­ment, e che l’«oltre il pub­blico e il pri­vato» sia cat­tu­rato dagli infi­niti dispo­si­tivi di governo pubblico/privato che garan­ti­scono il fun­zio­na­mento pro­prio di quel nuovo estrat­ti­vi­smo che inten­diamo combattere.

postilla
Il tema, in sostanza, non è quello della proprietà in se, ma quelli di chi si il soggetto proprietario (privato, pubblico, comune, ecc), quale il rapporto tra i diversi soggetti proprietari e, infine, quale quello dei rapporti di questi con i soggetti fruitori, cioè con l'umanità (se vogliamo fermarci al mondo che conosciamo un po' meglio)

A Roma, il 10 ottobre, seminario della sul rapporto tra politiche abitative, rigenerazione urbana e diritto alla città. Qui trovate il programma. Per partecipare è necessario iscriversi.

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