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«di Isola di Capo Rizzuto (Crotone), considerato fra i più grandi d’Europa per estensione e potenza erogata, tra i beni per 350 milioni di euro sequestrati dai finanzieri di ». Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2017 (p.s.)

Ammonta a circa 350 milioni il sequestro effettuato dalla Guardia di finanza di Catanzaro alla ‘ndrangheta di Crotone. Nel mirino della Dda c’è la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto che si è vista applicare i sigilli al parco eolico “Wind Farm”. Su richiesta del procuratore Nicola Gratteri e dell’aggiunto Vincenzo Luberto, gli uomini del colonnello Michele Di Nunno hanno eseguito il decreto emesso dal Tribunale nei confronti di Pasquale Arena, nipote del vecchio boss Nicola Arena (fino a poco tempo fa detenuto al 41 bis) e fratello di Carmine Arena, ucciso a colpi di bazooka nell’ottobre 2004. Dietro il parco eolico più grande d’Europa “ci sono i soldi e i beni accumulati in anni e anni di comportamenti mafiosi – dice Gratteri – La cosca Arena è tra le più agguerrite, una famiglia che in modo costante ha dominato il respiro sociale ed economico del territorio”.

Funzionario del Comune di Isola Capo Rizzuto, Pasquale Arena è ritenuto il gestore occulto degli affari della cosca, l’uomo che curava gli interessi economici della famiglia e che era riuscito, attraverso una fitta rete di società tedesche, svizzere e della Repubblica di San Marino, a far entrare la famiglia mafiosa nel business delle energie rinnovabili. Le società estere, infatti, detenevano formalmente le quote sociali di altre tre società con sede a Crotone e Isola. Un sistema di scatole cinesi che ha consentito a Pasquale Arena di ottenere le autorizzazioni da parte degli enti locali e di realizzare e avviare, per conto della cosca, il parco eolico “Wind Farm” con 48 aerogeneratori e diverse opere accessorie.

Il procuratore Gratteri ha ripreso una vecchia indagine e ha inferto un duro colpo all’impero che sembrava ritornato in mano alla cosca Arena. L’inchiesta delle Fiamme gialle, infatti, aveva portato alcuni anni fa già al sequestro preventivo degli stessi beni che, però, in seguito ad alcuni ricorsi, erano stati restituiti ai formali intestatari delle società coinvolte nell’indagine. La successiva attività investigativa, coordinata dal pm Domenico Guarascio, ha consentito agli investigatori del Nucleo di polizia tributaria di ricostruire i vari passaggi dell’investimento e ricondurre il parco eolico nell’impero degli Arena.

Con l’operazione di oggi, denominata “l’Isola del vento”, i finanzieri del Gico sono riusciti a svelare il sistema adottato dalla ‘ndrangheta per schermare il patrimonio. Un sistema che, secondo gli investigatori, era costituito da sofisticati e complessi reticoli societari e da strane cessioni di quote che servivano a occultare i veri padroni di uno dei parchi eolici più grandi d’Europa. In particolare il coinvolgimento della famiglia Arena nel progetto sarebbe avvenuto attraverso la partecipazione nella compagine societaria della “Purena Srl”, che deteneva partecipazione nella “Vent1 Capo Rizzuto Srl”.

Quest’ultima poi è subentrata alla società sammarinese “Seas Srl” (rappresentata da Maximiliano Gobbi) che, per prima, aveva chiesto l’autorizzazione a realizzare il parco “Wind Farm” al Comune di Isola Capo Rizzuto. Dalle indagini era emerso, inoltre, che l’agente mandatario della “Seas Srl” era Nicola Arena (nipote dell’omonimo boss) che però era “assolutamente privo – sostengono gli inquirenti – di qualsivoglia competenza tecnico-professionale, sia nello specifico settore delle energie alternative, sia, più in generale, nel campo giuridico-economico necessario alla stipula degli atti amministrativi”. Ma Nicola Arena era anche socio della “Purena Srl” a sua volta socia della “Vent1 Capo Rizzuto Srl” che ha realizzato materialmente il parco e che era amministrata dal tedesco Martin Josef Frick, personaggio chiave dell’inchiesta.

In un’intercettazione del 27 aprile 2009, infatti, i finanzieri sentono parlare al telefono Frick con un’impiegata di uno studio notarile alla quale comunicava i nominativi dei proprietari dei fondi su cui insisteva il parco. Le pale eoliche, in sostanza, erano state impiantate nei terreni riconducibili direttamente alla famiglia Arena o ai loro prestanome.

Una nuova tempesta squassa l'edificio di potere eretto dal ragazzo di Rignano. Si tratta di grandi tangenti sugli appalti pubblici. Articoli di Adriana Pollice, Fulvio Fiano e Giovanni Bianconi,

il manifestoCorriere della sera, 2 marzo 2017


il manifesto
COS’È CONSIP

Consip è la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. La legge prevede che operi nell’esclusivo interesse dello Stato e il suo azionista unico è il ministero dell’economia e delle finanze (Mef) del quale è una società in-house.

Nata nell’agosto del 1997 come Concessionaria servizi informativi pubblici per la gestione dei servizi informatici dell’allora ministero del tesoro, con la legge finanziaria del 2000 le viene affidato il compito della razionalizzazione della spesa pubblica per i beni e servizi, in sostituzione del Provveditorato generale dello Stato. Successivamente il suo compito si amplia e ne viene potenziato il ruolo di centrale di committenza nazionale. Nel 2015 Consip partecipa al programma del governo Renzi – guidato dall’allora commissario alla spending review Yoram Gutgeld – di ridurre a 35 centrali acquisti il numero di stazioni appaltanti deputate a gestire le grandi gare.

Lo scopo principale è quello di rendere «più efficiente e trasparente» l’utilizzo delle risorse pubbliche, fornendo alle amministrazioni gli strumenti per la gestione degli acquisti di beni e servizi. Le singole amministrazioni vengono supportate in tutti gli aspetti del processo di approvigionamento attraverso convenzioni.

Per legge il prezzo di riferimento per l’acquisizione di beni e servizi non può essere superato da un’amministrazione che voglia acquistare quel determinato bene o servizio o un altro di pari caratteristiche.

il manifesto
CONSIP, ARRESTATO ROMEO.
UN MEGA-LOTTO NEL MIRINO
di Adriana Pollice

Giungla d'appalto. L’imprenditore napoletano accusato di corruzione con un funzionario della Spa del ministero del Tesoro. Perquisite le abitazioni dell’ex An Bocchino e di Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi

Carabinieri e polizia tributaria hanno bussato ieri mattina alla porta di Alfredo Romeo: il tribunale di Roma ne ha disposto la custodia in carcere, a Regina Coeli. E’ accusato di corruzione per il mega appalto Consip, la spa del ministero dell’Economia incaricata dell’acquisto di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche. L’arresto si è reso necessario, spiega la procura, perché non sarebbe «in grado di contenere lo stimolo criminale». Nell’inchiesta sono indagati anche molti petali del giglio magico di Matteo Renzi, a cominciare dal padre Tiziano che si professa innocente (traffico di influenze è l’ipotesi di reato), poi l’imprenditore e amico di famiglia Carlo Russo, il ministro dello Sport Luca Lotti (accusato di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento), fino al comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette e al generale Emanuele Saltalamacchia.

Sono state perquisite abitazioni e uffici di Russo e Italo Bocchino (indagati anche loro per traffico di influenze). Russo e il padre dell’ex premier «sfruttando le relazioni esistenti tra Tiziano Renzi e l’ad di Consip, Luigi Marroni, si facevano promettere somme di denaro mensili come compenso per la loro mediazione verso Marroni» si legge nel decreto di perquisizione a carico di Russo. L’ex parlamentare di An è il braccio destro di Romeo: le intercettazioni ambientali ma, soprattutto, il virus Trojan infiltrato nei cellulari di entrambi hanno portato al disvelamento del «sistema Romeo», già ipotizzato dall’inchiesta Global service della procura di Napoli nel 2008 da cui poi l’imprenditore casertano è stato assolto in Cassazione, dopo due condanne.

Nell’indagine Consip Bocchino (retribuito con 15mila euro al mese) viene definito «consigliere strategico» di Romeo grazie alla sua «capacità di accedere a informazioni riservate grazie al suo trascorso di deputato e membro del Comitato parlamentare sui Servizi segreti». Attraverso Bocchino Romeo avrebbe scoperto di essere indagato già dal settembre 2016. E’ Bocchino che, intercettato nel gennaio 2016, spiega come funzionerebbe il rapporto politica-affari: gli appalti Consip «devono essere gestiti per favorire prevalentemente le cooperative in quanto rappresentano un bacino di voti dal quale poter attingere ed è anche e soprattutto un modo lecito per finanziare il politico di turno». E ancora: «Nelle audizioni il ministro diceva… questo è il motivo per cui non è esplosa Consip, è chiaro che la politica ha il problema del territorio… i mille pulitori sul territorio sono mille persone che danno 5mila euro ciascuno… sono mille persone che fanno un’assunzione ciascuno… sono mille persone che quando voti si chiamano i loro dipendenti… tu i tuoi dipendenti manco sai chi sono». Partecipare agli appalti, a detta degli indagati, «è una competizione criminale a chi corrompe meglio».

Il sistema Romeo si basa su due pilastri: i «prototipatori» e i «facilitatori». Alla prima categoria apparterrebbe il direttore Sourcing Servizi e Utility di Consip, Marco Gasparri: si tratta di un neologismo coniato da Romeo per individuare chi, all’interno della Pa, confeziona bandi di gara ad hoc per favorire un’impresa. Secondo il gip Gaspare Sturzo, Gasparri aveva il ruolo di «prototipatore di bandi Consip al servizio di Romeo». Bocchino invece era «il facilitatore degli interessi illeciti, il lobbista dedicato al traffico illecito di influenze». Gli appoggi politici servivano a «indurre i vertici della Consip ad assecondare le mire degli imprenditori». Se Romeo, Bocchino e Gasparri erano i vertici del sistema, nel mezzo secondo il gip ruotavano le altre pedine, «attivissime nel produrre accordi, veri o falsi, individuare referenti reali o supposti, stabilire tangenti effettive o ipotetiche. Romeo voleva sapere notizie riservate sui bandi in modo da avere un vantaggio competitivo basato sulla propalazione di notizie riservate».

A Gasparri sono stati sequestrati beni per 100mila euro, cioè quanto avrebbe ricevuto da Romeo come compenso dal 2012 al 2016: corruzione per asservimento della funzione è il reato contestato. Romeo, scrive il gip, gli avrebbe proposto «di costruire una comune ipotesi difensiva per impedire il normale corso della giustizia». Racconta Gasparri durante l’interrogatorio: «Tra il 2012 e il 2014 Romeo aveva perso tutte le gare Consip, avvertì così la necessità di avere un soggetto intraneo che con assoluta sistematicità gli fornisse informazioni sia sulle gare sia sulle dinamiche interne». E ancora: «Ho visto l’ultima volta Romeo il 29 novembre 2016. Era sudato e farfugliava, mi disse che gli avevano sequestrato dei foglietti, compreso un foglio dove c’era il mio nome con dei numeri accanto». Dallo scorso dicembre Gasparri ha deciso di collaborare: è lui a raccontare che per incontrare l’ad di Consip, Romeo aveva fatto intervenire «politici ad altissimo livello».

Corriere della sera
INCHIESTA CONSIP, ARRESTATO ROMEO
«C’ERA UNA GUERRA DI TANGENTI»
di Fulvio Fiano

Nel lessico corruttivo della pubblica amministrazione è un neologismo: prototipatore . Definizione coniata per l’alto funzionario Consip, Marco Gasparri, da parte di Alfredo Romeo, l’imprenditore finito ieri in carcere con l’accusa di avergli dato 100 mila euro in «una guerra imprenditoriale a suon di tangenti». La somma è stata sequestrata dai carabinieri del Roni e del Noe e dai finanzieri del comando provinciale di Napoli, che hanno anche perquisito le case e gli uffici dell’ex parlamentare Italo Bocchino e dell’imprenditore fiorentino Carlo Russo, accusati di traffico di influenze assieme a Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo.

Come riportato nel decreto di perquisizione, Russo e Renzi senior, in forza delle relazioni di quest’ultimo con l’ad di Consip, Luigi Marroni, «si facevano promettere da Romeo, che agiva previo concerto con Bocchino, suo consulente, somme di denaro mensili». Romeo ne avrebbe guadagnato l’aggiudicazione di tre lotti del mega bando da 2,7 miliardi, poi non completata. Renzi senior sarà interrogato domani. «Fatti insussistenti», dice il suo legale Federico Bagattini.

Da una parte, dunque, Romeo «intento a progettare una serie di infiltrazioni criminali in appalti pubblici». Dall’altra la sua rete di relazioni. «Mi occupo della documentazione di gara», spiega Gasparri al primo incontro tra i due, nel 2012. «Quindi lei fa progettazioni, prototazioni... un prototipatore», riassume Romeo. Cinquemila euro in contanti a Natale sanciscono l’accordo. Dal 2013 diverranno una «sistematica dazione di denaro».

Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi contestano la corruzione per asservimento e della funzione e quella su specifici episodi, tra cui il mega appalto Facility Management 4. Romeo deve rimettersi su piazza dopo l’arresto del 2008 ma manca dei requisiti tecnici e di competenza per partecipare. Gasparri lo segue passo passo nella presentazione dell’offerta, nella scrittura della proposta, nelle risposte alle obiezioni della commissione di gara. Lo agevola, dicono i pm, con informazioni «sensibili».

Quando poi finiscono sotto inchiesta, Romeo chiede a Gasparri di concordare una difesa comune. Ma questo va dai magistrati ed evita l’arresto (all’interno di Consip non ha più un ruolo «pericoloso»). La confessione trova riscontri nei pedinamenti, negli appuntamenti in agenda e nelle intercettazioni telefoniche e ambientali. In una di queste i due parlano a bassa voce ma si intuisce il rumore di fogli strappati, i «pizzini» poi ritrovati tra i rifiuti.

«L’importante è che tenimm’ la squadra giusta», dice l’imprenditore in un’altra circostanza. E il funzionario, parlando di soldi da avere: «Mi è rimasto di 40 (mila euro, ndr ) indietro. Ce la fa?».

«Ho sempre operato con trasparenza», dice Marroni. Coinvolto anche il suo predecessore, Domenico Casalino. M5S invita Matteo Renzi a rendere pubblici i finanziamenti avuti da Romeo, mentre il ministro Luca Lotti, che avrebbe rivelato le indagini a Romeo, si dice «tranquillissimo».

Corriere della sera
LE ACCUSE DEI PM DI ROMA:
COSÌ RUSSO E TIZIANO RENZI
SI FACEVANO PROMETTERE SOLDI
di Giovanni Bianconi

Il «gravissimo quadro di possibile infiltrazione criminale» nella gara d’appalto «con il più rilevante importo mai indetto in Europa», pari a circa 2 miliardi e 700 milioni di euro, era arrivato al «massimo livello politico». Parola di Alfredo Romeo, l’imprenditore che voleva conquistare a tutti i costi fette rilevanti di quella immensa torta, riferita dal dirigente della Consip Marco Gasparri che lo stesso Romeo aveva assunto «a libro paga». Una corruzione ammessa dal corrotto, che aggiunge: «Romeo non mi disse chi era il politico o i politici presso i quali era intervenuto, ma mi disse che si trattava del “livello politico più alto”; in proposito mi chiese se io avevo registrato, a seguito di tale suo intervento, un cambiamento di atteggiamento dell’amministratore delegato di Consip nei suoi confronti».

In sostanza, per avere un trattamento di favore dalla Centrale d’acquisto per i beni e servizi della pubblica amministrazione, Romeo s’era rivolto alle alte sfere del potere. Il giudice che ieri ne ha ordinato l’arresto precisa che ora gli inquirenti dovranno chiarire il ruolo di altri soggetti che risultano «attivissimi nel proporre accordi, veri o falsi, individuare referenti reali o supposti, stabilire tangenti effettive o ipotetiche», ma i pubblici ministeri sanno già in quale direzione indirizzare le loro verifiche.

Le somme di denaro

È scritto in un passaggio del decreto di perquisizione nei confronti di Carlo Russo, imprenditore trentatreenne di Scandicci e amico della famiglia Renzi, firmato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Mario Palazzi: dagli atti dell’inchiesta emerge come «Alfredo Romeo, previo concerto con Italo Bocchino, si sia accordato con Carlo Russo (a fronte di ingenti somme di denaro promesse) affinché questi, utilizzando le proprie relazioni (di cui vi è prova diretta) e le relazioni di Tiziano Renzi (con il quale lo stesso Russo afferma di aver agito di concerto e al quale parimenti, da un appunto vergato dallo stesso Romeo, appare destinata parte della somma promessa), indebitamente interferisca sui pubblici ufficiali presso la Consip, al fine di agevolare la società di cui Romeo è dominus». Secondo l’ipotesi investigativa, le «somme di denaro mensili» che Russo e Renzi senior «si facevano promettere» erano il «compenso per la mediazione» realizzata «sfruttando relazioni esistenti tra Tiziano Renzi e Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip».

L’alto livello politico

Il sospetto che «il livello politico più alto» raggiunto dall’imprenditore napoletano passasse proprio da Russo e dal suo rapporto con il padre dell’ex presidente del Consiglio è uno dei punti chiave dell’indagine. In virtù delle intercettazioni in cui Russo ne parla, dei pagamenti promessi da Romeo e della conoscenza dello stesso Russo con l’ex sottosegretario a Palazzo Chigi (oggi ministro dello Sport) Luca Lotti che, secondo le dichiarazioni di Michele Emiliano, avrebbe detto al presidente della Puglia che lo poteva incontrare perché «ha un buon giro...». Tra gli appunti stracciati recuperati dai carabinieri nella spazzatura dell’ufficio romano di Romeo ce n’è uno da cui risulta che a novembre 2015 l’imprenditore pagò un soggiorno a Russo e signora da 3.233 euro nell’albergo di Ischia di proprietà di alcuni suo parenti. Una struttura che, si legge in un rapporto degli investigatori dell’Arma, «insieme all’albergo di sua proprietà, viene utilizzata (da Romeo, ndr ) quale contropartita per ricompensare i pubblici ufficiali infedeli dell’opera svolta per suo conto».

La guerra e le tangenti

Nella ricostruzione dell’accusa la corruzione rappresenta una «vera e propria politica d’impresa delle società di Romeo», che l’imprenditore utilizza per provare a vincere «a suon di tangenti» una guerra con altri gruppi dai risvolti politici occulti. Dei quali il corruttore aveva una sorta di «ossessione». Ha raccontato il «funzionario infedele» Marco Gasparri nelle sue confessioni ai pubblici ministeri: «Romeo si riteneva vittima di un complotto all’interno di Consip e di essere discriminato, nel senso che riteneva che i vertici di Consip favorissero la società Cofely, capogruppo di un raggruppamento temporaneo di imprese di cui faceva parte anche una società riconducibile a tale Bigotti, imprenditore che, a suo dire, era legato all’onorevole Verdini. Per tale ragione Romeo diceva di aver operato ultimamente un intervento sull’amministratore delegato Marroni, per il tramite e attraverso “il più alto” livello politico».

È quella che il giudice dell’indagine preliminare Gaspare Sturzo chiama «legittima difesa criminale rispetto alle condotte di altri imprenditori e vertici politici e istituzionali volte all’esclusione dell’imprenditore campano»; in pratica, la corruzione di determinati soggetti per contrastare quella di altri. Quando seppero che a Napoli c’era in corso un’indagine a loro carico, Romeo e Bocchino — intercettati — auspicavano che il fascicolo fosse trasferito rapidamente a Roma, forse nella prospettiva di evitare guai; a poche settimane dalla trasmissione degli atti nella Capitale, si ritrovano uno in carcere e l’altro inquisito e perquisito.

«. Le Scienze online,

Una stella non troppo distante da noi, e intorno sette pianeti di dimensioni simili a quelle della Terra, sei dei quali si trovano in una zona “temperata”, cioè in orbite tali che le temperature superficiali rimangono tra 0 e 100 gradi Celsius.

La scoperta è di Michaël Gillon, dell'Università di Liegi, in Belgio, e colleghi di una collaborazione internazionale, che la annunciano oggi sulle pagine di “Nature”, e suggerisce che nella Via Lattea questo tipo di sistema potrebbe essere comune.

Le misurazioni indicano che i sei pianeti interni hanno masse simili a quella della Terra e probabilmente hanno una composizione rocciosa. Inoltre, quelli intermedi hanno probabilmente un'atmosfera di tipo terrestre e acqua liquida sulla loro superficie.Negli ultimi decenni, la ricerca di pianeti al di fuori del sistema solare ha avuto un successo incredibile: se ne contano ormai a migliaia. Il metodo più utilizzato per la “caccia” è la fotometria di transito, basata sul fatto che la luce emessa da una stella diminuisce quando un pianeta passa di fronte al disco della stella stessa rispetto alla direzione di vista dalla Terra. La variazione è minima, ma può essere misurata con gli strumenti attuali, che consentono anche di stimare anche la massa planetaria.

Quando la stella è di limitate dimensioni, la misurazione fotometrica è particolarmente agevole, perché la percentuale della superficie stellare che viene oscurata è notevole: ciò permette di documentare il transito di pianeti di dimensioni simili a quelle terrestri. Ora, nella Via Lattea, la maggior parte delle stelle è più piccola e meno luminosa del Sole, il che ha spinto i planetologi a monitorare in modo continuativo proprio la nostra galassia.

Nel 2010, Gillon e colleghi hanno iniziato a monitorare le stelle più piccole vicine al Sole con il telescopio robotizzato da 60 centimetri di diametro TRAPPIST (the Transiting Planets and Planetesimals Small Telescope) dell'European Southern Observatory (ESO) di La Silla in Cile.

E nel maggio dello scorso anno hanno riferito la sensazionale scoperta di tre esopianeti in orbita intorno a una stella nana ultrafredda, che hanno battezzato TRAPPIST-1 ed è situata a circa 39 anni luce dal nostro Sole.

In seguito, hanno approfondito le osservazioni sia con telescopi terrestri sia effettuando un monitoraggio continuo per 20 giorni con il telescopio spaziale Spitzer della NASA. Risultato: ben 34 transiti documentati, attribuiti a un totale di sette pianeti.Ora il quadro generale è completo. Il sistema TRAPPIST-1 è estremamente compatto, piatto e ordinato. I sei pianeti interni hanno periodi orbitali tra 1,5 e 13 giorni e sono tutti “quasi risonanti”: ciò significa che nello stesso tempo in cui il pianeta più interno compie otto rivoluzioni, il secondo, il terzo e il quarto pianeta ne compiono cinque, tre e due, rispettivamente.

Questo schema fa sì che vi siano mutue influenze gravitazionali, che si manifestano in lievi variazioni nei tempi di transito osservati, che gli autori hanno utilizzato per stimare le masse planetarie.

Da queste stime, è emerso che il sistema planetario è incredibilmente somigliante a quello costituito da Giove e dai satelliti galileiani (Io, Europa, Ganimede e Callisto), anche se ha una massa circa 80 volte superiore. Le quattro lune, infatti, orbitano intorno a Giove con periodi compresi tra 1,7 e 17 giorni, anche in questo caso in condizioni di quasi-risonanza. Questa somiglianza suggerisce che i pianeti di TRAPPIST-1 e i satelliti galileiani si siano formati ed evoluti in modo simile.

Ma i dati forse più interessanti riguardano le dimensioni dei pianeti, la loro possibile composizione e il loro clima. L'analisi dei dati mostra che cinque di essi (b, c, e, f e g, secondo la sigle attribuite dagli autori, cioè il primo, secondo, terzo, quinto e sesto) hanno dimensioni simili a quelle terrestri, mentre g e h (il quarto e il settimo) hanno dimensioni intermedie tra quelle della Terra e quelle di Marte. Per i sei pianeti più interni, le stime dimensionali fanno ipotizzare che si tratti di pianeti rocciosi.Utilizzando un semplice modello climatico e considerando le temperature tipiche della stella, si è stimato inoltre che e, f e g (cioè il quarto, il quinto e il sesto) potrebbero avere un'atmosfera di tipo terrestre e persino un oceano liquido. Per i tre pianeti più interni invece si ipotizza che l'acqua liquida sia completamente evaporata a causa di un intenso effetto serra.

Nel caso del settimo e più esterno pianeta, i ricercatori non sono riusciti a determinare il periodo orbitale e l'interazione con i pianeti più interni, che saranno oggetto dei prossimi studi.

A questo proposito c'è grande attesa per le possibilità di ricerca che potrà garantire il telescopio spaziale James Webb della NASA, il cui lancio è previsto per il prossimo anno. I suoi strumenti potranno dire qualcosa sulla composizione dell'atmosfera dei pianeti e sulla loro emissione termica, ponendo dei limiti alle condizioni climatiche presenti sulla superficie.

«La crisi nel Pd si consuma senza tensione e allarga il solco con gli elettori. Il viaggio in Usa rivela che Renzi non vive la scissione come una disgrazia la crisi del partito democratico».

la Repubblica, 22 febbraio 2017

A MENO di tre mesi dall’elezione presidenziale, il centrosinistra francese non è meno diviso di quello italiano. Tuttavia il dibattito offre elementi concreti quasi del tutto assenti nelle cronache delle eterne convulsioni che dilaniano il Pd. Le Monde ha appena pubblicato il programma di Jean-Luc Mélenchon, rivale del candidato ufficiale del Partito Socialista, Benoit Hamon. Entrambi parlano il linguaggio di una sinistra piuttosto tradizionale e le loro ricette suscitano le riserve degli economisti. Tant’è che il pragmatico centrista Emanuel Macron, europeista convinto, li ha superati di slancio nei sondaggi. Quel che conta, però, è lo stile di un dibattito pubblico fondato su proposte chiare, benché spesso discutibili.

Mélenchon si è guadagnato la prima pagina del Monde annunciando fra l’altro una “rivoluzione fiscale” progressiva che dovrebbe colpire i redditi alti e preservare gli stipendi fino a 4000 euro; nonché una forma di “protezionismo solidale” non del tutto chiara: si capisce che prevede una barriera doganale alle frontiere, nel palese tentativo di frenare il consenso al nazionalismo economico di Marine Le Pen. Ne deriva che il concorrente Hamon viene sollecitato a precisare al più presto le linee del suo programma, come del resto sta già facendo Macron. E al di là della guerra intestina dei candidati, si capisce che lo scontro non è astratto. Ci si sforza di fornire al cittadino le chiavi per una scelta consapevole: da un lato quanti si definiscono “keynesiani coerenti”, dall’altro i liberali/liberisti. Gli uni e gli altri tenuti a rispettare l’elettore.

Al netto della propaganda e delle semplificazioni, il conflitto fra le due sinistre in Francia ha un senso e una logica. Ci sarà poi tempo al secondo turno (niente da spartire con il ballottaggio del nostro ex Italicum) per far convergere i voti sulla figura che si ritiene meno distante dai propri convincimenti. Vale per eleggere il capo dello Stato non meno che i membri dell’Assemblea nazionale. Questa tensione è quasi del tutto assente a Roma, dove si consuma la crisi del Pd. Un rito partitico e trasformista che sembra aver allargato il fossato con l’opinione pubblica. Per cui resta sul tavolo la domanda su cui insiste Emanuele Macaluso, forte della sua conoscenza di vizi e limiti della sinistra: «Qual è l’asse politico- culturale del Pd?». Nessuno lo sa con precisione.

Dopo le giravolte e i proclami di Michele Emiliano («sarò come il Che»), nel mezzo di una stentata scissione che non entusiasma nemmeno i suoi interpreti, all’indomani del generico impegno per una “rivoluzione socialista” sottoscritto da Enrico Rossi, ecco il segretario del Pd che parte all’improvviso per la California — dove visiterà certi impianti fotovoltaici — affermando: «Siamo dispiaciuti ma andiamo avanti». Con ciò confermando di considerare la spaccatura del suo partito più un bene che una disgrazia. Certo non il “suicidio” di cui parlano Prodi ed Enrico Letta. Eppure i primi sondaggi (“Porta a Porta”) indicano che gli elettori del Pd sono parecchio delusi, se è vero che il consenso alla lista risulta in caduta al 22-23 per cento. Plausibile che non tutti i voti in fuga stiano confluendo sull’arcipelago di sigle a sinistra del partito renziano: molti elettori intendono manifestare semplicemente il loro disagio, il loro disincanto. Il che rende lo scenario ancora più oscuro.

È evidente che le macerie del Pd hanno prodotto due correnti di pensiero. Da un lato, chi ritiene irreversibile il danno e fa capire di voler cercare le vie di un “nuovo Ulivo” (ovviamente il federatore non potrà essere Renzi), pur essendo modi e tempi dell’operazione avvolti nella nebbia. Dall’altro, chi intuisce l’inizio di una nuova storia. Il segretario è il capofila di questa tendenza: vede se stesso come il Blair o il Macron italiano. Ma dovrebbe rendersi conto che la proposta del Pd è al momento poco convincente per un numero crescente di italiani. Non esiste una legge elettorale, il rapporto con l’Europa è contrastato e nella prossima legge finanziaria occorrerà raccogliere svariati miliardi di euro per tamponare le falle del bilancio. Tutto ciò mentre la capitale d’Italia è nella paralisi per la serrata corporativa dei taxi appoggiata dai Cinque Stelle.

«Lo status economico di un individuo rappresenta uno dei maggiori determinanti della salute umana e della longevità, ma resta un fattore di rischio abitualmente ignorato dalle politiche sanitarie internazionali».

il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2017 (p.d.)

Lo stress pisco-sociale, come lo definiscono alcuni scienziati, accorcia la vita. È la tensione a cui è sottoposto chi vive in condizione di costante svantaggio socio-economico che può determinare un calo dell’aspettativa di vita di circa 2 anni, come dimostrano i risultati di uno studio appena pubblicato.
In Italia, una disoccupazione giovanile che supera il 40 per cento, come riportano i dati Istat di fine gennaio, sta condannando intere generazioni a non poter sperimentare la serenità che deriva da un reddito sufficiente e sicuro, tale da lasciar spazio alla progettualità e alla capacità di sognare. Come ha denunciato nella sua ultima tragica lettera Michele, il trentenne che si è tolto la vita a causa di una costante situazione di precariato.
Quando i farmaci non bastano
Per la salute, sperimentare una condizione socio-economica di costante svantaggio rappresenta un fattore di rischio paragonabile a fumo, alcol o obesità. “Perché curare le persone per poi riportarle nelle stesse condizioni che hanno provocato la malattia?” è la provocazione di Sir Michael Marmot, professore di epidemiologia e salute pubblica all’University College of London, nel Regno Unito, che ha dedicato la sua vita a convincere medici e politici che la salute si migliora non solo prescrivendo farmaci, ma intervenendo sulla la qualità della vita delle fasce sociali più deboli.
Lo racconta nel suo libro “Salute diseguale”, edito in Italia da Il Pensiero Scientifico. Per primo ha parlato di stress psico-sociale, quel fattore di rischio per la salute determinato dalla mancanza di potere sulla propria vita quando si hanno pochi mezzi economici. Le pillole possono intervenire sull’incendio ormai scoppiato - la malattia - ma non sulle cause che lo hanno scatenato, sostiene, e che lo scateneranno di nuovo, se non migliorano. Se poi peggiorano, come quando si perde il lavoro, l’ipotesi è che l’aspettativa di vita si riduca ulteriormente. Dalle intuizioni di Marmot e dai tanti studi già condotti sull’argomento, è partito il progetto europeo Life-Path finanziato nell’ambito di Horizon 2020, gestito da un consorzio di ricercatori internazionali (molti dei quali italiani: l’Italia ha una con solida tradizione scientifica in epidemiologia), di cui è coautore anche Marmot.
Ha misurato di quanto esattamente uno status socio-economico svantaggioso riduce l’aspettativa e la qualità della vita. “È noto da tempo che sia un indicatore del calo nella speranza di vita”, spiega Silvia Stringhini, epidemiologa alla Lausanne University Hospital di Losanna, Svizzera, co-autrice dello studio. “Ma il suo impatto non era mai stato confrontato quello dovuto a fattori di rischio noti”. Fumo, tabacco, obesità, scarsa attività fisica, eccessivo consumo di sale, pressione alta e diabete sono considerati i 7 maggiori fattori di rischio legati alle malattie non trasmissibili - come quelle cardiovascolari o il cancro - che possono condurre a morte prematura. Secondo la ricerca, il fumo accorcia la vita di 4,8 anni, la mancanza di attività fisica di 2,4, il diabete di 3,9 e quasi di 1 l’eccessivo consumo di alcol. Lo status socio-economico, mostra la ricerca, è responsabile di una riduzione di 2,1 anni di vita.

I parametri della ricerca
Lo studio è stato possibile grazie ai dati raccolti da precedenti ricerche su 48 popolazioni in Europa, Stati Uniti e Australia negli ultimi 13 anni, per un totale di 1,7 milioni di persone. “Disponevamo di informazioni su parametri legati alle malattie croniche, alle cause di morte e alla classe sociale”, spiega Paolo Vineis, epidemiologo ambientale all’Imperial College of London nel Regno Unito, e coordinatore di LifePath.
Per definire lo status socio-economico, i ricercatori hanno usato come parametro la professione dei partecipanti delle persone sopra i 40 anni. Nel caso di un operaio non specializzato, per fare un esempio, si attribuisce il punteggio più basso. Per un ingegnere, quello più alto. “È un parametro che ci ha permesso di confrontare popolazioni appartenenti a culture e paesi differenti, “spiega Vineis. E che rispecchia anche altri fattori che determinano lo status, come il grado di istruzione e reddito, difficili però da paragonare da nazione a nazione. La ricerca, spiega Vineis, “ha permesso di vedere che c’è un effetto importante sulla mortalità dovuto solo alla classe sociale e non ai 7 fattori di rischio tradizionalmente considerati”.
Cosa sia quel qualcosa in più che ha un impatto sulla mortalità, che Marmot imputa allo stress psico-sociale, e che lo studio LifePath ha ora quantificato, non è ancora compreso a fondo. “Lo studieremo nei prossimi due anni,” spiega Vineis. “Abbiamo informazioni di tipo molecolare su campioni di sangue di quelle popolazioni, su cui studieremo l’impatto che l’ambiente in cui viviamo esercita sul Dna. Una componente importante e innovativa del progetto, racconta Vineis, consiste infatti in indagini epigenetiche sulla modulazione del funzionamento dei geni in diverse migliaia di persone.

Un fattore di rischio “non modificabile”
Lo status economico di un individuo rappresenta dunque uno dei maggiori determinanti della salute umana e della longevità, ma resta un fattore di rischio abitualmente ignorato dalle politiche sanitarie internazionali. Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha lanciato un programma che mira a ridurre la mortalità causata da malattie non trasmissibili del 25% entro il 2025, puntando sulla riduzione dell’impatto che i 7 fattori di rischio noti hanno su queste patologie e dunque sulla mortalità. Ma che non considera quello costituito dall’appartenenza alle classi negli ultimi gradini della piramide sociale.
La stessa Oms considera lo status sociale un fattore di rischio non modificabile, a differenza degli altri 7. Sui quali si ritiene di poter intervenire con prescrizioni (smettere di fumare, consumare meno sale, fare esercizio fisico) e attraverso campagne di sensibilizzazione come quelle promosse anche dal Ministero della Salute italiano. “È percepito come più difficile attuare politiche che possano attenuare fattori socio-economici svantaggiosi, politiche che però aumenterebbero la resilienza dell’organismo umano alle malattie,” spiegano i ricercatori di LifePath. “Queste politiche richiedono molti più soldi”, perché prevedono di investire prima di tutto sull’istruzione di base, sul miglioramento dei quartieri disagiati, garantendo maggiori spazi di verde pubblico e una migliore rete di trasporti. “Dal punto di vista della politica, quando ci si limita a intervenire su una scelta individuale appare tutto molto più semplice,” spiegano.
Dal progetto Lifepath stanno emergendo molti articoli scientifici in pubblicazione, raccontano gli autori, ma la principale ambizione consiste nell’influenzare la politica. Per questo, il progetto prevede un gruppo di lavoro presieduto da Sir Marmot che si è riunito in questi giorni a Londra. Con l’esplicito compito di tradurre in politiche i risultati scientifici. “L’appartenenza a una bassa classe sociale nell’infanzia ha un influsso duraturo nel corso di tutta la vita,” spiega Vineis. “È un messaggio politico forte: bisogna investire nei giovani, le coppie in età fertile, contrariamente a quello che molti governi stanno facendo, e investire nell’istruzione per ottenere frutti anche nel settore della salute collettiva sul lungo periodo”.
Italia 2017. Rapporto Tecné/Fondazione Di Vittorio/Cgil. In un paese pessimista crescono le diseguaglianze. Si partecipa alla politica davanti al pc e in poltrona,

il manifesto, 12 febbraio 2017

Paura del futuro, diseguaglianze, bassi salari. Un paese dove si vive male, anche dal punto di vista abitativo, più interessato alla delega che a praticare una solidarietà e un’azione diretta. È il ritratto che emerge nel «Rapporto sulla qualità dello sviluppo in Italia» realizzato da Tecnè e dalla Fondazione Di Vittorio-Cgil. Il ceto medio è più fragile, aumenta la povertà relativa che interessa oggi più di 8 milioni di persone. Cresce la diseguaglianza che resta inferiore al Nord rispetto al Sud. Solo il 31% pensa che la situazione economica dell’Italia migliorerà nel prossimo anno (era il 44% nel 2015). appena l’11 per cento crede che la propria situazione personale registrerà un miglioramento (era il 13%). Il lavoro è sempre più instabile ed è difficile migliorare le proprie condizioni: solo il 24% pensa che l’occupazione crescerà (era il 31% nel 2015).

Si parla di politica, ma si ascoltano meno i dibattiti. Non si partecipa troppo alle manifestazioni, ma cresce l’interesse individuale per le notizie sul paese. Il 66% degli interpellati frequenta gli amici almeno una volta a settimana (era il 67% nel 2015), il 18% ha ascoltato un dibattito politico (era il 20% l’anno scorso), il 4% ha partecipato a un’iniziativa politica (5% un anno fa), l’1% ha svolto attività politica gratuita per un partito. Non va meglio sul fronte sociale e dei diritti: il 2% ha partecipato a riunioni in associazioni ambientaliste e per i diritti civili, il 9% in associazioni culturali e ricreative (ma in queste rientrano anche i concerti e le esibizioni sportive e artistiche a scopo benefico). Va meglio per quanto riguarda le attività gratuite in associazioni di volontariato (11%) che si fanno, però, più sporadiche e meno strutturate. È la politica in poltrona, l’italiano in crisi come Napalm51, la sublime maschera inventata da Maurizio Crozza nei panni di un troll di professione.

Il rapporto parla di «fiducia economica» definendola «uno dei motori più importanti della crescita». Nel complesso l’indice scenda da 100 a 76, con il nord-ovest in testa con 97 punti (120 nel 2015), seguito dal nord-est con 88 punti (erano 134), dal centro con 76 punti (86) e dal mezzogiorno con 56 punti (erano 72). La Lombardia (100 punti) guida la graduatoria, seguita dal Veneto (98) e dalla Liguria (92). Questa categoria è intrecciata a quella di fiducia interpersonale. In un paese diffidente, dove torna a farsi sentire, in rete e non solo, la xenofobia ci si fida di più delle persone vicine, non solo fisicamente ma anche socialmente. Questo ripiegamento di classe si salda con la riscoperta del senso dell’autorità identificata con le forze dell’ordine. Resta bassissima la «fiducia incondizionata».

Poco convincente è l’uso di due categorie neoliberali per indicare lo stato della cooperazione sociale e della produzione culturale: «capitale sociale» e «capitale culturale». Con il primo nel rapporto si intende le reti di relazioni socio-politiche che creano partecipazione. La seconda categoria è bifida: indica sia il patrimonio culturale italiano che potrebbe «rappresentare un grande volano di crescita economica». In pratica, la vecchia idea di Confindustria sulla «cultura come petrolio d’Italia». Singolare è la definizione della scuola intesa come un «sistema meritocratico poco premiante dei talenti». Sono giudicate positivamente la crescita delle imprese che si occupano di infrastrutture e si criticano gli investimenti molto bassi in ricerca e sviluppo (circa l’1% del Pil) e le «imprese innovatrici rappresentano appena il 34%». Un’analisi dei tagli all’istruzione e alla ricerca in Italia, unico paese Ocse che li ha praticati negli anni della grande crisi, avrebbe contribuito a una maggiore profondità.

«Emerge la fotografia di un Paese in cui la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi» e in cui le persone vedono sempre più difficile uscire da una situazione di difficoltà – sostiene la segretaria Cgil Susanna Camusso – Dare fiducia evitando dumping e diseguaglianze. Sono questi i tratti essenziali dei due referendum Cgil contro voucher e sugli appalti e della Carta dei diritti universali, sui quali oggi, in tante piazze d’Italia, diamo voce ai diritti del lavoro».

«Sinistra. Il diritto dei cittadini di andare a votare con leggi costituzionali non è scambiabile con il congresso di un partito. Il rischio del centrosinistra aperto a destra».

il manifesto, 9 febbraio 2017

Pare che finalmente manchi poco alla pubblicazione delle motivazioni che hanno condotto la Corte Costituzionale ad esprimersi sull’Italicum. Giovedì prossimo i 13 giudici leggeranno la sentenza approntata dal relatore, che verrà resa nota pochi giorni dopo. Se l’essenziale è già stato scritto nel comunicato del 25 gennaio - bocciato solo il ballottaggio mentre restano l’abnorme premio di maggioranza e gli indigeribili capilista bloccati -, le motivazioni potranno forse indirizzare la discussione verso lidi meno incerti e melmosi. Ove allignano ogni sorta di accusa e di mercanteggiamento. Il tutto fa parte di quel clima di restaurazione che si vorrebbe imporre dopo la grande vittoria popolare – non populista - del 4 dicembre.

Il tentativo è quello di derubricare un obbligo/diritto democratico – quello di avere al più presto un parlamento eletto con una legge costituzionalmente legittima – in una querelle politica su chi trarrebbe maggiore profitto da una interruzione della legislatura o dal suo contrario. Così si perpetua la logica politicista e a-democratica che ha guidato le ultime riforme elettorali finite sotto la tagliola della Consulta.

Emergono ora i guasti profondi provocati dal non scioglimento del parlamento dopo la sentenza 1/2014 della Consulta sulla incostituzionalità del Porcellum.

Quest’ultima considerava sì le elezioni avvenute in base a norme illegittime “un fatto concluso”; ribadiva il principio fondamentale della continuità dello Stato e quindi dei suoi organi costituzionali, ma quando si spingeva a esemplificazioni citava solamente la proroga delle camere fintanto che non vengono convocate le nuove (art. 61 Cost.) e nel caso della conversione di decreti – legge già in vigore (art. 77 Cost.). Casi limitati temporalmente che avrebbero dovuto sconsigliare la prosecuzione per ben tre anni dell’attuale parlamento, che ha votato, con l’apposizione della questione di fiducia, una legge elettorale ancora peggiore e la manipolazione del dettato costituzionale. Ma Napolitano aveva altro per la testa, cioè la revisione della Costituzione la cui paternità Renzi gli ha attribuito.

La sonora sconfitta non è bastata. Ora riparte la girandola. Renzi vuole le elezioni a giugno soprattutto perché teme i rimbalzi negativi di una nuova manovra restrittiva nella prossima legge di Bilancio. I suoi messi corrono dalla minoranza del Pd, come da Alfano e Berlusconi per vedere se si può scambiare un voto anticipato a giugno con un premio di maggioranza ad una coalizione anziché ad una lista, con il che si vorrebbe resuscitare il cadavere di un centrosinistra aperto a destra. Davvero lungimirante! Franceschini ha fatto sapere che ci sta. Gli altri della minoranza dem nicchiano, memori del precedente bluff dell’intesa Renzi – Cuperlo.

Rilanciano chiedendo il congresso. Come se il diritto dei cittadini di andare a votare con leggi costituzionali fosse scambiabile con un appuntamento congressuale interno a una forza politica. Ma proprio l’Italicum ha reso di difficile applicazione le regole sulle coalizioni che pure sopravvivono nella normativa elettorale del Senato. La strada del poco astuto mercimonio è irta di difficoltà difficilmente sormontabili. Se si vuole l’armonizzazione tra le due camere, essa non può avvenire che abbattendo le soglie di ingresso troppo alte previste al Senato, che rendono diseguali gli effetti del voto tra i due rami del parlamento e quindi sono incostituzionali.

Ma soprattutto, se si ha a cuore il principio dell’uguaglianza e della libertà del voto (art. 48 Cost.), non si può che eliminare il premio abnorme conferito ad una minoranza del 40% e il sistema dei capilista bloccati (il sorteggio non tura la falla). La Consulta li ha lasciati in piedi, venendo meno alla coerenza con la sua stessa giurisprudenza.

Di un parlamento come quello attuale vi è poco da fidarsi, se lasciato a sé stante. Quindi la lotta non è finita.

I Comitati del 4 dicembre devono restare e sono in campo per una legge elettorale proporzionale priva di distorsioni, che attui il principio della rappresentanza giubilato in questi anni da quello della governabilità, peraltro praticata in modo pessimo con guasti enormi per il Paese.

. Articoli di Bernardo Valli e Michele Giorgio. la Repubblica, il manifesto, Internazionale, 8 febbraio 2017 (c.m.c.)

la Repubblica
NELLE COLONIE FUORILEGGE DOVE ISRAEELE SFIDA IL MONDO
di Bernardo Valli

«Il reportage.proteste ONU e UE dopo il sì del parlamento all’espropriazione diterritori palestinesi»

Forse la storia sta cambiando ancora. Ma accade troppo spesso e pochi ci fanno attenzione. La città era impassibile. Sulla Ben Juda, cuore della metropoli israeliana, le radio diffondevano a tutto volume la cronaca del mattino alla Knesset. Dei giovani coloni, col mitra a tracolla, hanno applaudito quando hanno udito che il loro insediamento, nella Samaria, non era più un accampamento di fuorilegge, ma una cittadina legale. Così ha deciso il Parlamento. Parlavano russo e nessuno gli ha dato retta. Più tardi, alla Porta di Jaffa, scendendo verso il Santo Sepolcro, i mercanti arabi, indaffarati con comitive giapponesi, non ascoltavano quel che le radio dicevano.

Legittime o non legittime le colonie, attorno a Gerusalemme, si moltiplicano come funghi. Il voto eccezionale della Knesset che le promuove, le legittima, non scuote la città araba. Per i palestinesi di Gerusalemme la storia non è cambiata. Loro non hanno sentito l’“effetto Trump”. Eppure alla Knesset c’è stato. Ed è stato provocatorio come il linguaggio del neo presidente. È come se tutto avvenisse ai piedi della Casa Bianca e si udisse la sua voce. Anche se in realtà lui si è ben guardato dall’incoraggiare e ancor meno dal dare la benedizione alla decisione del parlamento israeliano. L’influenza che esercita va oltre le sue parole. È dettata dalle sue virutali o supposte intenzioni.

Con Barack Obama alla Casa Bianca 60 deputati (contro 52) avrebbero esitato ad approvare una legge definita provocatoria in molte capitali anche amiche di Israele. E infatti ne ha tutte le caratteristiche poiché, con valore retroattivo, quella legge legalizza migliaia di edifici costruiti su proprietà private di palestinesi, che sorgono in sedici colonie israeliane di Cisgiordania. Si tratta di insediamenti approvati, protetti quando necessario dall’esercito israeliano, anche se i coloni (circa 700mila tra Cisgiordania e Gerusalemme) sono armati, ma la cui espropriazione di fatto non era mai stata approvata da una legge del parlamento. Erano quindi formalmente illegali. Da ieri mattina non lo sono più.

Ma non si capisce fino o quando saranno legali. La Corte suprema sarà presto investita del caso e potrebbe dichiarare incostituzionale la legge appena approvata dal parlamento. Il procuratore generale ha già fatto sapere che si guarderà bene dal difenderla. Per cui il voto della Knesset appare un colpo di mano ispirato dall’avvento di Trump. Un colpo di mano accompagnato dal dubbio che la legge approvata possa essere applicata. Vale a dire che diventi di fatto un primo serio passo verso una annessione definitiva dei territori occupati da Israele nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni.

L’opposizione internazionale è per ora forte. Il voto dei sessanta deputati israeliani riporta ai momenti peggiori i rapporti tra le due comunità, quella degli occupati e quella degli occupanti. Situazione che dura da mezzo secolo. Quest’anno si potrebbe celebrare il cinquantenario.

Il dinamico Yair Lapid, che punta al posto di Benjamin Netanyahu, ha definito il voto della Knesset «ingiusto, non elegante, dannoso per Israele e la sua sicurezza». Saeb Erekat, il negoziatore palestinese al momento senza lavoro, ha parlato di «un saccheggio della pace che ne affossa le possibilità di realizzarla e cancella la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese». Altri hanno denunciato il tentativo di annessione della Cisgiordania.

Ad affrettare l’approvazione della legge non è stata soltanto la speranza di poter contare sul Donald Trump, in più occasioni dichiaratosi in favore di Israele, al punto da dare l’annuncio (poi ritrattato o ritardato) di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv e Gerusalemme, che potrebbe provocare una sollevazione degli arabi, già in aperta tenzone con Trump. Ad accelerare i tempi parlamentari è stata anche la decisione di sfrattare quaranta famiglie di coloni e di demolire le loro case ad Amona, perché da dieci anni giudicate illegali. Per evitare la distruzione di quell’insediamento è stata votata la legge retroattiva di gran fretta.

Benjamin Netanyahu era esitante. Dopo avere accolto con entusiasmo la partenza di Obama e l’arrivo di Trump il primo ministro ha capito che il neo presidente, pur sostenitore della destra israeliana, non poteva inimicarsi il mondo arabo. Ne aveva bisogno nella guerra contro lo Stato islamico e per questo era diventato vago sul trasloco dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e aveva invitato a non estendere gli insediamenti in Cisgiordania per non impedire la ripresa del dialogo israelo-palestinese.

Durante la visita a Londra, al primo ministro britannico che insisteva sulla formazione dei due Stati, Netanyahu non ha risposto. Ha sorvolato sul problema. Non ha parlato della possibile creazione di due entità indipendenti. Il silenzio è stato interpretato come un tentativo di non apparire contrario al colpo parlamentare che si stava preparando a Gerusalemme. Fino ad allora, senza manifestare entusiasmo, adottando una accurata riservatezza, il primo ministro non aveva ripudiato del tutto la possibilità remota di creare due Stati. In realtà si adattava alla volontà di larga parte della società internazionale. Al tempo stesso era prigioniero della forte contraddizione di cui era ed è prigioniera la sua società, quella israeliana.

Da un lato, ad ogni sondaggio i cittadini dello Stato ebraico non si dichiarano contrari alla nascita di un Stato palestinese alle porte di casa. Ma i meccanismi politici, alimentati da una classe politica sempre più a destra e sempre più votata, porta in un’altra direzione. La situazione viene descritta in modo irriverente da un intellettuale di Tel Aviv: la soluzione dello Stato palestinese è considerata ineluttabile come la morte, nessuno può negarla, ma tutti la vogliono ritardare. In mille maniere, non sempre confessandolo.

Il caos mediorientale, il mosaico di guerre ai confini, il livello del terrorismo che non decresce, l’instabilità delle frontiere nazionali in tutta la regione, sono tutti fattori che conducono a radicalizzare le posizioni. Non a caso si è praticamente spento il Movimento della Pace che ha avuto un ruolo di rilievo nella vita politica israeliana degli ultimi decenni. Un tempo i giovani scendevano in piazza, anche in divisa militare, per invocare la pace. Oggi pacifista viene spesso tradotto disfattista.

Esitante, preoccupato di non turbare Donald Trump, di cui sarà ospite il 15 febbraio alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu è ritornato da Londra a Gerusalemme lasciandosi alle spalle la finzione dei due Stati e deciso ad adeguarsi alla provocazione che si stava preparando alla Knesset. In parlamento si stava celebrando con il voto retroattivo della legalizzazione di tante colonie l’avvento di Trump alla presidenza americana.

Anche se Trump non è affatto d’accordo con quel voto, che accresce l’inimicizia degli arabi, già furiosi per l’annullamento dei visti, ma necessari come alleati per combattere lo Stato islamico in Siria e in Iraq. La guerra dei Sei Giorni, che nel 1967, portò all’occupazione della Cisgiordnia e di Gerusalemme Est, fece nascere il sogno del grande Israele. Il sogno è diventato un progetto. Alla Knesset, di primo mattino. Si è tentato di realizzarlo almeno in parte.

il manifesto

HANAN ASHRAWI:«LA CORTE DELL’AJA UNICA VIA PER I PALESTINESI»
di Michele Giorgio

«Israele/Territori Palestinesi Occupati. Intervista ad Hanan Ashrawi del Comitato esecutivo dell'Olp e storica portavoce palestinese sull'approvazione della legge che regolarizza gli avamposti coloniali. "Il colpo più duro è l'indifferenza internazionale verso le politiche di Israele"».

La sottovalutazione, se non il disinteresse, dell’Europa per la legge approvata lunedì sera dalla Knesset che ha regolarizzato retroattivamente circa 4.000 case in decine di avamposti coloniali, amplifica la soddisfazione del governo Netanyahu e della destra religiosa alla guida del paese. Il ministro Bennett, leader del partito dei coloni “Casa ebraica”, ha vinto la sua storica battaglia in fondo senza penare troppo.

Ha solo dovuto aspettare qualche anno, l’uscita di scena di Barack Obama (che in verità la colonizzazione l’ha solo frenata e mai fermata), l’ingresso nella Casa bianca dell’alleato Donald Trump e la paralisi della comunità internazionale messa a nudo il mese scorso dall’insulsa dichiarazione finale della Conferenza di Pace di Parigi alla quale il ministro degli Esteri italiano Alfano ha dichiarato con orgoglio di aver dato il suo fattivo contributo.

«È una rivoluzione», ha commentato Bennett. Ha ragione. In due settimane Israele ha autorizzato la costruzione di quasi 6.000 case nelle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est, annunciato un nuovo insediamento e legalizzato 4.000 case in decine di avamposti.

E il voto della Knesset apre la strada alla estensione della sovranità israeliana alla Cisgiordania. Non su tutta, sulle colonie ma non sui centri abitati palestinesi, per evitare uno Stato binazionale con ebrei e arabi insieme, ha spiegato il ministro Ofer Akunis.

L’apartheid, avvertono anche diversi israeliani, è dietro l’angolo. Ormai è solo cronaca giornalistica il clamore suscitato a dicembre dal “colpo di coda” di Obama che non bloccò con il veto l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza Onu della risoluzione 2334 che ha riaffermato lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e condannato la colonizzazione. La leadership palestinese intanto è debole, balbetta, non è in grado di elaborare una strategia politica degna di questo nome.

«Questa legge israeliana è inaccettabile», dice Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. Un po’ poco.
Non sorprende l’amarezza sul volto di Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell’Olp e, più di tutto, storica portavoce palestinese durante la prima Intifada e la Conferenza di Madrid.

Scuote la testa Ashrawi: «Il colpo più duro – ci dice – è l’atteggiamento internazionale verso tutto questo».

Cosa potrebbero fare i palestinesi?
Dobbiamo ridefinire la nostra politica e ripensare alle relazioni con Israele. Sappiamo che questo potrebbe costarci caro ma non possiamo rimanere con le mani in mano. E se gli Usa e l’Europa non faranno la loro parte per fermare l’escalation messa in moto dal governo Netanyahu, la strada da percorrere è quella della giustizia internazionale e del ricorso alla Corte penale dell’Aja.

Appaiono però rituali gli appelli che i palestinesi lanciano ogni volta alla comunità internazionale. Non sembrano produrre un granché.
Non possiamo che continuare a rivolgerci all’Onu e invocare la giustizia internazionale. Non dobbiamo stancarci di reclamare i nostri diritti anche se il mondo volge lo sguardo da un’altra parte. I nostri diritti non sono meno importanti di quelli degli israeliani.

Alcuni dirigenti palestinesi hanno minacciato l’annullamento del riconoscimento di Israele fatto dall’Olp venti anni fa. È una possibilità che ritiene concreta?
Tutto è possibile, questa e altre opzioni. Dobbiamo mettere insieme un piano che contempli le diverse possibilità a nostra disposizione e, a mio avviso, dovranno essere discusse pubblicamente.

Queste opzioni includono la fine della cooperazione di sicurezza con Israele?
Anche questa è una possibilità, assieme a molte altre.

Quanto l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca è stato determinante per l’azione del governo israeliano?
L’elezione a presidente di Trump è stato l’evento scatenante. Netanyahu non parlava d’altro prima del 20 gennaio, nonostante Barack Obama sia stato un presidente molto generoso con Israele, forse il più generoso dal punto di vista politico, finanziario e militare. Il governo israeliano si sente incoraggiato a portare avanti la sua politica da Trump e dalle persone che il nuovo presidente ha scelto per determinati incarichi. A cominciare dal nuovo ambasciatore Usa a Tel Aviv \[David Friedman, aperto sostenitore delle colonie israeliane, ndr\]. Ora abbiamo coloni nel governo israeliano e, di fatto, coloni in quello statunitense.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di avvertimenti dell’amministrazione Trump ai palestinesi: se denunceranno Israele alla procura internazionale perderanno il sostegno finanziario degli Usa e l’Olp tornerà nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. È vero?
Non sono in grado di rispondere. Ciò che so è che queste minacce fanno parte di una posizione adottata dal Congresso americano.

È delusa dalla Ue?
Sì, moltissimo. Ci sono voluti ben 30 anni solo per arrivare all’etichettatura diversa dal Made in Israel per le merci delle colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati dirette in Europa. E nel frattempo Israele resta un partner privilegiato della Ue, sotto tutti i punti di vista, nonostante le sue politiche nei nostri confronti. L’Europa parla ma poi fa molto poco per difendere concretamente i diritti dei palestinesi.

Internazionale online
PERCHÉ LA NUOVALEGGE ISRAELIANA

SULLE COLONIE FA DISCUTERE

Il 6 febbraio il parlamento israeliano ha approvato in maniera definitiva, con 60 voti favorevoli e 52 contrari, una legge che permette a Israele di legalizzare retroattivamente 3.800 alloggi in Cisgiordania costruiti su terreni di proprietà di palestinesi. Secondo la norma i proprietari non possono opporsi, ma possono chiedere un risarcimento.

Considerata un ostacolo alla soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese, la legge è stata duramente criticata dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dalla Lega araba, dalla Turchia, dalla Giordania e dall’opposizione israeliana guidata dal laburista Isaac Herzog, che ha parlato di una possibile incriminazione di Israele da parte della Corte penale internazionale. Il 7 febbraio le autorità europee hanno rimandato un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu previsto per il 28 febbraio, che avrebbe dovuto sancire il disgelo nei rapporti tra Israele e l’Unione europea.

Cosa prevede la nuova legge?
La nuova legge, spiega il quotidiano israeliano Haaretz, permette a Israele di espropriare i terreni privati palestinesi in Cisgiordania dove sono già stati costruiti insediamenti o avamposti. Inoltre permette ai coloni ebrei di restare nelle loro case, anche se non diventeranno i proprietari della terra su cui vivono. Impedisce ai palestinesi di rivendicare la proprietà dei terreni o di prenderne possesso finché “non arriverà una soluzione diplomatica che determini lo status dei territori”.

Come si chiama la legge?
La legge è stata chiamata in un modo che può essere fuorviante, scrive Haaretz, perché il nome ebraico può essere tradotto in diversi modi. La traduzione più usata è “legge della regolarizzazione”. L’obiettivo è “disciplinare gli insediamenti in Giudea e Samaria, permettere il loro mantenimento e il loro sviluppo”. Secondo il quotidiano israeliano progressista, un nome più adatto potrebbe essere “legge dell’esproprio”.

Perché tanto clamore?
La Cisgiordania non è comunque sotto occupazione?
La nuova legge supera un limite che Israele non aveva mai oltrepassato. Anche secondo politici conservatori come Dan Meridor, che è stato a lungo membro del Likud, la knesset (il parlamento israeliano) non ha mai affrontato il tema dei diritti di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania perché “gli arabi di Giudea e Samaria non votano per la knesset, che non ha l’autorità di approvare leggi in loro nome”. Meridor sostiene che se Israele vorrà esercitare la piena sovranità sulla Cisgiordania dovrà garantire ai palestinesi in quella regione la cittadinanza israeliana e il diritto di voto.

Il procuratore generale di Israele cosa ne pensa?
È d’accordo con Meridor. Avichai Mandelblit ha dichiarato che se qualcuno farà causa contro la legge, lui non la difenderà perché viola la Quarta convenzione di Ginevra. Questo non ha impedito alla ministra della giustizia Ayelet Shaked, del partito di estrema destra Habayit hayehudi (Casa ebraica), di promuovere la legge. Shaked ha detto che, se necessario, incaricherà un avvocato privato di rappresentare il governo in tribunale.

Quanti sono gli insediamenti tutelati dalla legge?
Secondo l’ong Peace Now, saranno legalizzati retroattivamente cinquanta avamposti e insediamenti costruiti con il consenso dello stato di Israele o da coloni che non sapevano di trovarsi su terre private. Tra questi, sedici sono interessati da ordini di demolizione che, in base alle nuove regole, saranno congelati per un anno mentre si valuterà se lo stato può appropriarsi di quei terreni.

La legge autorizza futuri insediamenti?
In teoria, sì. La misura permette al ministro della giustizia di aggiungere altri nomi alla lista degli insediamenti e degli avamposti espropriati, ma solo con l’approvazione della commissione parlamentare Costituzione, legge e giustizia.

In che modo saranno risarciti i palestinesi?

Avranno la possibilità di scegliere, se possibile, un lotto di terra alternativo oppure si vedranno versare ogni anno dei diritti d’uso di quei terreni. A meno che non venga raggiunto un accordo di pace tra Israele e Palestina che risolva anche la questione della proprietà terriera.

Com’è stato l’iter legislativo?
La norma ha ottenuto le prime approvazioni a novembre e a dicembre, ma in seguito il voto è stato spostato varie volte. La ragione principale era la preoccupazione del primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo alle ultime mosse dell’amministrazione Obama, tra cui il mancato veto a una risoluzione di condanna del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e il timore di cominciare con il piede sbagliato i rapporti con la nuova amministrazione Trump. La legge, però, è stata promossa aggressivamente dal ministro dell’istruzione Naftali Bennett.

Perché la legge è stata rilanciata e votata in tutta fretta la sera del 6 febbraio?

Gli Stati Uniti avevano chiesto a Netanyahu di non fare mosse importanti prima dell’incontro con Donald Trump previsto per il 15 febbraio. Ma Bennett e Shaked, fortemente pressati dalla loro base dopo lo smantellamento dell’avamposto di Amona, hanno respinto ulteriori rinvii. Non potendo fermare l’iter, Netanyahu ha informato rapidamente Trump, nello stesso giorno in cui la premier britannica Theresa May aveva detto al presidente statunitense che la legge era controproducente.

Secondo il New York Times, «mentre i sondaggi mostrano che gli israeliani sostengono ancora la soluzione a due stati, i loro leader e la realtà sul terreno puntano nella direzione opposta: a cinquant’anni dall’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, molti politici israeliani di destra dicono che ora che i negoziati con i palestinesi sono fermi, è arrivato il momento per Israele di decidere in che direzione procedere».

«Abbiamo preso alla gente dell’Africa infinitamente più di quanto ci sia chiesto oggi di dare. Non si può ignorare tutto questo quando parliamo di immigrazione: la miseria dell’Africa dipende anche da noi».

il Fatto Quotidiano online, 6 febbraio 2017, (p.d.)

Trovo questa immagine in un archivio. Non posso credere a quello che dice la didascalia: “Congo belga 1904, un padre osserva i piedi e le mani del figlio di cinque anni, tagliati perché non aveva raccolto abbastanza gomma“.

E’ una foto che non si riesce nemmeno a guardare. Sembra impossibile, viene da sperare che sia falsa. Ma ce ne sono altre, tante, di mutilazioni inflitte in Congo dagli europei. Allora forse è giusto riportarla (da www.rarehistoricalphotos.com) perché non si può dimenticare. Non si devono tacere i disagi che l’immigrazione oggi ci porta. E bisogna affrontarli. Ma questa immagine – come le altre sul Congo di inizio ‘900 – ci costringe a essere obiettivi: ci sono stati decine di milioni di schiavi deportati dai mercanti (europei, anche italiani) e uno sfruttamento selvaggio delle colonie africane compiuto dagli europei (anche da noi italiani). Abbiamo compiuto dei genocidi. Abbiamo cancellato intere generazioni.

Abbiamo preso alla gente dell’Africa infinitamente più di quanto ci sia chiesto oggi di dare: ricchezze, ma soprattutto vite (solo in Congo ci sono stati 10 milioni di morti). Non si può ignorare tutto questo quando parliamo di immigrazione: la miseria dell’Africa dipende anche da noi. Più di mille parole vale questa foto.
Dopo, se ci resta qualcosa da dire, discutiamo.

«La Repubblica

Donald Trump e Paolo Gentiloni si sono parlati per la prima volta al telefono: una breve conversazione, mezz’ora circa, per conoscersi e avviare la discussione su alcune questioni di interesse comune. Il tema più sentito, che ha occupato un terzo della telefonata, è stato la Libia, anche in chiave di lotta al terrorismo. Un argomento su cui Trump ha insistito particolarmente nel corso della conversazione. Gentiloni gli ha illustrato i termini dell’accordo appena stipulato con Tripoli per la lotta contro il traffico di esseri umani e per le politiche dell’accoglienza e la regolazione dei flussi migratori nel rispetto dei diritti umani. Poi hanno discusso della commessa degli F-35, del vertice di Taormina del G7 a maggio, del ruolo della Nato e dell’Unione europea.

I due leader hanno ribadito l’importanza dell’alleanza e della cooperazione tra Italia e Stati Uniti su problemi regionali e globali.Non è ancora chiaro, ovviamente, se si nasconda dell’altro dietro questo giudizio ufficiale. Nelle precedenti telefonate con altri capi di Stato e di governo, infatti, il neopresidente americano aveva dimostrato di voler adottare un stile più battagliero e meno diplomatico: con il premier australiano Malcolm Turnball, ad esempio, si era irritato a tal punto su un accordo per i rifugiati, da buttargli giù il telefono. L’obiettivo di Trump, secondo gli osservatori, è sempre lo stesso: conquistare una posizione negoziale più forte nei confronti degli interlocutori, cercando di metterli sulla difensiva.

È successo così anche con Gentiloni? Certo Trump ha accolto con piacere l’invito di Gentiloni a venire a Taormina con la moglie Melania, in primavera. Il presidente americano, ha detto, sarà felicissimo di partecipare perché l’Italia occupa un bel posto nel suo cuore, grazie anche ai tanti elettori italoamericani che lo hanno votato.

Oh quanto piace agli arroganti sindaci dell'era trumpista indossare la stella da sceriffo e brandire, se non la colt, il virile manganello. Per fortuna che c'è chi non si fa convincere« Intervista di Alberto Vitucci a Donatella Ferranti. La Nuova Venezia, 5 febbraio 2017 (m.p.r.)

«Più poteri ai sindaci e processi per direttissima affidati ai giudici di pace. Assurdo e anche inutile. Nel disegno di legge in discussione al Senato l’inasprimento delle pene c’è già. E per i reati minori la strada da seguire non può essere solo quella dell’inasprimento delle pene, ma la socializzazione di chi compie questi reati». Donatella Ferranti, ex magistrato a presidente della Commissione giustizia della Camera, boccia senza appello la proposta di legge del centrodestra sollecitata dal sindaco Luigi Brugnaro.

I deputati Renato Brunetta (capogruppo di Forza Italia alla Camera), Andrea Causin (Alleanza popolare-Ncd) e Maurizio Lupi (capogruppo del Nuovo centrodestra) l’hanno illustrata due giorni fa a Montecitorio, alla presenza del sindaco Brugnaro. «Vandali e ubriachi in cella per una notte, processi per direttissima ai giudici di pace, maggiori poteri ai sindaci».

Onorevole Ferranti, perché questa proposta non le piace?
«Non la conosco nei dettagli, ma mi pare un diversivo rispetto alle questioni più importanti. Ai promotori dico: se davvero hanno a cuore una giustizia che funzioni meglio, approvino il disegno di legge in discussione di cui è relatore il senatore Casson. Lì c’è tutto, a cominciare dall’inasprimento delle pene e dal risarcimento del danno».
Questa proposta non va nella stessa direzione?
«No. Mi pare che si voglia distogliere l’attenzione dalle questioni strutturali della giustizia».
Qui si parla di piccoli reati.
«Appunto. Forse i proponenti di questo nuovo disegno di legge non si sono accorti che è già in vigore la legge 76 del 2014, che permette di sospendere il processo all’imputato che sia impiegato in lavori di pubblica utilità. Non soltanto punizione, ma il recupero sociale e l’educazione».

La proposta prevede di affidare il processo per direttissima al giudice di pace per chi è colpevole di danneggiamento, ubriachezza molesta.
«Un modo per non risolvere nulla. I giudici di pace hanno già il loro daffare, ma poi che il processo per direttissima lo faccia il giudice di pace e non quello ordinario non risolve nulla».
Perché?
«Se uno danneggia una vetrina mica gli puoi dare l’ergastolo. Se la pena è come ovvio al di sotto della sospensione perché non siamo in presenza di gente con precedenti penali, l’imputato resta a piede libero. E non si risolve nulla. Molto meglio seguire l’altra strada, ora prevista dalla legge. Cioè metterlo alla prova con lavori di pubblica utilità nel suo comune. Riparare le strutture danneggiate, rimettere a posto i giardini, pulire le strade. E con i risarcimenti».
Niente carcere allora?
«Abbiamo una visione molto diversa da chi intende la pena come recupero sociale. Non funziona così. Soprattutto per i piccoli reati. Credo che si debba seguire la strada del recupero».

Niente maggiori poteri ai sindaci, come chiede Brugnaro?
«Proprio no. Il sindaco ha compiti di sicurezza e di prevenzione, certo non di pubblica sicurezza. Il nostro ordinamento non lo prevede».
I vigili urbani hanno meno possibilità di intervento.
«Assolutamente no. La polizia urbana ha già oggi compiti di polizia giudiziaria in certi casi. Ma è alle dipendenze dell’Autorità giudiziaria per l’ordine pubblico e non del sindaco. Questo sarebbe anticostituzionale».
Insomma, un “no” a questa proposta che viene dall’opposizione ma anche da una forza di governo come Ncd.
«Collaborazione massima a discutere di questi temi. Ma a fine mese riprende l’iter il disegno di legge sul nuovo processo penale. Se il centrodestra vuole una giustizia più efficiente lo può votare. Lì dentro c’è tutto»

Il FattoQuotidiano online, 1 febbraio 2017 (p.s.)
A firmarla il senatore Renato Guerino Turano, eletto nella circoscrizione estera dell’America Settentrionale e Centrale, con un emendamento che interviene su una vecchia legge del 2002 in materia di “disposizioni per l’attività dilettantistica”. E la dicitura che reintroduce la copertura è la stessa stralciata a novembre dalla legge di Bilancio

L’anno è nuovo, il premier pure, ma lo straordinario interesse del governo per il golf non è cambiato di una virgola. E così la garanzia statale da 97 milioni di euro per la Ryder Cup 2022 è ritornata ad essere una priorità per il Pd, che l’ha inserita in una norma che con il golf e con lo sport non ha nulla a che vedere. L’occasione giusta, infatti, non è stata il Milleproroghe, ovvero il provvedimento più naturale per reinserire la norma: troppo sotto le luci dei riflettori.

L’esecutivo oggi guidato da Paolo Gentiloni (ma con la costante presenza di Luca Lotti, divenuto nel frattempo ministro dello Sport) ha preferito il decreto Salva Banche, che dovrebbe parlare di tutto tranne che di manifestazioni sportive. E invece un emendamento Pd alla legge che approderà a Palazzo Madama la settimana prossima potrebbe diventare la volta buona per i quasi 100 milioni di garanzia pubblica sulla buona riuscita del torneo di golf.

Partendo dal Senato, il testo probabilmente arriverà blindato a Montecitorio, dove verrà votato con la fiducia. Schivando il controllo di Francesco Boccia (presidente della commissione bilancio alla Camera, che già due volte aveva fatto stralciare la norma a fine 2016) e di chi non vede di buon occhio la concessione di altri soldi al faraonico progetto della FederGolf di Franco Chimenti. Con i 60 milioni di contributi pubblici già nascosti e approvati nella Legge di Bilancio, lo Stato si esporrà per una cifra complessiva superiore ai 150 milioni di euro.

Il ruolo del credito sportivo

Risultato: la garanzia uscita dalla porta della manovra (e del decreto fiscale) rientra quindi dalla finestra del dl Salva banche. Un provvedimento pensato per tutelare i risparmi dei cittadini, che però accoglierà anche la norma tanto preziosa per la Federazione Golf. Grazie ad una proposta presentata dal Partito Democratico, che interviene su una vecchia legge del 2002 in materia di “disposizioni per l’attività dilettantistica” (ma del resto anche i 60 milioni cash erano inseriti nel capitolo “Giovani e sport”). A firmarlo il senatore Renato Guerino Turano, residente a Chicago ed eletto con il Pd nella circoscrizione estera dell’America Settentrionale e Centrale. Turano, 74 anni, origini calabresi, è un imprenditore di successo che ha realizzato il suo sogno americano creando la più grande azienda di produzione di pane artigianale del Nord America. E forse proprio negli Usa, dove il golf è molto seguito, sarà cresciuta la sua passione per questo sport. Ilfattoquotidiano.it lo ha cercato nel pomeriggio e a sera per chiedergli spiegazioni e approfondimenti.

Tutto inutile: Turano è irraggiungibile. Ciò che è certo è che stavolta la garanzia passerà attraverso l’Istituto del Credito Sportivo (commissariato dal 2011 per una vicenda di “finanza creativa”): l’emendamento (all’articolo 26-bis) prevede infatti che in futuro l’ente possa emettere garanzie non soltanto per la costruzione e la ristrutturazione degli impianti, ma anche “a favore di organizzatori di manifestazioni sportive nell’interesse del Coni e delle Federazioni sportive per lo svolgimento di competizioni internazionali di rilevante interesse pubblico”. E per l’occasione il fondo viene anche integrato con una “garanzia da parte dello Stato a favore di Ryder Cup Europe LLP, nel periodo 2017-2027, per un ammontare fino a 97 milioni di euro”. La stessa identica dicitura stralciata a novembre dalla legge di Bilancio.

E intanto l'open d'Italia passaallla famiglia Agnelli.

Due mesi dopo il cerchio si chiude. A Palazzo Chigi non c’è più Matteo Renzi, ma evidentemente la presenza nell’esecutivo Gentiloni di Luca Lotti come ministro dello Sport era l’assicurazione migliore che il progetto Ryder Cup non venisse lasciato a metà: la garanzia, infatti, è importante per il Comitato organizzatore almeno quanto i 60 milioni di contributi che serviranno per far schizzare alle stelle il montepremi dell’Open d’Italia nei prossimi dieci anni.

Una delle tante clausole della sfarzosa offerta che Chimenti ha presentato per aggiudicarsi la rassegna del 2022, i cui primi effetti cominciano già a vedersi: l’edizione 2017 del torneo nazionale, la prima col nuovo montepremi da 7 milioni di euro, inizialmente in programma ad ottobre all’Olgiata Golf Club di Roma si disputerà invece al Royal Park I Roveri di Torino (di proprietà della famiglia Agnelli); secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, è stato proprio lo spropositato valore della rassegna (e dei relativi oneri) a far tirare indietro il circolo romano.

La storica edizione del 2022 e il compito di Infront.

La Federgolf, però, non bada a spese e ha voluto fare le cose in grande: la storica edizione 2022 (la prima ospitata dal nostro Paese) costerà più di 100 milioni di euro. Oltre al montepremi dell’Open, bisognerà ad esempio ristrutturare il Marco Simone Golf Club, su cui ci sarebbe già qualche frizione con la famiglia Biagiotti proprietaria della struttura.

Il Comitato si è attivato per rastrellare la restante parte delle risorse non statali necessarie: è già stato pubblicato un bando pubblico per trovare un concessionario che metta sul piatto almeno 40 milioni (si dice che la Federazione punti tutto su Infront, il colosso dei diritti tv). Ma gli organizzatori della Ryder Cup non vogliono correre rischi: a parere della stessa FIG, del resto, “l’escussione della garanzia è da ritenersi a basso rischio”, ma non nullo. Per questo a scanso di equivoci qualcuno dovrà farsi garante delle spese: lo Stato italiano, appunto. Se per qualche ragione la Federazione non dovesse riuscire a trovare i soldi, toccherà al governo aprire il portafoglio.

«In passato gli Stati Uniti hanno cercato, almeno a parole e attraverso atti simbolici, di mantenersi all’altezza della propria reputazione di terra delle opportunità, disposta ad aprire le sue porte alle “masse dei poveri che anelano a respirare l’aria della libertà”».

il manifesto, 29 gennaio 2017 (c.m.c.)

I decreti esecutivi con i quali Donald Trump ha stabilito di procedere al completamento della barriera divisoria lungo il confine tra gli Stati Uniti e il lucoMessico, ha dimezzato da 110.000 a 50.000 il numero annuale dei visti di immigrazione a disposizione dei rifugiati, privilegiando nell’assegnazione gli esuli cristiani, nonché ha sospeso a tempo indeterminato l’ingresso dei profughi siriani e per tre mesi l’arrivo dei cittadini di nazioni islamiche a rischio di terrorismo non rappresentano solo l’attuazione di alcune promesse che aveva formulato durante la campagna elettorale.

Le decisioni del presidente riflettono anche e soprattutto una particolare concezione degli Stati Uniti, cara a Trump e al suo elettorato, secondo la quale la società nordamericana dovrebbe essere composta preferibilmente da individui bianchi di ascendenza europea e di religione cristiana. Da questo punto di vista, chi non presenti tali caratteristiche, perché ispanico o mussulmano, costituirebbe una minaccia per la sicurezza nazionale e, come tale, non dovrebbe avere accesso al territorio del paese.

Manifestazioni di xenofobia e insensibilità nei confronti dei profughi, spesso in coincidenza con fasi di recessione economica, non sono nuove nella storia degli Stati Uniti e risalgono addirittura al periodo immediatamente successivo alla guerra d’Indipendenza. Nel 1798, infatti, venne allungato da cinque a quattordici anni il periodo minimo di residenza per ottenere la cittadinanza americana e fu attribuito al presidente il potere insindacabile di deportare gli stranieri sospettati di essere coinvolti in attività sovversive, per il timore che i giacobini francesi rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la caduta di Robespierre potessero influenzare la politica della terra d’adozione.

Quasi un secolo più tardi, nel 1882, l’immigrazione dalla Cina fu congelata, in quanto gli asiatici erano considerati una razza inferiore, e venne riaperta soltanto nel 1943, ancorché in misura poco più che simbolica, come gesto di riconoscenza per l’adesione del governo nazionalista di Pechino alla coalizione anti-fascista durante la seconda guerra mondiale.

I cittadini italiani (ritenuti mafiosi come oggi Trump considera i messicani stupratori e narcotrafficanti) e di altre nazioni dell’Europa meridionale e orientale si videro decurtati i visti di immigrazione nel corso della prima metà degli anni Venti del Novecento perché giudicati inassimilabili dal momento che non erano di ceppo anglo-sassone né di confessione protestante. Nel decennio successivo, gli ebrei in fuga dai provvedimenti antisemiti del nazifascismo in Germania, Austria e Italia non poterono usufruire di deroghe alla stretta sui visti attuata in precedenza da Washington.

La ragione ufficiale di tale ostracismo fu la paura che tra i profughi si annidasse qualche agente nazista, ma il motivo reale era il timore che gli immigrati ebrei facessero salire il tasso di disoccupazione in un paese ancora in preda alla depressione economica.

Soltanto nel 1980, durante l’amministrazione del presidente democratico Jimmy Carter, gli Stati Uniti introdussero nella loro legislazione la categoria giuridica del rifugiato, definendolo come la persona alla quale era precluso il rimpatrio a causa di persecuzioni, o rischio fondato di persecuzioni, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare ceto sociale o opinioni politiche. Così, in quell’anno, Washington accolse circa 125.000 esuli cubani che scappavano dal governo di Fidel Castro. Nello stesso periodo, però, la guardia costiera statunitense respinse centinaia di profughi haitiani che cercavano di sottrarsi alla dittatura di Jean-Claude Duvalier perché la natura non comunista del regime di Port-au-prince indusse Washington a considerare questi individui come semplici emigranti per ragioni economiche.

In passato, però, gli Stati Uniti hanno cercato, almeno a parole e attraverso atti simbolici, di mantenersi all’altezza della propria reputazione di terra delle opportunità, disposta ad aprire le sue porte alle “masse dei poveri che anelano a respirare l’aria della libertà”, per citare i celeberrimi versi di Emma Lazarus scolpiti sul piedistallo della Statua della Libertà.

Lo stesso Barack Obama, malgrado l’iniziale titubanza e nonostante la maggiore liberalità di Stati come la Germania e il Canada, aveva acconsentito ad accogliere 10.000 profughi siriani nel 2016 e ad accrescere il loro numero nel 2017. Con i decreti di Trump è, invece, scomparsa perfino la retorica del “sogno americano” e il nazionalismo dell’“America First” ha trovato una sua concretizzazione anche nelle politiche immigratorie, lanciando un pericoloso segnale di legittimazione per analoghe iniziative proposte da movimenti e partiti populisti sull’altra sponda dell’Atlantico.

Domande non peregrine sulla permanenza di un ritratto di Benito Mussolini, Duce d'Italia, in una sala della Presidenza del consiglio. Forse la "defascistizzazione" in Italia non ci fu.

La Repubblica, 28 gennaio 2016

A PALAZZO Chigi c’è una grande anticamera a pianta quadrata: dà accesso alla Sala Verde, quella in cui il governo ospita riunioni medio-grandi come quelle coi sindacati che fanno parte della archeologia politica; e anche agli appartamenti del presidente del Consiglio. Il bianco panna che la connota, illuminato dal riflesso dei lucidi marmi del pavimento recentemente restaurato, gli dà l’aura algida e solenne che deve avere un luogo di Stato. Sui lati corre una lunga galleria fotografica: cornicine anch’esse chiare, con sobrio filetto ad anticarle e uniformarle. E dentro i primi piani dei presidenti del Consiglio dell’Italia unita. Una lunga sequenza che finisce sempre con il presidente del Consiglio in carica, collocato sempre nella stessa posizione, appena di lato alla porta del suo ingresso. La nomina di un nuovo premier, fa infatti scivolare indietro tutti gli altri: sicché ad ogni cambio di governo Cavour arretra sul muro e con lui tutti gli altri, in un moto retrogrado che ha qualcosa di simbolico.

È in questa anticamera qui che bisognerebbe fare il giorno della memoria. Perché fra le sobrie immagini, spicca la foto di Benito Mussolini. La sua foto apre una diluvio di domande: e alle domande più serie e difficili questa giornata non deve dare risposte, appaganti e sedative; ma deve dare ragioni per tenerle aperte, come gli occhi con cui lo spirito critico guarda il mondo.

Com’è possibile che quella foto sia lì? Qualcuno può immaginare cosa accadrebbe se ci fosse una foto di Hitler nell’anticamera di Merkel? E qualcuno si chiede cosa può pensare di questo Paese chi, in visita alla sede del governo, vede un’Italia che ingloba e riassorbe anche il proprio passato più nero, e si autoassolve accontentandosi di far identificare in un cortocircuito emozionale i discendenti dei carnefici col dolore dei discendenti delle vittime?

Eppure Mussolini è lì. Come tante vestigia del regime che ci diede l’infamia delle leggi razziali, che predispose il laccio in cui fu preso l’ebraismo italiano, che consegnò il paese alla guerra e vide 600mila internati militari italiani preferire il lager al ritorno nell’Italia repubblichina. In uno scambio storicamente datato nel quale la chiusura della guerra civile e l’impegno dei partiti di massa per un patriottismo costituzionale valeva la scelta di non rimuovere i simboli netti e allusivi che disegnarono l’Italia fascista. È lì che si colloca (da quando?) questa foto, che non può stare lì “così”.

Per toglierla ci vorrebbe niente. E allora si dovrebbe discutere come l’Italia rappresenterebbe in quel vuoto il crimine politico e morale di quel regime: che non è stato un “male assoluto” (come dicevano i missini pentiti), ma un male umanissimo, costruito dalla cecità e dalla pulsione politicamente suicidaria di una generazione che non capì che l’emergenza storica richiede unità e non cipiglio divisivo che allora dilaniò il Paese.

Oppure la si potrebbe lasciar lì: per non occultare una verità storica. Come dice Giuseppe Galasso, uno di quegli uomini che dà lustro ad una categoria spesso meritevole della irrilevanza in cui sguazza, quella foto dice chi ha fatto e chi ha ereditato quel male. Può stare lì se ricorda i gesuiti mandati dal capo del governo dopo la liberazione a chiedere di salvare la “parte buona” delle leggi razziali; le università che non restituirono le cattedre agli espulsi del 1938; il risarcimento morale negato ai 600mila Imi che preferirono rimanere schiavi nei lager piuttosto che tornare in Italia al soldo dei repubblichini; coloro che a 5mila lire denunciarono gli ebrei; i cappotti di chi a Fiume andò ad arrestare la famiglia di Andra e Tatiana Bucci; e quel male che non ammette sottrazioni e accomodamenti.

Per darle questo significato non possiamo contare sul “patriottismo costituzionale” da noi esile e raro (da noi si arriva al massimo alla faziosità costituzionale che ispirava l’accozzaglia del No): ci vorrebbe una scelta, un gesto. Quello di un passante che rompa almeno il vetro e supplichi il governo di non ripararlo mai. Quello di un artista che la macchi di sangue. Oppure bisogna che stia lì, senza null’altro che la coscienza di tutti nel saperla lì: così che il rischio di doverci vergognare se un ospite dovesse notarla incomba sulle nostre istituzioni, sulla nostra storia e sul nostro Paese: e consegni al sapere il compito di fare di una generica memoria la sostanza di una vita civile, ancora oggi fragile.

«Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro.».

il manifesto, 27 gennaio 2017

Anche quest’anno si rinnova quello che non deve diventare un rito ma deve rimanere l’occasione per tornare a sottolineare la necessità di non dimenticare. Contro i dubbi sollevati da più parti sull’opportunità di mantenere il Giorno della Memoria.

Va infatti ripetuto con forza che questa scadenza, il Giorno della Memoria, oggi è più necessaria che mai. Se da una parte la crescente distanza che ci separa dai fatti in cui si concretizzò lo sterminio degli ebrei contribuisce ad affievolirne la memoria, dall’altra la realtà nella quale viviamo sollecita la riflessione su una serie di circostanze che ricordano da vicino aspetti della cultura della quale si nutrì l’indifferenza dei tanti e che consentì la realizzazione quasi indolore dello sterminio.

Nella crisi attuale dell’Europa il dilagare del populismo maschera a fatica il volto del razzismo che non è né vecchio né nuovo, è il razzismo di sempre, contro ogni minoranza e contro ogni eguaglianza tra i popoli.

È chiaro che il passare delle generazioni produce cambiamenti nella memoria e nei modi di esprimerla e di rappresentarla, tanto più oggi che la testimonianza dei sopravvissuti incomincia a farsi sempre più rara per ovvie ragioni fisiologiche. Troppo spesso la tragedia delle migrazioni viene dissociata nell’attenzione e nella memoria dei più dalle derive degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Dappertutto in Europa l’irresponsabile diffusione della minaccia di una invasione da parte di chi fugge da guerra e miseria genera confusione e oblio.

Situazioni paradossali e insieme esemplari come quella dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dimentica la catastrofe degli ebrei ungheresi e rifiuta l’accoglienza ai migranti con cinismo e crudeltà. Un comportamento che apparentemente dovrebbe isolare l’Ungheria dal resto d’Europa ma che in realtà rischia ormai di diffondersi al di là delle sue frontiere, in assenza tra l’altro di fratture interne che costringano Viktor Orbán a modificare o almeno a mitigare il rigore dei suoi rifiuti.

Questo significa anche una frattura nella memoria collettiva dell’Europa che indebolisce la possibilità di una presa di coscienza non parcellizzata, solidale senza riserve.

Il Giorno della Memoria dovrebbe servire a tenere viva la sensibilità di popoli e società verso problemi che ne hanno plasmato negativamente la storia ma che sono anche terribilmente attuali.

Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro.

Nessuno ha il coraggio di dirsi anti-semita o anti-musulmano, ma nei fatti il prevalere di una sorta di agnosticismo etico ci riporta al punto in cui tutto è incominciato, alla deresponsabilizzazione e all’indifferenza.

È un problema politico e culturale di enorme portata che si inserisce nella crisi dell’Europa non meno che in quella della nostra democrazia.

«Territori Palestinesi Occupati. Dopo i 566 nuovi alloggi annunciati dalle autorità israeliane nelle colonie a Gerusalemme Est, ieri il premier Netanyahu ha dato luce verde a 2.500 case negli insediamenti ebraici in Cisgiordania. L'Anp protesta ma è impotente

».il manifesto, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

A briglia sciolta. Con la benedizione di Donald Trump, la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati ormai è una galoppata. Due giorni fa il comune di Gerusalemme aveva autorizzato la costruzione di 566 abitazioni nelle colonie ebraiche della zona orientale della città, occupata nel 1967.

Ieri, non a caso ad un mese dall’approvazione della risoluzione 2334 contro le colonie da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il governo Netanyahu ha dato luce verde a progetti che faranno sorgere altre 2.500 case in vari insediamenti della Cisgiordania. «Ho concordato con il ministro della difesa Avigdor Lieberman la costruzione di 2.500 nuovi alloggi in Cisgiordania» ha annunciato lo stesso premier israeliano, che poi ha aggiunto perentorio: «Continuiamo e continueremo a costruire». Soddisfatto Lieberman. «Si sta tornando alla normalità in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr)», ha commentato riferendosi al limitato freno alla colonizzazione che aveva posto la passata Amministrazione Obama.

Secondo il ministro della difesa le nuove case sorgeranno nei principali blocchi di insediamenti ebraici già esistenti. Ma è vero solo in parte se si guarda sulla cartina le posizioni delle colonie dove saranno costruiti gli alloggi. Poco più 900 appartamenti, quasi pronti, saranno messi in vendita al più presto negli insediamenti di Alfei Menashe, Beitar Illit, Maale Adumim, Ariel, Efrat ed Elkana e soprattutto a Givat Zeev (552), tra Ramallah e Gerusalemme Est. Il Comitato per la Pianificazione Nazionale quindi avvierà la fase di progettazione e realizzazione di altri 1.642 alloggi a Ets Efraim, Givat Ze’ev, Kokhav Yaakov, Har Gillo, Zufim, Oranit, Shaarei Tikva, Beit El e ad Ariel, la seconda colonia per grandezza dove sorgeranno 899 nuove case.

È paradossale eppure ai coloni non basta. Si aspettano molto di più. Yesha, che riunisce le amministrazioni delle colonie in Cisgiordania, ha espresso profonda «delusione» perché le autorizzazioni decise da Netanyahu «non coprono la domanda». I coloni fanno un ragionamento semplice. «Il governo americano è cambiato e anche le politiche di Israele devono cambiare», scrivono nel loro comunicato. «Il governo israeliano – esortano – deve approvare tutti i progetti sul tavolo e autorizzare nuove costruzioni ovunque, in Giudea, Samaria e Valle del Giordano».

La reazione dell’Anp è stata immediata. «Israele si fa beffe della comunità internazionale e fomenta l’estremismo», ha protestato Nabil Abu Rudeinah, il portavoce di Abu Mazen. «Le dichiarazioni di protesta non servono a molto – spiega l’analista Ghassan Khatib – l’Anp piuttosto dovrebbe lanciare iniziative diplomatiche vere sulla base della risoluzione 2334 approvata il mese scorso dal Consiglio di Sicurezza, rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e chiedere la sospensione di Israele all’Onu se Netanyahu non cesserà gli attacchi alla legalità internazionale».

Tutto fa pensare che l'avvento di Trump allontanerà ancora di più Israele dall percorso di pace con la Palestina e rafforzerà Netanyahu il suo governo nel proseguire la feroce politica di oppressione

. Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2017 (p.s.)

Approvati i permessi per la costruzione di 566 nuove a Gerusalemme est, oltre la Linea Verde in vigore del 1967, la parte abitata principalmente dalla popolazione araba-palestinese. Lo ha detto alla Radio Militare Meir Turgeman, capo del Comitato di programmazione edilizia della città, spiegando che i permessi erano stati bloccati fino alla fine dell’amministrazione Obama contraria all’attività di insediamento.

Ma ora, con l’elezione di Donald Trump, definito da Benyamin Netanyahu “un vero amico di Israele“, le costruzioni degli insediamenti nei territori arabi potrebbero avere un accelerata che procederà di pari passo all’esproprio e alla demolizione delle case dei palestinesi ritenute “abusive“.

Ieri, ad Arara, nel nord di Israele, migliaia di arabi israeliani hanno manifestato contro le recenti demolizioni in località arabe di case definite “abusive” dalle autorità. E Hanno anche invocato le dimissioni del ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan (Likud) in seguito alla morte di un beduino in scontri avvenuti mercoledì con la polizia nel Neghev. Secondo le autorità durante i preparativi per le demolizioni di case nel villaggio beduino di Um el-Hiran (Neghev) l’uomo – Yaakub Abu Al-Kyan, 45 anni, vice preside di una scuola locale – ha travolto ed ucciso intenzionalmente un agente di polizia, prima di essere colpito a sua volta dal fuoco di altri agenti.

I dimostranti hanno invece accusato il ministro Erdan di aver fornito una versione menzognera dei fatti ed hanno invocato che sull’ incidente sia condotta una inchiesta indipendente. Nel frattempo la famiglia di al-Kyan esige di poter procedere alla sua sepoltura ma le autorità sono disposte ad autorizzare solo funerali di carattere privato, per prevenire altri disordini.

Presto però, potrebbe cominciare ufficialmente una nuova fase delle relazioni Usa-Israele, dopo il gelo con l’amministrazione Obama. Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche che citano fonti non specificate di Gerusalemme, i due presidenti si potrebbero incontrare nella prima settimana di febbraio a Washington.

Ben prima quindi del congresso dell’Aipac, la principale lobby filo israeliana negli Usa, prevista per fine marzo e dove è tradizionale che partecipi il premier israeliano. In questo primo, cruciale, incontro, sono molti i temi: dalla situazione della regione alla costruzione delle colonie ebraiche, dall’accordo sul nucleare dell’Iran alla ripresa delle sanzioni contro Teheran, al trasferimento del’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

«Manca una riflessione sul perché quasi un terzo degli italiani dichiari di voler votare il M5S. Le dimensioni del consenso grillino e la sua tenuta obbligano a prendere sul serio questo fenomeno».

la Repubblica, 21 gennaio 2017

Lascia stupefatti vedere come la maggior parte della classe politica, salvo poche eccezioni, continui ad “ignorare” il Movimento 5 Stelle. Additarli come populisti - il che è solo parzialmente vero - o irriderli per le loro innumerevoli ingenuità e manchevolezze serve solo ad esorcizzare il problema. Manca una riflessione sul perché quasi un terzo degli italiani dichiari di volerli votare. Le dimensioni del consenso grillino e la sua tenuta obbligano a prendere sul serio questo fenomeno. Con una premessa. La politica italiana ci ha abituato alle sorprese e quindi nel giro di qualche mese tutto può cambiare. Ma ad oggi il M5S poggia su due solidi pilastri: la ricerca del nuovo e l’ostilità più ancora che il rifiuto del vecchio.

Partiamo dal secondo. Tutto ciò che si identifica con protagonisti, sigle e parole chiave della politica degli ultimi vent’anni viene rigettato in blocco, d’istinto. C’è una insofferenza di pelle alla politica del passato. I sostenitori del M5S non fanno molta differenza tra i protagonisti di quella stagione - anche se non dimentichiamo che tra i dieci candidati alla presidenza della Repubblica gli iscritti grillini avevano inserito Romano Prodi - perché rappresentano tutti un “regime”. Non usano questa parola ma è insita nel modo con cui vivono una stagione di regole e prassi del passato che, a loro avviso, devono essere archiviate perché rappresentano una gabbia di ferro - un regime appunto. Le litanie che i leader pentastellati snocciolano quando vanno in televisione sono irritanti per la loro banalità e ripetitività ma se le decodifica appare evidente che dietro c’è un chiaro messaggio di alterità a tutto.

Del resto, seppure su una scala diversa, la foga grillina ricorda l’emergere di Lega e Forza Italia dopo Tangentopoli. Anche quei protagonisti preconizzavano una cesura netta col passato e parlavano linguaggi incomprensibili agli officiati della politica tradizionale: i farfugliamenti secessionisti di Bossi e le tirate berlusconiane da anticomunismo quaranttotesco non avevano senso per chi era sintonizzato sul passato, ma venivano invece recepiti, eccome, da un nuovo elettorato: anzi da un elettorato in cerca del nuovo. Dietro quelle parole c’era un messaggio di rottura epocale. Come allora Lega e Forza Italia rigettavano i quarant’anni precedenti, così oggi i grillini rifiutano in toto la “seconda Repubblica”, gli ultimi vent’anni. Per questo il M5S è il portabandiera in pectore della “terza Repubblica”. Matteo Renzi era l’antidoto, rappresentava l’antagonista più pericoloso per il M5S perché alternativo e allo stesso tempo interno alla seconda Repubblica. Per mille ragioni che è impossibile approfondire qui, Renzi non è riuscito a disinnescare la mina grillina. Anzi vi è esploso sopra, gettandovisi di proposito, tra l’altro.

Il Movimento 5 Stelle si trova quindi a cavalcare da solo l’immenso territorio dell’insoddisfazione. Coglie il vento di quella sfiducia e persino rabbia, che da tempo cova nell’opinione pubblica da almeno un decennio. La contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra ingabbiava quei sentimenti perché convogliava, contenendole, le pulsioni “rabbiose” verso l’uno o l’altro schieramento. Lo sfarinamento di quella contrapposizione ha lasciato libero un elettorato pieno di frustrazioni che ha trovato in Beppe Grillo la sua icona. Nel settembre del 2007 il “vaffa day” raccolse centinaia di migliaia di persone in piazza, e altrettante firme per una serie di petizioni. La miccia era già accesa allora. Nessuno se n’è curato.

Comunque la vera sfida al M5S viene dal futuro. Che è il suo secondo pilastro. La voglia di novità, speculare al rigetto del passato, è una pulsione fortissima nell’elettorato pentastellato che, non a caso, è molto giovane. Il M5S viene visto come una forza proiettata nel futuro, anche per l’enfasi data alla rete. Ma fin qui è un futuro senza grandi contenuti. Al di là del reddito di cittadinanza, il M5S non veicola proposte mobilitanti. Buon segno, comunque, l’elaborazione di un poderoso documento sul futuro del lavoro affidato a un intellettuale indipendente come Domenico De Masi. La voglia di guardare avanti è insita nel Movimento e ne sostiene le fortuna; ma è una strada molto più impervia della protesta.

».

il manifesto, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)

Un’addizione di problemi: il terremoto che si aggiunge alla neve, la terra che trema e le strade impraticabili. E l’abbandono, che nelle zone terremotate è qualcosa più di un sospetto. La maggior parte delle richieste che dai Comuni partono all’indirizzo del governo e del commissario alla ricostruzione Vasco Errani rimangono lettera morta, oppure le risposte sono vaghe, impercettibili. Quando i riflettori si accendono, il coro dei sindaci è pressoché unanime, variano solo i toni: c’è chi chiede aiuto e chi mostra rabbia. Sono decine i paesi che stanno pagando il conto salato del post sisma: per lo più si tratta di centri abitati da poche migliaia di persone, posti da cui far sentire la propria voce è complicato.

Il sindaco di Camerino Gianluca Pasqui non le manda a dire: «Ho chiesto e sollecitato l’intervento dell’esercito, ma non ho ottenuto risposta. Ho chiesto al comando provinciale dei vigili del fuoco di informarmi sulle loro operazioni, ma ho dovuto chiamare i carabinieri perché la mia lettera venisse presa in consegna».

L’altro grande nemico è la burocrazia pachidermica, continua Pasqui: «Una firma, un nullaosta del Dicomac (la Direzione comando e controllo della Protezione civile, ndr) che manca sta tenendo sotto scacco un’intera popolazione che si trova a fare i conti con delle difficoltà enormi».

Anche il sindaco di Ascoli Guido Castelli invoca l’esercito: «Non abbiamo segnalazioni di danni, ma già nella notte tra martedì e mercoledì avevamo assistito a una serie di crolli per la neve. Il mio è un grido di allarme, l’emergenza è mostruosa». In città una strada è letteralmente franata a causa del maltempo: perché la terra che trema, nella giornata di ieri, è stata soltanto il contorno drammatico, e a fare i danni è stata quasi solo la neve.

Marco Rinaldi, sindaco di Ussita in provincia di Macerata, denuncia la situazione sulle strade: «Io viaggio perché ho il suv, ma non tutti ce l’hanno. Le ambulanze e i mezzi d’emergenza devono poter passare. L’Anas affronti questa emergenza immediatamente, ma è già troppo tardi». Il timore è che la bufera chiuda il valico sull’Appennino, a quel punto Ussita sarebbe di fatto isolata dal resto del mondo.

Da Acquasanta Terme (Ascoli), il sindaco Sante Stangoni è sull’orlo della disperazione: le tante frazioni del suo Comune sono state irraggiungibili per la gran parte della giornata di ieri e il mancato funzionamento delle linee telefoniche hanno reso impossibili anche i contatti. «Parliamo di una cinquantina di paesini e di quasi duecento chilometri di strade interne – racconta -. Stiamo rischiando tantissimo».

A Folignano, paese a est di Ascoli, è venuto giù il tetto della palestra comunale, non per il terremoto, ma per la neve. La struttura era stata inaugurata nel 2004. «Chiaramente non doveva crollare – dice il vicesindaco Matteo Terrani -, terminata questa emergenza spingeremo perché si faccia chiarezza sulle eventuali responsabilità».

«L’azienda paga il governo della Nigeria, ma i soldi vanno solo a politici e prestanome: l’analisi delle autorità Usa e Bankitalia» .

Il Fatto quotidiano, 15 gennaio 2017 (p.s.)

I dirigenti dell’Eni hanno preso tangenti? E quel miliardo di dollari che l’azienda petrolifera controllata dallo Stato ha pagato per i diritti di sfruttamento del colossale giacimento petrolifero Opl245 è finito tutto in mazzette al presidente nigeriano e altri politici e burocrati locali? Per i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che a fine dicembre hanno chiuso le indagini sulla vicenda, la risposta è “Sì” a entrambe le domande, tanto che sono indagati per corruzione internazionale l’ex amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni e il suo successore Caludio Descalzi, all’epoca a capo della divisione petrolifera del gruppo. Vista la rilevanza dell’affare e la gravità delle accuse, note dal 2014, anche l’Eni ha avviato una sua indagine interna per capire se c’è stata corruzione.

Il collegio sindacale, l’organismo di controllo, si è rivolto allo studio legale americano Pepper Hamilton, che a sua volta ha coinvolto gli investigatori della Fg International Solutions. Il risultato è un report presentato sia all’Eni che alla Sec, l’autorità di Borsa americana, e trasmesso anche al dipartimento di Giustizia americano.

Ai soci e alle Ong che ne chiedevano conto, nell’assemblea degli azionisti 2016, i vertici dell’Eni si sono limitati a comunicare che “non sono emerse evidenze di condotte illecite in relazione alla transazione di Eni e Shell con il governo nigeriano del 2011 per l’acquisizione della licenza”. Ma Fatto ha potuto leggere il rapporto integrale di Pepper Hamilton e di zone d’ombra nel comportamento dell’Eni ne emergono parecchie.

Il 28 maggio 2014 l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia trasmette alla Procura di Milano una serie di informazioni ricevute dalle autorità inglesi e americane: ne emerge il grafico che vedete qui accanto. Il 29 aprile 2011 l’Eni bonifica 1,092 miliardi di dollari a un conto vincolato del governo nigeriano presso la banca Jp Morgan Chase a Londra (non il conto abituale dello Stato, ma uno parallelo). Quei soldi poi vengono girati a una società aperta nel 2010 alle isole Marshall, Petrol Service, ma la banca che doveva riceverli – la Bsi di Lugano – li rimanda indietro.

La somma allora inizia a disperdersi per mille rivoli: non un solo euro andrà al popolo nigeriano. Secondo quanto hanno ricostruito le autorità finanziarie di Usa, Gran Bretagna e Italia ben 523 milioni finiscono in società riconducibili a Abubakar Alyu, un presunto prestanome del presidente nigeriano Goodluck Jonathan che era la controparte istituzionale dell’Eni nell’affare. Alyu è indicato negli schemi con il soprannome di “mister Corruzione”.

Un’altra considerevole fetta della somma, 336 milioni di euro, finisce negli Stati Uniti su un conto della Rocky Top Resources, una società dietro la quale ci potrebbe essere Dan Etete, ex ministro del petrolio nigeriano che era anche dietro la Malabu, società titolare della concessione petrolifera per l’Opl245. Quei soldi servono a comprare, tra le altre cose, un jet Bombardier Vision 6000 da 56 milioni intestato a una fiduciaria dell’isola di Man (e diversi forum nigeriani danno conto di polemiche su un nuovo Bombardier del presidente Jonathan nel 2012), poi tre Cadillac Escalade 2011 da 195.000 dollari l’una.

Auto che non arriveranno mai in Nigeria, però: il dipartimento di Stato Usa impedisce l’esportazione di veicoli blindati. Su altri 200 milioni di euro si apre una lite legale a Londra, li reclama Emeka Obi, un mediatore nigeriano coinvolto in una lunga fase di trattative e poi escluso quando l’Eni decide di trattare direttamente con il governo di Jonathan (ci sono quindi 10 milioni anche per l’ex ministro della Giustizia Bayo Ojo San che aveva riassegnato la concessione alla Malabu dopo una serie di contenziosi). Parte dei soldi di Obi, quelli rimasti a Londra, vengono sequestrati proprio su richiesta dei pm di Milano.

Quanto sapeva l’Eni? La versione ufficiale dell’azienda in questi anni è che ha trattato solo e soltanto con il governo nigeriano senza avvalersi di intermediari. Incalzata dall’Ong Global Witness, Eni ha ribadito: “Riteniamo che il governo di una nazione sovrana non debba essere messo in discussione e che l’aver siglato un accordo direttamente con esso garantisca la completa trasparenza della transazione”. Una versione che, a leggere il rapporto di Pepper Hamilton, è almeno incompleta. Fin dal 2007, ricostruiscono gli avvocati americani assoldati dal collegio sindacale dell’azienda, Eni sapeva che dietro la Malabu c’era Dan Etete che, da ministro del petrolio tra il 1995 e il 1998, aveva assegnato il giacimento Opl 245 alla Malabu, la cui proprietà era schermata. Il 23 febbraio del 2007 alcuni dirigenti Eni (Claudio

, Fabrizio Bolondi e Lionello Colombi) incontrano all’hotel Four Seasons di Londra emissari della Malabu, e c’è anche Etete. Nel memo di quell’incontro, infatti, Etete viene indicato come “il titolare della Mamabu”, con un refuso.

Nel 2009 Eni inizia a trattare con un intermediario, Emeka Obi, sedicente banchiere d’affari titolare della Energy Value Partners e che parla a nome della Malabu (e di Etete). Obi esordisce facendosi pagare un “gettone di partecipazione” (Participation Fee) da 661.857 dollari soltanto per consentire all’Eni di accedere a una “data room virtuale” relativa all’Opl 245. Una specie di banca dati. Si tratta di una mazzetta di benvenuto? I sospetti di Pepper Hamilton e del collegio sindacale di Eni sono così concreti da richiedere un supplemento di indagine agli investigatori di Fg International Solutions: il responso è che la certezza non si può avere, ma i dipendenti Eni interpellati dicono che era la prima volta che assistevano a un pagamento simile per accedere ai dati, peraltro poco rilevanti. Fg non riesce a stabilire se poi dai conti di Obi quei soldi siano finiti a membri del governo nigeriano.

Il report di Pepper Hamilton chiarisce invece che nel 2011, al momento dell’accordo finale sul giacimento, “durante i negoziati e l’esecuzione dell’accordo il personale dell’Eni era consapevole del vincolo contrattuale in base a cui il 100 per cento di 1,092 miliardi da pagare al governo nigeriano doveva poi essere pagato a Malabu”. Addirittura c’erano rappresentanti di Malabu alle riunioni con Eni e il governo. E il ministro della Giustizia Adoke ha riferito in Parlamento che Eni e Shell erano consapevoli di dove finiva la somma.

Tutti i soldi sarebbero andati quindi a quella società che dal 2007 l’Eni sapeva essere riconducibile a Etete. Non solo: dal 2010 il Risk Advisory Group, cioè l’intelligence interna all’Eni, aveva ricostruito i legami fortissimi tra Etete e il presidente Jonathan, “ci sono voci secondo cui Etete avrebbe pagato per l’istruzione dei figli del presidente”.

Perché si mobilita mezzo governo nigeriano – eliminando anche il mediatore Obi che, secondo i pm, avrebbe dovuto far arrivare i soldi anche a manager e mediatori italiani come Luigi Bisignani– a fare da intermediario per un ex ministro del petrolio? La risposta sembra essere in quel flusso di denaro finito in jet, Caddilac, contanti e bonifici che secondo i magistrati di Milano legittima l’accusa di corruzione internazionale.

Uno dei tanti business, complementare rispetto a quello del mercanti d'armi, che si nascondono nelle tragedie della guerra diffusa come i parassiti nelle piaghe infette.

Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2017

Il rimpatrio dei sequestrati è sempre un momento magico. Anche se nessuno di noi può immaginare l’agonia da loro sofferta, vederli scendere dalla scaletta dell’aereo e riabbracciare i propri cari ci fa partecipare alla loro gioia. E’ come guardare un film a lieto fine: sorridiamo e siamo contenti perché il bene ha trionfato sul male. Ma questo momento di gioia nazionale ha un prezzo molto alto.

L’Italia è il Paese che paga i riscatti più ricchi ed allo stesso tempo quello che ha sofferto il numero maggiore di sequestri. Una verità che le imprese di sicurezza e quelle di assicurazioni conoscono bene, ma di cui anche gli italiani sono a conoscenza. Naturalmente, come tutti i governi europei, il nostro nega qualsiasi coinvolgimento finanziario con i sequestratori. Ma le prove che ciò avviene le abbiamo viste tutti, ad esempio nel documentario sul business dei riscatti di al Jazeera (dal titolo ‘The hostage business’) dove la telecamera ha ripreso una piramide di contante destinata ai sequestratori di Domenico Quirico e del suo compagno di prigionia, il belga Piccinin da Prata. Tuttavia, la maggior parte dei riscatti non pagati per liberare giornalisti conosciuti ma operai e tecnici che lavorano in zone ad alto rischio. E le cifre sono da capogiro. Secondo l’Europol il business dei riscatti nel 2015 ha superato i due miliardi di dollari e una delle zone più battute dai sequestratori è stata ed è tutt’ora la Libia dove l’Italia ha grossi interessi economici.

Gli ultimi ostaggi italiani sequestrati in Libia erano due operai piemontesi e un italo-canadese che lavoravano alle riparazioni dell’aeroporto di Ghat per conto di una società di Mondovì, in provincia di Cuneo, la Con.I.Cos. Sono stati liberati nel novembre del 2016. Ghat si trova nel Sud-Ovest della Libia, proprio sul confine con l’Algeria, un crocevia importantissimo del Sahel. Qui si intersecano le piste del contrabbando che partono dal Sud dell’Algeria e dal Niger, tratturi di sabbia lungo i quali viaggiano i migranti dell’Africa occidentale e orientale, tutti diretti in Europa.

Ghat è territorio tuareg, l’etnia berbera che neppure Gheddafi è mai riuscito a piegare. Da più di un decennio i tuareg cooperano con al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), il gruppo jihadista che nel 2003 si autofinanziò con i primi rapimenti di stranieri nel Sahel e che per primo ha investito parte dei proventi dei riscatti nel contrabbando dei clandestini africani. E già da sequestratori i jihadisti di Aqimi sono diventati contrabbandieri di clandestini e come loro altri lo hanno fatto perché questo è un business ancora più remunerativo dei sequestri. Secondo l’Europol, tale traffico nel 2015 ha fruttato tra i tre e i sei miliardi di dollari e l’80 per cento dei clandestini era diretto in Europa e transitava per il nord Africa o il Medio Oriente.

Il sud della Libia è un crocevia importantissimo. Dopo la caduta di Gheddafi, i tuareg hanno collaborato con altri gruppi armati libici, alcuni vicini ai Fratelli Musulmani, che hanno partecipato alle trattative per il rilascio degli ostaggi italiani. I jihadisti siano di casa a Ghat, diventata una sorta di Tortuga del deserto, rifugio sicuro per i mercanti di uomini – bande criminali e jihadiste – che si arricchiscono trafficando in vite umane.

A Ghat i sequestratori si scambiano merce preziosa: gli ostaggi. Da Ghat si negoziano i riscatti. A Ghat i contrabbandieri di migranti imprigionano coloro che a parere loro val la pena sequestrare lungo il cammino verso l’Italia, e aspettano che le famiglie paghino i riscatti per portarli sulle coste libiche e da lì in Italia. A Ghat è difficile distinguere i contrabbandieri dai trafficanti, i sequestratori dai membri dei gruppi armati. Sono vestiti uguali, portano le stesse armi, guidano gli stessi Suv e si finanziano nello stesso modo. Le fonti principali di reddito sono i riscatti e i guadagni generati dal contrabbando di prodotti e di migranti. Un’industria altamente integrata, questa, dove il denaro, indipendentemente da come viene guadagnato, circola di continuo.

Tutto questo avviene in un paese poco distante da casa nostra, un’ex colonia, una nazione semi-fallita con la quale non abbiamo mai smesso di fare affari.

«L’austerità voluta dai tedeschi ha portato non solo al perdurare di una crisi economica senza precedenti ma anche all’affermarsi sempre più importante di sentimenti nazionalisti e xenofobi».

Sbilanciamoci info, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)

L’anno da poco finito lascia, per unanime considerazione, diverse pesanti eredità a quello nuovo. Tra di esse, vogliamo ricordare i problemi economici, sociali, politici, del nostro continente, che, tra l’altro, sembrano per alcuni aspetti aggravarsi con il tempo. Va in particolare sottolineato che chi, nel corso degli ultimi anni, ha almeno un po’ sperato che la Germania, i suoi politici, la sua opinione pubblica, alla fine arrivassero non solo a capire sino in fondo il quadro della situazione, ma anche a cercare di contribuire ad alleviare i rilevanti punti di crisi che la loro rigida politica di austerità ha portato all’Europa, ormai dovrebbe essersi ampiamente ricreduto; questo, a meno di rifiutarsi ancora, cosa che di frequente capita e a molte persone, di guardare in faccia la realtà e di arrendersi all’evidenza dei fatti, che, come è noto, sono testardi.

In effetti, l’analisi degli avvenimenti degli ultimi mesi sembra suggerire chiaramente che la costruzione europea si sta a poco a poco ormai letteralmente disfacendo. Non si tratta soltanto del fatto che l’economia di molti paesi non riesce più a riprendere veramente slancio, ma anche dello sviluppo di forti sintomi di rigetto della costruzione europea da parte di strati crescenti della popolazione del continente, dell’affermarsi sempre più importante di sentimenti nazionalisti e xenofobi, della mancanza di qualsiasi seria reazione al riguardo nell’UE e nell’eurozona. Tutte cose, peraltro, ampiamente note.

Certo, non sono soltanto i tedeschi ad avere delle colpe evidenti in quello che sta succedendo; così accuse molto rilevanti si possono giustificatamente addossare alla Francia e, per altro verso, i guai dell’Italia sono per una parte consistente colpa nostra.

Per quanto riguarda il paese transalpino, poi, si può aggiungere en passant che il candidato che più probabilmente dovrebbe conquistare la presidenza della repubblica alle prossime elezioni, Francois Fillon, promette, tanto per cambiare, di applicare un programma di austerità interna piuttosto duro. Egli minaccia, tra l’altro, di mandare a casa 500.000 funzionari pubblici e di intervenire pesantemente sulla sanità, oltre, ovviamente, a prendersela in ogni modo con gli immigrati.

Ma comunque i tedeschi, dall’alto della loro forza economica e politica e per il fatto che sono loro a guidare sostanzialmente e per una parte molto rilevante il gioco a Bruxelles, rappresentano la forza con le responsabilità maggiori della presente situazione del continente e in ogni caso gli ideologi dell’austerità a tutti i costi.

I tedeschi all’offensiva

Che la Merkel, Schauble e compagnia non abbiano alcuna voglia di cambiare idea, almeno sul terreno economico e finanziario, è dimostrato negli ultimi tempi da una serie di fatti sempre più numerosi che si vanno allineando implacabilmente uno dopo l’altro.

Va considerato che l’avvicinarsi delle elezioni, visto anche l’irrigidimento almeno di una parte consistente dell’opinione pubblica, non permetterebbe loro probabilmente, in ogni caso, di mostrare una qualche nuova visione delle cose, ammesso che ne avessero voglia, ciò di cui si può comunque ampiamente dubitare, di fronte ad esempio alle ormai quasi quotidiane dichiarazioni oltranziste di Schauble e di chi lo circonda.

Cerchiamo a questo punto di allineare alcune delle vicende che documentano lo stato delle cose nel paese teutonico.

Valutando che la sola politica realista per l’Europa sia oggi quella dell’applicazione stretta del trattato di Maastricht, il governo tedesco e i dirigenti della Bundesbank non cessano di scagliare i loro strali contro chiunque tenti anche alla lontana di deviare dall’obiettivo indicato.

Così è toccato soprattutto al presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, di prendersela a più riprese con Mario Draghi, accusato, con la sua politica di quantitative easing e di bassi tassi di interesse, di aver permesso ai cattivi allievi del Sud Europa di non portare avanti le riforme necessarie (Leparmentier, 2016).

Sotto la mannaia tedesca sono anche finiti e a più riprese anche il presidente della Commissione, Claude Junker e il commissario Pierre Moscovici, rei, secondo loro, di portare avanti una gestione “politica” e non tecnica dell’euro, rifiutato le giuste sanzioni contro Madrid e Lisbona per le loro derive budgetarie, mostrandosi anche troppo tolleranti con l’Italia e di aver persino chiesto –cosa inaudita- un piano di rilancio budgetario europeo (Leparmentier, 2016).

Non sono mancati poi gli attacchi diretti ai paesi del Sud.

Così, poche settimane fa, la Germania è quasi riuscita a bloccare gli ulteriori flussi di denaro promessi alla Grecia solo perché il governo ellenico aveva distribuito modeste somme ai pensionati più poveri. In questo caso è stata, tra l’altro e per fortuna, l’opposizione decisa della Francia, nella persona in particolare di Pierre Moscovici, che ha forse fermato la mano del boia.

Infine, per quanto riguarda il nostro paese, la cartina di tornasole dell’atteggiamento tedesco è stata la decisione ormai obbligata del nostro governo di intervenire direttamente per salvare il sistema bancario, in particolare con l’operazione sul Monte dei Paschi. In Germania, approfittando anche naturalmente del modo maldestro con cui è stata messa a punto l’operazione, c’è stata quasi una unanime sollevazione contro tale decisione, da parte di CDU e socialdemocratici, della solita Bundesbank, dal consiglio dei cinque saggi, degli istituti di ricerca, di molti giornali.

Da qualche tempo aleggia poi su Bruxelles una proposta di Schauble che vorrebbe legare le risorse che oggi l’Europa spende per la politica di coesione e per quella agricola a finanziare le cosiddette “riforme strutturali” dei paesi membri. Bisognerebbe in ogni caso, per il ministro, collegare le risorse di bilancio dell’Unione alle raccomandazioni di politica economica proposte ogni anno da Bruxelles. E’ facile dedurre che la principale destinataria della proposta è proprio l’Italia (Chiellino, 2016).

Sullo sfondo stanno le riflessioni crescenti di una parte almeno dei circoli dirigenti del paese sempre più orientati a vedere l’Italia come un peso per l’Europa e a preferirla fuori dall’euro (Business insider, 2016).

Conclusioni

La Germania, con il passare del tempo, continua a non mostrare grandi segni di consapevolezza della potenzialità della crisi che l’Europa attraversa ed anzi sembra irrigidirsi nelle sue idee. Del resto le attuali politiche europee e il livello di cambio dell’euro vanno molto bene al paese teutonico, anche se certamente non a molti altri. Né le prossime elezioni francesi possono apparentemente portare a delle novità positive.

Una flebile speranza di cambiamento viene ora comunque da Sigmar Gabriel, il candidato socialdemocratico alle prossime elezioni parlamentari del nostro ingombrante vicino. Di recente egli sembra aver cambiato tono rispetto agli orientamenti precedenti del partito e predica ormai la necessità di una revisione della politica di austerità, che riconosce essere dannosa per l’Europa. Ma il possibile peso di tali dichiarazioni sul futuro delle politiche tedesche appare quanto mai aleatorio.

Testi citati nell’articolo
-Chiellino G., Il “ricatto” tedesco sui fondi, Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2016
-Lepartmentier A., Maastricht ou Thatcher?, Le Monde, 1 dicembre 2016
-Business Insider Italia, La Germania spinge l’Italia fuori dall’euro, Draghi fa muro, www.repubblica.it, 26 dicembre 2016

Don Virginio Colmegna riflette sull' "emergenza freddo" di queste settimane. Ne approfittiamo per chiedere ai lettori di eddyburg di area milanese di mobilitarsi: per favore, portate alla Casa della Carità coperte, giacconi, indumenti invernali maschili e scarpe. Il servizio docce è in grande difficoltà!

la Repubblica Milano, 13 gennaio 2017 (m.c.g.)

Perché non vanno nei dormitori? Perché rifiutano l’accoglienza? Perché preferiscono la strada anche con queste temperature? In questi giorni di gelo, sono domande che mi capita spesso di sentire quando si parla di senza dimora. Ne ho conosciuti parecchi e altrettanti ne incontro ogni giorno. Eppure una risposta non ce l’ho. O meglio, non ne ho una sola, univoca, ma tante e diverse. Come tante e diverse sono le persone che in questo inverno continuano a dormire all’addiaccio.

Luigi lo fa perché in dormitorio ha avuto brutte esperienze, Maria perché ha problemi di salute mentale, Abdel perché è senza documenti, Aleksander perché, da poco in Italia, ancora non sa dove chiedere aiuto ed Emanuele perché non vuole separarsi dal cane. Sono motivazioni che possono essere considerate sensate o folli, ma che ci ricordano quanto gli homeless non siano una massa indistinta e omogenea. Sono persone senza dimora, certo, ma pur sempre persone che, in quanto tali, hanno un’individualità, una storia, relazioni, necessità e idee, giuste o sbagliate che siano. Il dovere di aiutarle però rimane. E non solo quando le temperature scendono sotto zero.

Le assi lungo cui muoversi sono due. La prima è strutturale e di lungo periodo, ed è la lotta alla povertà, intesa in una doppia accezione: prevenzione, da un lato, e percorsi di uscita, dall’altro. Mi sono già augurato che Milano diventi in questo ambito un esempio nazionale e, quindi, spero proprio che nel 2017 si affronti seriamente il tema del reddito di base. Nel frattempo però - e questa è la seconda direzione - serve aiuto per chi in strada già c’è. In Italia i senza dimora sono 50.724. Come ha dichiarato la presidente fio.PSD Cristina Avonto, «se si lavorasse in una logica di programmazione, durante tutto l’anno, quando arriva l’inverno non saremmo in questa situazione». Ha ragione: per proteggere davvero i senza dimora dal freddo, servono percorsi continuativi di conoscenza e fiducia.

Anche Milano deve operare in quest’ottica, pur tenendo conto delle sue peculiarità. La nostra è la città che in tutto il Paese ospita il maggior numero di homeless: 12.004. Ed è anche uno dei centri che oggi mette a disposizione più posti durante la cosiddetta “emergenza freddo”: 2.780, il doppio rispetto al 2010. Eppure, in questi giorni, alcuni di questi letti, tra i 200 e i 300, sono rimasti vuoti. Sembra un paradosso. Io credo debba debba diventare uno stimolo.

Dopo l’aspetto quantitativo, bisogna migliorare anche l’aspetto qualitativo dell’accoglienza. Più che dormitori, servono alberghi e non sto parlando di stanze singole, bagni lussuosi e stelle di qualità. Gli alberghi vanno incontro alle esigenze dei loro clienti. Così dovrebbero fare anche i servizi per la grave emarginazione, offrendo risposte non massificate, il più diversificate possibili, adatte alle diverse esigenze, segnate da una continuità della relazione e da una pluralità di servizi.

Non solo. Esiste una porzione di popolazione senza dimora che faticherebbe comunque a entrare nel circuito dell’ospitalità. È il caso di quel cittadino polacco mancato per il freddo in via Antegnati alcuni giorni fa. Milano deve occuparsi anche delle persone come lui, mettendosi proattivamente alla loro ricerca, andando loro incontro non solo durante l’inverno.

Credo sia necessario allora creare un osservatorio che monitori tutte quelle aree dove il disagio è forte e nascosto. Penso a una struttura snella che raccolga informazioni, segnali criticità e interagisca coi servizi. Ma soprattutto immagino uno strumento utile alle istituzioni, per far sì che il freddo, anche il più improvviso e rigido, non sia più un’emergenza per Milano e i suoi cittadini senza dimora.

«Domani i giudici costituzionali decidono sull'ammissibilità del referendum sull'articolo 18. La scelta incrocia quella del 24 gennaio sulla legge elettorale e può favorire la fine anticipata della legislatura». il manifesto, 10 gennaio 2017

La Corte costituzionale è più che mai al centro delle vicende politiche italiane, ma questa volta è difficile per tutti accusare i giudici delle leggi di supplenza o indebita ingerenza. Tanto per cominciare perché la Consulta è chiamata a pronunciarsi a stretto giro (domani e il 24 gennaio) su due prodotti del riformismo precipitoso di marca renziana: il Jobs act, varato dal governo senza tener conto delle osservazioni delle commissioni parlamentari, e la legge elettorale, imposta alla camera con tre voti di fiducia. E poi travolta dalla vittoria del No al referendum costituzionale.

Proprio il parlamento e i partiti da oltre due mesi trascurano il dovere di scegliere un nuovo giudice costituzionale – Frigo si è dimesso a novembre – e, curiosamente, le camere cominceranno lentamente a occuparsene proprio domani pomeriggio, con una seduta convocata qualche ora dopo la camera di consiglio della Corte sui referendum Cgil. La seduta parlamentare produrrà una fumata nera e anche la decisione del 24 gennaio sull’Italicum sarà presa da una Consulta incompleta, 14 componenti e non 15, con la teorica possibilità di un pareggio – in questo caso il voto del presidente Grossi pesa per due. Il giudice mancante spetterebbe a Forza Italia (come l’uscente Frigo) che è già stata penalizzata dall’ultima tornata di nomine parlamentari, ma Renzi quando ha avuto bisogno del sostegno dei giuristi alla sua riforma costituzionale non ha lesinato promesse; l’esito non può dirsi scontato.

Nella Corte che dovrà decidere domattina dell’ammissibilità dei tre referendum abrogativi proposti dalla Cgil, sono stati da tempo individuati due schieramenti. Esclusivamente però sul referendum più «pesante», quello per il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, affidato alla relatrice Silvana Sciarra considerata favorevole all’ammissione, mentre contrari sarebbero i giudici nominati dalle supreme magistrature e soprattutto l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato.

Ci sono argomenti per ognuna delle due tesi; se certamente pesa il precedente del 2003 quando la Consulta ammise un referendum (proposto da Rifondazione comunista) che estendeva l’applicazione dell’articolo 18 senza limiti di dimensione dell’azienda, dunque in misura più larga dell’attuale proposta Cgil, è vero che proprio l’individuazione di un tetto (cinque dipendenti come nel quesito avanzato adesso del sindacato) può essere valutata come finalità «propositiva», inammissibile, del referendum. Nessun dubbio invece sull’ammissibilità degli altri due referendum, quello sull’abolizione dei voucher (relatore il giuslavorista di area cattolica Prosperetti) e quello sulla responsabilità solidale in materia di appalti (relatore il magistrato civilista di Cassazione Morelli).

Naturalmente nelle valutazioni politiche, non estranee al lavoro dei giudici costituzionali, la decisione di domani si lega a quella attesissima del 24 gennaio. Perché se l’ammissione del referendum sull’articolo 18 potrebbe essere vista come un’accelerazione verso le elezioni anticipate, una bocciatura minima o massima dell’Italicum potrebbe confermare o smentire questa tendenza. In caso di ammissione, infatti, il governo non potrebbe aspettare oltre la metà di febbraio per convocare le urne referendarie tra metà aprile e metà giugno. A quel punto, secondo il noto assunto sfuggito al ministro del lavoro Poletti, per evitare una nuova sconfitta referendaria, il Pd renziano non avrebbe altro mezzo che lo scioglimento anticipato delle camere (per legge il referendum viene rinviato di un anno).

Avendo già sperimentato l’inerzia del governo Gentiloni, Renzi potrebbe cioè sperare nell’azzardo. Avrebbe però bisogno di una seconda sentenza favorevole della Consulta, una bocciatura assai limitata dell’Italicum, che tenesse in vita il sistema elettorale maggioritario cancellando solo le pluricandidature bloccate e il ballottaggio. A quel punto il sistema uscito dall Consulta potrebbe essere abbastanza velocemente esteso al senato, come già chiedono di fare i 5 Stelle. Magari approfittando del lavoro di «armonizzazione» tra le due camere per riportare il premio di maggioranza in testa alle coalizioni, com’è adesso previsto per il senato.
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