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«La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura». Occorre continuare a ragionare sugli effetti devastanti della riforma.

Libertà e Giustizia, 30 giugno 2016 (p.d.)
Il Presidente del Consiglio ha scatenato il suo plebiscito, convinto di vincere perché pensa di avere contro solo dei piagnoni (la memoria fiorentina gli fa pensare di essere un Lorenzo de’ Medici contro dei Savonarola, i cui seguaci erano detti, appunto, dalla brillante società ultracorrotta del tempo, “piagnoni”).
Che il referendum “confermativo”, o “oppositivo”, si trasformasse in un plebiscito, era ovvio. Ed altrettanto ovvio era che si sarebbe trattato in uno scatenamento – come dice la parola – della plebe. La riforma Renzi è infatti una mossa di antipolitica dall’alto per cavalcare (o meglio, per ingoiare) l’antipolitica dal basso.

1) Con la calma della ragione continuiamo a dire che:

a. La revisione costituzionale cd. Renzi-Boschi (unita alla nuova legge elettorale) è fatta male. E’ malfatta nel senso che, dati (presi per buoni) i suoi fini proclamati, essa è intimamente contraddittoria e, dunque, incapace di raggiungerli.
Aumenterà la sudditanza del Parlamento verso il Governo (il rapporto di fiducia si trasforma in una catena di comando); genererà ulteriori malfunzionamenti nello svolgimento dell’attività legislativa e nel rapporto tra Stato e Regioni; ma, primo fra tutti, genererà una determinazione della politica nazionale avventurosa (più simile a una partita a poker che al coagularsi di un indirizzo politico-sociale maggioritario nella società) e, conseguentemente, una frantumazione delle forze politiche sulla base di motivi egoistici sempre più superficiali, perché sempre più determinata da mosse di corto respiro (di reazione a sondaggi, campagne giornalistiche …), e dunque una loro sempre maggiore subalternità alle pulsioni irrazionali dell’elettorato e dei mass-media, accompagnata, di converso, da una sempre maggiore cecità politico-intellettuale di fronte alle dinamiche profonde del Paese e del contesto internazionale.

b. Il giudizio sulla coerenza e sulla efficacia della revisione rispetto ai fini da essa stessa prefissati non può essere disgiunto dal giudizio su quegli stessi fini rispetto a quelli costituzionalmente stabiliti. Ogni Costituzione è un programma di altissima politica sui profili fondamentali che la società deve raggiungere. Un programma aperto al conflitto, o, se si preferisce, “l’asse della morale politica di un popolo”.
Certi fini (ad esempio perseguire l’onnipotenza nell’esercizio dei diritti di proprietà) sono vietati; altri (ad esempio impedire che sul suolo della Repubblica si possa morire di una malattia curabile) sono obbligatori.
La riforma renderà più agevole perseguire i fini obbligatori, e più difficile perseguire i fini vietati? Il giudizio sulla revisione dipende dalla risposta a questa domanda. Non è dunque possibile una discussione che si esaurisca sul piano tecnico: la congruità dei mezzi rispetto ai fini richiede che contemporaneamente si definiscano criticamente i fini (mantenere o sostituire esplicitamente gli obblighi e i divieti che la Costituzione impone; facilitarne l’attuazione o propiziarne lo scivolamento nell’oblio).

c. La natura del potere democratico è oggi estremamente confusa, e va chiarita; ma la riforma non lo fa.
La Costituzione vigente è fondata sull’assioma ottimistico che il volere del popolo sia “cosa in sé buona”. Caduto il fascismo e il nazismo, sperimentata l’unità ciellenista e quella costituente, si pensava che il popolo si sarebbe risollevato con tutta la sua forza, e con una sostanziale unità d’intenti, dovuta alla condivisione degli stessi problemi vitali, al di là delle divisioni politiche, sostanzialmente esogene. Di qui la scelta del sistema pluripartitico e della legge proporzionale pura come fondamenti dello “Stato di tutto il popolo”.
Il potere politico è dunque – secondo l’idea di democrazia adottata dalla nostra Costituzione – “fatto” di scelte compiute dagli individui intesi come parti del popolo concreto, e dunque delle “formazioni sociali” che lo compongono (alcune volontarie, altre determinate dall’economia o dalla tradizione). Di azione collettiva (dei cittadini “associati”, come dice la Costituzione) e contemporaneamente di azioni individuali, di cittadini come elettori “liberi”, i cui voti si contano, non si pesano. E infine, il potere politico è “fatto” dagli eletti e da tutti coloro che attuano le loro scelte, che dovrebbero agire con disciplina ed onore. La materia di cui dovrebbe essere fatto il potere politico dovrebbe dunque essere solo e soltanto la volontà dei cittadini, e la “disciplina e onore” (che comprende il divieto di vendere, e comperare, i voti) con cui questa volontà viene politicamente tradotta in atti pubblici ed eseguita. Il potere politico, insomma, dovrebbe essere fatto della stessa pasta della democrazia organizzata e delle istituzioni sociali che essa presuppone. Non è l’esito momentaneo di una scelta di gusto e di una delega assoluta. Invece la democrazia d’investitura (non prevista dalla nostra Costituzione) presuppone il potere istituzionale come un potere pre-politico, e cioè progettato, finanziato, finalizzato da qualcuno, nell’ombra, e poi “investito”, scelto, votato, acclamato, con un delega assoluta, da maggioranze irrazionali.
La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura.

2) di carattere finanziario e sovranazionale (crisi del debito pubblico italiano con rischi di contagio a tutta la UE, impennata dello spread, lettera della BCE al Governo) – che hanno portato alle dimissioni del IV Governo Berlusconi, alla formazione del governo Monti, e alla confusa e inedita rielezione del Presidente Napolitano, sono state, per il nostro sistema politico e il nostro assetto costituzionale, unitamente allo zoccolo duro del malaffare e della mala gestio della cosa pubblica, una “Algeria”, che mise a nudo – come reale e tragico – il divario tra volontà popolare e capacità di assumere scelte politiche “buone” (che almeno salvassero il paese tutto dal naufragio).
Conseguentemente, e contemporaneamente, quella crisi manifestò in tutta la sua drammatica evidenza e urgenza la necessità di una politica costituzionale che rafforzasse lo Stato, travolto da una crisi finanziaria che non aveva saputo prevenire e combattere per i suoi antichi mali, ma che al contempo (secondo il pensiero di molti) salvaguardasse la Costituzione del ’47, mettendola al riparo dagli umori populisti che infuriavano in quei tempi.
Che cosa voleva dire? Garantire continuità e stabilità ai Governi, ma senza schiacciare il pluralismo. Solo il pluralismo, e cioè la libertà, rende accettabile il principio (il mito, la finzione …) del popolo buono, perché ciò che è veramente buono non è il “popolo” in sé, ma la libertà, e la saggezza, con cui affronta i suoi conflitti interni senza autodistruggersi (cioè stando dentro le “forme e i limiti della Costituzione”: art. 1 della Cost. italiana).
Ma non tutti hanno creduto in quella drammatica e urgentissima necessità. Senza ripercorrere i tentativi del Governo Letta, fatti abortire, va sottolineato che il presidente del Consiglio avviò – è questo il punto – un procedimento che è stato il contrario di quello che avrebbe dovuto essere un procedimento di revisione costituzionale: il più possibile inclusivo, tale da tendere alla unanimità. L’antico principio, da cui tutti discendiamo: “ciò che tocca tutti sia approvato da tutti” è stato messo sotto i piedi, all’urlo di “Abbiamo i voti!” (distorti dal premio di maggioranza e, ciononostante, insufficienti ad evitare aiuti ambigui). Il disegno di revisione si è caratterizzato fin da subito come un disegno di rottura, sprezzante della tradizione costituzionale italiana e delle sue nobili e straordinarie origini – si è detto, a ragione, “miracolose” (Onida) -, chiuso ad ogni dialogo e insultante verso tutte le voci anche solo dissonanti.
Con questo inizio, il procedimento di approvazione dell’attuale testo è stato obbrobrioso. L’originale “maggioranza riformatrice del Nazareno” si è spappolata; una nuova maggioranza è stata rabberciata con il ricatto e con le negoziazioni sottobanco; il Parlamento, anche grazie alla stupefacente arrendevolezza dei Presidenti delle due Camere, è stato costantemente tenuto sotto schiaffo; e – in questo vuoto di politica – si è andato progressivamente cementando un blocco affaristico-finanziario con contorni inquietanti (fino al riapparire di personaggi della P2) che ha imposto la scrittura del testo che ora ci troviamo a giudicare.
La riforma, di per sé, è essenzialmente un pasticcio. Ma collegata con la legge elettorale crea un meccanismo micidiale per cui l’indirizzo politico sarà la plebiscitazione delle scelte opache compiute da quel blocco (che scioccamente ha ritagliato la riforma su se stesso, come se fosse eterno).

3) Occorre essere chiari: se ci limitiamo a queste critiche, senza interrogarci con spietatezza sulle cause dei nostri antichi mali, e sul perché dell’emergere di “cerchi magici” che privatizzano il potere pubblico, si dà l’impressione che stiamo vivendo in un paradiso che qualcuno vorrebbe farci perdere, da cui rischiamo di essere cacciati. E invece i cittadini sanno bene di non essere vissuti affatto, negli anni recenti, in un paradiso che rischia di essere perduto.
Le nostre istituzioni – politiche ed economiche – sono collassate; e sono collassate alla radice. La conoscenza e l’esperienza di questo collasso è comune; ed è ancora diffusa la consapevolezza dei rischi che la democrazia corre quando si avvita sui propri conflitti interni (Italia del primo dopoguerra, Weimar …).
Per questo è urgente uscire da questo avvitamento impantanato.
Occorre però una risposta più articolata all’obbiettiva verticalizzazione e privatizzazione del potere che il disegno di riforma persegue, e che va giustissimamente criticata per gli squilibri che porta con sé.
Il punto è chiaro: l’epicentro della crisi è il Parlamento. E la causa della crisi è – direttamente – quella dei partiti.
La casa brucia. Ma chi accorre a spegnere l’incendio?
La revisione ha come baricentro la neutralizzazione e l’umiliazione del Parlamento. Di un Parlamento, è vero, che è stato ed è il peggior nemico di se stesso.
In pochi abbiamo cercato di salvare la forma parlamentare. Non ci siamo riusciti. Ne è uscito un ibrido che assomma il peggio del maggioritarismo (il dominio del governo su un parlamento impotente) con il peggio del parlamentarismo (lo spappolamento del parlamento stesso). L’equilibrio dovrebbe invece consistere in una “direzione” del governo su un parlamento forte (e in grado di poterla – in casi gravi, esaurite le possibili mediazioni – rifiutare).
Il nucleo della riflessione che non è stata pubblicamente condotta avrebbe dovuto consistere nel chiarire quali giudizi sulla capacità di rinascita dei partiti siano oggi possibili: quali giudizi siano improntati a cinismo (incentrati sull’inevitabile investitura irrazionale) e quali improntati ad una, politicamente ragionevole, scommessa sulla ripresa della politica organizzata.
Forse difendere la forma parlamentare non è più possibile. Chissà se “tornando allo Statuto” ci saremmo evitati i decenni di fango a cavallo di Otto e Novecento, e il fascismo. Ma proprio questa incertezza (cioè il dubbio che “forse sì”) dovrebbe non impedirci di pensare ad una forma di governo più rigidamente ispirata al principio della divisione dei poteri, e dunque più “accogliente” per il pluralismo politico e per la libertà e dignità parlamentare: una forma di governo cioè che non trasformi il rapporto di fiducia in una catena di comando del Governo sul Parlamento.
E’ questa la riflessione che deve essere subito avviata.

4) Certo, quale che sia l’esito del referendum, la Costituzione avrà subito un terremoto.
Sarà difficile continuare a dire che è la casa di tutti, l’asse condiviso della nostra cultura politica, il “bene comune” per eccellenza, o addrittura, usando le parole di un costituente (Togliatti) “l’Arca dell’Alleanza” tra le parti di un popolo, uscito da una guerra, anche civile, e che è stato capace di non precipitare in un’altra.
La spaccatura, parlamentare e civile, c’è già stata; e il Governo irresponsabilmente soffia sul fuoco. E chi, come molti tra noi, ha avanzato in questi anni proposte e obiezioni (preoccupato, e angosciato, dallo stato delle cose e dalle pieghe che stava prendendo il discorso sui rimedi), e se le è viste respingere e disprezzare, che cosa deve fare?
Se gli italiani voteranno massicciamente “si”, e gli avversari verranno “asfaltati”, la cultura politica del pluralismo e della democrazia redistributiva, inclusiva ed emancipante verrà sepolta, e chissà se risorgerà (preoccupazione che è in cima ai nostri pensieri, a differenza di quel che sembra pensare l’ex Presidente Napolitano).
Se questo non avverrà, la lotta per la Costituzione potrà continuare. Il Governo ha già ammesso che su alcuni punti saranno necessari approfondimenti e correzioni. Ammissione straordiaria e stupefacente se pronunciata dal protagonista di una ampia revisione, perché denuncia la consapevolezza che in ogni caso i nodi di questo testo confuso, contradditorio e pericoloso verranno al pettine.

«Ci dicono che tutto questo servirebbe a “modernizzare” il Paese e a governarlo. Ce lo siamo sentito dire già nell’era del decisionismo craxiano... poi ancora nel ventennio berlusconiano. Ma se alla governabilità è sacrificata la democrazia non è difficile immaginare cosa ci aspetta».

Micromega online, 19 giugno 2016 (c.m.c.)

Settanta anni fa l’Italia andava al referendum istituzionale per scegliere tra Monarchia o Repubblica, ed eleggere l’Assemblea Costituente.Si usciva dalla dittatura fascista che aveva trascinato il Paese nella guerra del terrorismo nazista.

La Resistenza era stata il riscatto da quella vergogna, e la svolta democratica arrivava in quel 2 giugno 1946, quando non più soggiogati nel “credere obbedire combattere”, gli italiani col loro voto facevano nascere la Repubblica e si impegnavano a costruirla nel patto sociale democratico.

Attraverso la Costituente, il Popolo sovrano si dava i principi e le regole attuative della Democrazia, che nella Costituzione ha la propria stella polare. Quella stella a cinque punte che è nello stemma della Repubblica italiana.

Il popolo sovrano l’aveva decretata con quel referendum del 1946, dove per la prima volta le donne non solo votavano, ma potevano anche essere elette in una consultazione nazionale: in ventuno entrarono nell’Assemblea Costituente.Lo Stato democratico era realtà istituzionale, e la Carta repubblicana ne poneva i principi e le garanzie nel nesso inscindibile di prima e seconda parte della Costituzione, per concretizzare libertà, giustizia, uguaglianza: per ciascuno e per tutti.

In questa prospettiva, guardando al futuro della tenuta democratica, i costituenti si sono preoccupati di fissare con precisione ruoli e compiti dei poteri dello Stato, onde evitare derive autoritarie. Nella Repubblica parlamentare, nessun potere poteva essere fuori dal controllo democratico, perché al servizio della democrazia costituzionale.

E contro manomissioni costituzionali, nella rigorosa separazione dei poteri dello Stato, si istituivano pesi e contrappesi per l’equilibrio democratico e organismi di garanzia costituzionale. Primo tra tutti la Corte Costituzionale.

Quel 2 giugno 1946 iniziò questo percorso di democrazia.

E non vogliamo che venga interrotto da abusi su quanto stabilisce l’art. 138 della Costituzione, che prevede la revisione costituzionale, ma non certo la sua manomissione allargando a dismisura il potere del Governo a scapito della rappresentatività. Proprio quanto si prospetta con le attuali modifiche della Carta, profilando un inquietante cambiamento di fatto della stessa forma istituzionale dello Stato.

Quella che «non è oggetto di revisione» come con grande lungimiranza stabilisce l’art. 139.Diversamente, infatti, non è più revisione costituzionale, ma colpo di Stato.Questo pericolo fu già sventato dagli italiani nel 2006, bocciando al referendum la “riforma Berlusconi”.

Allora però il trasformismo del più grande partito di sinistra non era arrivato, a forza di metabolizzazioni in cambi di nome, finanche a perdersi l’anima della Costituzione repubblicana cambiandone ben 47 articoli.

Quando Napolitano era per il No

È interessante ricordare che, chi oggi sembra essere testimonial eccellente di queste modifiche, da Senatore della 14ª Legislatura, nella seduta n. 898 del 15/11/2005, dichiarava: «Quel che anch'io giudico inaccettabile è, invece, il voler dilatare in modo abnorme i poteri del Primo Ministro, secondo uno schema che non trova l'eguale in altri modelli costituzionali europei e, più in generale, lo sfuggire ad ogni vincolo di pesi e contrappesi, di equilibri istituzionali, di limiti e di regole da condividere».

E continuava: «il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa parte e che si proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi prossimamente nel referendum confermativo non è tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche versioni della riforma dell'ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente ad un'idea di coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali principi e valori democratici».

È questione cogente ancora oggi quella che poneva allora saggiamente Giorgio Napolitano, perché non si arrivi alla notte della Repubblica parlamentare.

La Costituzione innanzitutto

Ecco allora che il popolo sovrano si deve riappropriare della sua piena sovranità, perché la Costituzione continui ad essere la stella polare sopra la testa di tutti e non ostaggio di una maggioranza di turno, che per altro cerca di blindarsi al potere con l’ultrapremiale legge elettorale, varata dopo che il porcellum è stato cassato dalla Corte costituzionale.

È il controverso Italicum, pure esso in odore di anticostituzionalità (Cfr: Libero Pensiero, n°75, marzo 2016). Ci dicono che tutto questo servirebbe a “modernizzare” il Paese e a governarlo. Ce lo siamo sentito dire già nell’era del decisionismo craxiano... poi ancora nel ventennio berlusconiano.

Ma se alla governabilità è sacrificata la democrazia non è difficile immaginare cosa ci aspetta.Di regresso in regresso, di defezione in defezione costituzionale, torneremo al monarca assoluto?

«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».

Libertà e Giustizia, 15 giugno 2016 (p.d.)

«Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva fin dove non trova limiti (…). Perché non si possa abusare del potere occorre che (…) il potere arresti il potere». Montesquieu, Lo spirito delle Leggi. È nelle librerie “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali” (edizioni Laterza), agile saggio, già alla secondo ristampa, scritto a quattro mani da Gustavo Zagrebelsy, presidente emerito della Corte costituzionale, e Francesco Pallante, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Il libro è diviso in quattro parti: nella prima vengono analizzati gli argomenti che i sostenitori della riforma costituzionale pongono alla base della stessa e, per ognuno, viene fornita una riposta alternativa; la seconda è rappresentata da un parere che Zagrebelsky inviò al ministro Boschi sulla riforma e sulla possibilità di intervenire in modo diverso sulla Carta costituzionale; nella terza parte gli autori illustrano nello specifico sia la legge elettorale che il testo di riforma costituzionale, quest’ultimo poi analizzato articolo per articolo (attraverso un raffronto comparato tra vecchio e nuovo testo) nella quarta ed ultima parte. Il merito principale del presente saggio è quello di andare al di là della retorica dominante di entrambe le parti e di affrontare, con tecnicità ma anche con straordinaria chiarezza e lucidità, tutti gli argomenti che vengono utilizzati dai sostenitori della riforma, per rendere evidente le contraddizioni e la superficialità dei ragionamenti che spesso vengono fatti sulla riforma.E così, ad esempio, si mette in luce che non tutti gli italiani aspettano da anni la riforma della Costituzione, ma solo una parte di essi, ossia coloro che si pongono come obiettivo quello di spostare il baricentro del potere a favore del Governo. Si sfata poi il mito della celebre litania del «ce lo chiede l’Europa», dimostrando come non sia un valido argomento, ma un semplice pretesto. Questa dovrebbe essere, al contrario, l’occasione per riflettere sul tipo di Europa che siamo costruendo e per «liberarci dalle costrizioni della finanza e della speculazione finanziaria».

Si sottolinea anche che la parola governabilità è ambigua in quanto, stante il significato passivo che rimanda al «farsi docilmente governare» non risponde alla domanda «da chi», e che dunque sarebbe auspicabile utilizzare la parola Governo, che in democrazia presuppone «idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno».

Gli autori non hanno remore nel ricordare che il Parlamento che ha approvato questa legge di revisione costituzionale è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale per aver «rotto il rapporto di rappresentanza», ma che, nonostante ciò, ha avuto la presunzione di cercare di riformare il fondamento della convivenza civile, appunto la Carta costituzionale. In quest’ottica, quello che è stato descritto come atto d’orgoglio dei parlamentari capaci di autoriformarsi, viene ricondotto ad una forma di «arroganza dell’Esecutivo», che ha portato a sostituire l’idea di Costituzione come «patto sociale di garanzia e convivenza» a «strumento e armatura del proprio potere», rovesciando la piramide democratica e rimpiazzando la democrazia partecipativa con una «oligarchia riservata».

Un altro leitmotiv dei sostenitori della riforma è il richiamo alla volontà dei partiti della sinistra, che già dagli anni ottanta avevano criticato il bicameralismo perfetto (si pensi ai volantini diffusi con le foto e frasi di Ingrao e Berlinguer, volantini che hanno causato diverse polemiche e la presa di posizione delle relative famiglie): ebbene anche in questo caso Zagrebelsky e Pallante vedono le cose da una diversa prospettiva, contestualizzando le frasi richiamate dai sostenitori della riforma e ricordando che all’epoca la semplificazione delle istituzioni parlamentari era finalizzata a dare più forza alla rappresentanza democratica attraverso la «centralità del Parlamento» e non, come oggi, al consolidamento dell’Esecutivo attraverso la marginalizzazione della rappresentanza perché portatrice di autonome istanze democratiche.

L’effetto di questa riforma, che nella visione degli autori non può che essere letta parallelamente alla legge elettorale (cd Italicum), è «l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’Esecutivo» e la vittoria della «banale e pericolosa concezione della democrazia che si esprime nella formula: ho i voti, dunque posso». A ciò si aggiunga che, per le modalità plebiscitarie con cui i partiti politici stanno affrontando la campagna referendaria, quello che è sempre stato inteso come un «patto solenne che unisce un popolo sovrano» sta di fatto dividendo quello stesso popolo.

Dopo aver riflettuto sugli argomenti innanzi illustrati, nella terza e nella quarta parte del saggio gli autori analizzano nello specifico sia il testo della legge elettorale che quello di revisione costituzionale, mettendo in evidenza innanzitutto le anomalie di metodo con cui gli stessi sono stati adottati: e infatti gli emendamenti dell’Italicum non sono mai stati discussi in Commissione, né alla Camera né al Senato; la discussione al Senato è stata fortemente condizionata dall’approvazione dell’emendamento noto come “super canguro” che, «anteponendo al testo del progetto un articolo avente contenuto non normativo, ma dichiarativo del contenuto degli articoli successivi, ha fatto decadere tutti gli emendamenti ancorati agli articoli successivi»; i deputati dissenzienti del Partito democratico sono stati sostituititi nella Commissione Affari costituzionali per la sola discussione della legge elettorale, considerando in questo modo decaduti automaticamente tutti gli emendamenti che erano stati dagli stessi presentati; sulla votazione finale articolo per articolo è stata posta la fiducia, con ciò violando l’art. 116, quarto comma, del Regolamento della Camera, e ponendosi in continuità con le uniche altre due leggi elettorali sulle quali era stata posta la questione di fiducia, la legge Acerbo e la legge “truffa”.

Per quanto riguarda poi la legge di revisione costituzionale, viene sottolineata l’incompatibilità con il principio del costituzionalismo dell’iniziativa governativa della riforma costituzionale, atteso che la Costituzione può fungere da limite per il potere – ed in particolare per quello governativo – nella misura in cui tale limite sia esterno, eteronomo, e non posto dallo stesso soggetto che dovrebbe soggiacervi. Anche in questo caso sono stati adottati strumenti di riduzione della discussione, come la sostituzione dei componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato perché portatori di posizioni difformi, la riduzione degli emendamenti con l’applicazione del “canguro”, il contingentamento dei tempi di discussione (“tagliola”). A ciò si aggiunga la mancata discussione in Commissione degli articoli del ddl.

Gli autori evidenziano poi delle anomalie “di merito” delle leggi, come il carattere eccessivo del premio di maggioranza o gli esiti assurdi a cui porterebbe la legge elettorale in alcuni casi, come ad esempio se due liste ottenessero il 40% dei voti (come accadde all’elezione del 2006) e avessero dunque diritto entrambe al premio di maggioranza. Accanto a ciò c’è la trasformazione di fatto del sistema di Governo da Parlamentare in Presidenziale (o, meglio, in quello che Leopoldo Elia definì premierato assoluto), che attraverso l’indicazione preventiva del candidato premier (art. 2, comma 8, Italicum) trasforma l’elezione del Parlamento anche in elezione del Presidente del Consiglio, in violazione dell’art. 92, comma 8, Cost.

Per quanto attiene poi alla riforma costituzionale, tra i diversi profili analizzati (la composizione del Senato, la diversificazione dei procedimenti legislativi, lo Statuto delle Opposizioni) quello più rilevante attiene alla marginalizzazione del ruolo delle opposizioni nella scelta degli organi di garanzia, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura, l’elezione dei Giudici della Corte costituzionale, la dichiarazione di guerra e l’approvazione delle leggi di amnistia ed indulto. Infatti la riduzione del numero dei senatori e la legge elettorale iper–maggioritaria determinano un aumento del potere della maggioranza; a ciò si aggiunga che per l’elezione del Presidente della Repubblica dal settimo scrutinio in poi si fa riferimento ai votanti, anziché ai presenti, con ciò «agevolando tatticismi parlamentari volti ad abbassare ulteriormente il quorum di elezione».

In questo quadro, ciò che più desta preoccupazione è il combinato disposto di queste due riforme, che partono dall’idea del sacrificio necessario dei valori del dialogo, della tutela del dissenso e delle minoranze, dell’importanza delle diverse componenti sociali, tutti sacrificati sull’altare della stabilità, della governabilità e della velocità della decisione, con buona pace della prima parte della Costituzione ed in particolare del principio di uguaglianza sostanziale.

Tale cambiamento, epocale, è avvenuto procedendo non attraverso un atteggiamento inclusivo, volto alla ricerca di punti di contatto tra le diverse parti presenti in Parlamento, ma in un clima da “conta finale”, in cui l’argomento dell’avversario non è mai stato preso in considerazione.

Accanto a questa pars destruens, vi è una lunga pars costruens, rappresentata dal parere inviato da Zagrebelsky al ministro Boschi, parere che non ha mai ricevuto risposta.

Stante l’impossibilità in queste brevi riflessioni di illustrare le numerose proposte di Zagrebelsky (per le quali si rimanda alla lettura del libro), mi pare utile soffermarsi su una questione particolare, ossia quella relativa alle ragioni del bicameralismo, che è indice del fatto che probabilmente molte questioni sottese alla riforma non sono state affrontate con la dovuta profondità.

L’autore rileva infatti che nella storia i senati hanno rappresentato o esigenze federali rispetto allo Stato centrale (ad esempio il sistema tedesco) ovvero ragioni conservative rispetto alla camera elettiva e alle sue mutevoli maggioranze (ad esempio il sistema inglese) e propone di prendere atto della natura non federale del nostro Stato e di provare dunque ad immaginare un Senato che sia posto a tutela di ragioni conservative, non rispetto al passato (come era appunto la camera dei Lord inglese) ma rispetto «alle ragioni di opportunità per il futuro», per evitare in sostanza la dissipazione delle risorse pubbliche, materiali e immateriali, a causa della brevità dei governi democratici, che devono sottostare a scadenze elettorali. Tale obiettivo potrebbe essere raggiunto prevedendo l’elezione di membri del Senato «per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola della non rieleggibilità». Un Senato, in sostanza, che sia posto a presidio dell’ambiente, del patrimonio artistico e culturale, e di tutti quei beni che dovremmo conservare per le prossime generazioni e che invece la politica non riesce adeguatamente a tutelare.

Se si avesse avuto meno fretta, se si fosse ragionato maggiormente sui problemi posti dalle disposizioni che via via si cercavano di riformare, se si fosse prestata maggior attenzione alle opinioni di quanti sottolineavano i passaggi problematici della riforma, probabilmente ne sarebbe scaturito un risultato migliore. Se si fosse stati meno superficiali, si sarebbero analizzati a fondo i problemi, trovando soluzioni nuove a problemi che da tempo affliggono la nostra società.

Il metodo adottato non ha invece consentito questo tipo di dialogo e ha contribuito a collocare la Costituzione non al di fuori del contingente, ma dentro lo stesso, con ciò portando la Carta a non essere più lo strumento che rende possibile il confronto tra forze politiche, senza che questo degeneri in scontro a tutto campo.

«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è – al contrario di quel che sempre affermano i sostenitori della riforma – proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».

. Il Fatto quotidiano, 13 giugno 2016 (c.m.c.)

“La riforma crea una democrazia di investitura, quella di un leader e del suo programma”. Così sintetizza uno dei motivi del “No” Mario Dogliani, professore di diritto costituzionale tra i firmatari dell’appello dei 56 costituzionalisti contro le modifiche alla Carta. Lo ha detto ieri al cinema Eliseo di Torino al “Referendum Day”, un incontro del comitato piemontese “Salviamo La Costituzione”, presieduto da Antonio Caputo.

Oltre a loro due in molti sono intervenuti per esprimere il parere contrario alla riforma voluta dal governo Renzi: il professore ed ex partigiano Gastone Cottino, l’ex segretaria nazionale di Magistratura democratica Rita Sanlorenzo, il filosofo politico Maurizio Viroli e il direttore del Fatto Marco Travaglio. “Con questa riforma ci privano di una parte importante del potere sovrano, ci privano della possibilità di eleggere i parlamentari. Le leggi verranno imposte dall’alto ”, ha detto Viroli, professore di filosofia politica (e opinionista del Fatto).

Insomma, secondo lui si contraddirà l’articolo 1 della Costituzione, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”: “Saremo meno cittadini e più sudditi”. Per Rita Sanlorenzo, ex segretaria nazionale di Magistratura democratica, la riforma non tiene conto delle considerazioni della minoranza, facendo venire meno la “casa comune, un patto che unisce tutti, senza uno che vince e l’altro che perde senza possibilità di opporsi”.

Per lei “Renzi dovrebbe pensare quello che potrebbe succedere quando l’attuale maggioranza si troverà in minoranza”. “Siamo ormai quasi al termine della raccolta firme – ha dichiarato Caputo -. Abbiamo voluto fortemente allestire un nuovo momento di partecipazione e di confronto per poter spiegare ai cittadini quanto queste riforme mettano in pericolo la democrazia”.

Pubblichiamo parte della lettera che Mimmo Calopresti ha inviato per l’appuntamento di Torino sul No al referendum di Ottobre in difesa della Costituzione.

"In tutto questo mio muovermi, affaccendarmi alla ricerca di qualcosa che abbia senso raccontare, mi accorgo che scompare sempre di più qualcosa intorno a noi senza che noi quasi ce ne accorgiamo. I negozietti sotto casa, il senso di appartenenza, le classi sociali e il ceto medio, le periferie perdono visibilità, il lavoro perde centralità, perché non c’è; i pensionati, perché in pensione non si andrà più e scompaiono i servizi sociali, scompaiono i bambini in un paese senza nascite, la ricerca e le università soffrono e così scompaiono gli studenti.

Sento dire da tempo che abbiamo la montagna del debito che ci soffoca e allora non abbiamo soldi e posto per tutti nella società, si fanno sparire i problemi si pongono obbiettivi sempre più lontani, la crescita diventa una priorità allora bisogna far fuori tutti quelli che pongono problemi e sono un costo: il capo e suoi amici devono lavorare.

Mi sembra che si stia esagerando, non son importanti i risultati elettorali qualunque essi siano ci dicono, non si capisce perchè. È imporre la riforma elettorale che è importante, l’Europa ci guarda e voi professoroni, siete vecchi e noiosi. Ritiratevi. E i sindacati che la smettano di porre problemi.

È impossibile andare avanti così. Noi vogliamo cominciare a dire no a questo potere politico sovrumano, che non vuole neanche che ci sforziamo di votarlo, si è imposto e dobbiamo solo assentire. Dobbiamo cominciare a resistere come fecero un pugno di ribelli nell’Italia fascista: decisero contro tutti, anche contro la maggioranza, che avrebbero detto basta a quel baraccone che Mussolini aveva messo in piedi.

E così che siamo arrivati a quella che viene definita la Costituzione più bella al mondo. Mi sono fermato a riflettere su questo imperituro bisogno per il Paese di fare il più in fretta possibile la riforma costituzionale e poi una legge elettorale che permetta a qualcuno di andare alle elezioni con una legge che consentirà a un premier di avere la possibilità di governare senza troppe scocciature e impedimenti. NO. Mi sono informato e ho deciso che al referendum costituzionale voterò NO, e in questi mesi d’impegnarmi per riuscire ad arrivare alle famose urne per vincere.

Far vincere le ragioni del No. Non mi piace in nessuna parte. A essere radicali sarebbe stato meglio abolirlo il Senato e invece no si continua nella direzione dei nominati, non degli eletti, si va avanti per controllo di gruppi di persone nella logica del capo bastone, e così come si fa’ ormai nella politica italiana dove si elegge poco e si nomina molto. Si promette molto e si mantiene poco. Ci si sovraespone per coprire il vuoto. Il NO è un atto di resistenza."

Altraeconomia, 6 giugno 2016 (p.d.)

La “riforma” costituzionale voluta dal Governo non rappresenta soltanto un “attacco al cuore delle istituzioni”, ma la garanzia di un sostanziale immobilismo parlamentare e legislativo. A sostenerlo, dopo aver letto con attenzione i 41 articoli del testo definitivo pubblicato in Gazzetta ufficiale, è il professor Vittorio Angiolini, docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano. Con altri 55 colleghi, ha sottoscritto a metà aprile un documentato appello a sostegno delle ragioni del “No” in vista del referendum di ottobre, meritandosi l’etichetta di “archeologo travestito da costituzionalista” dal presidente del Consiglio.

Professor Angiolini, quali sono i pregi e i difetti della riforma?

Abolire il bicameralismo paritario indifferenziato -e cioè due Camere che devono entrambe deliberare la legge nello stesso testo, che devono entrambe dare la fiducia al Governo e che sono entrambe composte pressoché nello stesso modo- è un’idea corretta, in astratto. Il problema è che nella riforma il Senato è stato cambiato sia nella composizione sia nelle funzioni. E il guaio è che in entrambi i casi si è voluto costruire un meccanismo che produce effetti opposti a quelli dichiarati, traendo contraddittoriamente ispirazione da modelli opposti tra loro: quello del Senato degli Stati Uniti, composto di senatori direttamente eletti dal popolo per ogni Stato -e dotato di funzioni di controllo sul potere esecutivo molto potenti-, e quello tedesco, dove i Laender, gli Stati federati della Germania più simili alle nostre Regioni, eleggono un certo numero di rappresentanti dentro il Bundesrat, il consiglio federale. Il nuovo articolo 57 della Costituzione prevede infatti che i senatori vengano eletti dai Consigli regionali ma in "conformità" alla volontà del popolo. Siccome è impossibile fare una legge che metta d'accordo il popolo e i consiglieri regionali, perché tutto ha un limite anche nella magia di questo Governo, si dovrà operare una scelta attraverso una legge di approvazione delle due Camere che sacrificherà una delle due volontà, contrastanti tra loro nello stesso articolo, e che sarà incostituzionale per definizione. La cosa curiosa di questa "riforma" è che nasce da un governo che ha molto fastidio per il componimento delle controversie in sede giudiziaria, e che però ha scritto una riforma il cui principale vizio sta proprio nel fatto che rimette tutto ai giudici.

Dunque sarà impossibile comporre il nuovo Senato?

Sarà difficile, quanto meno in modo legittimo. La qual cosa 'non ha un gran peso', si dice, perché in fondo alla riforma c'è una norma transitoria secondo la quale fino a che non si fa la legge per l'elezione dei senatori, li eleggeranno i consigli regionali su liste bloccate. Ripeto, su liste bloccate. C'è il rischio dunque che la legge non si faccia mai e che la composizione del Senato venga regolata dalla norma transitoria da qui all'eternità. Che è un classico in Italia.

Poniamo che si passi questo piccolo ostacolo. Lei rileva un vizio anche in tema delle “nuove” competenze delle Camere.

Nel testo della riforma, il Senato perde la funzione di dare la fiducia al Governo ma mantiene funzioni legislative. E si differenziano i procedimenti. I fautori del Sì ne hanno contati due. In realtà non è così. Abbiamo un florilegio di procedimenti differenziati. Cito un esempio: la legge con cui lo Stato interviene nelle competenze regionali, secondo il nuovo articolo 117 della Costituzione, per quella che è definita come "l'unità giuridica ed economica" -che non si sa cosa sia ma questo poi lo stabiliranno i giudici, ancora una volta-, non solo dovrà essere approvata da entrambe le Camere ma c'è una previsione inedita. Questo tipo di legge potrà essere proposto soltanto dal Governo. Bene, avremo un Parlamento che delibererà leggi per cui l’iniziativa è preclusa ai membri del Parlamento stesso. Dopodiché, ai sensi del "nuovo" articolo 70, Camera e Senato dovrebbero legiferare insieme tutte le volte che si parla di "attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea". Chiunque sa che è molto difficile che vi sia una materia regolata dalla legge nazionale che non sia toccata da una direttiva comunitaria. E poi ancora le due Camere voteranno insieme in merito a “organi di governo, funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni". La questione non è tanto se tutto rimanga come prima, quanto il fatto che tutto diventi più complicato di prima, visto che la competenza generale di legislazione dovrebbe essere solo della Camera. Ma questa differenziazione di materie, passibili di mille interpretazioni sull'intervento del Senato, possono dare luogo ad incostituzionalità per vizio di procedura.
In che senso?
Se la Camera dei Deputati delibera da sola in una materia per cui sarebbe prevista la partecipazione del Senato, la legge è incostituzionale. Se il Senato interviene in una materia in cui in realtà spetta la competenza solo alla Camera dei Deputati, la legge è incostituzionale. È il festival delle controversie procedurali di fronte alla Corte costituzionale.

Che cosa muta a proposito dell’elezione del presidente della Repubblica?

La modifica dell'articolo 83 della Costituzione contiene quello che secondo me è un errore secco, nel senso che proprio non se ne sono accorti. Nelle situazioni di crisi, penso all'ultima rielezione di Napolitano, cioè dal settimo scrutinio, si potrà eleggere il presidente della Repubblica con i 3/5 dei votanti. Il che vuol dire, anche adottando l'interpretazione più rigorosa secondo la quale la votazione è valida solo se è presente la maggioranza degli aventi diritto, che la maggioranza che può eleggere il presidente della Repubblica è più ristretta della maggioranza che occorre per dare la fiducia al Governo. È chiaro che cosa significa? Che un Governo in crisi, privo di una maggioranza chiara sul piano dell'assemblea, può eleggere il "suo" presidente della Repubblica, magari anche a seguito di dimissioni volontarie di quello che lo precede. Tecnicamente, il presidente della Repubblica diventerà un'appendice del Governo, un unicum in tutta l'Europa occidentale.

Al vostro appello dei 56 è stato contrapposto quello dei 184 a sostegno del Sì, in parte anche non appartenenti al mondo accademico del diritto. Che cosa ne pensa?

La questione non è tanto se i 184 sottoscrittori del Sì siano o non siano costituzionalisti. Ciascuno ha diritto di esprimersi. La cosa straordinaria è che questo documento è stato anticipato una settimana prima da una dichiarazione del presidente del Consiglio al Corriere della Sera in cui si diceva "Loro sono 56 noi ne troveremo più di 100 e ho già incaricato il ministro Boschi di trovare la lista". Io credo che questo fatto, in un Paese normale fatto di persone di buon senso, debba far riflettere.

Qual è la sua opinione sul combinato disposto riforma costituzionale e nuova legge elettorale (l’Italicum) fortemente maggioritaria?

Sono tra quelli che hanno sempre pensato che le leggi elettorali non fossero decisive per le sorti della Costituzione. Non mi sono mai stracciato le vesti, essendo comunque un proporzionalista. Qui però la combinazione è forte. Come funziona l'Italicum? Si vota su lista, con preferenze quasi bloccate. Se al primo turno qualcuno raggiunge il 40% prende il 55% dell'assemblea della Camera dei Deputati. Una legge così è fatta perché nessuno raggiunga il 40%, disincentivando le aggregazioni. La lista che vince al ballottaggio prende lo stesso premio di maggioranza. In un sistema frammentato come il nostro è immaginabile che con il 15% al primo turno si possa arrivare a conquistare il 55% dell'unica Camera realmente elettiva del Parlamento italiano. È inaccettabile, anche perché i viola i limiti posti dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014 sul cosiddetto "Porcellum". La riforma costituzionale, che comunque non andrebbe bene anche se questa legge elettorale non vi fosse, con questo testo di appendice peggiora ulteriormente le cose.

Il presidente del Consiglio ha criticato il fronte del “No” sostenendo che nella riforma è rafforzata la partecipazione popolare. È d’accordo?

L’unico elemento di novità è una norma inserita nell'articolo 71 che promette, in una futura legge, di prevedere referendum diversi da quello abrogativo -come i propositivi e di indirizzo-, "al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche". Attenzione, la legge sarà costituzionale, cioè si dovrà rifare un altro procedimento uguale a quello che si è fatto per questa “riforma”. Si tratta di una tecnica vecchissima: già Governi degli anni 70, si facevano le leggi non per dire che si faceva una cosa ma per dire che si sarebbe fatta una legge che avrebbe consentito di fare quella cosa. Dopodiché viene effettivamente modificato il referendum abrogativo in un modo che è curioso, perché sarebbe abbassato il quorum che oggi è necessario per la validità del referendum purché si raccolgano 800mila firme. Mi pare un rimedio peggiore del male. Tutte le Costituzioni più serie sul referendum stabiliscono non una quota fissa di elettori che possono chiedere il referendum ma una quota percentuale del numero degli elettori iscritti alle liste elettorali. Sono molto perplesso anche sull'abolizione del quorum, perché è vero che il quorum si è prestato a giochetti ("Non andate a votare...") ma è vero anche che il quorum stabilisce un minimo di controllo dei votanti sul quesito referendario. Su questo la Consulta ha stabilito che nel caso di un referendum debbano esserci due alternative chiare proposte all'elettore e che siano chiaramente contrapposte ed egualmente credibili. Altrimenti è un finto referendum. In un Paese serio, il non voto che impedisce il raggiungimento del quorum può avere un significato importante proprio quando si tratta di contestare il quesito.

A ottobre, però, il quorum non sarà richiesto.

In questo referendum costituzionale non c'è il quorum ma il problema della omogeneità delle scelte c’è tutto. Perché qui si vota sulla composizione del Senato, le sue funzioni, i poteri e la posizione del Governo, il presidente della Repubblica, i poteri delle Regioni. Ciascuno potrebbe avere su ognuna di queste cose delle opinioni legittimamente diverse. Ma di fatto il referendum si trasforma in un prendere o lasciare. E mi permetto di dire che questo è l'aspetto più grave. Il comportamento che sta tenendo il Governo Renzi in un referendum costituzionale -“O con noi o ce ne andremo”- non si era mai visto. Non si era visto nemmeno ai tempi della votazione della legge costituzionale votata dal centrodestra. Un costituzionalista francese di qualche tempo fa, di fronte al Governo francese che fece precisamente la stessa cosa -stendendo un progetto di Costituzione per poi dire al Paese che se non fosse stato approvato non ci sarebbe più stata la Costituzione-, disse che l'unica ragione del referendum era il “cesarismo”. La scelta delle alternative da sottoporre al voto è un problema serissimo perché se non si fa bene cade la democraticità del voto. Qui il Governo forza questa scelta, mostrando autentico disprezzo per le decisioni democratiche.

Al di là della proposta del Governo, lei ritiene che la Costituzione debba essere modernizzata?

Voglio dire un'eresia: andrebbe cambiata molta della prima parte della Costituzione. Abbiamo tutte le norme sulla libertà che non sono adeguate all'uso delle nuove tecnologie, al fatto che la tecnologia oggi incide sulla vita, sulla morte e sulle vicende della persona. Abbiamo una norma sulla libertà di espressione e manifestazione del pensiero che non parla dei mezzi di comunicazione di massa. Non abbiamo nessuna norma esplicita che parli di ambiente, e perciò ci si deve attaccare a interpretazioni differenti. Perché parlo di un'eresia e io stesso mi guarderei bene dal proporre una cosa del genere? Perché il vero problema dell'Italia è l'inaffidabilità della politica. E questo purtroppo è un problema che nessuna Costituzione ci potrà mai risolvere. Ce lo dobbiamo risolvere da soli, in qualità di cittadini.

«"Il futuro della Repubblica, 70 anni di vita civile" L’iniziativa sotto le insegne di Libertà e Giustizia organizzata da Sandra Bonsanti che l’ha condotta assieme alla direttrice del manifesto». I

l manifesto, 3 giugno 2016 (c.m.c.)

«Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è». Tomaso Montanari, storico di un’arte da difendere contro l’asservimento al «mercato», parla in un cinema Odeon strapieno. Tocca a lui, partigiano civile di una Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, dare il via a una festa che Sandra Bonsanti (e Maria Rosaria Bortolan) hanno organizzato con cura certosina. Un appuntamento «di alto valore simbolico», ricorda Bonsanti, fondatrice di Libertà e Giustizia, che con Norma Rangeri tiene le fila della discussione.

Anche di alto valore pratico: all’ingresso della splendida sala nel palazzo dello Strozzino c’è la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi quelli su jobs act, «buona scuola», privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro «Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile» resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, fortissimi quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio e altri ancora demoliscono la narrazione farlocca, cialtrona – e pericolosa – che gli attuali governanti stanno ammannendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto.

«Anche noi abbiamo diritto di parola», ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: «In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava». Cosa è rimasto di quel sogno? «Non si è compiutamente realizzato. Così oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due».

Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: «Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta “governabilità”, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la “legge truffa”. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere».

Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, di cui andrebbe studiato il dialogo con Luciano Canfora sulla «Maschera democratica dell’oligarchia». Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: «Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: “Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?”».

Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”.

Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: «I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni». Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista, che offre un assist alla direttrice del manifesto quando segnala come, per gli anziani meno abbienti, oggi sia venuta meno anche la possibilità di avere una dentiera. «E sì che ne abbiamo tutti bisogno – annota Rangeri – oggi la Costituzione va difesa anche con i denti».

Applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: «Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi».

A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: «Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come “la cosa più di sinistra che ha fatto il governo”. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori “scomodi” per primi».

Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, «che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto». Non come oggi, dove domina l’astensione: «Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle». Ma c’è ancora una speranza: «Votare No oggi è l’unica condizione per poter dire “sì” domani al cambiamento, vero, del paese».

Il Fatto Quotidiano online, 1 giugno 2016 (p.d.)

Abdul Aziz, 35 anni, è trascinatore di risciò a Dacca, capitale del Bangladesh. Ha perso tutti i suoi averi per le inondazioni del fiume Meghna. Aziz aveva una bella casa e una grande quantità di terra arabile. L’erosione del fiume gli ha strappato tutto il terreno coltivabile ed è stato costretto a rifugiarsi in una baraccopoli senza servizi e scuole e l’intera sua famiglia non ha di che sostentarsi. Secondo gli scienziati il Bangladesh è uno dei paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici e all’aumento del livello del mare, che ha già costretto milioni di persone a lasciare villaggi semi sommersi.

Il ciclone Sidr, nel novembre 2007, ha innescato un’ondata di marea alta cinque metri nella fascia costiera e si è portato via 3.500 morti, provocando due milioni di sfollati. Nel maggio 2007, un altro devastante ciclone, Aila, ha colpito la costa uccidendo 193 persone e lasciando un milione di senzatetto. Quasi tutti i migranti non tornano più ai loro luoghi di origine. Da 50.000 a 200.000 persone, ogni anno, lasciano le loro terre là dove sfociano Gange, Brahmaputra e Meghna, con la previsione che, se il livello del mare aumentasse di un metro, come previsto entro il 2060, circa 20 milioni si sposteranno per sempre.

La questione è stata sollevata al vertice mondiale umanitario a Istanbul il 23-24 maggio. Oggi, a seguito delle previsioni realistiche di cambiamento climatico, sono valutati in 130 milioni le persone più vulnerabili in disperato bisogno di assistenza nel mondo, che si aggiungono ai 50 milioni già fuoriusciti fino ad oggi. Il Vertice di Istanbul è il frutto di un lungo processo di consultazione durato tre anni, che ha coinvolto oltre 23.000 soggetti interessati ed ha registrato la presenza di 9.000 partecipanti provenienti da 173 paesi. A dispetto di tutto ciò, i massimi leader dei sette paesi più industrializzati (G7), e dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati tutti a casa: tra questi solo Angela Merkel, dimostrando maggior lungimiranza, è intervenuta. Il nostro premier Renzi si strizzava la cravatta altrove, in una delle sue incessanti conferenze stampa in giro per il mondo dove, a prescindere dall’argomento di partenza, finisce irrimediabilmente per incrociare i guantoni con la minoranza del Pd e tutti quelli che non capiscono che il futuro cambia… se si vota Sì al referendum!

Nonostante il silenzio dei nostri media (ne ha giusto parlato il Papa da piazza San Pietro) il vertice è riuscito a inviare un campanello d’allarme senza precedenti della sofferenza umana: purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo di attrarre i fondi massicci necessari per alleviare il dramma umanitario, in quanto nessuno dei leader assenti ha battuto un colpo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso forte “delusione”, visto che “le risorse necessarie per salvare la vita di decine di milioni di esseri umani rappresentano solo l’1% della spesa militaremondiale totale. Il vertice ha portato alla ribalta dell’attenzione globale la portata delle modifiche richieste, se vogliamo affrontare la grandezza delle sfide davanti a noi. I partecipanti hanno reso enfaticamente chiaro che l’assistenza umanitaria da sola non può né affrontare adeguatamente né ridurre le esigenze di oltre 130 milioni di persone tra le più vulnerabili del mondo”.

Un nuovo e coerente approccio si basa sulle cause profonde,mantenendo le promesse della Cop 21 di Parigi già dimenticate, aumentando la diplomazia politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, e compiendo ogni sforzo di costruzione della pace. L’azione umanitaria non può essere un sostituto dell’azione politica, dato che in realtà, la maggior parte dei flussi di rifugiati del mondo riguardano o “rifugiati climatici” – coloro che fuggono la morte causata da siccità senza precedenti, inondazioni e altri disastri in gran parte causati dai consumi energetici dei paesi più industrializzati – o sono risultati diretti di guerre in cui i paesi del G7 e gli stati permanenti del Consiglio di sicurezza, tranne la Cina, sono coinvolti.

Jan Egelend, che dirige il Norwegian Refugee Council ed è anche il Consigliere speciale di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha detto che la comunità internazionale ha bisogno di una “lista nera” di qualsiasi gruppo o qualsiasi governo che contribuisce all’allargarsi delle guerre fornendo armi, bombe, velivoli. Dopo aver firmato di corsa a New York l’accordo sul clima senza nemmeno un impegno quantitativamente verificato in un dibattito parlamentare, dopo aver partecipato “per motivi umanitari” ad ogni spedizione militare che si fosse delineata all’orizzonte ed aver registrato che nulla ha gettato discredito sull’Europa più del comportamento erratico dei governi nazionali e dell’Ue di fronte al massiccio flusso di immigrati disperati, non sarebbe il caso di uscire dalla retorica e dedicare ai rifugiati e alle ragioni profonde e tragiche delle morti in mare l’articolo 11 della Costituzione – quello sul diritto alla pace – proprio mentre il 2 Giugno si osserva lo sfilare degli eserciti ai Fori Imperiali?

Coordinamento Democrazia Costituzionale, 1 giugno 2016 (p.d.)

Vanno evitate , per darsi conto della natura e dei caratteri reali del conflitto referendario in corso, letture ancorate prevalentemente ai soli dispositivi e criteri giuridici, pur importanti.

E’ indispensabile alzare lo sguardo sui movimenti della vita reale. Sottolineando in premessa che i legislatori che hanno duramente colpito diritti nel lavoro e del lavoro, ridotto le risorse per il Sistema previdenziale a ripartizione, affossato l’universalità dell’accesso alle cure sanitarie, non combattuto un’evasione scolastica strutturale e gravissima, trasferito ricchezza dal lavoro alle rendite e ai profitti , sono gli stessi che hanno progettato la nuova legge elettorale e la riforma costituzionale. Naturalmente aiutati dal lavoro di altri che li hanno preceduti. La circostanza non è casuale.

Il conflitto per l’appropriazione della ricchezza prodotta né della quale la ridefinizione dei diritti costituisce uno snodo essenziale né il motore primo e la principale ragione di molti fenomeni tra loro legati, ognuno dei quali assolve un ruolo nella nostra vicenda:

1) l’oscurantismo costituzionale in corso. Un potere costituito – rappresentato da un parlamento eletto in modo costituzionalmente illegittimo, dominato dal PD che è forza minoritaria nel paese (25% dei voti validi alle elezioni politiche del 2013) – si fa potere costituente decidendo di revisionare così la stessa Costituzione e reiterare in altre forme gli architravi della medesima legge elettorale già dichiarata illegittima;

2) il trasformismo straripante. 252 cambi di casacca di altrettanti deputati/e in 3 anni di questa legislature, ragion per cui si è sempre cercata e trovata da parte del PD – una maggioranza a prescindere (una volta con Berlusconi /patto del Nazzareno; un’altra con Verdini e altri) in grado di approvare le riforme volute da Renzi. Il trasformismo non va indagato in termini solo moral/moralistici. Esso trae invece origine da fenomeni strutturali riguardanti il sistema politico e le dominanti economiche sociali. Precisamente, se guardiamo ad anni recenti a partire dal 2011, si può dire che il trasformismo che oggi vediamo all'opera nasce dalla capacità del berlusconismo, apparentemente alla sua fine, di traghettare una sinistra senza più bussola (quel che di essa era rimasto) ad aderire al governo “tecnico” (!) di Monti ed a far propri gli assunti di fondo del liberismo: opportunità invece che uguaglianza, individuo che si autoregola invece che legami sociali, fine della centralità del lavoro quale fondamento della stessa democrazia costituzionale, arretramento forte dei diritti di cittadinanza. Da quel momento ad oggi, passando da Monti a Letta a Renzi, col determinante sostegno parlamentare di maggioranze consociative e trasformiste , vi è stata una sostanziale continuità di politiche tese a sostenere interessi e valori che sono i medesimi alla base del DDL Boschi Renzi . In una parola è stata del tutto travolta, dagli anni ’90 ad oggi, la costituzione materiale repubblicana basata su uguaglianza e centralità politica del lavoro. In nessun modo questo italico trasformismo può essere quindi assimilato , e tantomeno compreso, nell’ambito del trasformismo storico dell’800 di De Pretis, che aveva altri presupposti e ragioni. Berlusconi prima e Verdini poi, il loro far parte di maggioranze di governo o costituzionali assieme al PD, non sono episodi di folklore passeggero o il frutto del cattivo cinismo di alcuni. Sono invece, per le ragioni spiegate, parti integranti della maggioranza politica che governa l’Italia da molti anni, la prova definitiva e lampante della resa della sinistra e del cattolicesimo democratico e, nel contempo, della vittoria della destra liberista.

3) il declino accellerato del principio di legalità, principio cardine di ogni ordinamento liberaldemocratico. E’ sufficiente richiamare quel che è seguito al referendum del 2011 sull'acqua bene comune:

A) vengono abrogate a seguito del referendum due norme (art.23 D.L. 112/2008 che favoriva la privatizzazione dei servizi idrici , art.154 D.Lgs 152/2006 che disciplinava la "adeguata remunerazione del capitale"),

B) pochi mesi dopo Berlusconi ripropone la disciplina abrogata con la L. 148/2011, poi dichiarata incostitizionale con sentenza n.199/2012;

C) ci riprova Monti coi Decreti nn. 1/ e 83 del 2012;

D) Renzi accelera e alza la posta con lo “sblocca italia” – Decreto n.133/2014 – con la legge di stabilità 2015, con norme che viaggiano in direzione contraria alla volontà dei legislatori referendari del 2011. Infine arriva la legge delega n.124/2015 per riorganizzare la Pubblica Amministrazione e la gestione dei servizi pubblici e idrici locali. Nel decreto attuativo di tale delega si reintroduce l’adeguata remunerazione del capitale, la proibizione delle gestioni pubbliche in economia, l’obbligo di gestione solo con società per azioni , il tutto con palese disprezzo dell'esito referendario, che viene ritenuto tamquam non esset. L’esempio, e ve ne sono altri, illustra quel che si diceva: democrazia dei cittadini e legge di origine referendaria non vengono rispettate, più forti della legalità formale si rivelano i comandi degli interessi economici dominanti.

4) La tendenziale scomparsa della rappresentanza politica e i suoi rapporti con le leggi elettorali. L’interrogativo è semplice: perché si progettano leggi elettorali che, come porcellum e italicum, travolgono del tutto il rapporto tra elettori e loro rappresentanza parlamentare, favorendo tendenziali dispotismi parlamentari/politici di forze minoritarie nel paese? La risposta non va cercata nelle contingenti e pur dannose scelte delle modeste elites politiche italiane ma nelle prepotenti dinamiche socio-economiche odierne: quelle che spingono impetuosamente, in tutto l'occidente, verso la “presidenzializzazione dei regimi politici” (come l’ha chiamata il politologo americano Lowi) ed il superamento definitivo della “repubblica dei partiti” disegnata dalla Costituzione del 48. La “rappresentanza”, come l'abbiamo conosciuta tramite i partiti , dei quali le rappresentanze istituzionali erano una delle loro forme, tende ad estinguersi per mancanza di linfa. Ne va pertanto costruita un'altra e non esiste nessun determinismo storicista che possa impedirlo. Renzi e il suo piglio futurista, la revisione costituzionale , l’italicum, la finta riforma dei partiti appena votata, l’oscurantismo costituzionale, la crisi del principio di legalità rappresentano ciascuna a modo suo traduzioni “coerenti” , illiberarli e classiste, a questo stato di cose. Qui origina l’autorefenzialità del ceto politico istituzionale: in un rapporto sempre più debole coi cittadini e sempre più esclusivo con le elites politiche ed economiche , quelle stesse che validano e permettono le candidature e l'elezione dei singoli rappresentanti. Il realismo dello sguardo e la dura sostanza dei fenomeni di fronte a noi non devono indurre alcun scoraggiamento sulla possibilità che abbiamo di vincere il referendum oppositivo alla riforma costituzionale.

Tutt’altro. Significa ribadire che dopo che avremo vinto questa essenziale tappa del conflitto in corso abbiamo davanti a noi compiti altrettanto impegnativi: edificare un'altra rappresentanza collettiva, come condizione per nuove istituzioni democratiche. Nelle date condizioni storiche attuali. La vittoria del No al referendum di ottobre può rappresentare quindi l’indispensabile avvio di un'altra storia, impervia quanto mai ma cionostante possibile: rimettere al primo posto l'uguaglianza e il lavoro come indicate negli art. 1 e 3 Cost., la dignità della persona, diritti universali di cittadinanza, un progetto economico sociale fondato sugli artt. 41 e seguenti della attuale costituzione, il ripensamento dei trattati europei, l’annullamento del TTPI. Al lavoro.

«Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio».

Il manifesto, 28 maggio 2016

Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando.

È mera rappresentazione. In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.

Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando. È mera rappresentazione.

In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.

E possiamo stabilire un assioma: chi controlla la maggioranza controlla il Parlamento. Quindi la domanda vera è: le riforme messe in campo sono costruite in modo tale da consegnare a qualcuno il controllo della maggioranza?

La risposta è certamente sì, ma non si trova solo nella riforma costituzionale. Bisogna guardare anche ad altro. È a tutti chiaro che per l’Italicum un singolo partito vincente avrà 340 seggi nella Camera dei deputati, la sola camera politica. Ma chi saranno i prescelti? E sarà possibile al premier imbottire l’assemblea con i suoi fedelissimi? In specie se è anche segretario del partito?

La risposta è ancora sì. L’Italicum si articola in 100 collegi plurinominali, che cioè eleggono più di un candidato. In ciascun collegio i partiti presentano una lista di pochi nomi: collegi piccoli, liste corte, che, si dice, servono a far conoscere i candidati e a favorire la scelta da parte degli elettori. Ma sono anche utili a predeterminare gli esiti elettorali da parte di chi forma le liste: primo fra tutti, il premier-segretario.

Dai collegi dovranno uscire i 340 nomi garantiti dal premio di maggioranza al partito vincente. Ma intanto dobbiamo ricordare che i capilista sono votati insieme alla lista. Per semplicità potremo dire che sono i primi cento che il premier porta a casa, perché certamente nella posizione blindata di capolista a voto bloccato metterà una persona sua, che sarà eletta. Poi per il partito vincente risulterà eletto nel collegio un altro deputato, o più, in base alle preferenze. Essendo pochi i candidati, un’accorta formazione della lista consentirà al premier di mettere nel collegio un paio di candidati a lui vicini, forti e capaci di attrarre preferenze. Completando poi la lista con donatori di sangue che portano voti alla lista, ma non in misura tale da risultare vincenti nelle preferenze: lo studente universitario, la mamma di famiglia, magari persino l’operaio. È la tecnica ben nota di presentare con alcune candidature forti altre volutamente deboli, che non disturbino i candidati veri. Tecnica favorita dalla possibilità di candidare i capilista in più collegi, fino a un massimo di dieci.

La leadership del partito vincente potrà decidere nei collegi non solo il pacchetto dei capilista, ma anche un pacchetto di seconde e terze candidature ad alta probabilità di successo. In tal modo il premier segretario che ha l’ultima parola sulle liste potrà assicurarsi la fedeltà di larghissima parte della rappresentanza parlamentare. Qualcuno sfuggirà, ma senza impedire una solida maggioranza nel gruppo parlamentare. La disciplina di gruppo – unitamente a quella di partito – può mettere ai margini ogni forma di dissenso sopravvissuta alla pulizia etnica praticata con le liste.

In questo scenario, il premier segretario può determinare la scelta del presidente dell’Assemblea, quella del capogruppo e dei presidenti di commissione, e dirigere per interposta persona la conferenza dei capigruppo e l’ufficio di presidenza dell’Assemblea. Sono gli snodi cruciali della decisione parlamentare. Può altresì incidere sull’elezione degli organi di garanzia, a partire da quella del Capo dello Stato, dei giudici della Corte costituzionale, di componenti di autorità.

Inoltre, Renzi dice il vero quando ricorda che è il Capo dello Stato a nominare il primo ministro. Ma chi potrebbe mai nominare se non la persona sostenuta dai 340 blindati dal premio? Nessun altro otterrebbe la fiducia. Ancora, è ben vero che il premier non può direttamente revocare un ministro riottoso. Ma può far votare una sfiducia individuale (ex art. 115 reg. Cam), obbligandolo alle dimissioni. È ben vero che non può sciogliere anticipatamente la Camera. Ma può determinare una impossibilità di funzionamento che costringa il Capo dello Stato a sciogliere: ad esempio con dimissioni cui segua una crisi di governo irrisolvibile per mancanza di una maggioranza alternativa. In più, la riforma offre uno strumento di diretto controllo dell’agenda parlamentare con il voto a data certa su richiesta del governo. Decide l’Assemblea. Ma potrebbe mai decidere contro il volere dei 340?

Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta che traduce quel potere nell’istituzione è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio. La battaglia sul referendum costituzionale è pensata per colpire l’immaginario collettivo con slogan populistici di facile presa. Ma è piuttosto l’Italicum l’architrave del potere nel Renzi-pensiero. Che il premier possa addivenire a modifiche sostanziali è l’ultima illusione della minoranza Pd.

Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2016 (p.d.)

1. Perché raccogliere le firme, se il referendum è stato già chiesto dai parlamentari?

Non si può lasciare al Palazzo la scelta se votare su una vasta modifica della Costituzione, facendone un plebiscito Renzi sì-Renzi no. La richiesta dei cittadini corregge la torsione plebiscitaria, inaccettabile perché impedisce la discussione di merito su una modifica pessima e stravolgente, che va respinta a prescindere dalla sorte del governo.

2. Ma anche Renzi ha avviato la raccolta delle firme.

Lo ha fatto non per amore di democrazia, ma solo perché i sondaggi hanno dimostrato che la via del plebiscito personale era per lui pericolosa. È anche un tentativo di scippare la bandiera della raccolta firme ai sostenitori del no. Tutto deve essere nel nome del governo.

3. Finalmente si riesce dove tutti avevano fallito.

È decisivo il come. Un Parlamento illegittimo per l’incostituzionalità della legge elettorale, e una maggioranza raccogliticcia e occasionale, col sostegno decisivo dei voltagabbana, stravolgono la Costituzione nata dalla Resistenza. L’irrisione e gli insulti rivolti agli avversari vogliono nascondere l’incapacità di rispondere alle critiche.

4. La legge Renzi-Boschi riduce i costi della politica, cancellando le indennità per i senatori non elettivi.

Il risparmio è di spiccioli. La gran parte dei costi viene non dalle indennità, ma dalla gestione degli immobili, dai servizi, dal personale. Mentre anche il senatore non elettivo ha un costo per la trasferta e la permanenza a Roma, nonché per l’esercizio delle funzioni (segreteria, assistente parlamentare, etc). Risparmi con certezza maggiori si avrebbero – anche mantenendo il carattere elettivo – riducendo la Camera a 400 deputati, e il Senato a 200. Avremmo in totale 600 parlamentari, invece dei 730 che la legge Renzi-Boschi ci consegna.

5. I senatori eletti dai consigli regionali nel proprio ambito, insieme a un sindaco per ogni regione, rappresentano le istituzioni di autonomia. È la Camera delle Regioni, da tempo richiesta.
Falso. Un consigliere regionale è espressione di un territorio limitato e infraregionale, cui rimane legato per la sua carriera politica. Lo stesso vale per il sindaco-senatore. Avendo pochi senatori, ogni regione sarà rappresentata a macchia di leopardo. Pochi territori avranno voce nel Senato, e tutti gli altri non l’avranno. È la Camera dei localismi, non delle regioni.

6. Sarebbe stato meglio con l’elezione diretta?

Certo, perché i senatori eletti avrebbero dato rappresentanza a tutto il territorio regionale e a tutti i comuni. Una vera Camera delle regioni richiede l’elezione diretta, mentre l’elezione di secondo grado apre la via ai localismi e agli egoismi territoriali.

7. Il riconoscimento del seggio senatoriale può essere la via per creare un circuito di eccellenza nel ceto politico regionale e locale.

È vero piuttosto, al contrario, che si rischia un abbassamento della qualità nei massimi livelli di rappresentanza nazionale. Basta considerare le cronache di stampa e giudiziarie. Soprattutto perché ai consiglieri-senatori e ai sindaci-senatori si riconoscono le prerogative dei parlamentari quanto ad arresti, perquisizioni, intercettazioni. Un’inchiesta penale a loro carico può diventare molto difficile, o di fatto impossibile.

8. Ma le prerogative non riguardano le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, che rimangono senza copertura costituzionale.

E come si possono distinguere? Se il sindaco-senatore o il consigliere-senatore usa il proprio telefono nell’esercizio delle funzioni connesse alla carica locale diventa per questo intercettabile? E se tiene riunioni nella sua segreteria di senatore? Le attività di indagine verrebbero scoraggiate, o quanto meno gravemente impedite.

9. L’elezione diretta dei senatori è stata sostanzialmente recuperata nell’ultima stesura per le pressioni della minoranza Pd.

Falso. Rimane scritto che i senatori sono eletti dai consigli regionali tra i propri componenti. È stato solo aggiunto il principio che debba essere assicurata la conformità agli indirizzi espressi dagli elettori nel voto per il consiglio. Ma è tecnicamente impossibile. A 10 regioni e province (Valle d’Aosta, Bolzano, Trento, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata) spettano 2 seggi, e a Calabria e Sardegna ne spettano 3. Uno dei seggi è riservato a un sindaco. Come si può rispettare la volontà degli elettori quando il consiglio elegge un solo consigliere-senatore, o due?

10. Il principio della conformità al volere degli elettori è comunque stabilito.

Ma cosa la “conformità” significhi, come possa realizzarsi, e cosa accadrebbe nel caso non si realizzasse rimane oscuro. In ogni caso si rinvia a una successiva legge, che – vista l’impossibilità di risolvere il problema – potrebbe anche non venire mai. Una norma transitoria rimette in pieno la scelta ai consigli regionali.

11. Ma il Senato non elettivo serve a superare il bicameralismo paritario, fonte di continui e gravi ritardi.

Falso. Si poteva giungere a un identico bicameralismo differenziato lasciando la natura elettiva del Senato. In ogni caso, le statistiche parlamentari – disponibili sul sito del Senato – ci dicono che nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono arrivate all’approvazione definitiva mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. Numeri, non chiacchiere.

12. Il bicameralismo differenziato semplifica comunque i processi decisionali e assicura maggiore rapidità.

Solo in apparenza. Negli art. 70 e 72 vigenti il procedimento legislativo è disciplinato con 198 parole. La legge Renzi-Boschi sostituisce i due articoli con 870 parole. Può mai essere una semplificazione? In realtà si moltiplicano i procedimenti legislativi diversificandoli in rapporto all’oggetto della legislazione. Ne vengono incertezze e potenziali conflitti tra le due camere, che potrebbero arrivare fino alla Corte costituzionale.

13. Ma su molte materie la Camera ha l’ultima parola, e questo evita le “navette”.

Le navette prolungate, con reiterati passaggi tra le due Camere, sono in genere sintomo di difficoltà politiche nella maggioranza, che – se ci fossero – si manifesterebbero anche con una sola Camera. Mentre il Senato comunque partecipa paritariamente su materie di grande rilievo, come le riforme costituzionali. Con quale legittimazione sostanziale, data la sua composizione non elettiva?

14. La fiducia viene data dalla sola Camera e questo contribuisce alla stabilità.

Poco o nulla. Nell’intera storia repubblicana il diniego della fiducia ha fatto cadere soltanto due governi (i due Prodi). Lo stesso governo Renzi è nato con una manovra di palazzo volta all’omicidio politico di Letta. Senza quella manovra, Letta potrebbe essere ancora in carica dall’inizio della legislatura.

15. Il rapporto di fiducia verso la sola Camera rafforza la governabilità.

La governabilità dipende non dal numero delle Camere, ma dalla coesione della maggioranza che sostiene il governo. Una maggioranza composita e frammentata non potrà mai produrre governabilità. È decisiva una buona legge elettorale, che componga in modo corretto i valori “governabilità”e“rappresentanza”.

16. Per questo l’Italicum è il giusto complemento alla riforma della Costituzione.

Niente affatto. L’Italicum riproduce i vizi del Porcellum già dichiarati costituzionalmente illegittimi: eccesso di disproporzionalità tra i voti e i seggi attribuiti con il premio di maggioranza, per di più dato a un singolo partito; lesione della libertà di voto dell’elettore per il voto bloccato sui capilista, che possono anche essere candidati in più collegi.

17. Ma l’Italicum prevede una soglia al 40%, superata la quale la lista ottiene 340 deputati, e il ballottaggio a due nel caso la soglia non venga raggiunta. Con il ballottaggio ci sarà comunque un vincitore che supera il 50%.

Al ballottaggio e al premio si accede senza alcuna soglia. Se nel ballottaggio un partito prendesse 2 voti e l’altro 1, il primo avrebbe comunque 340 seggi. Come col Porcellum è possibile che un singolo partito con pochi consensi nel Paese abbia in Parlamento una maggioranza blindata di 340 seggi, mentre tutti gli altri soggetti politici, che pure assommano nel totale maggiori consensi, si dividono i seggi rimanenti. Conseguenza: il voto dato alla lista vincente pesa sull’esito elettorale fino a 4 volte il voto per le altre liste. Un grave elemento di diseguaglianza tra gli elettori.

18. Un premio di maggioranza non è di per sé incostituzionale.

Ma è incostituzionale quello dell’Italicum. Già la soglia al 40% configura un premio di maggioranza enorme, con 340 deputati garantiti. Per di più, essendo sempre 340 i seggi assegnati alla lista vincente, il premio sarà maggiore per chi ha il 40% dei voti, minore per chi ha il 41%, e così via. Meno voti si prendono, più seggi aggiuntivi si ottengono con il premio. Un elemento di manifesta irrazionalità.

19. Ma l’Italicum garantisce che si sappia chi vince la sera del giorno in cui si vota. Un elemento di certezza.

Che nessun sistema elettorale potrà sempre e comunque assicurare. E in ogni caso la governabilità non si assicura dando un potere blindato con artifici aritmetici a chi ha una minoranza – anche ristretta – di consensi reali nel paese. Sarà pur sempre un governo al quale la parte prevalente del corpo elettorale ha negato adesione e sostegno.

20. Non è corretto censurare l’Italicum con l’argomento che apre la via all’uomo solo al comando.

Invece sì. L’Italicum prevede, come già il Porcellum, la figura del “capo”del partito. Il voto bloccato sui capilista e le candidature plurime per gli stessi capilista consentono al leader del partito di controllare in ampia misura la scelta dei parlamentari da eleggere, per la maggioranza blindata dal premio. La concentrazione del potere è indiscutibile.

21. Ma chi firma per il referendum abrogativo sull’Italicum vuole tornare al proporzionale puro di lista e preferenza, con tutti i rischi di ingovernabilità?

Niente affatto. Si vuole soltanto ristabilire una condizione politica non viziata da meccanismi elettorali costituzionalmente illegittimi. Si potrà allora scegliere – con corretta partecipazione democratica e piena rappresentanza politica – di quali riforme il paese ha bisogno, inclusa la scelta di una legge elettorale conforme a Costituzione.

22. È comunque eccessiva l’accusa di deriva autoritaria. Resta intatto il sistema di checks and balances.

Ma l’effetto sinergico della riduzione del numero dei senatori e il dominio sulla Camera assicurato dal premio rendono decisiva l’influenza della maggioranza di governo nell’elezione in seduta comune del capo dello Stato e dei membri del Csm, come anche per la Camera dei membri della Corte costituzionale o delle Autorità indipendenti.

23. Sono effetti bilanciati dal rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, ad esempio per l’iniziativa legislativa popolare.

Falso. Le firme richieste per la presentazione di una proposta di legge sono triplicate, da 50 a 150 mila. Le garanzie sono rinviate al Regolamento, e la maggioranza parlamentare rimane libera di rigettare o modificare la proposta. In altri ordinamenti, la proposta può andare all’approvazione per via referendaria, quanto meno nel caso di modifica o rigetto del Parlamento.

24. Ma il referendum abrogativo si rafforza per l’abbassamento del quorum di validità, fissato alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera.

Solo nel caso che sia stato richiesto con ben 800.000 firme, tetto quasi impossibile da raggiungere in un tempo in cui i corpi intermedi – partiti, sindacati – sono indeboliti o sostanzialmente dissolti. E non si capisce perché un referendum debba avere un quorum più alto se richiesto da 500.000 cittadini e più basso se richiesto da 800.000.

25. Si prevedono i referendum propositivi e di indirizzo.

È fumo negli occhi. I referendum propositivi e di indirizzo sono solo menzionati a futura memoria nella legge Renzi-Boschi, che ne rinvia la disciplina a una successiva legge costituzionale. Tutto rimane da fare. Cosa impediva di introdurre fin da ora una disciplina compiuta? Un chiaro intento di non provvedere.

26. Si correggono gli errori fatti nella revisione del Titolo V approvata nel 2001.

Non si correggono gli errori vecchi facendone di nuovi e sostituendo alla frammentazione un neo-centralismo statalista. Ad esempio, non è accettabile che il governo passi sulla testa delle popolazioni locali nella gestione del territorio sotto l’etichetta di opere di interesse nazionale o simili. La vicenda trivelle deve insegnarci qualcosa.

27. Si semplifica il rapporto tra Stato e Regioni, che ha dato luogo a un enorme contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

Ma non mancano contraddizioni e ambiguità,che possono tradursi in nuovo contenzioso. La soppressione della potestà concorrente in chiave di semplificazione del rapporto Stato-Regioni è ad esempio pubblicità ingannevole, perché si crea una nuova categoria di “disposizioni generali e comuni” che è difficile distinguere dalle leggi cornice della attuale potestà concorrente. E c’è anche un richiamo a “disposizioni di principio”.

28. Si rafforza lo Stato riportando a esso potestà legislative importanti.

La legge Renzi-Boschi riduce sostanzialmente lo spazio costituzionalmente riconosciuto alle autonomie. Alcuni profili potrebbero essere – se isolatamente considerati – apprezzabili. Ma il neo-centralismo statale è negativo in un contesto di complessiva riduzione degli spazi di partecipazione democratica e di rappresentanza politica.
29. La de-costituzionalizzazione delle Province è un momento importante di semplificazione istituzionale.
Vale anche per le Province quanto detto per il neo-centralismo statale. Inoltre, sono un elemento marginale nell’impianto della legge Renzi-Boschi. Una parte persino non necessaria, come è provato dal fatto che la riforma delle Province è stata già da tempo avviata. Il punto dolente è il modo in cui si sta realizzando.

30. La soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) è positiva.

Vero, dal momento che il Cnel non esercita alcuna essenziale funzione politica o istituzionale. Ma la soppressione prende solo poche righe in una modifica della Costituzione per altro verso ampia e stravolgente. Bastava una leggina costituzionale mirata, che non avrebbe dato luogo a polemiche. La positività della soppressione non può certo bilanciare la valutazione negativa di tutto il resto.

Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2016, (p.d.)

Alessandro Pace ha un’agenda satura d’impegni: “Mi spiace, il tempo è scarso”. Il professore emerito di Diritto costituzionale presiede il Comitato per il No che intende bloccare la riforma della Carta. A ottobre ci sarà il referendum confermativo, ma la campagna elettorale è adesso. In piazza e sui media.

Professore, la presenza sui canali Rai del comitato la soddisfa?Mi fa una domanda ingenua, è retorica?

Anche retorica.Per la Rai siamo inesistenti. Io non mi sorprendo, non mi aspettavo trattamenti degni di un servizio pubblico aperto al dibattito. Ma la realtà supera le mie più fosche previsioni. Ho contato i secondi.

I secondi?Con i minuti facciamo troppo presto. Ascolti, le fornisco i dettagli. Il Tg3 mi ha intervistato per circa tre minuti, ma in onda sarà andato un pezzetto. Il programma Bianco e Nero su Radio1 mi ha interpellato per un paio di minuti o 120 secondi, scelga lei.

E il resto?A memoria ricordo Gaetano Azzariti a La7 da Lilli Gruber, e poi sempre a Otto e Mezzo nei prossimi giorni ci saranno altri esponenti. Ma noi parliamo di Rai, le nostre statistiche riguardano la Rai, esatto?

Sì, professore.Perché abbiamo capito che il tallone di Matteo Renzi è La7, l’unica rete che ospita le idee di chi non è schierato con il governo sul referendum. La7 fa servizio pubblico.

E che fa Viale Mazzini?Quello che fa da sempre: tutela gli interessi del governo. In questa circostanza – e mi stupisco ancora – con maggiore attenzione. Con Berlusconi c’era addirittura più spazio per le opposizioni. Oggi la situazione è peggiorata.

A chi vi appellate, come reag i te?Abbiamo scritto e riscritto al professore Angelo Cardani, il presidente dell’Autorità garante per le Comunicazioni.

Co s ’è accaduto?Niente.

Per voi il confronto pubblico fra le ragioni del sì e del no è impari?Ammetto che da un punto di vista oggettivo è una battaglia persa.

Perché, professore?In tv non compariamo e non abbiamo quattrini. Ho chiesto due pareri agli avvocati e sono riuscito a ricavare 30 mila euro dall’associazione “Salviamo la Costituzione”.

Allora è rassegnato?No, per carità. I ragazzi che incontriamo ai convegni ci trasmettono un’energia preziosa, proseguiamo con vigore, andiamo avanti. Abbiamo 285 comitati locali, l’11 e il 12 giugno lanceremo una manifestazione in cento e più città con la speranza di accelerare la raccolta delle firme. A Milano abbiamo riempito tre sale di Palazzo Marino, a Bergamo c’era gente in piedi, così pure alla Sapienza di Roma.

Ma chi se n’è accorto?Osservazione corretta: non c’era una telecamera.

E sui giornali va meglio?C’è chi ospita dei nostri interventi e chi osteggia il comitato per il no. Un cronista di un quotidiano nazionale ci ha definito “forza antisistema”. È una etichetta assurda, tremenda e, soprattutto, di una falsità eclatante. Noi difendiamo la Carta con passione, difendiamo i principi dell’articolo 138. Non possiamo tollerare degli insulti gratuiti.

Articoli di A. Fabozzi, A Burgio e M. Villone sulle mosse di Renzi. Ciò che stupisce di più non è il sempre più grossolano e protervo adoperare ghli strumenti ci ,enzogne, camuffamenti e svisamenti dellarealtà cpmiuti dal lesder delPD, ma il fatto che a molte brave persone ancora restino all'interno di quella formazione. Il

manifesto, 24 maggio 2016

PROFESSORI PER IL SI,
ECCO IL LISTONE
di Andrea Fabozzi

«Riforme. 184 nomi favorevoli alla riforma costituzionale. Non tutti costituzionalisti, e neanche giuristi. Quel che conta è fare numero. Ma nemmeno loro se la sentono di difendere l’incrocio con l’Italicum»

Anche Renzi ha i suoi professori. È comparso ieri – sul sito della campagna governativa per il Sì al referendum costituzionale – un appello di docenti favorevoli alla riforma. È un contrappello e una prova di forza. Se infatti erano 56 i costituzionalisti raccolti da Onida e Cheli che un mese fa si sono pronunciati per il No, e sono una decina i costituzionalisti del comitato del No, quelli del Sì messi insieme dai professori Caravita, Ceccanti, Fusaro e Ciarlo sono ben 184. Non sono però tutti costituzionalisti, e nemmeno tutti giuristi: ci sono filosofi, storici, economisti, tributaristi, sociologi. Non sono neanche tutti professori ordinari, nell’elencone che chiama al sì ci sono diversi associati e ricercatori. Un buon segnale, dal punto di vista della partecipazione alla vita pubblica dei più giovani. Ma anche un’innovazione nel galateo universitario, in base al quale è generalmente ritenuto più corretto non far schierare i docenti che devono ancora superare un concorso. E che dunque saranno giudicati da accademici che hanno aderito all’una o all’altra cordata.

Buona parte delle firme di questo nuovo appello provengono da quelle raccolte già due mesi fa dal professor Caravita, costituzionalista della Sapienza di Roma, in calce a un appello che non si schierava ancora né per il Sì né per il No. Ma si presentava, allora, come un invito a non personalizzare la partita del referendum e a favorire «un voto informato e consapevole». La nuova lista dei professori per il Sì contiene nomi noti – Bassanini, Panebianco, Treu, Salvati, Tabellini – e si apre con la firma di Salvo Andò. Socialista, già ministro della difesa del governo Amato, compare come docente dell’università Kore di Enna, della quale è stato rettore, anche se le cronache raccontano di una sua estromissione (seguita dal commissariamento della fondazione).

Come tutti gli appelli, si legge più per le firme che per il testo. Che del resto è assai simile al contenuto dei documenti governativi. Ma è interessante il passaggio sulla nuova legge elettorale, che evidentemente anche i sostenitori del Sì fanno fatica a difendere. Si raccomanda infatti agli elettori di votare al referendum pensando solo alla riforma costituzionale e non all’Italicum, che in ogni caso sarà soggetto al vaglio della Corte costituzionale. E poi si truccano un po’ i conti, si dice che in fondo questa nuova legge maggioritaria concede al vincitore un vantaggio di soli 24 seggi. A prima vista una smentita totale dei tanti allarmi lanciati in questi mesi da chi vede nell’Italicum un sistema per blindare la maggioranza, alla quale vengono regalati 340 seggi. Il calcolo dei professori per il Sì è fatto immaginando che tutto il resto del parlamento, i 290 deputati residui – e dunque in ipotesi grillini, leghisti, sinistra radicale e berlusconiani – si comporti come un blocco unitario. E anche in questo caso, la differenza tra 340 seggi e 290 fa 50. Ma, ecco il sofisma, se 26 di questi senatori di maggioranza passassero a votare con l’opposizione, potrebbero rovesciare il governo. Dunque la maggioranza è di soli 24 deputati. Fuori dal sofisma, le simulazioni dimostrano che con l’Italicum chi vince al ballottaggio di un solo voto, anche avendo raccolto il 20% al primo turno, avrà circa 230 deputati in più rispetto al secondo partito.

Nel frattempo il governo è ancora impegnato nella sua polemica con L’Associazione nazionale partigiani, colpevole di aver deciso al congresso (300 voti contro 3 astenuti) di invitare a votare No al referendum. Come del resto aveva già fatto nel 2006, contro la riforma Bossi-Berlusconi (appoggiata invece da alcuni dei professori che oggi sono schierati per il Sì a Renzi), in quel caso senza polemiche. Dopo che la ministra Boschi ha spiegato in tv come riconoscere i «veri» partigiani (sono quelli schierati per la riforma, e ce ne sono), il presidente del Consiglio Renzi ha corretto il tiro: «Quella dell’Anpi è una posizione legittima, ci sono veri partigiani che voteranno Sì e che voteranno No e noi abbiamo rispetto per tutti». Segue un triste censimento di ex combattenti, tutti naturalmente assai anziani, schierati con l’una e con l’altra parte. Che raggiunge lo scopo: limitare l’impatto negativo della notizia che l’associazione più importante dei partigiani ha deciso, con una discussione e un voto, di bocciare la nuova Costituzione.

L’operazione non finisce qui, perché la propaganda del Pd ha arruolato con il Sì Pietro Ingrao – notoriamente favorevole al monocameralismo, ma in tempi di legge elettorale proporzionale – e Nilde Jotti – che una dirigente Pd ha recentemente rivisto nella figura della ministra Boschi: tra due giorni in un convegno a Piombino è in programma la reincarnazione. Alla propaganda ha replicato Celeste Ingrao, prima figlia di Pietro: «Gira una foto di papà con appiccicato sopra un grosso Sì e il simbolo del Pd, prendendo a pretesto frasi pronunciate in tutt’altro contesto e avendo in mente tutt’altra riforma. Se, come si usa dire ora, bisogna metterci la faccia, allora ci mettano la loro e quella dei loro ispiratori».

SE RENZI ALZA
LA BANDIERA DEL PCI
di Alberto Burgio

Se il buon giorno si vede dal mattino, l’avvio della campagna referendaria lascia prevedere cinque mesi di violenza verbale, di forzature, menzogne e abusi di potere di cui proprio non si sentiva il bisogno.

Non si era ancora spenta l’eco dei nuovi editti bulgari all’indirizzo di giornalisti non ossequiosi, che è scoppiata quest’altra penosa grana. Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao e Nilde Jotti variamente arruolati tra gli antesignani della «riforma» renziana. Non certo perché davvero lo si creda, che discorsi. Ma perché può servire, se non altro, a confondere le acque e le carte.

Naturalmente chi ha a cuore la buona memoria del Pci e dei suoi dirigenti storici ha subito reagito e puntualizzato. La questione potrebbe con ciò considerarsi chiusa, almeno in punto di diritto. Ma forse vale la pena di dedicare qualche minuto a quello che episodi del genere rivelano o confermano. E, appunto, fanno presagire.

In primo luogo, perché questa scelta, perché queste figure?

È ovvio che, chiamando in causa emblemi del «vecchio Pci», i propagandisti del Sì sperano di convincere l’ala sinistra dell’elettorato democratico, in sofferenza per lo sgangherato protagonismo renziano e per le politiche padronali del governo, oltre che per il merito di un pateracchio che minaccia di trasformare la repubblica parlamentare in un regime iper-presidenzialistico.

Si dirà: è la logica della propaganda. Vero. Ma c’è propaganda e propaganda, come c’è argomento e argomento. Questo uso della propaganda politica è odioso proprio perché, come si diceva, punta a disinformare e a fuorviare. Odioso, ma anche utile: una misura fedele di che cosa è diventata la politica oggi, nell’Italia del renzismo trionfante.

Si fa una cosa di destra, che più di destra non si può. Si pongono le premesse per una dittatura della premiership sfigurando la Costituzione e agganciandola a una legge elettorale che consegna i pieni poteri al Capo del partito di maggioranza relativa (una esigua minoranza del paese). Ma al tempo stesso la si camuffa da cosa di sinistra, per raggirare qualche milione di disinformati.

Di più. Mentre si medita di disegnare le istituzioni della Repubblica in forme consone allo strapotere delle oligarchie vicine al capo del governo, si agitano i volti di personaggi della storia repubblicana che incarnano valori antitetici. Il rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica. La concezione partecipata della democrazia. L’appartenenza alla storia e alla cultura di quel movimento operaio che si considera un’anticaglia e un fastidioso residuo del tempo che fu. Una perfetta vergogna.

Spiace in tutto questo soprattutto l’abuso dell’icona di Enrico Berlinguer, chiamata in causa direttamente dal presidente del consiglio, come già fece qualche tempo fa Veltroni, altro campione dell’americanismo italiota. Avesse se non altro buon gusto, Renzi non si sarebbe permesso di scomodare un uomo che mai avrebbe fatto del proprio partito una macchina da guerra contro il mondo del lavoro e contro il sindacato.

Ma si capisce, per chi vuole vincere a tutti i costi non è semplice resistere alla tentazione di sfruttare l’immagine di chi non può difendersi. Propaganda, sì: ma di infimo ordine. O piuttosto irrisione e presa in giro. Conforme, del resto, a tutto uno stile di governo.

Veniamo infine ai due argomenti che Renzi si è inventato per dare forza alle proprie esternazioni in giro per l’Italia.

Se prevale il No, sostiene, vince l’ingovernabilità e trionfano gli inciuci. Quindi oggi, visto che la bella «riforma» non è ancora in vigore, l’Italia non sarebbe governata? Per certi versi in effetti è così, dipende dall’idea che si ha del governo e del buongoverno. Ma evocare il caos si inscrive a pieno titolo nella categoria del terrorismo mediatico per la quale valgono le considerazioni precedenti.

Quanto agli inciuci, forse è questa l’unica punta di paradossale verità in questa fiera della mistificazione. Lui, che sistematicamente impone alle Camere la propria volontà grazie al soccorso verdiniano, sembra voler dire – o dire suo malgrado – che simili mezzi – simili inciuci, appunto – imperverseranno, finché siederà a Palazzo Chigi, a meno che non gli si consegnino tutte le chiavi del potere con la sua «riforma».

In altri termini: bisogna «dire sì», come ai bei tempi delle adunate oceaniche, giusto per rendere superfluo lo sconcio al quale siamo costretti ad assistere. Non per «cambiare verso», solo per dare al Capo la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo.

La morale di questa storia è tutta politica, oltre che morale. Il renzismo si riduce a un binomio: strapotere delle lobbies e uso spregiudicato – compulsivo e mendace – della comunicazione (con la zelante complicità dei giornali «perbene»). Per i prossimi mesi questa miscela tossica minaccia di pervadere la sfera pubblica. Contrastarla sin d’ora – oltre che prepararsi a bocciare sonoramente la controriforma della Costituzione – è indispensabile per scongiurare l’inquinamento irreversibile della politica italiana.

ALL'ANPI LA RIFORMA NON PIACE
E RESISTE
di Massimo Villone

«Riforme. La scelta del No arriva dopo una discussione lunga e complessa, con un dibattito vissuto anche nella stagione congressuale. L’aggressione renziana è segno di difficoltà»

Adesso sappiamo che se vince il no nel referendum costituzionale se ne va anche la Boschi. Il piatto diventa davvero interessante: due al prezzo di uno.

Monta la preoccupazione a Palazzo Chigi. Si alzano i toni, si aggredisce chi non si allinea, si lancia la coscrizione obbligatoria di sostenitori non si sa quanto convinti. Da ultimo, 70 senatori scrivono all’Anpi una lettera aperta, affiancandosi alla frase della Boschi sui «veri partigiani» che votano sì. Non accade certo per caso: è una strategia di provocazione verso un’associazione che è ad un tempo un pezzo di storia del paese e un’icona della sinistra, e non prende ordini da nessuno.

Non sapevamo che ectoplasmi senatoriali fossero in grado di parlare. In realtà i senatori firmatari sono la prova che almeno per una parte Renzi ha avuto ragione. Se una rottamazione riesce, allora andava fatta, perché era meglio comunque liberarsi del fradicio su cui si è abbattuta. E i 70 senatori ne sono la prova. Come possono parlare all’Anpi di una democrazia piena ed efficace, quando hanno approvato una riforma costituzionale e una legge elettorale che la ridurrebbero a un teatrino di comparse pronte all’omaggio servile? Siamo lieti che i senatori protagonisti dello scempio siano rottamati e ancor più per il futuro rottamandi. D’altronde, su quale seguito e consenso popolare potrebbero più contare?

Ma proprio per questo siamo contrari al senato di Renzi, che lo vuole riempito di personaggi non migliori, ed anzi peggiori. Gli è sfuggito, nella foga del discorso a Bergamo, un richiamo alle mutande verdi comprate con i soldi pubblici. Peccato non abbia colto l’ironia: secondo la sua riforma proprio gli acquirenti delle mutande – come tutti ricordano, consiglieri regionali – sarebbero domani elevati alla dignità del seggio senatoriale. E avrebbero la copertura delle prerogative parlamentari anche per l’acquisto delle anzidette mutande.

La politica alla Renzi la conosciamo ancora prima del voto sulla riforma. È la junk politics – la politica spazzatura – tipica degli Stati uniti. La vediamo proprio in questi mesi di primarie per la presidenza. E l’atteggiamento e il linguaggio di Renzi e dei suoi sostenitori sono un buon esempio di “trumpismo” all’italiana. La stessa propensione all’invettiva, all’insulto, alla derisione quando non alla denigrazione dell’avversario. La stessa avversione per il ragionamento e il pensiero intelligente.

L’Anpi è giunta a definire l’atteggiamento sulla riforma e sui referendum attraverso un dibattito lungo e complesso. Un dibattito che è vissuto anche in una stagione congressuale. Le ragioni dei favorevoli e dei contrari hanno avuto modo di svolgersi in un confronto pienamente democratico, e la maggioranza favorevole a difendere la Costituzione è stata ampia. È confluita in essa la consapevolezza che un momento storico decisivo per l’Italia si è trasfuso nella Costituzione, che ha definito e definisce ancora oggi l’identità del paese, nei suoi elementi essenziali di paese moderno e democratico. La sgangherata legge Renzi-Boschi, unitamente all’altrettanto sgangherato Italicum, attacca quella identità. Ed è del tutto ovvio e naturale che una associazione come l’Anpi, per quel che è e quel che rappresenta, si schieri a difesa. L’Anpi, non i pochi pezzi di essa renziani a prescindere.

La frase della Boschi segnala la rabbia per la disobbedienza di chi si vorrebbe subordinato e servo. Noi siamo per l’Anpi che decide di resistere, come siamo per i magistrati che vogliono prendere posizione in difesa della Costituzione. E ancora siamo per i professori autorevoli che decidono di parlare contro le cattive riforme, senza farsi intimorire da quelli che si arruolano nelle truppe del premier nella qualità di giovani di belle speranze. A questi facciamo comunque i migliori auguri di successo per una brillante carriera. Ci permettiamo solo un consiglio: studino la vasta letteratura sulla intrinseca fragilità del potere personale, per dato genetico destinato a durare poco. Gli ultimi che pensavano di durare mille anni sono finiti male.

Renzi deve farsene una ragione. C’è un pezzo di Italia che la sua Costituzione proprio non la vuole. La legge Renzi-Boschi è il peggior prodotto che decenni di dibattiti abbiano mai visto, per il banale motivo che il manico non era buono. Si poteva fare meglio? Certamente, cambiando in profondità ma senza scivolare in una deriva di potere personale e cerchi magici. Gli atti parlamentari sono pieni di proposte. Si poteva con soluzioni efficaci e condivise risparmiare di più e mantenere il senato elettivo, superare il bicameralismo paritario, rafforzare l’istituzione parlamento, ampliare la partecipazione democratica, consolidare il sistema di checks and balances, riequilibrare il rapporto Stato-Regioni. Bastava leggere, ascoltare, riflettere.

Invece l’arroganza di Renzi ora ricatta e spacca il paese. E che gli varrebbe vincere il referendum per una manciata di voti? Ne uscirebbe comunque indebolito lui, e ancor più la sua costituzione. Per questo è nell’interesse del paese che perda. E se volesse rimanere in carica dopo la sconfitta del sì, non avremmo nulla in contrario. Gradiremmo solo che decidesse, da qui a ottobre, se vuole fare lo statista, o il faccendiere di Palazzo Chigi.

Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2016 (p.d.)

Quaranta anime sparse per la campagna del Mugello. La Chiesa e il cimitero. La parrocchia minuscola appoggiata sul monte Giovi a quasi 500 metri nel Comune di Vicchio. Né acqua, né luce. Per raggiungerla, una strada di sassi. Questa era Barbiana quel 7 dicembre del 1954 quando arrivò Don Lorenzo Milani mandato dalla curia Fiorentina per punizione.

Il prete-maestro che di sé diceva: “Non sono un sognatore e un politico:io sono un educatore di ragazzi vivi, e educo i miei ragazzi vivi a essere buoni figlioli, responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani”. In nove anni, fino a quando una leucemia lo ha strappato alla vita a soli 44 anni, ha trasformato Barbiana in cattedra della povertà.

Il suo pallino era l’istruzione, combattere l’analfabetismo dei figli dei poveri per renderli liberi. La prima pietra fu proprio la scuola. Tempo pieno dalle otto del mattino fino al calar del sole dove si faceva educazione “per tutti e partecipata da tutti per imparare la partecipazione attiva nella scuola, nella vita pubblica, nella politica, nel sindacato”.

Pastorale e filosofia. Un’esperienza rivoluzionaria che Don Milani descriverà nel libro Lettera a una professoressa.“Dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così l’umanità va avanti”. E ancora: “Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola”.

Rivolgendosi ai suoi alunni diceva: “Voi non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttate come disperati sulle pagine dello sport. È il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo”.

Appena arrivò disse: “Vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori, perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette”. La cultura che “non è solo possedere la parola, esser messi in condizione di potersi esprimere, di poter mettere a disposizione di tutti quello che noi abbiamo ricevuto: è anche appartenere alla massa ed essere consapevoli di questa appartenenza”.

A parlardi di lui è Giancarlo Carotti, uno dei primi sei alunni che varcarono la soglia della scuola. Oggi settantunenne, padre di due figlie, nonno di tre nipoti, il quarto in arrivo, è stato per una vita operaio metalmeccanico e da pensionato torna a Barbiana per dedicarsi alla Fondazione. Qui in sei anni sono arrivate 850 scolaresche e ogni anno, percorrendo il Sentiero della Costituzione, salgono diecimilapersone. Una sorta di via crucis laica nel bosco con quarantacinque stazioni, ognuna è un articolo della Costituzione italiana illustrato con i disegni dei ragazzi di diverse scuole d’Italia. Un giorno un ragazzo di solida famiglia cattolica chiese a Don Milani: “Ma lei insegna anche a lui che è comunista e dichiarato nemico della Chiesa? Io gli insegno il bene –rispose – gli insegno a essere un uomo migliore e se poi continua a rimanere comunista, sarà un comunista migliore”.

Nato a Firenze il 6 settembre del 1895 da famiglia borghese, ha avuto con la mamma Alice Weiss, ebrea, un rapporto intenso. Quando andò per la prima volta a trovarlo a Barbiana informò i sei ragazzi della scuola che non era cristiana e che dovevano essere premurosi e tolleranti se non avesse compreso la loro esperienza: “Cerchiamo di aiutarla in tutto e di attenuare i suoi disagi, perché noi cristiani dobbiamo dimostrare di essere migliori”.

Giancarlo è stato uno dei primi due bambini ad incontrare Don Milani quando mise piede a Barbiana. Aveva 9 anni ed era il più grande di tre figli di genitori contadini, molto poveri. “Spiegò che era stato mandato all’esilio ecclesiastico perché il suo modo di essere prete era troppo avanti per i tempi ed era diventato un personaggio scomodo per le alte sfere della Chiesa. Questa sua sincerità conquistò tutti. La scuola partì con sei alunni che man mano divennero quarantadue. Noi eravamo figli di contadini poverissimi –continua Giancarlo –il nostro destino era segnato se non fosse capitato don Lorenzo a cambiarlo. Il suo pallino era insegnarci la padronanza della lingua italiana, della parola. Non ha mai preteso di modificare il mondo ma di portarci ad un certo livello culturale. Il metodo era completamente diverso da quello tradizionale, nella nostra scuola non c’erano pagelle, voti e nessuno veniva bocciato.

Io sono andato via da Barbiana nel giugno del ‘68, un anno dopo la morte di Don Lorenzo. Ho iniziato a lavorare a Sesto Fiorentino e ho girato mezzo mondo”. Alla domanda su cosa ha significato per lui Barbiana risponde di getto: “Io sono la scuola di Barbiana”. L’utopia di Don Milani vive ancora? “Certamente. Vive in papa Francesco che gli assomiglia tanto. Non a caso quando due anni fa ha ricevuto gli studenti ha citato solo Don Lorenzo come uno dei maggiori educatori italiani. E ‘tra parentesi prete’, così ha detto”. È rivoluzionario, basti pensare che “quando le classi erano divise in maschi e femmine a Barbiana le otto bambine sedevano sugli stessi nostri banchi e stiamo parlando di 60 anni fa. D’estate per approfondire la lingua, andavamo in Francia, in Inghilterra in autostop, zaino e tenda in spalle, e ragazze più piccole avevano solo tredici anni”.

Giancarlo, si è mai sentito una tuta blu diversa dalle altre? “No. Ma i miei compagni di lavoro lo scoprivano da soli. Don Lorenzo ci ha insegnato ad essere umili trasparenti e seri: “Vedrete – ci diceva – che la gente si accorgerà che siete diversi e verrà a chiedervi perché. Imparare ad imparare, quando uno ha imparato ad imparare, significa essere un gradino sopra gli altri”. Come imparare ad osare. Al cardinale di Palermo Ruffini, che non voleva che i giornalisti scrivessero della Spagna franchista, perché averla amica “potrebbe esserci di validissimo aiuto contro il comunismo”, Don Milani rispose: “Compito d’ogni cristiano è quello di informare il proprio vescovo che sbaglia, anche a costo di essere perseguitato oppure esiliato in vetta al monte Giovi”.

I ragazzi di Barbiana sono sparsi per l’Italia: “Abbiamo anche idee diverse, così come voleva Don Milani. Avrebbe considerato un fallimento la ‘costruzione’ di quarantadue ‘lorenzini’, perché ognuno doveva pensare con la sua testa e possedere la capacità di confrontarsi con l’altro”.

Un educatore aperto alla diversità di opinioni, di culture di religioni. “A Barbiana invitava personaggi famosi di estrazione politica e religiosa diversa. Si mettevano a nostra disposizione e noi li bombardavamo di domande perché, come ci ripeteva sempre: non è il cartoncino che fa grande un uomo. Mi raccomando non vi fate imbavagliare dal numero dei cartoncini che hanno”.

Barbiana volutamente è rimasta un luogo poverissimo dove ancora si respira l’aria pulita di un riscatto sociale che non è morto ma tarda solo ad arrivare.

Il Manifesto, 20 maggio 2016 (p.d.)

No uno, bensì dieci. Sono i No pronunciati da Gianfranco Pasquino, Carlo Galli, Marco Valbruzzi e Maurizio Viroli nel loro documento-appello che boccia la «deforma» costituzionale voluta dal governo e smaschera luoghi comuni e falsità della retorica renziana.

A partire dal fatto che «no, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall’altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il No chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte da tempo scritte e disponibili».
O che «no, la riforma non interviene affatto sul governo e sulle cause della sua presunta «debolezza». O ancora che «no, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro». Argomenti proposti a «voi che ragionate e non plebiscitate», perché «c’è chi ci mette la faccia, noi ci mettiamo la testa».

Proprio per «metterci la testa», cioè per capire e informare, domani il Comitato per il No scende in piazza a Bologna e lo fa in grande stile con un importante momento pubblico di approfondimento ma anche di festa per la Costituzione.

A partire dalle ore 18, in piazza Santo Stefano, Francesco Di Matteo (Comitato Alessandro Baldini), Maurizio Landini (Fiom), Luigi Ferrajoli (Comitati Dossetti), Nadia Urbinati (Libertà e Giustizia) e Carlo Smuraglia (Anpi, quella stessa Anpi in questi giorni oggetto di feroci attacchi per essersi schierata «contro»), spiegheranno tutte le ragioni del no alla modifica del Senato e dei 47 articoli della Costituzione e alla legge elettorale Italicum.
Interventi che saranno intervallati da momenti di cultura e musica con Moni Ovadia (in video) che reciterà per la Costituzione, I Mulini a vento e il Quartetto Mozart. Un’occasione per fare il pieno di firme per i referendum, grazie alla presenza, per tutta la durata della manifestazione, di stand e banchetti.

Raccolta di firme che prosegue in tutta Italia con rinnovato entusiasmo, ora che dal Movimento 5 Stelle è arrivato un sostegno ufficiale, dopo un incontro dei parlamentari M5S con i rappresentanti del Comitato del No.

«Abbiamo avuto un proficuo scambio di idee e opinioni – hanno detto i parlamentari – Si converge sul fatto che in questa prima fase sia fondamentale spiegare ai cittadini cosa comprende la revisione costituzionale e la sua micidiale combinazione con la nuova legge elettorale». Per questo, nella reciproca autonomia, si organizzeranno iniziative comuni nei territori».

Prossime iniziative

Padova: oggi, banchetto di raccolta firme durante lo spettacolo di Dario Fo al Teatro Geox; domani ore 10-13 e 16-20 banchetti in Piazza delle Erbe e Canton del Gallo;

Milano: lunedì 23, dibattito con Gherardo Colombo, Antonio Lettieri, Antonio Pizzinato, Massimo Villone – ore 20,30, Salone Di Vittorio, Camera del Lavoro Cgil, Corso Porta Vittoria 43 (si potrà firmare per i referendum);

Cinisello Balsamo: domani, ore 10-12 banchetto al mercato di via Cilea; mercoledì 25, incontro pubblico con Marco Dal Toso (Giuristi Democratici), Luciano Belli Paci (avvocato), Silvia Truzzi (Fatto Quotidiano) – ore 20,45, Villa Ghirlanda Silva, via Frova 10;

Marzabotto: oggi, No e Sì a confronto, con Domenico Gallo e Stefano Ceccanti, ore 20,30, Casa della Cultura e della Memoria;

Cecina: oggi, ore 21, dibattito con Massimo Villone e raccolta firme, Comune Vecchio;

Opera: lunedì 23, serata di approfondimento con Vittorio Angiolini (costituzionalista), Aldo Giannuli (storico), Felice Besostri (avvocato costituzionalista) – ore 21, Centro Polifunzionale, via Cinque Giornate.

Tutti i futuri incontri pubblici organizzati dal Comitato per il No possono essere ricercati nei seguenti siti:
www.iovotono.it, cliccare la voce "iniziative" nel menu orizzontale riportato sotto la testata
www.referendumitalicum.it, cliccare sull'immagine del calendario nel menu verticale di sinistra

La Repubblica.it, 19 maggio 2016 (p.d.)

Pubblicità regresso. Dopo lo spot della Telecom che, forse sensibile ai venti neoautoritari, esalta «la libertà di non dover più scegliere», arriva quello del cornetto Algida, che associa ai classici giochi da spiaggia una canzone che dice: «E ancora un'altra estate arriverà / E compreremo un altro esame all'università».

L’effetto del montaggio è un boomerang: cioè un ritratto grottesco dell’Italia, e della sua povera università, che è piena di difetti e certo non è esente da corruzioni, ma non è un suq.

E infatti in queste ore sta montando la reazione del mondo accademico. Il professor Claudio Della Volpe ha chiesto l’intervento dell’Autorità garante per la concorrenza: «che si usi come messaggio pubblicitario la vendita degli esami all’università è una cosa che come cittadino che insegna all’università e che non ha mai sognato di vendersi un esame mi sconcerta alquanto. Direi che la scelta è del tutto fuori luogo, e anche offensiva per chi fa il suo lavoro con passione e correttezza: la stragrande maggioranza». Alle proteste di un altro professore (Stefano Chimichi), il team italiano di Unilever ha risposto che «Al centro del nuovo spot di Cornetto Algida, sulle note di “Vorrei ma non posto”, sono protagonisti l’estate e i sentimenti di sempre, ma raccontati all’epoca dei social. La invitiamo ad ascoltare il pezzo nella sua interezza in modo da poter interpretare in maniera corretta il messaggio che viene raccontato: il testo vuole estremizzare e condannare la “deriva” delle abitudini di alcuni giovani di oggi, che non danno il giusto peso a diverse cose importanti della vita».

La multinazionale proprietaria di Algida si riferisce alla canzone di Fedez e J-Ax da cui è tratta la frase: ma è una risposta che non convince. Perché un conto è, appunto quella frase nel suo originario contesto testuale e visivo (il video è urticante e estremo), un conto è averla isolata, e montata sulle immagini convenzionali e dolciastre dello spot.

La vera domanda è: se davvero lo spot voleva «estremizzare e condannare la “deriva” delle abitudini di alcuni giovani di oggi» (secondo il singolare intento moralizzatore dichiarato della multinazionale dolciaria) perché allora non si è scelta, per esempio, quest’altra mirabile strofa: «E come faranno i figli a prenderci sul serio / con le prove che negli anni abbiamo lasciato su Facebook / Il papà che ogni weekend era ubriaco perso /E mamma che lanciava il reggiseno ad ogni concerto /Che abbiamo speso un patrimonio /Impazziti per la moda, Armani /L'iphone ha preso il posto di una parte del corpo /E infatti si fa gara a chi ce l'ha più grosso»?

Evidentemente i grandi brand del mercato sono intoccabili, mentre la molle università pubblica italiana può essere diffamata impunemente. Ma Unilever stia attenta: la ministraStefania Giannini ha appena annunciato che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d'istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un'impronta più pratica all'istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica».

Quando l’università sarà una cosa sola col mercato, allora anch’essa sarà intoccabile: e saranno tempi duri per chi vorrà trovare carne da cannone per il moralismo da spot.

A seguire i massmedia (con pochissime eccezioni) sembra che: 1. il referendum lo abbia convocato Renzi; 2. che l'oggetto del referendum sia la permanenza di questo governo; 3. che nessuno abbia aperto, da tempo, una campagna per bocciare la de-forma renziana. Ecco un’eccezione. Il manifesto, 17 maggio 2016

Ma insomma, personalizza oppure no? Una volta dice che il referendum costituzionale sarà una sfida tra «l’Italia che vuole correre e quella ancorata al passato», che «se vince il no mi dimetto», che «il no si giustifica solo con l’odio nei miei confronti». Un’altra volta, per esempio ieri, Matteo Renzi spiega che «personalizzare il referendum non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del no». Ha cambiato strategia, si è reso conto che puntare tutto su di sé è controproducente, vuole dare ascolto alle inquietudini di Reichlin, forse di Napolitano e magari di Mattarella? No, Renzi è semplicemente in campagna elettorale. Dunque sostiene e sosterrà di tutto, facendo capriole e cercando di occupare ogni spazio dell’offerta politica. Ci riuscirà: tv e giornali non gli fanno notare le contraddizioni. In questo momento sono impegnati a lanciare con lui la raccolta di firme per il sì – comincia sabato – mentre non hanno ancora raccontato che la campagna del no è già partita da un mese.

L’identificazione tra il governo, anzi tra il presidente del Consiglio e la riforma costituzionale non è un’invenzione degli ultimi giorni. È il tratto originario del disegno di legge (Renzi-Boschi) che il governo ha scritto, emendato a palazzo Chigi, fatto approvare da senato e camera imponendo ritmi, trucchi e strappi ai regolamenti.

Presentandosi alle camere, il presidente del Consiglio aveva promesso la trasformazione del senato. Dunque ha ragione anche Boschi quando dice (personalizzando) che «non sarebbe serio tenere distinto il giudizio sulle riforme da quello sul governo». Ma in quel discorso Renzi aveva demolito il personale politico delle regioni: «È cambiato il clima per quello che è accaduto sui rimborsi elettorali». Pensava allora a un senato dei sindaci; rischiamo un senato di consiglieri regionali in gita a Roma.

Riportare la campagna elettorale al contenuto della riforma è faticoso, le pillole di «merito» dispensate da palazzo Chigi sono tutte avvelenate. «Se vince il sì, per fare le leggi e votare la fiducia sarà sufficiente il voto della camera come accade in tutte le democrazie», ha scritto ieri Renzi. Ma in Europa ci sono 13 paesi con un sistema parlamentare bicamerale, tra i quali Germania, Francia e Spagna. Bicamerale resterà anche il nostro: dopo la riforma ci saranno almeno sei diversi procedimenti legislativi, quattro dei quali passano per il senato. Non lo diciamo noi: lo ammette il governo nel volantino che ha prodotto per spiegare il nuovo articolo 70 della Costituzione. Prima era composto da 9 parole e adesso, per «semplificare», da 439.

Dall'interno del PD una nobile lettera al direttore di

Repubblica, giustamente angosciata per l'inferno sociale verso il quale Matteo Renzi sta portando il paese, che improvvidamente gli è stato affidato. La Repubblica, 17 maggio 2016

Caro Direttore, mi pesa dirlo, ma non mi piace il modo come si sta discutendo della riforma costituzionale. Temo uno scontro inconcludente. Dico inconcludente nel senso che chiunque sia il vincitore di questo Referendum il Paese non riesca a uscire dalla sua crisi. Forse esagero ma mi chiedo se ci rendiamo conto del bisogno assoluto che ha questo paese, confuso, sfiduciato come non mai verso la classe dirigente, arrabbiato e impoverito, con divisioni al suo interno che stanno diventando feroci, il bisogno e la necessità di ritrovarsi in una “casa comune”? Stiamo parlando di una riforma Costituzionale, cioè di uno strumento per lo “stare insieme” non per dividerci.

Figurarsi se io non vedo i vuoti e i pericoli di un “no”. Ma prima di votare io voglio capire bene di che cosa stiamo discutendo. Di una correzione matura da tempo del vecchio bicameralismo perfetto, riducendo il Senato a una dimensione regionale, con in più una serie di misure, alcune anche discutibili, ma nell’insieme accettabili? Oppure si tratta di un plebiscito popolare che Matteo Renzi chiede su se stesso? Sono due cose diverse, e molto diverse. Io non voglio una crisi di governo al buio e di Renzi apprezzo molte delle sue grandi doti. Ma considero una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti contrapposti. Da un lato quello del Sì, cioè di chi “vuole bene all’Italia” e disprezza tutti i governi della Repubblica che si sono succeduti prima di questo (il discorso esaltato di Renzi a Firenze). Dall’altro lato il partito del No: il mondo dei conservatori, dei professori, dei gufi, dei nemici. Ma ci si rende conto delle conseguenze? Non credo che verrà il fascismo ma non aumenterà certo la governabilità.

Si dirà che quelle di Renzi sono solo parole. Ma, attenzione, le parole sono pietre, e così arrivano a un popolo che già crede poco alla politica come strumento per il “bene comune”. E vorrei rispondere a chi considera la mia distinzione così netta tra le vicende del governo e la funzione di una Costituzione un po’ ipocrita. Credo che sbagli. Se la Repubblica è arrivata sin qui è anche per quella “ipocrisia”. Ricordo la drammatica crisi del ’47: il viaggio di De Gasperi in America e, al suo ritorno, la cacciata dei comunisti dal governo. Si aprì una crisi feroce all’insegna della guerra fredda e ciò mentre l’elaborazione della Costituzione era ancora in corso, avviata nel quadro politico unitario precedente. Era una svolta quella che stava accadendo ed era forte la voglia di menar le mani, ma Togliatti non ebbe dubbi che dovevamo continuare a lavorare su quel testo tutti insieme. E così l’impresa fu portata a compimento. E non è vero che quella carta piaceva a tutti. Metà degli italiani aveva votato per la monarchia. Era chiaro però che si trattava di una “Casa di tutti”, concepita non per favorire un governo contro i suoi nemici.

Sento quindi il dovere di sollecitare un chiarimento serio sul perché di questo plebiscito e sul senso di questi diecimila comitati. E vorrei che una cosa fosse molto chiara. Non mi interessa affatto alimentare le vecchie dispute interne al Pd. Parla in me una grande preoccupazione sul “dove va l’Italia” (la sorte di Renzi davvero viene dopo). E ciò per tante ragioni interne e internazionali che non sto qui a elencare. Le quali ci dicono che l’Italia è a un passaggio cruciale della sua storia perché deve fronteggiare difficili sfide che mettono in discussione non tanto, cari “decisionisti”, i poteri del Capo del governo, quanto le ragioni dello “stare insieme degli italiani”. Dico degli italiani. È chiaro?

È così che io rivivo quello che fu lo sforzo di ricostruire una nazione. Era l’idea della Costituzione come il necessario strumento dello “stare insieme” degli italiani, di tutti gli italiani. E ciò per l’assillo che allora avevamo, che era quello di far fronte alle sfide di quel tempo: le rovine di una guerra perduta, il rischio incombente di una guerra civile interna, di una lacerazione tra Nord e Sud, tra monarchici e repubblicani, di una rivolta rabbiosa contro un padronato che si era arricchito servendo il fascismo. L’assillo nostro era: evitare di fare la fine della Grecia. Ricostruire. E perché ciò fu possibile? Perché De Gasperi rifiutò la spinta che veniva dal Vaticano, e da ambienti americani a mettere fuori legge i comunisti e perché Togliatti la prima cosa che disse al partito, al suo ritorno è che non si trattava di fare la rivoluzione ma di costruire una classica democrazia parlamentare basata sul pluralismo dei partiti. Non una improbabile “nuova democrazia dei Cln” come tanti a sinistra chiedevano.

Sia dunque chiaro. Io ho condiviso, pur con qualche riserva, la scelta della minoranza del Pd di non opporsi alla riforma Boschi. Ma guardo al paese. E alle sfide di oggi. Non si tratta solo di crisi economica. È in discussione lo statuto e la figura della nazione italiana, il suo posto nella nuova realtà geo-politica del mondo. Ecco perché non voglio plebisciti.

Il paese è in grave sofferenza perché ha perso troppi punti di riferimento. La “rottamazione” era in una certa misura necessaria. Ma si è creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale. Gli uomini saggi (se ancora ci sono) dovrebbero spiegare a Renzi perché è tempo di passare dell’Io al Noi.

PIl manifesto, 11 maggio 2016

A sentire Renzi nell’ultima direzione Pd, sul referendum costituzionale è guerra totale. Chiama Il partito alle armi, e propone una moratoria. Fino al voto sulla riforma tutti insieme appassionatamente. Il minuto dopo si scateni pure l’inferno, e si vada alla conta. Un principio di affanno? Timore che i guai giudiziari del Pd appannino l’appeal populistico del leader? Sull’attacco alla magistratura, avviato in stile berlusconiano, è sceso un improvviso silenzio. Che non potrà essere rotto perché i magistrati – com’è nel loro pieno diritto – si esprimono sulla riforma.

Ma rimane grande l’arroganza dell’occupante di Palazzo Chigi: un Renzi vale una Costituzione. Se volete Renzi, dovete volere anche la Costituzione di Renzi. È l’offerta speciale di autunno: due al prezzo di uno. La battuta della Boschi su Casa Pound non merita l’onore di una citazione. E l’esangue minoranza Pd perde un’occasione, e si allinea. Lo scambio è con il congresso, cui – prevedibilmente – seguirà la pulizia etnica dei dissenzienti, salvo pochi esponenti più rappresentativi da imbalsamare a scopo di studio come esemplari di una specie estinta.

Per il resto, siamo all’archeologia costituzionale.

Secondo il dizionario, l’archeologia “mira alla ricostruzione delle civiltà antiche attraverso la scavo e lo studio della varia documentazione”. Cosa troviamo nell’antica civiltà dell’Assemblea Costituente?

Anzitutto, un Governo che si tiene da parte. Nella Costituente i banchi dell’esecutivo rimasero vuoti. De Gasperi prese la parola per la prima volta sulla nuova Costituzione, come componente dell’Assemblea e non come Presidente del consiglio, il 25 marzo del 1947, quasi scusandosi, per sostenere l’inserimento nella carta fondamentale del rapporto tra Stato e Chiesa cattolica. Il 22 dicembre 1947, giorno del voto finale, commentò che i membri del governo avevano con “un certo senso di invidia” osservato il nascere della Costituzione, “mentre noi, dalle esigenze di tutti i giorni, eravamo costretti ad occuparci dei piccoli particolari”. Il 13 dicembre 1947 Scelba, ministro dell’interno, precisò che il governo aveva presentato una proposta di legge elettorale al solo fine di facilitare il lavoro “senza che questo potesse minimamente significare né impegno del Governo di decidere su quel determinato progetto, né menomazione dell’autorità dell’Assemblea Costituente”. Dunque l’esecutivo non sarebbe intervenuto nel merito delle votazioni, rimettendosi in ogni caso all’Aula.

Inoltre, vediamo l’obiettivo di un testo condiviso nel suo complesso, pur nel dissenso su singoli punti anche rilevanti. Ad esempio, sulla Parte II della Costituzione le sinistre ebbero un atteggiamento critico: in specie, gli interventi di Nenni, 10 marzo, e Togliatti, 11 marzo 1947. Ma si pervenne a un consenso unitario per la volontà di dare al paese una Costituzione ampiamente condivisa. Era cruciale, disse Togliatti, trovare un terreno comune abbastanza solido per costruire una Costituzione, andando “al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare”. Tanto che, come affermò il 6 marzo 1947 Basso, se avvalendosi di “esigue maggioranze” qualcuno avesse voluto fare una Costituzione “di parte”, “avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione e il vento disperderà la vostra inutile fatica”. Non è in questione il dissenso, che anzi va lodato, come disse V.E. Orlando il 22 dicembre 1947 “come il mezzo più idoneo per scoprire la verità o per avvicinarci ad essa il più che sia possibile”. Il fine era quello di costruire una Costituzione “proporzionata al corpo sociale” come affermò La Pira l’11 marzo 1947: “sia nella prima parte, quando definisce i rapporti dei singoli con lo Stato, ed i rapporti dei singoli fra di loro, sia nella seconda parte, quando, mediante la. struttura dello Stato, esso dispone in modo che questi diritti abbiano la tutela ed abbiano le garanzie”.

Sulla composizione del Senato l’Assemblea discusse il 24 e 25 settembre, e ancora il 10 ottobre 1947. Furono respinte la composizione mista, e l’elezione di secondo grado. Su questa, il 24 settembre Laconi sottolineò il pericolo di “veder trasformato il Senato in una Camera che rappresenti unicamente, e nel modo più ristretto, degli interessi locali di piccoli gruppi configurati territorialmente e politicamente”. Mentre Nitti si scagliò contro l’elezione di secondo grado, meccanismo inquinato e inquinante, perché “il nostro Paese non ha ancora una struttura politica, dopo tante vicende, che assicuri contro le cattive influenze e contro la corruzione”.

Certo, il breve spazio di un articolo consente solo poche ed emblematiche citazioni. Ma bastano a dirci che i costituenti di oggi avrebbero tutto da imparare dal metodo, e più ampiamente dal modo di pensare, dei costituenti di ieri. Quelli operarono in un paese devastato dalla guerra, e pure vediamo che la civiltà antica batte la moderna, di molte lunghezze. Anche allora i professori erano in campo, e Nenni li ringraziava, il 10 marzo 1947, per aver contribuito “a mettere tutta l’assemblea in condizioni di discutere i problemi costituzionali, e a mettere il paese in condizioni di apprezzare i risultati delle nostre deliberazioni “.

Altri tempi. Ma non ci spiace affatto la qualifica di archeologi costituzionali. Sempre che al duo Renzi-Boschi venga riconosciuta quella di tombaroli.

«». Il Fatto Quotidiano online,

La riforma della Costituzione, che sarà a breve sottoposta al vaglio di un referendum, è soltanto l’ultima (per ora) convulsione di una politica tutta italiana, che riforma l’esistente per l’incapacità di gestirlo, o di gestirlo nel modo voluto. E’ il prodotto della stessa violenta immaturità politica per la quale non esiste in questo paese un partito che abbia il coraggio di definirsi conservatore. Possibile che non ci sia nulla da conservare della storia politica del paese? Nessuna conquista del passato che valga la pena di mantenere? Come insegna il Gattopardo cambiare continuamente tutto è un modo di conservare, ma non di conservare il meglio o il buono: di conservare il potere, a costo della distruzione del sistema.

Ovviamente perché la strategia della riforma continua, funzionale alla conservazione del potere anziché all’interesse del cittadino – elettore, funzioni è necessario che la politica sia in grado di convincere il cittadino che dopo tutto riformare, se non addirittura rivoluzionare, il sistema sia nel suo interesse. La riforma della Costituzione è la madre di tutte le riforme: cambia i meccanismi decisionali e i rapporti di potere al più alto livello politico e consente quindi potenzialmente qualunque ulteriore riforma dell’ordinamento dello Stato e dei suoi servizi.

E’ quindi importante analizzare il meccanismo attraverso il quale l’elettore viene imbrogliato e convinto la politica faccia l’interesse dei cittadini anziché il proprio.Uno strumento molto importante dell’imbroglio è la denigrazione dell’esistente: almeno dai tempi di Berlusconi, se non da prima ancora, è in corso l’esperimento politico di creare consenso elettorale attraverso la (presunta) denuncia dei difetti del sistema, anziché attraverso la pubblicizzazione dei suoi meriti.

Denigrare è sempre più facile che lodare: basta infatti riferirsi ad una idealità della cui realizzabilità pratica non c’è traccia. Con l’aiuto di giornalisti compiacenti, sarà sempre possibile trovare un giudice che indossa calzini azzurri, a dimostrazione e vituperio dei difetti della giustizia; o un caso di malasanità, a dimostrazione che un Servizio Sanitario Nazionale valutato dall’Oms il secondo migliore del mondo, sia un disastro e una vergogna. Sarà sempre possibile additare al pubblico disprezzo un sistema della ricerca che è ottavo nelle graduatorie internazionali o una università pubblica che si classifica duecentesima nel mondo? Ciò che deve essere nascosto (e basta non riferirlo) è che la duecentesima università del mondo, rispetto al numero delle università valutate, si classifica al 97mo percentile: su 99 università scelte a caso, la duecentesima del mondo è peggiore di tre e migliore delle rimanenti novantasei; allo stesso modo, basta non riferire che il Servizio Sanitario Nazionale nel quale un paziente è morto in corso di intervento chirurgico salva ogni giorno la vita di mezzo milione di pazienti diabetici.

Una volta che il cittadino è stato convinto da una propaganda martellante che i servizi pubblici che paga con le sue tasse ed ai quali ha accesso sono pessimi, e che quindi qualunque riforma sia preferibile allo status quo, la strada del consenso è aperta e qualunque saltimbanco può costruirsi una carriera politica sulla semplice promessa di “cambiare” qualcosa. Berlusconi ha promesso cambiamenti per vent’anni, Renzi segue l’esempio, Beppe Grillo pure.

Ovviamente domani saremo insoddisfatti delle riforme di Renzi, come pure di quelle di Beppe Grillo (o chi per lui): perché riformare il secondo miglior Servizio Sanitario Nazionale del mondo, o l’ottavo sistema della ricerca, comporta il grosso rischio di renderli peggiori anziché migliori: date le condizioni di partenza c’è molto più margine per il peggioramento che per il miglioramento, tanto più se lo scopo della riforma non è il miglioramento del sistema ma il controllo del potere.Un consiglio Opporsi alle ipotesi di riforma (Costituzionale o altre) se proposte da gruppi di potere che mancano di riconoscere i pregi del sistema che intendono riformare: perché quei pregi li distruggeranno, senza dare garanzia del miglioramento promesso.

«Le Costituzioni vanno pensate “per sempre”: come quella americana, che dal 1789 ha avuto solo 27 emendamenti, Ma l’equivoco del plebiscito oscura la sostanza dei problemi, spinge a trattare il tema come una competizione sportiva e non come una discussione sul merito, da valere nei tempi lunghi». LaRepubblica, 3 maggio 2016 (c.m.c.)

Chiunque intenda il referendum d’autunno sulla Costituzione come un plebiscito pro o contro il governo fa un errore di grammatica istituzionale. La Costituzione non è un regolamento condominiale.

Non si riforma per comodo di chi governa, né si respinge se l’attuale governo non ci piace. Le Costituzioni vanno pensate “per sempre”: come quella americana, che dal 1789 ha avuto solo 27 emendamenti, dei quali dieci tutti insieme, e dal 1992 nessuno. Ma l’equivoco del plebiscito oscura la sostanza dei problemi, spinge a trattare il tema come una competizione sportiva e non come una discussione sul merito, da valere nei tempi lunghi. Dimenticando che dalla tenuta della Costituzione dipende la vita della democrazia, anzi della Repubblica.

Certo, non è facile discutere nel merito una riforma che modifica in un sol colpo 47 articoli della Carta; mentre dal 1948 ad oggi si erano cambiati 43 articoli, a uno a uno, seguendo l’aureo principio secondo cui le revisioni della Costituzione devono essere «puntuali e circoscritte, con una specifica legge costituzionale per ogni singolo emendamento» (Pizzorusso).

Nonostante questa valanga di modifiche, è assolutamente necessario entrare nel merito. Con un intervento tanto invasivo, è statisticamente improbabile che vada tutto bene o tutto male. Proverò a indicare due punti che ritengo accettabili e due che mi paiono da respingere. Va bene aggiungere la “trasparenza” tra i requisiti dei pubblici uffici (art. 97). La parola non era nel linguaggio politico del 1948, lo è adesso. Forse non è proprio la Costituzione il luogo per dirlo, ma in fondo perché no? Altro punto su cui si può esser d’accordo, la restrizione del potere del governo di emanare decreti legge (art. 77).

Ma punti ancor più importanti suscitano gravi preoccupazioni. Ne indico solo due. L’art. 67 della Costituzione vigente dice: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (ossia senza obbligo di ubbidienza verso il partito, ma con piena responsabilità personale). Questo principio è stato già svilito dall’indecorosa migrazione di parlamentari da un partito all’altro (a fine gennaio 2016 si contavano 325 metamorfosi dei voltagabbana di questa legislatura). Ma nella proposta di riforma costituzionale il testo vigente, breve e chiaro, viene smembrato e disfatto. Il nuovo articolo 67 direbbe infatti: «I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato ».

Scompaiono le parole «rappresenta la Nazione», trapiantate (depotenziandole) nell’art. 55, da cui risulta che «Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione». Avremo dunque un Senato i cui membri non rappresentano piú la Nazione, perché «il mandato dei membri del Senato è connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale» (cosí la relazione esplicativa). Ma siccome gli ex Presidenti della Repubblica saranno senatori a vita, avremo l’assoluta meraviglia di Presidenti come Ciampi e Napolitano che non rappresenteranno più la Nazione, bensì le istanze locali.

Ma come verrà eletto, secondo la riforma, il Presidente della Repubblica? Lo faranno deputati e senatori, come ora (art. 83). Ma con una differenza importante. Oggi il Presidente è eletto con una maggioranza di due terzi dell’assemblea nei primi tre scrutini (così nel caso di Ciampi, 1999), con la maggioranza assoluta dal quarto in poi (così Napolitano, 2006). In futuro, se la riforma sarà approvata nel referendum, non sarà più così. Nei primi tre scrutini resta valida la maggioranza di due terzi dell’assemblea, dal quarto in poi si passa ai tre quinti dell’assemblea; ma la vera novità della riforma scatta a partire dal settimo scrutinio: da questo momento in poi basterà la maggioranza assoluta non più dell’assemblea, bensì dei votanti.

In altri termini, se al settimo scrutinio dovessero votare solo 20 fra deputati e senatori, a eleggere il Presidente basteranno 11 voti. Gli assenti dall’aula avranno sempre torto. Si aprirebbe così la gara a colpi di mano, delegittimazioni, conflitti procedurali. Un Presidente eletto cosí, certo, non «rappresenta la Nazione» nemmeno quando è in carica, figurarsi da senatore a vita. Chi ha votato questo articolo in aula doveva essere davvero assai distratto.

Nel merito bisogna entrare (non lo farò ora) anche sul neo-bicameralismo che nasce dal nuovo Senato non elettivo. E’ difficile, è vero, render conto dell’intrico di competenze fra le due Camere quale risulta dall’ammucchiata verbale della riforma (l’art. 70, nove parole nella Costituzione vigente, ne conta 434 nel nuovo). Ma è importante parlarne nel merito: perché criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che «non funzionerà mai e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento» (Ugo De Siervo).

Davanti a enormità come quelle degli artt. 67 e 83 (e non sono le sole), c’è da chiedersi perché mai l’elettore debba essere obbligato a votare in blocco con un SI’ a tutto (comprese le modifiche che detesta) o con un NO a tutto (comprese quelle su cui è d’accordo). E’ stato uno svarione istituzionale cucinare in un unico testo una riforma tanto estensiva; ma è ancora possibile rimediare in parte segmentando i quesiti referendari in più punti, come propone il documento firmato da 56 costituzionalisti, fra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale. Sarebbe più rispettoso della Costituzione, degli elettori, della democrazia. Ma il governo avrà il coraggio di farlo?

«» Il manifesto, 3 maggio 2016


Renzi ci informa che nel giorno del ringraziamento i tacchini sono felici. Gli crediamo sulla parola. E forse, per come sono andate le cose, possiamo accettare anche l’idea che i senatori in carica siano tacchini. Ma che fossero felici nel cancellare il senato, dubitiamo assai. Il lancio della campagna per il sì nel referendum costituzionale ci ha dato un discorso in puro stile renziano, fatto di omissioni, bugie, pubblicità ingannevole, battute.

È omissione celebrare un parlamento che si è messo a correre. Renzi omette di ricordare che ha corso una maggioranza drogata dai numeri posticci di un sistema elettorale fulminato da una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Che solo grazie a quei numeri le sue riforme hanno visto la luce. Che una minima decenza costituzionale avrebbe richiesto nuove elezioni con una legge depurata da quelle illegittimità. Che nonostante tutto questo solo il rinforzo dei voltagabbana ha consentito alla fine di radunare per le riforme una maggioranza occasionale e raccogliticcia. Che se anche vincesse il referendum, questo potrebbe consolidare lui nella poltrona di palazzo Chigi, ma non consoliderebbe una Costituzione delegittimata e divisiva per il paese.

È bugia prospettare la riforma come necessaria per superare un bicameralismo paritario che nemmeno i costituenti del 1948 volevano. Al contrario, quella fu una scelta consapevole, che esprimeva gli equilibri del tempo. E in ogni caso il punto di contrasto vero nel dibattito odierno non è mai stato il bicameralismo differenziato, ma la natura non direttamente elettiva del nuovo senato. Si censura in specie la scelta di iniettare nel massimo livello di rappresentanza nazionale un ceto politico di bassa qualità, segnato da clientele, corruzione, relazioni pericolose. Basta pensare che, se non fosse scoppiato il caso giudiziario e mediatico a tutti noto, un Graziano sarebbe stato probabilmente il tipico candidato in pole position per un seggio senatoriale. Con tutte le prerogative connesse alla carica, tra cui in primis la tutela costituzionale per arresti, perquisizioni, intercettazioni. Con quali conseguenze sulle inchieste è facile immaginare.

È pubblicità ingannevole affermare di essere arrivato a Palazzo Chigi attraverso una grande esperienza di popolo. Sembra suggerire un’onda di irresistibile consenso elettorale. Più modestamente, c’è arrivato attraverso le primarie con cui ha messo in minoranza gli iscritti al PD con il voto dei non iscritti. Ha così creato le premesse per chiudere nell’angolo la minoranza interna, e per attuare la manovra di palazzo che ha politicamente ucciso il governo Letta.

È ancora pubblicità ingannevole che il paese esca dalla palude. Le cifre della crisi infinita rimangono incerte, come la deflazione o i balletti sui posti di lavoro ampiamente dimostrano. La qualità di servizi fondamentali come l’istruzione o la sanità cala. Le diseguaglianze territoriali aumentano, e a nulla valgono gli spot preelettorali di Renzi. La corruzione dilaga, e sul governo pesa la resistenza di chi proprio non vuole saperne di mandare i corrotti in galera e di tenerceli. Mentre l’arte del governare viene ricondotta – come negli anni della peggiore DC, e con poche eccezioni – alla sapiente scelta di sodali, amici, sostenitori, fiancheggiatori a vario titolo.

Tuttavia, anche i Renzi passano. Il problema vero è ridurre i danni che prima di andarsene avrà prodotto. Tra questi, la riforma costituzionale è tra i più gravi, e difficili da riparare. Renzi chiede un paese che dice sì, ma in realtà vuole un popolo di yes men, a partire dal referendum. Bisognerà dimostrargli col voto che la richiesta è irricevibile.

«». LaRepubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

In principio fu una manciata di volantini gettati sul volto dei poliziotti, in via Frascati a Prato. Gli autori di quel gesto provocatorio, due giovani operai tessili, avevano un’unica finalità: essere denunciati per aver infranto una legge del codice penale fascista, l’articolo 113 che vietata il volantinaggio senza autorizzazione. Era il dicembre del 1955. Il pretore di Prato, un siciliano trentacinquenne molto combattivo, non aspettava altro che trovarsi davanti i due imputati, Enzo Catani e Sergio Masi, per chiedere il pronunciamento della neonata Corte Costituzionale: poteva ancora valere, in un regime democratico, quella vecchia legge varata dal fascismo? Avvocati dei due operai, Giuliano Vassalli, Vezio Crisafulli e Massimo Severo Giannini, ossia il meglio della cultura giuridica del dopoguerra. Il nome del procuratore? Antonino Caponnetto.

Molti anni dopo, in occasione del sessantesimo anniversario della Corte Costituzionale - l’organo di garanzia che giudica la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti di Stato e Regioni lo storico Maurizio Fioravanti rivela un capitolo poco noto: la prima seduta pubblica della Consulta, il 23 aprile del 1956, riguardò un episodio sapientemente organizzato da un gruppo di giuristi per dare avvio allo smantellamento della legislazione fascista. Perché allora era in gioco non soltanto la costituzionalità di quell’articolo 113, che certo limitava la libertà di opinione. Ma era in gioco una questione molto più importante, ossia la facoltà della Consulta di giudicare le leggi varate del regime di Mussolini.

E fu quella prima storica sentenza — su richiesta di Caponnetto — a dare inizio alla demolizione dell’impalcatura giuridica del fascismo.La Consulta e la vita degli italiani. Basterebbe il principio della storia per illuminare il rapporto profondo tra la Corte e i diritti dei cittadini nei campi più diversi dell’esistenza, nelle relazioni sentimentali come nella fecondazione assistita, nel sostegno ai disabili e negli assegni di invalidità riconosciuti anche agli immigrati, nelle abitudini quotidiane che riguardano l’autovelox o la casa. Le sentenze di questi ultimi quattro decenni hanno anticipato o assecondato i movimenti della società italiana, talvolta svolgendo un ruolo di supplenza rispetto al legislatore. Però questo fondamentale ruolo pubblico viene largamente ignorato.

Da queste premesse è partito Giuliano Amato per promuovere un incontro con Mario Calabresi, Luciano Fontana e Alessandro Barbano — direttori di Repubblica, Corriere della Sera e Mattino — insieme alla presidente della Rai Monica Maggioni. Come fare per comunicare di più e meglio con l’opinione pubblica? Dai direttori dei quotidiani è arrivato un suggerimento: per far crescere la percezione della Corte sono necessarie chiarezza, trasparenza e tempestività. «Potrebbe essere utile l’analogia con la Corte suprema americana », ha suggerito Mario Calabresi. «Pur nella diversità del ruolo, i pronunciamenti delle due corti investono direttamente la vita dei cittadini. Negli Stati Uniti le decisioni vengono precedute da un dibattito tra giuristi e studiosi che crea una grande aspettativa. E il calendario degli appuntamenti decisivi viene pubblicizzato con cura.

Da noi si fa più fatica a stare dietro alle sentenze: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi di chiusura del giornale. E l’eccesso di tecnicalità non aiuta: la corte dovrebbe avere la pazienza di spiegare in tre punti chiari la sostanza dei propri pronunciamenti». Luciano Fontana insiste sulla trasparenza dei meccanismi di decisione: «Sarebbe importante conoscere le varie posizioni e anche le ragioni dei dissenzienti».

L’altro grande tema che attraversa la discussione è il rapporto tra Corte Costituzionale e politica, avendo spesso la Consulta esercitato “un ruolo di correzione “ rispetto al legislatore carente. L’elenco delle sentenze anticipatrici è sterminato, molte riguardano i diritti delle donne e degli omosessuali. Alcune vengono ricordate dalla Maggioni, dal riconoscimento della «natura discriminatoria della punizione del solo adulterio femminile» (1968) alla «illegittimità della sanzione penale prevista per il medico che procura aborto a una donna consenziente» (1975).

Risalgono agli anni Ottanta le sentenze sui diritti dei conviventi, di fatto equiparati a quelli dei coniugi. Ed è stata sempre la Corte nel 2010 a riconoscere alle unioni gay «il diritto di vivere una condizione di coppia, con connessi diritti e doveri» (ma non il matrimonio). E infine la legge 40 sulla fecondazione assistita: la Consulta ne ha eliminato le misure più restrittive, aprendo all’eterologa e sopprimendo il limite di tre embrioni. «È questo un caso in cui non c’è stata discussione», ha commentato Amato. «O, come avrebbe detto Crisafulli, la decisione era “a rime obbligate”». Nessun dubbio, in sostanza: come quella prima storica sentenza di sessant’anni fa.

La "deforma" della Costituzione di Matteo Renzi e dei suoi complici altolocati corona il sogno della peggiore destra democristiana della nostra storia. Twittare Avanti e marciare all'indietro, questo è il passo del renzismo.

Il manifesto, 24 aprile 2016
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).

Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).

Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.

Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».

L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.

La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.

Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.

Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.

La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.

C

ppello firmato anche da 11 ex presidenti della Corte costituzionale in vista del referendum di ottobre Nel mirino la pluralità di iter legislativi “con rischi di incertezze e conflitti”».

La Repubblica, 24 aprile 2016 (c.m.c.)

Cinquantasei giuristi hanno pubblicato un documento di critica alla riforma costituzionale in vista del referendum confermativo di ottobre, quello su cui Matteo Renzi ha deciso di giocarsi la permanenza a Palazzo Chigi. «Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo - scrivono i firmatari, tra cui costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Antonio Baldassarre, Lorenza Carlassare, Ugo De Siervo -. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto in una potenziale fonte di nuove disfunzioni e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione».

MAGGIORANZA ONDEGGIANTE
La prima preoccupazione riguarda il modo con cui la riforma è stata approvata, «da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche». Un timore aggravato dal fatto che l’approvazione del referendum è diventata dirimente per la permanenza in carica del governo. «La Costituzione, e così la sua riforma - si legge nel documento - sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso».

SENATO DEBOLE
Secondo i firmatari l’obiettivo, «largamente condivisibile », di superare il bicameralismo perfetto è stato perseguito «in modo incoerente e sbagliato». Così, dare alla sola Camera la possibilità di votare la fiducia al governo e creare un Senato di 100 eletti (consiglieri regionali e sindaci oltre ai 5 scelti dal capo dello Stato) altererebbe gli equilibri creando una seconda Camera debole, che non ha «poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni».

RISCHIO DI CONFLITTI
I molti procedimenti legislativi differenziati, a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, daranno vita - per chi ha steso il documento - a incertezze e conflitti.

REGIONI MENO AUTONOME
Alle Regioni, dicono i 56 giuristi, verrebbe tolto «quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali)».

COSTI DELLA RAPPRESENTANZA
«Il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche - si legge nel testo - ma di equilibrio fra organi diversi e di potenziamento delle rappresentanze elettive ». Vengono perciò criticate l’abolizione delle province (sarebbe stata meglio una razionalizzazione) e del Cnel.

Il documento si conclude ricordando alcuni lati positivi, come la restrizione della possibilità del governo di emanare decreti legge e i tempi certi per alcuni progetti legislativi. Esprime però un’ultima preoccupazione: un referendum confermativo con un solo quesito, sì o no. Secondo i firmatari, dovrebbero invece esserci più domande sui grandi temi della riforma.

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