Il manifesto, 5 ottobre 2016 (p.d.)
Intorno al voto referendario crescono non gli argomenti, ma il rumore. Ora, per la riforma dell’Italicum: si modifica, e come? C’è una proposta Pd, e quale? Ma alla fine Renzi che vuole davvero?
Il cardine del sistema elettorale nel Renzi-pensiero è dato dal primo turno con soglia seguito da un ballottaggio senza soglia, con 340 seggi garantiti da un mega-premio di maggioranza. Solo questo può dare in un sistema ormai tripolare i numeri parlamentari truccati che realizzano il mantra renziano di sapere chi governa la sera del voto. Tutto il resto è contorno, dal premio alle coalizioni alla preferenza per i capilista.
Elementi rilevanti ma non decisivi, perché una accorta gestione delle candidature può comunque assicurare al premier una truppa di pretoriani fedeli. Dubito che Renzi intenda rinunciare agli strumenti veri del suo potere personale.
In ogni caso, la legge Renzi-Boschi impone di per sé il No nel referendum. La correzione dell’Italicum, che è solo una aggravante, non muterebbe il giudizio. Il premier ha propinato alla democrazia italiana due pillole al cianuro: riforma costituzionale e Italicum. Ciascuna basta a uccidere il paziente. E dunque bisogna rifiutare entrambe.
Il Sì cede nei sondaggi ma prima ancora negli argomenti portati nei dibattiti, a partire da quello dei risparmi. Renzi insiste sulla favola dei 500 milioni, ma il silenzio cala in platea quando si legge il documento della Ragioneria dello stato che certifica il risparmio per il senato a meno di 49 milioni all’anno, rendendo vera l’immagine di un diritto di voto scippato ai 50 milioni di elettrici e elettori italiani per un risparmio equivalente di meno di un caffè all’anno a testa. Il senato sopravvive, si taglia il diritto di votare i senatori. Il silenzio è poi tombale quando ancora si legge che non c’è risparmio quantificabile dalla cancellazione delle province in Costituzione, o dalla limitazione degli emolumenti per i consiglieri regionali. Mentre sopprimere il Cnel vale meno di nove milioni all’anno. Alla fine, con i suoi 500 milioni Renzi è il venditore di auto usate che vuole far passare un catorcio per una Ferrari.
Ma, si dice, abbiamo una camera delle regioni, in stile Bundesrat tedesco. È falso. Nel Bundesrat i governi dei Lander partecipano direttamente ai processi decisionali attraverso rappresentanti assoggettati a vincolo di mandato. Mentre nel nostro senato a mezzo servizio arriverebbero per ogni regione pochi consiglieri regionali e un sindaco, legati ai piccoli segmenti di territorio nei quali sono stati eletti, liberi di votare come vogliono. Una camera di frantumazione, di egoismi territoriali, di inciuci. Alla fine, il senato futuro somiglia non al Bundesrat tedesco, ma alla camera alta austriaca, che nell’opinione comune è un fallimento. L’affermazione che la riforma non rafforza il premier si colpisce ricordando il controllo del governo sull’agenda e i lavori parlamentari, con il voto a data certa. Che non sia toccata la parte I della Costituzione si nega perché i diritti in essa garantiti vanno attuati dal legislatore e dalle maggioranze di governo, e dunque l’architettura dei poteri è essenziale. La celebrata semplificazione si distrugge leggendo in parallelo gli artticoli 70 e 72 nella versione vigente e in quella riformata. Cede anche l’argomento della partecipazione democratica, di fronte a firme triplicate per la proposta di legge di iniziativa popolare, e referendum propositivi e di indirizzo rinviati a data futura e del tutto incerta. Mentre è indiscutibile e immediata la ri-centralizzazione nel riparto di competenze stato-regioni.
Alla fine di ogni dibattito rimane al Sì un solo argomento: non c’è alternativa. È lo scenario fine del mondo, disegnato dallo stesso Renzi e sollecitamente assunto da J.P.Morgan, Fitch, Confindustria, Marchionne, multinazionali e tutti i poteri forti dell’economia e della finanza, certo non per caso schierati con lui.
Ma per nessuna ragione si scambia una Costituzione – che può durare generazioni – con un governo in carica, destinato a fare le valigie in un tempo comunque breve. Se fosse uno statista, lo stesso Renzi ripulirebbe il campo da ogni gramigna politica e personale. Ma le sue aspirazioni non vanno oltre l’essere uomo di governo. Il più a lungo possibile.
Consigli a Matteo Renzi (il cui potere del resto il fondatore del quotidiano e il suo gruppo hanno contribuito a costruire) e un affettuoso buffetto a Zagrebelsky, perché non sa abbaiare come Renzi. E idee discutibili su democrazia e oligarchia. La Repubblica, 2 ottobre 2016
FORSE i miei venticinque lettori, come diceva l’autore dei Promessi sposi, si stupiranno se, avendo visto alla televisione de La7 il dibattito tra Renzi e Zagrebelsky, comincio dalle nostre rispettive età: Renzi ha 41 anni, Zagrebelsky 73 ed io 93. Sono il più vecchio, il che non sempre è un vantaggio salvo su un punto: molte delle questioni e dei personaggi dei quali hanno parlato io li ho conosciuti personalmente e ho anche letto e meditato e scritto sulle visioni politiche dei grandi classici.
Nel dibattito l’accusa principale più volte ripetuta da Zagrebelsky a Renzi è l’oligarchia verso la quale tende la politica renziana. L’oligarchia sarebbe l’anticipazione dell’autoritarismo e l’opposto della democrazia rappresentata dal Parlamento che a sua volta rappresenta tutti i cittadini elettori.
Conosco bene Gustavo e c’è tra noi un sentimento di amicizia che non ho con Renzi e, mi dispiace doverlo dire, a mio avviso il dibattito si è concluso con un 2-0 in favore di Renzi ed eccone le ragioni.
Il primo errore riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum. Pessimo sistema è la democrazia diretta. La voleva un tempo Marco Pannella, oggi la vorrebbero i 5 Stelle di Beppe Grillo. Non penso affatto che la voglia Zagrebelsky il quale però detesta l’oligarchia. Forse non sa bene che cosa significa e come si è manifestata nel passato prossimo ed anche in quello remoto.
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A me il Renzi europeista piace. Facendolo sul serio si è anche conquistato un ruolo che prima di lui e molto più di lui si erano conquistati De Gasperi, Ciampi, Prodi e Draghi che però il ruolo, che sorpassa tutti gli altri, non l’ha ottenuto in quanto italiano e in rappresentanza dell’Italia, ma come banchiere centrale eletto da tutta l’Europa perché primo tra i primi, nonostante il parere della Bundesbank.
Per criticare il Renzi europeista molti sostengono che quel ruolo lui l’ha usato per fare colpo sugli italiani per ottenere più facilmente il loro consenso elettorale. Sbagliato: il popolo che vota se ne infischia del ruolo del suo partito in Europa. Semmai può interessarlo il nazionalismo. E visto che siamo in argomento aggiungo che non mi stupisce affatto la richiesta di Renzi di esser votato anche dal centrodestra, essendo lui il capo d’un partito di centrosinistra. Ma chi chiede voti a destra deve essere realmente di sinistra. Se invece si è collocato al centro, come di fatto è da tempo avvenuto, sarà la destra a chiedere i suoi voti e non viceversa.
La conclusione su questo punto è che lui voleva ritornare a quello che fu il programma di Veltroni quando, eletto segretario del Pd, descrisse le idee del partito al Lingotto di Torino e alle elezioni di pochi mesi dopo ottenne il 34 per cento dei voti, più i 4 di Di Pietro suo alleato.
Veltroni presentò il Pd come il partito che doveva ricostruire l’Italia su basi socialmente, economicamente e politicamente riformatrici per un paese da modernizzare. Renzi si presentò come rottamatore e non fu una presentazione felice. La rottamazione avviene in modo naturale se si modernizza un paese, ma non per ragioni anagrafiche. Infatti quella parola ormai Renzi non la usa più. Se ha fatto un dibattito con un anziano costituzionalista che ha trattato con grande rispetto, questa è stata una buona svolta. Comunque, chieda pure i voti al centrodestra, ma accentui le caratteristiche di sinistra democratica del suo partito. Una sinistra moderna, questo sì. Che si imponga non solo in Italia ma in tutta l’Europa. La modernità, l’ha detto più volte Mario Draghi, consiste nell’aumentare la produttività, puntare verso l’Europa unita, risanare un sistema bancario alquanto indebolito, creare un bilancio sovrano europeo e un Tesoro unico in grado di emettere buoni del Tesoro europei sul mercato. Su alcuni di questi elementi Renzi è d’accordo ma non lo è sulla politica economica che pure rappresenta il punto centrale. La sua politica economica si basa soprattutto sulle mance, a volte benfatte, più spesso malfatte ed elettoralistiche. E per finanziarle non fa che chiedere flessibilità all’Europa.
Ebbene, non si fa così la politica fiscale, specie quando si ha una tecnologia che rende assai più facile individuare il lavoro nero e l’evasione. Il reddito nero e l’evasione ammontano a centinaia di miliardi di euro. Ma quello che stiamo ottenendo da queste operazioni ammonta a stento a 50-60 milioni all’anno. Cioè niente.
Non parliamo del problema spese e tasse. In teoria dovremmo aumentare le prime e diminuire le seconde. Nei fatti avviene l’inverso: si aumentano le tasse e si diminuiscono le spese, oppure restano ferme tutte e due ed è ferma anche l’economia del paese, salvo la flessibilità e il costante aumento del debito pubblico.
La vera ed unica soluzione è un taglio massiccio del cuneo fiscale. Ne ho già parlato su queste pagine ma nessuna risposta c’è stata, sicché ne riparlo ancora.
L’ammontare dei contributi che imprese e lavoratori versano all’Inps ammonta a 300 miliardi dei quali i datori di lavoro versano all’incirca il 21 per cento e i lavoratori il 9. L’ipotesi da me suggerita è un taglio di 30 punti, pari a 90 miliardi. L’Inps naturalmente dovrebbe continuare a fornire i servizi previsti, ma le sue entrate avendo subìto questo taglio massiccio dovrebbero essere finanziate dallo Stato il quale a sua volta dovrà fiscalizzare l’importo con una tassazione moderata dei redditi a cominciare da quelli che superano i 120mila euro e aumentando a misura dei redditi più elevati. Per un certo aspetto si tratta d’una imposta sul patrimonio, ma l’aspetto più rilevante riguarda l’aumento della domanda e quindi dei consumi da parte dei lavoratori e dell’offerta da parte delle imprese, indotte a questo comportamento che non avviene una tantum e quindi mette in moto i motori di una politica progressista.
Misure del genere in realtà andrebbero prese anche dai paesi europei alcuni dei quali non hanno mai adottato queste soluzioni. Va detto però che in molti paesi i servizi pubblici vengono forniti direttamente dallo Stato e quindi la fiscalizzazione è già in corso.
Gentile presidente del Consiglio, vorrei conoscere che cosa lei pensa di questa proposta. L’ideale sarebbe che lei la mettesse in moto subito ottenendone al più presto le conseguenze positive.
A tre precise domande di Salvatore Settis l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, replica ( non "risponde") con paroe che rivelano la statura dei complici di Matteo Renzusconi .
La Repubblica, 4 ottobre 2016
LA RIFORMA RICALCA
QUELLA DI BERLUSCONI
di Salvatore Settis
«Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale di Pisa e editorialista di Repubblica, autore del libro Costituzione!(Einaudi, 2016) ci ha inviato una lettera aperta al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha accettato di rispondergliı
ILLUSTRE Senatore Napolitano, ho la più grande considerazione per la Sua cultura politica e per la Sua figura, tra le poche di questi decenni che resteranno nella storia d’Italia. È proprio per questo che mi permetto di rivolgerLe rispettosamente tre domande a proposito della proposta governativa di modifica della Costituzione, sulla quale il popolo italiano si esprimerà in un referendum convocato secondo l’art. 138 della Carta.
Primo punto: la riforma che Lei oggi sostiene, e che ha sostenuto già da Capo dello Stato (al punto che il presidente del Consiglio l’ha definita “riforma Napolitano”), coincide in alcuni punti essenziali con la riforma Berlusconi-Bossi che Lei vigorosamente osteggiò con memorabili interventi, e che 16 milioni di italiani bocciarono nel referendum popolare del 2006. Analogo è il rafforzamento dell’esecutivo, in ambo i casi presentato come finalità delle modifiche. Assai simile è la metamorfosi del Senato (“federale” nel 2006, “delle autonomie” nel 2016), che in ambo i casi non esprime la fiducia al governo. Quasi identico al precedente del 2006, in questo nuovo tentativo di riforma, è il “bicameralismo imperfetto”, secondo cui ogni legge approvata dalla Camera dev’essere trasmessa al Senato, che può chiedere di riesaminarla, e deve comunque esprimersi sempre su numerose materie (artt. 55, 70, 72), nonché su tutte quelle che comportino «funzioni di raccordo» con le Regioni, i Comuni o l’Europa (art. 55). Quel che Lei, in un intervento al Senato del 15 novembre 2005, chiamò «una soluzione priva di ogni razionalità del problema del Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia del procedimento legislativo» appare insomma assai vicino a quel che 56 costituzionalisti (tra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale) hanno denunciato, nella riforma 2016, come «una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, con rischi di incertezze e di conflitti». Di fronte a tali e tante affinità fra i due progetti di riforma costituzionale, e dato il Suo notevolissimo percorso attraverso le istituzioni, è naturale chiederLe: che cosa è cambiato in questi 10 anni perché Lei mutasse così radicalmente la Sua posizione?
Secondo punto. La proposta di riforma contiene alcune singolarità e incoerenze, fra le quali una che La riguarda anche personalmente, in quanto Presidente emerito. La riforma innova sull’elezione del Capo dello Stato, prevedendo che dal settimo scrutinio in poi bastino «i tre quinti dei votanti», cioè 220 voti sul quorum minimo di 366 (art. 64). Inoltre, secondo la Costituzione vigente (art. 67) «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». La riforma Renzi-Boschi conserva tale funzione ai membri della Camera (art. 55), ma la toglie ai senatori, poiché (dice la relazione illustrativa) «il mandato dei membri del Senato è espressamente connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale », e perciò i senatori sono «rappresentativi delle istituzioni territoriali» (art. 57). Ma chi è stato Presidente della Repubblica, anche secondo la nuova proposta, è senatore a vita. Mi permetto perciò di chiederLe: che senso ha che Lei diventi, a norma della nuova Costituzione se approvata, rappresentante non della Nazione ma di Regioni e Comuni? Un’elezione del Presidente ad opera dei tre quinti non dell’assemblea ma dei votanti non ne inficia il ruolo di garanzia super partes? In che modo una tal riforma contribuirebbe alla dignità e autorevolezza del Capo dello Stato?
Infine: mentre Lei era ancora in carica come Presidente, un accreditato commentatore politico, Marzio Breda, scriveva sul Corriere della sera (1 aprile 2014) un articolo dal titolo “Da Napolitano un segnale sul percorso delle riforme”. In esso, citando una nota del Quirinale, Breda scrive che «la riforma per lui [il Capo dello Stato] è importante, anzi improrogabile», e va «associata alla legge elettorale ». E prosegue: «A questo proposito, basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J. P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella “debolezza dei governi rispetto al Parlamento” e nelle “proteste contro ogni cambiamento” alcuni vizi congeniti del sistema italiano». Ora, il rapporto a cui si fa qui riferimento accusa le Costituzioni dei «Paesi della periferia meridionale, approvate dopo la caduta del fascismo », di avere «caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica» perché risentono di «una forte influenza socialista» e sono «ancora determinate dalla reazione alla caduta delle dittature ». Il documento auspica che tali Costituzioni vengano prontamente modificate, e cita l’Italia come «test essenziale» in tal senso. Ma J.P. Morgan è la banca d’affari che sei mesi dopo questo rapporto dovette pagare una multa di 13 miliardi di dollari per aver venduto agli investitori prodotti finanziari pesantemente inquinati, contribuendo in modo determinante alla crisi finanziaria globale del 2008 ( Washington Post, 19 novembre 2013). La domanda è dunque: citando il rapporto J.P. Morgan in appoggio al Suo «segnale sul percorso delle riforme» Breda ha forzato la mano? Quell’analisi della banca americana può valere, come alcuni vorrebbero, come un argomento per riformare la Costituzione?
Ora che è finalmente certa la data del referendum, è urgente sviluppare la discussione sul merito della riforma e sulle sue ragioni. Una Sua autorevole risposta a queste poche domande sarebbe, io lo spero, un importante contributo in questa direzione.
I CONFINI DEL PREMIER
NON SONO DILATATI
di Giorgio Napolitano
Caro Professore, la ringrazio naturalmente per i generosi riconoscimenti rivolti alla mia persona già all’inizio della lettera: riconoscimenti peraltro introduttivi a domande insinuanti e ad aspre quanto infondate considerazioni relative al mio atteggiamento sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento.
Premetto che escludo di poter rispondere giornalisticamente su questa materia a questioni o osservazioni di singole personalità. Lo faccio qui brevemente, ed eccezionalmente, per cortesia verso il Direttore de La Repubblica.
Ma in generale, rinvio chiunque a quanto in materia ho detto e mi riservo di dire pubblicamente, rivolgendomi alla generalità degli interessati al confronto referendario in atto.
Ribadisco qui solo che non ho mai “mutato radicalmente” la posizione che assunsi sulla “riforma Berlusconi- Bossi”: della quale d’altronde non potetti nemmeno occuparmi ampiamente, o “vigorosamente”, in quanto entrai in Senato, chiamatovi come Senatore a Vita dal Presidente Ciampi, appena in tempo per pronunciare un sintetico intervento alla fine della discussione e alla vigilia del voto finale, il 15 novembre 2005. Una lettura non unilaterale e strumentale di quel mio testo mostra chiaramente che considerai essenzialmente come “inaccettabile”, di quella legge di riforma, il “voler dilatare in modo abnorme i poteri del primo ministro”, con un evidente “indebolimento dell’istituto supremo di garanzia, la Presidenza della Repubblica”. Del che non vi è traccia nella riforma attuale.
Diversi punti poi toccati dalla sua lettera, e sollevati da altri, hanno già ricevuto puntuali risposte da parlamentari autorevoli che sono stati gli effettivi protagonisti della definizione della legge, articolo per articolo, su cui il Parlamento si è espresso a larga maggioranza anche in Senato. Lei ne ha certamente preso nota, studiando e citando anche qualche fonte non italiana.
In quanto a me non sono, com’è ovvio, come Senatore di Diritto e a Vita, rappresentante elettivo della nazione, ma mi sentirò pienamente a mio agio anche nel nuovo Senato grazie a titoli di rappresentanza che mi sono stati conferiti con l’elezione a Presidente della Repubblica e con il successivo status attribuitomi dall’art. 59 della Costituzione.
Infine, per quanto mi riguarda, più in generale ho esposto organicamente le mie posizioni e i miei argomenti di carattere storico-istituzionale nell’ampio intervento in discussione generale alla I Commissione del Senato il 15 luglio 2015 (e nella dichiarazione di voto resa in Aula il 13 ottobre 2015). Sono certo che lei — nella lodevole grande attenzione che ha riservato a queste questioni, pur lontane dal campo di ricerca e di insegnamento in cui ha saputo eccellere — abbia letto attentamente il testo di entrambi quei miei interventi, peraltro facilmente a tutti accessibile. Per ausilio pratico, gliene invio comunque copia.
Le parole di un erede autentico del PCI: «Il Parlamento funziona male? Sì, ma solo il Parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo “ricchi e poveri, borghesi e proletari”. Non è la privativa di nessuno. Solo una vittoria del NO può consentire di riaprire il discorso sul futuro dell’Italia».
L'Unità, 30 settembre 2016
Ho molto esitato prima di decidere che tra due mali (quali sono come dirò i quesiti del referendum Costituzionale) credo che sceglierò quello che mi pare – dopotutto – il minore: il No. Mi rendo conto benissimo degli interrogativi che anche questa scelta apre.
Ma di che cosa stiamo parlando? Del Senato? Suvvia, è l’ininterrotto parlare, annunciare, promettere “rottamare” dello stesso Matteo Renzi che ci dice la verità. È su di lui che egli ci chiede ogni giorno più chiaramente di votare. Egli chiede un plebiscito. Non è chiaro? Questo è il punto, gravido di enormi conseguenze. Ed è questo che avverrà il 4 dicembre tra lo stupore e disappunto di tanti autorevoli custodi della Costituzione repubblicana.
Avverrà che milioni di italiani si scontreranno in modo lacerante e drammatico non sui buoni argomenti di Violante oppure su quelli di Rodotà (che essi ignorano) ma sul voto popolare e diretto del Capo del governo. Ponendo fine, così di fatto al regime parlamentare e all’attuale divisione dei poteri. E temo che un solco resterà e tutta la comunità nazionale già così divisa ne pagherà le conseguenze.
A me questo non sta bene. È chiaro?
Io ho preso le armi per dare all’Italia un Parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più “avanzato” nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il PCI vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il Parlamento funziona male? Sì, ma solo il Parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo “ricchi e poveri, borghesi e proletari”. Non è la privativa di nessuno.
Di conseguenza ma c’è una preoccupazione altrettanto grande che domina i miei pensieri. È l’idea perfino angosciosa (che mai avevo avvertito così forte) che il destino dell’Italia, dell’Italia come comunità nazionale e come organismo statale rischia di non essere più nelle nostre mani. Basta un accenno ai fatti: la disgregazione in atto dell’unità europea, le guerre feroci che insanguinano le coste del Mediterraneo, la massa degli emigranti che preme sulle nostre coste; tutto ciò insieme alla sensazione che la grande scommessa di rilanciare lo sviluppo italiano bloccato da più di 20 anni (e certo non per colpe solo di Renzi) quella scommessa che Renzi si era illuso di vincere con la straordinaria energia del renzismo (un uomo solo al comando, chi non sta con me è contro di me, lo svuotamento del partito dei sindacati degli organismi sociali intermedi) mi pare fallita.
Siamo arrivati a un punto di svolta. Il problema non è tecnico-economico. È altamente, più che istituzionale, politico. Riemerge la sostanza storica del problema italiano. Tutti comunicano tra loro ma nessuno conta davvero, aumentano i disoccupati e meno del 50% degli italiani ha un lavoro. Di qui la necessità di porre su basi politiche, sociali e morali più ampie lo sviluppo del paese. È solo così che nel passato siamo usciti dalle crisi più gravi: le svolte giolittiane e il riconoscimento dei sindacati, il patto con Turati, l’ide a dell’Ulivo e l’accordo sulla scala mobile tra Ciampi e Trentin, per non parlare dell’unità nazionale del dopoguerra e la ricostruzione. Come non si capisce che questo è il problema principale? Di fronte a un paese che invecchia, non fa figli, non da più lavoro in patria alla nuova generazione? Non illudetevi amici che il problema è chi comanda. È invece con chi si comanda. Con o senza il proprio popolo. Popolo dico. Popolo vero, non opinione pubblica; sono due cose diverse.
Ecco perché considero disastroso questo referendum plebiscito. E contro il bisogno di una svolta in senso più comunitario e di ricostruire il patto tra gli italiani del Nord e del Sud. Ecco perché sono arrivato alla conclusione che solo una vittoria del NO può consentire di riaprire il discorso sul futuro dell’Italia. Il problema non è Renzi, un uomo che resta per me assai notevole e un amico. Egli può benissimo continuare a governare. È la partecipazione del popolo italiano, alla vita pubblica, che è ormai quasi inesistente. È il nostro modo di stare insieme. È il partito ridotto a puro servizio del Capo, tramite Serracchiani che non funziona.
Queste cose vanno dette anche alla sinistra. La quale deve ritrovare il senso vero della sua missione, che è quello di ridare voce al popolo italiano. Mi hanno commosso le facce di quel popolo meraviglioso che è apparso sugli schermi delle televisioni tra le macerie del terremoto. Perfino commovente nella sua forza d’animo, nel sentimento di sé e della sua terra, nel suo slancio solidale.
Qui sta la leva per l’innovazione. Sta nella straordinaria creatività del popolo italiano.
, con postilla (m.c.g.)
Roma, 14 settembre 2016
Oggetto: Udienza pubblica del 20 settembre 2016. Internazionalizzazione (inglesizzazione) di atenei e scuole italiane.
Illustre Presidente, illustre Relatore,
illustri Giudici della Corte Costituzionale,
non entreremo giuridicamente nel merito del perché e del come, la cosiddetta internazionalizzazione” si attui nazionalizzando in inglese l’istruzione in italiano della Repubblica, partendo dall’alta formazione per proseguire verso il basso distruggendola in radice, né entreremo nel merito della questione di legittimità costituzionale dei provvedimenti adottati dal Politecnico di Milano in relazione all’art. 2, comma 2, lett. l) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, nella parte di cui in motivazione, in riferimento agli articoli 3, 6, e 33 della Costituzione, come recita il dispositivo del Consiglio di Stato.
È però nostro compito di Partito, attento da sempre ai diritti delle minoranze, allarmarci per quanto sta succedendo, addirittura, ad un popolo sovrano, qual è quello italiano, che vede sempre più lesi i propri diritti linguistici in Italia, e non difesi in Europa, dove la Commissione consulta la popolazione europea quasi esclusivamente in inglese persino su argomenti, come quelli dell’immigrazione, che coinvolgono massicciamente la popolazione italiana.
Umberto Eco in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia in Quirinale ebbe a dire che “Un dialetto è una lingua a cui è mancata l’università, e cioè la pratica della ricerca e della discussione scientifica e filosofica”, ne consegue che governi, ministri, parlamentari, rettori, docenti, e chiunque altro tolga spazio allo studio in italiano di qualsivoglia materia nell’università, vuole la dialettizzazione della lingua italiana. Svolge un’azione sovversiva tesa alla perdita di sovranità linguistica dell’Italia per consegnarla in mano straniera. Oggi persino extracomunitaria, in quanto con la Brexit, esce anche l’inglese (notificato all’UE dal solo Regno Unito quale lingua ufficiale), dalle lingue comunitarie. Entra così in cortocircuito anche il sistema della lingua straniera in Italia che ha assegnato all’inglese il ruolo di prima lingua tra le 4 maggiori dell’Unione.
Quanto sta accadendo va sotto il nome di Imperialismo delle Menti, dicitura coniata da Churchill nel 1943 quale prefigurazione di quelli che avrebbero dovuto essere gli Imperi del futuro con, al centro dell’azione distruttrice, la lingua degli altri popoli, in quanto «Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento». Ed oggi le forze, materiali ed ideologiche, alle spalle dell’inglese sono così forti che il suo ruolo egemonico è stato interiorizzato. L’inglese tende ad essere promosso nel mondo come se fosse apolitico, e se non servisse interessi speciali. Gli usi e le forme dell’inglese ricevono perciò un contributo all’occupazione globale delle menti con modalità che verosimilmente sono al servizio degli scopi del controllo aziendale e dell’intimidazione, cooptazione e coercizione, perpetuando l’imperialismo linguistico-culturale. Là dove vogliamo che gli essere umani non debbano essere dominati dalle cose, e che la subordinazione di alcune persone ad altre cessi per sempre.
Al Politecnico di Milano nell’anno accademico 2014/15, su 39 corsi di laurea magistrale, 33 sono in inglese e solo 6 in italiano ma, questi ultimi, non resisteranno a lungo perché, persino chi opera con la doppia lingua italiano/inglese, viene penalizzato dal Rettore, il quale eroga 90.000 euro solo per i corsi di studio che scelgono l’ordinamento della laurea magistrale esclusivamente in inglese. Opera di corruzione vera e propria tesa ad espropriare la lingua e la cultura italiana alla Repubblica. Così, anziché arricchire la cultura italiana, partecipare e nutrire il dibattito pubblico, si crea una roccaforte d’intellettuali inglesizzati che non hanno nessun tipo di relazione con il paese dove l’università opera, che sono pagati coi soldi dei contribuenti italiani, ma che non ricambiano il salario con un lavoro intellettuale accessibile a tutti gli italiani.
Le università divengono, di fatto, enclave straniere in Italia, dalle quali escono studenti non più mentalmente italiani, incapaci di pensare scienza e tecnica in italiano, di fatto “agenti” stranieri promotori, a loro volta, d’impoverimento occupazionale italiano e arricchimento straniero o trasformazione anglofona delle imprese italiane, di emarginazione del resto della popolazione italofona.
Si pensi ancora al caso del PoliMi, con circa 12.800 iscritti alle lauree magistrali, ipotizzando una media di 14 esami nel biennio per corso di laurea, un solo libro di 25 € per esame, l’84% degli iscritti ai 33 corsi di laurea solo in inglese, la per dita biennale per la sola editoria scientifica italiana ed, evidentemente di tutto il sistema occupazionale di settore e di filiera, è di circa 125.086.500 Euro (25x14x33x10830). poi da prevedere una futura classe di laureati magistrali docenti nei licei scientifici e tecnologici che insegneranno termini scientifici e tecnici inglesi, innescando un meccanismo perverso che distruggerà per sempre il lessico tecnico-scientifico in lingua italiana.
Basta aggiungere questa cifra alle altre risultanti dai vari corsi solo in inglese delle molteplici università italiane, delle scuole secondarie, delle materie insegnate solo in inglese col metodo CLIL e, sotto i nostri occhi, l’accecante evidenza è che, attraverso l’istruzione, si sta perpetrando il genocidio linguistico e culturale della Repubblica italiana.
Distinti ed ossequiosi saluti, Giorgio Pagano
Responsabile della campagna per la lingua comune della specie umana
Una delibera del Senato Accademico del Politecnico di Milano del 21 maggio 2013, in nome dell’internazionalizzazione tanto ambìta dal Rettore Giovanni Azzone, rese l’inglese lingua obbligatoria per tutti i corsi di specializzazione e per i dottorati. Un nutrito numero di docenti (circa 100), critici sul carattere esclusivo della decisione, fece ricorso al TAR Lombardia denunciando il fatto che la decisione del senato accademico violava il diritto costituzionale ad accedere a corsi universitari erogati nella lingua ufficiale della Repubblica italiana, garantito ai cittadini in ragione del principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Una sentenza del TAR diede sostanzialmente ragione ai ricorrenti (n. 1348/2013) provocando un contro-ricorso del Politecnico, e del ministero dell’Istruzione dell’epoca, che trasferirono la questione al Consiglio di Stato il quale, a sua volta, si appellò alla Corte Costituzionale: questi i fatti all’origine dell’udienza prevista per il 20 settembre 2016.
La lettera inviata dai Radicali, pur prendendone spunto e approfondendone criticamente gli esiti indesiderabili, travalica la questione avanzata dai docenti nei confronti delle autorità accademiche del Politecnico, e affronta problematiche, quali il rischio di “dialettizzazione” della lingua italiana e di “imperialismo delle menti”, che chiamano in causa la dimensione politica ed economica delle strategie dei poteri forti in ambito europeo (e globale) che dell’uso esclusivo dell’inglese si avvalgono non soltanto come forma di dominio culturale. Nella lettera si colgono altresì alcune affinità con le riflessioni critiche contro l’inglesizzazione e la discriminazione linguistica avanzate in seno al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli.
Nel frattempo il Rettore del Politecnico, in procinto di terminare il suo mandato - il cui indubbio merito è stato di suscitare un dibattito e una conflittualità vivacissimi all’interno di un corpo docente che sembrava ormai anestetizzato - si prepara a svolgere compiti strategici a livello nazionale. Giovanni Azzone infatti, già nominato nel marzo 2016 Presidente di AREXPO, la società (partecipata da Regione Lombardia, Comune di Milano e, dal febbraio 2016, dal Governo) che si occuperà della ‘valorizzazione’ dell’area exEXPO, è stato scelto da Matteo Renzi come project manager (eccolo di nuovo l’irritante e inutile anglicismo) di “Casa Italia”: il piano di prevenzione contro i terremoti allo studio del Governo dopo la ennesima tragedia che ha colpito Amatrice e i comuni limitrofi. Mai scelta fu più “inappropriata”. (m.c.g.)
Saggia prudenza dei custodi della Costituzione, o "aiutino" a chi vuole distruggerla in nome della "governabilità"? Ancora difficile comprenderlo. Il manifesto, 20 settembre 2016
Tanto tuonò che piovve. I rumors su un rinvio da parte della Corte costituzionale, e su contrasti nel merito, erano diventati insistenti. È ora ufficiale la notizia del rinvio dell’udienza del 4 ottobre, di cui non si conoscono al momento le motivazioni. È uno strappo non insignificante. Sarebbe fragile l’argomento di un’attesa per l’ultima ordinanza di Perugia, perché la Corte ben avrebbe potuto decidere su quanto è agli atti, e tornare poi sulla questione con sentenza o ordinanza. Ugualmente fragile sarebbe una motivazione fondata sull’attesa del referendum, dal momento che le questioni sollevate davanti alla Corte hanno a oggetto una legge formalmente non toccata dal voto. Nasce il sospetto che siano proprio i contrasti di merito che suggeriscono alla Corte di prendere tempo. O forse la consapevolezza che una riaffermazione anche parziale dei principi posti con la sentenza 1/2014 avrebbe di fatto inferto un colpo alla strategia referendaria del governo.
Vedremo se il rinvio sarà breve, e se la nuova data cadrà comunque prima del voto. In caso contrario, avremmo preferito, per la salute delle istituzioni e per la stessa Corte, che il rinvio non vi fosse. Il rinvio diventa un altro capitolo del romanzo referendario, che si arricchisce sempre più anche di personaggi stranieri più o meno autorevoli che offrono consigli e raccomandazioni agli italiani. L’ultimo è Weidmann, presidente della Banca centrale tedesca, e falco tra i falchi sui temi del bilancio e dell’austerity. Per lui, Draghi è un pericoloso guastatore, e Renzi una zecca fastidiosa. Ma Italicum e Jobs Act – e l’accostamento è di per sé suggestivo e preoccupante – sono la soluzione giusta per il nostro paese.
A Berlino troviamo conferma di un processo in atto da tempo. In Germania, come in Gran Bretagna, in Francia o in Spagna, partiti storici che hanno monopolizzato i consensi per decenni vedono progressivamente disgregarsi la propria base elettorale. Il bipolarismo si frantuma. Questo non è stato impedito da nessun sistema elettorale. I paesi citati hanno sistemi molto diversi, dal maggioritario
uninominale secco di collegio britannico al proporzionale misto della Germania, passando per il doppio turno francese e i microcollegi spagnoli. Per tutti la frantumazione del sistema politico si è verificata irresistibilmente, e non è stata impedita la nascita di partiti antagonisti o antisistema. Questo può certo condurre a giudizi politici negativi. Ma comunque ci insegna che nessun artificio elettorale o marchingegno istituzionale può impedire alla politica di prendere il sopravvento. Il paese reale, con le sue domande, i suoi bisogni, le sue pulsioni, le sue paure, alla fine viene fuori. Ne viene che una deriva politica che non piace si combatte con la politica, e non con gli algoritmi. È per questo che in nessuno dei paesi citati ci si inventa una legge elettorale pensata per mettere le brache al sistema politico. È quello che invece ha fatto Renzi, quando per ovviare al tramonto del bipolarismo italiano ha messo in campo un megapremio che dà ad una delle minoranze un surplus di seggi parlamentari tale da farne una maggioranza truffaldina, blindata e inattaccabile, e per di più al servizio del premier. Personalmente sono da tempo convinto che una cura di proporzionale sarebbe essenziale per restituire buona salute al sistema politico. È mai possibile che in Italia non esista più un’assemblea elettiva – una sola, dai municipi al parlamento – che esprima il paese com’è, senza artifici e distorsioni? E dovremmo prendere atto che l’ubriacatura del decisionismo non ha dato efficienza alla politica e alle istituzioni.
Maggiori è più difficili sono i problemi, più ampia deve essere la partecipazione democratica e la condivisione. La risposta non può mai trovarsi nel modello istituzionale autoreferenziale e oligarchico imposto da Renzi, e che i sostenitori pomposamente definiscono «democrazia decidente». È il modello che piace a Weidmann. Ma non è un caso che ai classici del costituzionalismo questa formula sia ignota, per l’ossimoro che fatalmente viene dal decidere restringendo la partecipazione. Suggeriamo a Weidmann di interrogarsi sul perché, a fronte del terremoto berlinese che segue a quello del Meclemburgo-Pomerania, non si proceda in Germania a copiare Renzi. E vogliamo aggiungere una parola per l’ambasciatore Usa, per il suo endorsement al governo e alle riforme. Forse l’ambasciatore non sa che negli Stati Uniti si è discusso per decenni della riforma del sistema elettorale presidenziale, che molti pensano sia un’elezione diretta ma che tale non è, posto che l’elezione in senso proprio ha luogo in un Collegio Elettorale che è un’invenzione di stampo settecentesco. Pensate alla felicità della Boschi se potesse dire che da oltre duecento anni si era in attesa di una riforma. Potremmo prestarla al paese amico, come si fa con le opere d’arte. Magari anche senza assicurazione.
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Il Fatto Quotidiano online, blog, 10 settembre 2016 (c.m.c.)
Occorre rovesciare una retorica un po’ stantia che si basa sul ragionamento elementare secondo cui cambiare significhi sempre migliorare. Il “nuovo” non soltanto non è necessariamente il “meglio”, ma non è neanche davvero e sempre “nuovo”.
Prendete la riforma costituzionale: si usa l’argomento del cambiamento come se ciò fosse sinonimo di miglioramento. E a chi (tra i sostenitori meno convinti) fa notare che neanche la riforma cosiddetta Boschi è perfetta, si risponde «Non sarà perfetta, ma intanto è un cambiamento».
Gli antichi Greci, padri della democrazia, o anche le colonie magnogreche, avevano orrore del cambiamento tanto da proteggere le leggi con un sistema di modifica che aveva chiarissima la gravità dell’atto: all’apposita commissione dei Nomoteti ad Atene spettava la decisione finale sulle proposte di nuove leggi; a Locri Epizefirî Zaleuco, estensore mitico delle leggi che governavano la città, aveva previsto la legge del laccio per la quale, secondo il racconto di Demostene, chiunque a Locri avesse voluto proporre una nuova legge, avrebbe dovuto farlo con un laccio intorno al collo. Qualora la proposta non fosse stata approvata, egli sarebbe morto soffocato. Stobeo conferma l’idea che la legge del laccio avesse lo scopo di preservare l’antico diritto e l’assetto costituzionale della colonia, affinché i fondatori della città non dovessero incorrere nuovamente nell’ingiustizia subita nella madrepatria, da cui erano stati scacciati.
Non si tratta di una tentazione passatista per un sistema lontano secoli e con enormi differenze rispetto a ciò che oggi chiamiamo “democrazia” (qualunque cosa voglia dire, dato che tale definizione spesso camuffa un governo degli ottimati o dei tecnocrati o della finanza). Si tratta solo di ribadire che “cambiare” di per sé è una parola vuota, e che i contenuti possono anche essere insoddisfacenti, o addirittura dannosi. E che “non cambiare”, invece, può voler dire cambiare molto.
Prendiamo ancora la riforma: se vince il “No” cambia tutto, se vince il “Sì” non cambia niente. Infatti con il “Sì” non cambia il ruolo invadente della politica e segnatamente del governo in tutti i gangli vitali della vita pubblica del paese: il tentativo di accentramento verticistico del potere decisionale imprimerà un’accelerazione al processo di esautoramento del pluralismo culturale e politico (processo che è già in uno stadio avanzato).
Se vince il “No” cambia tutto sul piano politico: persino un eventuale “Renzi bis” sarebbe costretto a rimettere in discussione l’ubriacatura oligarchica e decisionistica (che poi è quasi solo una retorica, una fola: decidere tutto per non decidere niente) in cui ci siamo cacciati iniziando – per stare alla cronaca, ma potremmo andare più indietro nel tempo – col Porcellum, che consentiva ai partiti di spadroneggiare sulla selezione della classe politica a discapito degli elettori, passando per la lettera di Trichet e Draghi su su fino ai governi dell’eccezione. Se vince il “Sì” tutto questo non cambia, anzi si consolida e cristallizza per sempre, dando corpo al vecchio sogno prima craxiano e poi berlusconiano di un premierato forte o del “semipresidenzialismo”, trasfigurati ormai però dall’ingerenza delle burocrazie europee e della finanza mondiale.
Se vince il “No”, l’incantesimo si spezza: nessuno, almeno per qualche anno, potrà farsi prendere dalla fregola di inseguire ancora il progetto di svuotamento della democrazia parlamentare. Se vince il “Sì”, l’idea di prendere sul serio la democrazia, di ridare parola ai cittadini, di garantire la rappresentanza, di equilibrare governo e parlamento per garantire a questo rappresentatività e pluralismo e a quello efficacia e velocità, subisce un colpo (forse) mortale. Se vince il “No” non cambia la lettera della Costituzione, ma cambia radicalmente il segno delle riforme chieste dai cittadini.
Del resto, il fatto che se la Carta non cambia può cambiare ugualmente molto è iscritto nella storia della vita della Costituzione stessa: per esempio il mutamento della legge elettorale ha prodotto, a lettera immutata, un tale scossone da far passare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Perché il “No” non significa “No e basta”. Il “No” significa «Si cambi, ma rispettando la costituzione e i cittadini».
Chi pensa che il No sia la scelta dell’immobilismo, sbaglia. Certo in qualcuno quella tentazione passatista ci sarà pure. Ma il “No” è la posizione della mobilitazione, del movimento, della richiesta di cambiamento e novità. Il “Sì” è conservatore, insegue un progetto vecchio.
«Tra sudditanza e cittadinanza attiva è chiara la differenza. La differenza la farà il voto per il NO alla riforma Renzi-Boschi con la consapevolezza che la Costituzione si potrà in futuro cambiare in meglio».
coordinamentodemocraziacostituzionale online, 5 settembre 2016 (c.m.c.)
Premessa
Conoscere per votare è il titolo di queste riflessioni. Un titolo che vuole parafrasare l’insegnamento di Einaudi a proposito del:“conoscere per deliberare”.
Quattro aspetti sono da tenere presente per una doverosa informazione che renda edotti i cittadini italiani sui seri e fondati motivi per votare No alla proposta governativa di riformare la costituzione.
1) Necessità di una informazione completa, testo alla mano, sui contenuti specifici della riforma che, per come hanno dimostrato autorevolissimi costituzionalisti in numerosi documenti e appelli, non è un cambiamento per migliorare, ma per peggiorare in modo pericoloso l’ordinamento costituzionale;
2) Necessità di informare i cittadini sull’intreccio tra riforma costituzionale e legge elettorale. Infatti entrambe le leggi sono state preordinate per trasformare i cittadini in sudditi di un ordinamento senza validi contropoteri, un ordinamento che sostanzialmente finirebbe per essere posto sotto l’egemonia di un uomo solo al comando;
3) Necessità di sottolineare il fatto che qualsiasi normativa, specialmente quella avente valore costituzionale, va valutata sia nei dettagli che nei significati dell’insieme del corpo normativo, atteso che ci sono effetti innumerevoli in conseguenza di un previsto cambiamento di oltre 40 articoli sui 139 che compongono la nostra Carta;
4) Necessità di evitare di personalizzare l’opposizione alla condotta del Capo del Governo per non mischiare gli aspetti del renzismo e dell’anti renzismo con i contenuti effettivi delle riforme le quali pregiudicano di per se stesse l’ordinamento democratico del nostro Paese, a prescindere dalle considerazioni riguardanti l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Quest’ultimo aspetto, ispirato al rispetto dovuto alle istituzioni e alle differenti opinioni dei cittadini, sta dimostrando una sorprendente sopraffazione in danno delle ragioni del no alla riforma. Ciò accade a causa del ruolo che stanno svolgendo i vertici governativi a favore di essi medesimi. Infatti il Governo non sta svolgendo un ruolo istituzionale nell’interesse di tutti i cittadini, ruolo che è un atto dovuto per assicurare un sereno confronto tra i contrari e i favorevoli alle riforme.
Tutti stiamo toccando con mano che c’è un impari scontro tra il gigante Golia e Davide. Golia è, ovviamente, il gigantesco apparato governativo mobilitato e impiegato per perpetuare, attraverso la riforma costituzionale e la legge elettorale, il renzismo e la sua idea dell’appropriazione dei palazzi del potere nel cui interno dovrebbe regnare il metodo del “comando” senza contropoteri.
L’appropriazione della RAI in senso monopolistico da parte del Governo, è la prova visibile e incontrovertibile della natura e del contenuto delle idee-guida e degli scopi del renzismo, che sono una visione politico-programmatica tutta concentrata sulla conquista e sull’uso proprietario del pubblico potere. La chiave di lettura delle riforme, quindi, diventa inevitabilmente l’esame del perché e del percome si vorrebbe cambiare, in senso peggiorativo, una consistente e significativa parte della Costituzione.
Le date da ricordare e i due appuntamenti dell’autunno 2016
Il renzismo ha raggiunto il risultato che si era posto, cioè l’occupazione del palazzo del Potere Esecutivo, nel Febbraio del 2014, dopo due mesi dalla Sentenza N. 1 del 13 Gennaio 2014 con la quale la Corte Costituzionale ha accertato e dichiarato che la legge elettorale denominata porcellum è incostituzionale.
Le date e le modalità con le quali ha conquistato Palazzo Chigi e le date in cui è partito il disegno di stravolgere la Costituzione sono fatti che non hanno bisogno di commenti: parlano da sole.
Con la sua azione di Governo il renzismo, senza alcun mandato popolare, si è impegnato in modo sconcertante per farsi una legge elettorale e una costituzione di comodo. Queste leggi hanno il prevalente scopo, dichiarato, di perpetuare il renzismo. Sono state fatte votare con atti di imperio, richiesta di fiducia, canguri e ricatti politici vari ad un Parlamento delegittimato politicamente in quanto eletto con una legge elettorale incostituzionale. La maggioranza governativa si è allargata via via raggiungendo un record di voltagabbana accorsi in aiuto del Governo.
Dall’estate del 2016 siamo sotto il bombardamento di una indescrivibile propaganda governativa a favore del “sì” nel prossimo referendum in cui necessita votare SÌ o NO ad una riforma che, di fatto, punta a dare legittimazione politica a scelte fatte da novelli costituenti sulla cui credibilità politica c’è molto, ma molto da discutere.
Ci sono due appuntamenti importanti nel prossimo autunno.
Uno in cui il popolo potrà riprendersi la sovranità nel referendum in cui la posta in gioco è il tentativo del Governo di farsi approvare una costituzione di comodo.
L’altro concerne il giudizio che si svolgerà il prossimo 4 ottobre 2016 innanzi alla Corte Costituzionale perché i sostenitori del NO hanno eccepito presso molti Tribunali, vizi di costituzionalità nella legge elettorale denominata “italicum” e imposta dal renzismo con la richiesta di fiducia.
La propaganda governativa, le televisioni e molti giornalisti non si soffermano su questo dettaglio, che non è di poco conto. Sta di fatto che molti cittadini italiani sono stati indotti a credere che questa udienza innanzi alla Corte faccia parte di una normale procedura. Non si mette in giusto risalto che questo giudizio è subito dal Governo. Ciò comporta, a prescindere dalle decisioni che dovesse adottare la Corte, una grave disinformazione in danno dei diritti all’informazione.
Il potere costituito che diventa potere costituente
È noto il “potere di attrazione” della funzione governativa. Non è caso di soffermarsi sulla fenomenologia del “fascino” e della capacità di persuasione di chi abbia in mano le leve del potere.
Costituzionalisti, politici e intellettuali di varie scuole di pensiero, hanno sostenuto e sostengono che ci sono pericoli per la democrazia qualora il Governo non faccia un passo indietro nelle occasioni in cui si debba legiferare in materia costituzionale. Del resto non è immaginabile che ogni governo si faccia una sua costituzione di comodo. Ecco perché si usa dire che non spetta al potere costituito trasformarsi in potere costituente.
Calamandrei disse chiaramente che quando in Parlamento si discute di Costituzione i banchi del Governo devono essere vuoti.
Tutti noi abbiamo visto, invece, che la votazione della riforma costituzionale, che porta il nome Renzi-Boschi, è stata approvata con i banchi del Governo pieni di ministri e con i banchi dell’opposizione vuoti in segno di protesta per l’invadenza governativa. Una invadenza avvenuta non solo nella fase finale del voto, ma manifestatasi con atti di imperio governativi di varia natura durante tutto il processo di formazione della volontà facente capo alla funzione legislativa.
Addirittura il Governo ha preteso di rimuovere dalle Commissione Affari Costituzionali parlamentari che, invocando la libertà di coscienza, non erano d’accordo con i diktat governativi. Questa invadenza, che è stata consegnata alla storia, non la si può cancellare dalla memoria degli italiani, nemmeno dopo gli esiti del prossimo referendum costituzionale.
I pericoli che si intravedono nel ruolo invasivo del Governo in materia costituzionale non sono astratti principi enunciati dai costituzionalisti. Li abbiamo toccati con mano quando abbiamo visto e sentito le aggressioni verbali consumate dai vertici governativi contro i costituzionalisti che criticavano le riforme. Non dobbiamo sottovalutare i termini spregiativi usati: “gufi”, “rosiconi”, “professoroni”. La tecnica denigratoria è comune a quella usata nei regimi totalitari: il fascismo usava denigrare il “culturame”.
Quando voteremo un NO sonoro nel prossimo referendum sarà la volta buona, per noi cittadini, di dire grazie ai “professoroni” che non si sono lasciati né intimidire e né irretire dal “fascino del potere” e che hanno avuto il coraggio di descrivere per filo e per segno le mille ragioni per votare NO. E sia ben chiaro che il NO dei “professoroni” e il nostro NO, di cittadini, non è un NO a qualsiasi riforma, che è sempre possibile attuare in futuro come lo è stato in passato, ma un NO a questa specifica riforma per le modalità con cui è stata realizzata e per i suoi contenuti.
Qualche esempio di disinformazione
Necessita far sapere ai cittadini che il Senato non sarebbe soppresso, ma sostituito allo scopo principale di nominarlo a cura dei soliti noti e, quindi, allo scopo di togliere ai cittadini il diritto di eleggere i senatori. Si vuole mettere mano al Senato per togliere diritti, non per aumentarli.
La questione dei risparmi, se effettivamente stessero a cuore dei nuovi costituenti, sarebbe stata risolta o sopprimendo completamente il Senato oppure diminuendo del 50% il numero dei deputati e dei senatori. Autorevolissimi costituzionalisti non sono riusciti a mettersi d’accordo sul numero dei differenti procedimenti legislativi che darebbero origine le inspiegabili norme dell’art. 70. Chi parla di 7 procedimenti, chi di 10. In molti sono d’accordo nell’affermare che si passerebbe da un bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso e produttivo di conflitti e paralisi legislativa.
Basta leggere il famigerato art. 70 per rendersi conto che i rottamatori hanno voluto sporcare la Costituzione vigente, che aveva ricevuto il premio letterario Strega per la sua chiarezza e per la facile comprensione del testo. È da ricordare, in proposito, che la Costituzione italiana è stata scritta, a suo tempo, con frasi di poche parole per renderle comprensibili a tutti i cittadini. Ciò per mettere il cittadino nella condizione di capire la Legge delle leggi senza il bisogno di chiedere spiegazioni ad esperti del diritto.
Spesso, come conseguenza della propaganda governativa, si sentono bugie, slogan e sorprendenti luoghi comuni.
Si può fare qualche esempio. È facile sentire dire che da 70 anni si aspetta di riformare la Costituzione, affermazione, questa, che il Presidente del Consiglio e il Ministro delle riforme hanno avuto modo di fare. Non è pensabile che i due alti esponenti del Governo ignorino che la Costituzione non ha ancora 70 anni di età perché è entrata in vigore il 1948. Ma è singolare che la medesima “bugia” sia stata diffusa al plurale, nel senso che sono stati in due a disseminarla. È da considerare, invece, che tra gli effetti della propaganda irresponsabile si verifica il tipico fenomeno così riassumibile: se butti in aria un pugno di farina non lo puoi più raccogliere.
L’immensa forza della propaganda a favore del “sì”
Pericolosa è la propaganda governativa quando il Governo da potere costituito si trasforma in potere costituente.
Non è un caso che il Governo si sia appropriato in termini monopolistici della RAI. Si possono addirittura quantificare le ore di TV messe a disposizione del governo per propagandare il “si” e lo scarsissimo spazio lasciato ai sostenitori del NO.
Non è un caso che di tutto si parla, meno del fatto che questa riforma è stata voluta, non dal popolo sovrano e non dai governati, ma dal Governo, un Governo che si regge sulla fiducia ottenuta da un Parlamento dichiarato eletto con una legge elettorale incostituzionale.
Non è un caso che il record dei voltagabbana accorsi a sostegno del Governo sia stato stabilito in questa diciassettesima legislatura.
Non è un caso che una delle parole-guida dei voltagabbana, il “cambiamento”, sia uno degli argomenti forti del Governo Renzi, che insiste sull’importanza del cambiamento a prescindere dal valutare quando il cambiamento sia introdotto per migliorare o per peggiorare.
Non è un caso che nella propaganda governativa si dica che è meglio “cambiare” la Costituzione, anche se con qualche errore di scrittura, piuttosto che non cambiare niente.
Non è un caso che il Governo abbia messo in atto un’occupazione dei palazzi del potere, RAI compresa, con modalità senza precedenti.
Il tifo e gli “aiutini” stranieri per il Governo
Non è un caso che il Governo abbia reclutato un esperto americano della propaganda, Joe Messina, per sostenere il “sì” ad una costituzione di comodo. Questo reclutamento suscita perplessità e interrogativi di varia natura e consegna alla storia un altro capitolo sullo “spirito costituente” che caratterizza l’operato dei novelli padri e madri costituenti. I Padri costituenti reclutarono i più autorevoli linguisti (di lingua italiana) per rendere chiaro e comprensibile a tutti i cittadini il testo non divisivo, ma unificante. Il Capo del Governo e Capo del suo partito (un’organizzazione di parte) ha ora reclutato un americano propagandista (di lingua inglese) per avere sostegno propagandistico a favore di un testo costituzionale incomprensibile, prevaricante e divisivo.
Non mancano aiuti dalla stampa estera al Governo con articoli che disegnano scenari apocalittici se non vincesse il “si” alla Costituzione Renzi-Boschi. La “narrazione” governativa sulla riforma e sulla finalità del progetto “renziano” convergono con questi ineffabili “aiutini”. E convergono anche nel non entrare, testo alla mano, sui contenuti della normativa. Sarebbe “curioso” chiedere a questi giornalisti se l’abbiano tradotto in lingua inglese e, quindi, letto e capito l’art. 70, che è di diffide comprensione anche per gli esperti del diritto costituzionale italiano. Ma stiano sereni gli aiutanti del Governo. Siamo in molti a voler conoscere per deliberare, quindi conoscere per votare. Votare in modo consapevole e responsabile, anche nei confronti dei nostri figli e dei nostri nipoti, significa approfondire il testo che dovremo lasciare in eredità alle future generazioni.
Le parole chiave del renzismo
Come cittadino italiano, mi duole, sinceramente, di dover mettere a fuoco i sorprendenti (per usare un eufemismo) comportamenti dei vertici governativi. Infatti mi ritrovo in sintonia con la scuola di pensiero riferibile al filosofo svizzero Amiel: «L’esperienza di ogni uomo ricomincia daccapo. Soltanto le istituzioni diventano più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e, da tale esperienza, da tale saggezza, gli uomini soggetti alle stesse norme non cambieranno certo la loro natura ma trasformeranno gradualmente il loro comportamento».
Cosa viene generato dal renzismo e in particolare dal suo modo di fare e dal suo linguaggio?
L’ABC e la storia del renzismo le troviamo specchiate in tre parole chiave:
1) “Arroganza”, che si percepisce da ogni azione e da ogni parola, com’è il caso della parola “rottamazione” usata nei confronti di persone e istituzioni, Costituzione compresa;
2) “Bugia”, pronunciata con l’uso spregiudicato dei media (ad esempio “stai sereno Enrico”, il famoso messaggio rivolto al Presidente del Consiglio pro-tempore pochi giorni prima di farlo fuori per prendergli la poltrona);
3) “Comandare”, nel senso che chi vince le elezioni comanda per 5 anni e nel senso che l’idea fissa del renzismo è l’occupazione dei palazzi del potere. L’idea di “comandare” e di voler comandare all’interno di qualsiasi istituzione quasi sempre disconosce e agisce in dispregio della qualità e dell’efficacia del saper “dirigere” e del saper governare nel rispetto degli interessi generali.
Tra le parole improprie e al limite della bugia usate dal renzismo, ne cito un paio.
La prima è l’uso improprio della parola “modernità”, nel senso che il renzismo vuole e persegue, di fatto, non la modernità, ma il ritorno all’antichità dell’uomo solo al comando cancellando tutta la cultura e tutta la vera modernità iniziata con il recepimento dei principi della divisione dei poteri teorizzati da Montesquieu.
La seconda è l’uso ingannevole della parola “cambiamento”, nel senso che il messaggio del renzismo tende a persuadere la gente ad accettare l’idea di un cambiamento a prescindere dell’entrare nel merito del proposto cambiamento che, com’è noto, può essere in meglio o in peggio. Sta di fatto che le sue riforme sono tutte improntate al peggio e alla complicazione (altro che semplificazione) come si può capire, ad esempio, leggendo gli articoli 70 e 71 della sua proposta di riforma. Invero una semplificazione c’è, quella di costruire un ordinamento senza contropoteri per dare mano libera all’inquilino di Palazzo Chigi. Tra le complicazioni introdotte c’è anche l’allontanamento dei cittadini dalla politica triplicando il numero delle firme necessarie per una iniziativa popolare (da 50 mila a 150 mila firme di difficilissima e costosissima certificazione).
Alcune significative dichiarazioni dei vertici governativi
È appena il caso di ricordare che il 9 agosto 2016 è intervenuta una dichiarazione sconcertante da parte del Ministro Maria Elena Boschi. Secondo il Ministro sarebbe una mancanza di rispetto al Parlamento la proposta di votare NO alla riforma. Siccome l’art. 138, secondo e terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di referendum popolare su revisioni costituzionali che non abbiano ottenuto il voto di due terzi dei componenti il Parlamento, l’affermazione del Ministro confligge con quanto stabilito da questo articolo e quindi equivale ad ingannare i cittadini per poter far loro credere che solo il voto “SÌ” rispetterebbe la democrazia parlamentare. È di solare evidenza, altresì, che l’affermazione del Ministro configura due gravissimi attacchi ai principi, uno alla libertà del cittadino e uno all’autodifesa normativa sancita dalla Costituzione.
Quasi contemporaneamente alle dichiarazioni del Ministro Boschi sono rimbalzate nelle TV le notizie di una affermazione de capo del Governo Renzi che promette di distribuire ai poveri i presunti risparmi conseguenti al suo progetto di sopprimere il Senato. In proposito ha dato i numeri: 500 milioni che darà alla povertà.
Conclusioni
Non ci sono parole innanzi al discredito e allo sfregio messi in campo contro le istituzioni e contro l’architettura costituzionale da parte della subcultura della rottamazione. Stiamo assistendo ad una propaganda di regime e a linguaggi che hanno i connotati tipici della sopraffazione per perpetuare l’occupazione dei palazzi del potere.
Un cenno è d’obbligo alla legge elettorale imposta dal Governo con voto di fiducia ed intrecciata con la riforma costituzionale. Essa è denominata ‘italicum’, ma si dovrebbe chiamare “Acerbum” per le sue similitudini con la legge elettorale Acerbo a suo tempo destinata a legittimare il fascismo. Questa legge “Acerbum”, peraltro, uccide il principio liberale “una testa un voto” previsto dalla Costituzione.
In questi tempi caratterizzati da una legislatura, la XVII, eletta con una legge elettorale incostituzionale, è diventata di solare evidenza una “resistibile ascesa” nei palazzi del potere di una grande voglia di trasformare i cittadini in sudditi di un uomo solo al comando. Si vorrebbero restringere, non allargare i diritti dei cittadini. Addirittura si vorrebbe togliere per sempre il diritto dei cittadini di eleggere il Senato in capo al quale sono stati previsti compiti e funzioni per paralizzare in futuro riforme razionali (anche di natura costituzionale) di segno diverso da quello attualmente egemone.
L’egemonia dell’attuale Governo non è rappresentativa della maggioranza degli italiani, come ha dimostrato la Sentenza N. 1 del 2014 della Corte Costituzionale. In pratica una minoranza fattasi maggioranza col trucco dell’incostituzionale porcellum e con l’aiuto di voltagabbana, ha predisposto un intruglio di norme che, per come avvertono costituzionalisti autorevoli, sta tentando di far passare una sostanziale modifica dell’art. 1 della Costituzione nella parte in cui è previsto che la sovranità appartiene al popolo.
Tra sudditanza e cittadinanza attiva è chiara la differenza. La differenza la farà il voto per il NO alla riforma Renzi-Boschi con la consapevolezza che la Costituzione si potrà in futuro cambiare in meglio, non in peggio.
«Il merito delle riforme non conta nulla. La guerra è dichiarata per proteggere i simboli minacciati. E tutti i rappresentanti di accanite agenzie mondiali del denaro accorrono a difesa del simbolo diventato per loro più sacro di tutti: il potere in ultima istanza di sua maestà il mercato».
Il manifesto, 30 agosto 2016
Non poteva mancare la voce grossa del padrone che getta il suo pesante pullover blu sulla bilancia del referendum. «Marchionne è per il sì, personalmente» dice, parlando di sé, il manager di Detroit. Le truppe schierate per il governo sono molteplici, e impressionano per la loro potenza di fuoco: influenti giornali economici internazionali, grandi banchieri, spericolati finanzieri, Confindustria, cooperative arcobaleno. I poteri forti sono tutti in riga al presentat arm, altro che rottamazione strappata da un manipolo di ragazzi incontaminati.
Per garantire il controllo totale dell’informazione, già da un pezzo omologata alla narrazione del governo, è stata rimossa Berlinguer dalla tv pubblica e persino il battitore libero Belpietro è stato detronizzato dalla carta stampata privata. Oltre alle parabole immateriali dell’immaginario che si sintonizzano sulle frequenze dei media amici, il governo si avvale anche delle truppe di terra. La Coldiretti è stata arruolata per aggiungere un tocco di Vandea bianca, proprio della vecchia bonomiana, in una competizione che altrimenti avrebbe consegnato la difesa del governo soltanto ai signori della finanza e alle sentinelle del rigore.
Quando il conflitto si fa aspro, i poteri forti entrano in scena, senza troppi infingimenti. E le antiche cariche istituzionali, che negli ultimi anni si sono mosse in maniera creativa, fuori le righe dello stanco diritto formale, sono richiamate in servizio effettivo e offrono munizioni di guerra per l’ultimo sacrificio alla nobil causa: non turbare la sovranità dei mercati legibus solutus. Chi vota no è dipinto come un pericoloso destabilizzatore, che lascia precipitare il bel paese nel caos più cupo.
Si fa sempre più trasparente così il quadro della contesa, la fisionomia dei suoi protagonisti principali, la portata effettiva dello scontro. Il teatro di guerra, che ospita il fronte d’autunno, è sin troppo nitido: tutti i santi poteri del denaro sono intenti a scagliarsi contro il popolo irrazionale che rischia, con il suo ostinato no, di travolgere la sacra stabilità. Il merito delle riforme non conta nulla. La guerra è dichiarata per proteggere i simboli minacciati. E tutti i rappresentanti di accanite agenzie mondiali del denaro accorrono a difesa del simbolo diventato per loro più sacro di tutti: il potere in ultima istanza di sua maestà il mercato.
La portata della battaglia è, dal loro punto di vista, palese nella sua drammaticità: il pericoloso risveglio di una sovranità dei cittadini contro la bella dittatura del denaro che neanche la grande contrazione economica è riuscita a scalfire imputandole i suoi disastri. Nel tramonto dei ceti politici europei, ridotti a maschere che giocano battaglie surreali (il costume da bagno sulle spiagge) e non osano ribellarsi agli ordini impartiti dal capitale per la potatura dei diritti di cittadinanza, il referendum è una delle ultime eccentricità, una dismisura, un intoppo che allarma non poco.
La volontà di sorveglianza e di normalizzazione sprigionata da un ceto economico dominante che ha ottenuto a tempo record la disintermediazione (che miopia politica, e che sordità sociale, quella del sindacato che non si schiera in una contesa cruciale, di cittadinanza ma anche di classe!), il jobs act, le decontribuzioni, lo sblocca Italia, la buona scuola, oggi fa da guardiano al governo, perché il padronato sente che quello col marchio gigliato è davvero il suo governo.
La velocità non è in politica una grandezza indifferente e il tempo non è una misura neutra. Per tamponare i guasti che hanno rovinato la vita degli esodati, ancora si devono prendere le misure finanziarie necessarie e chiudere così, in percorsi dalla biblica durata, la vergogna di aver lasciato lavoratori privi di ogni reddito. Per varare una legge sulla tortura occorrono tempi illimitati, come per riaprire i contratti pubblici e privati. Per chi non ha tutele, o è privo di rappresentanza, o vive ai margini, guadagnare tempo, rispetto all’arbitrio del potere, non è un male. La velocità è un vero incubo se a dettare l’agenda della legislazione è il governo-azienda che impone le sue metafore in tutto ciò che è pubblico (scuola, dirigenti, sanità) e trasferisce le misure della sovranità in tutto ciò che è privato (comando assoluto nell’impresa, abolizione del diritto del lavoro).
Qualcuno, per incutere timore agli elettori, dice che il referendum di novembre è ancora più importante di quello inglese per le sue implicazioni su scala continentale. Può essere, ma non perché il voto a sostegno della Carta evochi un salto nel buio. I cittadini, rigettando la negazione del principio della sovranità popolare nella designazione di un organo di rappresentanza, hanno la possibilità di rimediare al fallimento dei ceti politici europei che hanno strappato ogni apertura sociale e quindi lanciano il populismo delle destre come risorsa plausibile per i marginali, i perdenti, gli esclusi.
A destabilizzare l’Europa sono i poteri forti e i ceti politici deboli che, con il loro ottuso credo mercatista recitato anche su una portaerei a Ventotene, rendono lo Stato una residuale zona piegata all’interesse privato. Il no è una risposta democratica alla sciagura delle élite politiche europee che non organizzano il conflitto sociale della spenta postmodernità e rischiano di essere spazzate tutte via dal disagio che trova rifugio nei miti irrazionali. Più i signori della finanza alzano la voce, per orientare il voto di novembre a favore del loro governo dei sogni, e più cresce la rilevanza liberatoria del no, come riscoperta con movimenti dal basso dell’autonomia della politica dal denaro, dal nichilismo del capitale vestito di blu.
Precisazioni del presidente del Comitato per il No al referendum costituzionale «Noi di centrosinistra non siamo sostenitori del mero status quo».
La Repubblica, 21 agosto 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, in una lettera pubblicata il 18 agosto Luigi Berlinguer ha dichiarato che voterà per il Sì al referendum costituzionale in quanto questo riguarderebbe «soprattutto il superamento dell’obsoleto e ormai ingombrante bicameralismo paritario di casa nostra, oltre all’abolizione delle Province e (finalmente) del Cnel»; che il voto per il No gli parrebbe «dettato da un’insopprimibile voglia matta di dare una botta a Renzi, di levarselo di torno»; infine che la «parola d’ordine» dei sostenitori del No sarebbe che la «Costituzione non si tocca».
Le ragioni del No del Comitato di centrosinistra, che ho l‘onore di presiedere, non risiedono né nella difesa del bicameralismo paritario, ormai condiviso da pochi; né nella rilevanza costituzionale delle Province, la cui abolizione è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale; né infine nella sopravvivenza del Cnel, da gran tempo divenuto uno “zombi”.
Le ragioni sono ben altre. La grave violazione del principio sancito dall’articolo 1 della nostra Costituzione, secondo il quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare» (così la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale), laddove, con la riforma Boschi, la conseguenza sarebbe che tutte le leggi, ivi comprese quelle costituzionali, non verrebbero più approvate da rappresentanti eletti dal popolo.
La mistificante enunciazione del Senato «rappresentante delle autonomie territoriali», che non solo continuerebbe ad essere organo dello Stato centrale, ma non gli verrebbe concesso, nonostante quell’enunciato, di legiferare su materie di interesse regionale, con la conseguenza che le Regioni verrebbero discutibilmente degradate a livello «prevalentemente amministrativo».
La composizione irrazionale del Senato, i cui componenti dovrebbero nel contempo svolgere la funzione di consigliere regionale o di sindaco, cosa che non consentirebbe loro di adempiere puntualmente le funzioni connesse ad entrambe le cariche, con la conseguenza di rendere oltre tutto difficile il rispetto dei brevi termini previsti per il Senato nei procedimenti legislativi diversi da quello bicamerale.
L’irrazionalità del compito del Senato di eleggere due dei cinque giudici costituzionali, col rischio di creare una logica corporativa all’interno della Corte costituzionale.
L’irrazionalità di conferire al presidente della Repubblica il potere di nominare cinque senatori a vita per la stessa durata della carica presidenziale: un numero tutt’altro che irrilevante in un Senato composto da soli 100 componenti.
L’irrazionalità di riconoscere ai senatori, ancorché part-time, l’immunità penale per tutti i reati comuni da loro commessi.
La complicazione (e non la semplificazione) del procedimento legislativo, che passerebbe dagli attuali tre procedimenti (procedimento legislativo normale, procedimento di conversione dei decreti legge, leggi costituzionali) ad almeno otto procedimenti formalmente differenziati, col rischio di illegittimità costituzionale delle leggi per vizi procedurali.
Infine, l’inesistenza di seri contropoteri politici nei confronti del governo sostenuto dal gruppo parlamentare più votato, che grazie all’Italicum otterrebbe, col solo 25 per cento dei voti, ben 340 seggi alla Camera dei deputati e il cui leader godrebbe di un’investitura democratica quasi-diretta.
Ancorché ci sarebbe assai altro da aggiungere, passo al secondo punto.
L’”insopprimibile voglia matta di dare una botta a Renzi” certamente caratterizza una parte ragguardevole dei sostenitori del Comitato per il No di centrodestra. Non già il Comitato per il No di centrosinistra, che ha da subito avvertito il rischio della personalizzazione del referendum, esplicitamente voluta e manifestata da Matteo Renzi nella conferenza di fine anno del 29 dicembre 2015. La personalizzazione del referendum costituzionale, voluta da Renzi — prima disvoluta e poi rivoluta — è servita spregiudicatamente a terrorizzare sia i mercati finanziari sia i «ben pensanti». Ma non solo. Consente, nel contempo, di porre in secondo piano sia l’inconsistenza delle ragioni favorevoli al Sì, sia le gravi ragioni di merito, sopra elencate, che razionalmente dovrebbero indurre i cittadini a votare No.
Passo infine al terzo punto. Per quanto io abbia potuto constatare nei dibattiti interni al direttivo del nostro Comitato per il No, la “Costituzione non si tocca” non costituisce la «parola d’ordine» dei sostenitori del No di centrosinistra tranne rarissime eccezioni. Tanto meno costituisce la “parola d’ordine” dei sostenitori del No di centrodestra (si pensi alla riforma Berlusconi del 2006!).
Beninteso, anch’io ho sempre sostenuto che la modifica della seconda parte della Costituzione (articoli 55-139) implicherebbe delle conseguenze sulla tenuta della prima parte (articoli 1-54). Ebbene, a parte il fatto che la riforma Boschi, eliminando l’elettività diretta del Senato, viola addirittura uno dei principi supremi della Costituzione posto nell’articolo 1, ritenuto immodificabile dalla Corte costituzionale… A parte ciò, c’è modifica e modifica della seconda parte della Costituzione.
Esprimendomi solo a titolo personale, ritengo infatti ammissibile ed anzi opportuno il superamento del bicameralismo paritario, il conferimento alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col governo, l’equilibrata diminuzione dei parlamentari sia nell’una che nell’altra Camera, la trasformazione del Senato in maniera tale che le istituzioni regionali possano effettivamente esprimersi. È infatti importante che gli elettori sappiano che non siamo i sostenitori del mero status quo.
Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2016 (p.d.)
Ringraziamo sinceramente per la gentile e disinteressata premura, cari mercanti internazionali, ma dei vostri ammonimenti non ce importa un fico secco. Siete pregati di farvi gli affari vostri anziché ficcare il naso in una questione che non vi compete,quale la Costituzione di uno Stato sovrano, e di cui non capite una mazza. Siete abituati a trattare con investitori, azionisti, dipendenti e fare i conti con i profitti e coi vostri interessi. Vi sfugge il particolare che esistono anche dei cittadini di libere repubbliche che pensano in termini di bene comune, che non intendono prendere ordini da chicchessia e vogliono decidere con la loro testa sotto quale Costituzione vivere.
Se Renzi fosse un vero capo di governo, e se il Presidente Mattarella intendesse come intendo io il dovere di rappresentare l’unità nazionale, avrebbero risposto più o meno in questi termini al concerto di pressioni dei non meglio identificati mercati internazionali di cui abbiamo letto in questi giorni. Ma il primo, immagino, si starà sfregando le mani soddisfatto per l’aiuto alla sua campagna referendaria; il secondo, che io sappia, tace. Qui non si tratta del diritto delle istituzioni finanziarie internazionali di operare secondo le regole del mercato, ma della loro arrogante pretesa di influenzare con aperte minacce il voto del referendum.
Non sta scritto da alcuna parte che i capi dei governi di paesi democratici a economia di mercato non possano e non debbano sottrarsi ai loro comandi. Nel 1936, in piena campagna elettorale, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt disse di essere consapevole che i monopoli della finanza lo odiavano, e aggiunse: “I welcome their hatred” (“ben venga il loro odio”) e tirò dritto con le sue politiche del New Deal che permisero agli Stati Uniti di uscire dalla tremenda crisi economica del 1929. Da queste parti di leader politici del calibro di Roosevelt non se ne vedono. E francamente dispiace leggere che un uomo e un politico della tempra di Romano Prodi, che potrebbe fare la differenza, è orientato a votare no ma non intende dichiararlo pubblicamente per una sorta di “spirito nazionale” e di timore delle speculazioni finanziarie. Ma proprio lo spirito nazionale bene inteso impone di prendere posizione netta e operare con tutte le proprie forze per il no, se si crede in coscienza che la vittoria del sì devasti la Costituzione. C’è forse un bene comune più alto della Costituzione? Se i capi non sanno tenere la schiena dritta davanti alle oligarchie finanziarie possiamo farlo noi cittadini, con un bel no che nasce dalla volontà di dire a lorsignori che non prendiamo ordini da nessuno. Se la maggioranza degli italiani voterà sì perché impaurita dalle minacce dei mercanti vorrà dire che è felice di essere serva. Che differenza c’è fra obbedire a un padrone domestico e obbedire ai padroni della finanza internazionale? Ma allora tanto vale andare fino in fondo e chiedere a JP Morgan o a Bloomberg di scrivere loro la nostra Costituzione e toglierci l’inutile fardello della libertà.
Affermare il diritto e dovere dei popoli di scegliere la propria Carta contro i potenti stranieri non è nazionalismo, ma quel sano amor di patria di cittadini che pretendono rispetto e non tollerano di essere trattati come bambini da potenti che traggono la loro potenza dal denaro. E lasciamo stare la fandonia che la vittoria del no danneggerebbe l’Europa. Sono i politici da barzelletta sempre pronti a fare quello che vogliono i mercati che stanno distruggendo l’ideale europeo. Quell’ideale, vale la pena ricordarlo, era di un’Europa di popoli. Ma veri popoli sono soltanto quelli che vogliono e sanno essere arbitri del loro destino. Nella nostra storia, noi italiani raramente siamo stati in grado di affermare la nostra dignità di popolo e di riscattarci dai padroni stranieri. Ma qualche volta ci siamo riusciti. Proviamo, almeno proviamo.
Non esiste libertà senza tutela dell’individuo e delle minoranze. La nostra è una Costituzione ancora ispirata ai concetti basilari della modernità. E cioè una Costituzione che tutela la libertà delle minoranze di esprimere dissenso».Il manifesto,
11 agosto 2016 (c.m.c.)
Stanno tornando parole che fanno scandalo: colpo di stato, mancanza di libertà, abolizione del pluralismo, limiti alla libertà di espressione. E, dal punto di vista del pensiero unico, fa scandalo che facciano scandalo. Perché se pensiero unico è, il dissenso non è. La maggioranza ha sempre ragione. E la minoranza deve farsi maggioranza per prendere la parola. C’è poi un ulteriore paradosso. Una frattura generazionale totale per cui, se uso parole come “pluralismo” o “dissenso” esse vengono percepite come valori da chi ha la mia età.
E sempre per chi ha la mia età la loro limitazione fa scandalo. In questi giorni è emerso il paradosso per cui minoranze di destra e di sinistra si sono riconosciute nella difesa di questi valori. Mentre i millenials sembrano non percepire neanche il problema.
Per chi è nato, cresciuto, vissuto, con il pensiero unico lo scandalo è insito in quelle stesse parole, troppo estremiste e politicamente scorrette. Insomma, in Italia il pensiero unico è penetrato così a fondo da rappresentare l’imprinting delle nuove generazioni al punto che recepiscono come eccessivo un semplice dissenso verbale o parlamentare, quando, per altri paesi come Francia, Spagna, la stessa Germania, provvedimenti come il Jobs act scatenano tumulti di piazza generalizzati.
L’Italia ha rimosso da tempo ogni residuo del pensiero critico e ha normalizzato così tanto il pensiero corrente da fare del semplice pensiero oppositivo un atto di terrorismo.
Slogan come “No Tav”, “No Border”, “No riforme” fanno scandalo. Perché non previste dal mainstream. Decenni di terzismo, di unanimismo, di centrismo, di dittatura della maggioranza, hanno livellato le differenze fino a provocarne l’estinzione.
Io sto parlando adesso non da sinistra, ma prendendo come modello il pensiero liberale. Il terzismo ha affossato le libertà. Perché non si può glorificare l’individuo e, insieme, la maggioranza. E’ quanto ad esempio teorizzavano campioni del liberismo come i radicali.
Non esiste libertà senza tutela dell’individuo e delle minoranze. In questo contesto lo scandalo non nasce dall’infrazione del “politicamente corretto” ma, al contrario dalla limitazione della possibilità di tutelare, per tutti anche contro la maggioranza, la libertà di espressione. E’ una diretta emanazione di quei principi di razionalità e tolleranza che hanno ispirato l’Illuminismo. E che ispirano tutte le Costituzioni moderne tra cui quella Costituzione Italiana che il referendum vorrebbe stravolgere.
La nostra è una Costituzione ancora ispirata ai concetti basilari della modernità. E cioè una Costituzione che tutela la libertà delle minoranze di esprimere dissenso. E può farlo perché implica una divisione di poteri potenzialmente conflittuali. La libertà deriva necessariamente da questo conflitto, ad esempio dal conflitto tra l’esecutivo e il parlamento. Una minoranza parlamentare può tenere in scacco l’esecutivo attraverso l’ostruzionismo.
L’avvento del pensiero unico e l’interpretazione in senso esclusivamente maggioritario della vita politica ha invece portato, in questi anni, a catalogare il dissenso come colpa. Oggi galleggiamo in un limbo per cui ci sono ancora regolamenti scritti che difendono la diversità e, viceversa, uno “spirito del tempo” che non le riconosce legittimità. C’è solo poco tempo per il dissenso.
Se la Costituzione verrà riscritta nel senso di una delega in bianco al premier, la diversità non sarà più una specie in via di estinzione, ma una specie estinta. Non solo sostanzialmente, ma anche formalmente.

Il Fatto Quotidiano online, 10 agosto 2016 (c.m.c.)
Nella spasmodica ricerca di argomenti che giustifichino l’approvazione referendaria delle loro riforme, brutte e di bassissimo profilo, i renziani e i loro molti cortigiani ne dicono di tutti i colori. Il «meglio che niente» è molto frequente, ma diventato logoro assai. Il «non si poteva fare diversamente» entra in concorrenza per la motivazione più banale.
Eccome si poteva fare diversamente tanto è vero che nessuno dei testi poi faticosamente approvati era entrato in Parlamento nella identica stesura con la quale ne è uscito. Per di più, è già in corso anche una surreale discussione sul cambiamento della legge elettorale in attesa della valutazione della Corte costituzionale che potrebbe servire proprio a salvare la faccia formulando qualche riformetta della riformetta. Infine, dopo mesi nei quali il capo del governo e il suo ministro per le Riforme hanno fatto ampio ricorso a tutte le strumentazioni plebiscitarie possibili (rivendico il merito di avere per primo accusato Renzi di “plebiscitarismo”), adesso è arrivato il contrordine.
«Renziani di tutte le ore non si tratta di votare pro o contro il governo, ma sul merito delle riforme». Che Renzi avesse ecceduto se n’era accorto, un po’ tardivamente, persino il Senatore Presidente Emerito Giorgio Napolitano che, sommessamente, gli ha suggerito di non personalizzare troppo la campagna elettorale. Purtroppo per Renzi, la personalizzazione è nelle sue corde. Non riuscirà a rinunciarvi e ci ricadrà quasi sicuramente quando i sondaggi annunceranno tempesta. Per di più, lo spingere il più in là possibile la data dello svolgimento del referendum moltiplicherà le occasioni di personalizzazione.
Nel frattempo, qualche renziano sta cercando di delegittimare lo schieramento del NO facendo notare quanto composito esso sia e, dunque, incapace di prospettare un’alternativa di governo, al suo governo. Anche se, sconfitto, Renzi non si dimettesse, una minaccia piuttosto che una promessa, creando una grave e non necessaria crisi di governo, ma imparasse a fare buone riforme, il problema del governo prossimo venturo neanche si porrebbe. Comunque, se c’è un giudice a Berlino (in verità, ce ne sono fortunatamente molti) possibile, caro Presidente Mattarella, che in Italia l’unico in grado di guidare un governo sia Matteo Renzi? Al momento opportuno suggerirò al Presidente 4/5 nomi nessuno dei quali professore o banchiere.
Ad ogni buon conto, chi, nei Comitati del NO, ha mai pensato alla formazione di un nuovo governo? Il bersaglio grosso è uno e uno solo: vincere il referendum e cancellare le riforme mal congegnate e malfatte. Quanto alla natura composita dello schieramento del NO, basta riflettere un attimo e si vedrà che il SI’ vince alla grande la battaglia della confusione. Non intendo demonizzare il mio ex-studente Denis Verdini, ma sembra che, addirittura, darà vita a un Comitato del SI’ dal quale, naturalmente, come annunciato da Renzi-Boschi, scaturirà la nuova (sic) classe dirigente del paese.
La Confindustria fa già parte della non proprio novissima classe dirigente, ma i suoi allarmismi numerici prodotti da chi sa quali algoritmi li ha già generosamente messi a disposizione del paese affinché voti convintamente sì.
Poi è arrivata la filosofia della krisis rappresentata da Massimo Cacciari, notorio portatore di “sensibilità repubblicana” che va spargendo in diversi talk show. In un’intervista al Corriere si è esibito per il sì anche l’ex banchiere ulivista Giovanni Bazoli. Mica poteva essere da meno degli stimati colleghi della JP Morgan, grandi conoscitori del sistema politico italiano e della sua Costituzione, anche loro in attesa di riforme epocali.
A ruota, un pensoso editoriale della rivista Civiltà Cattolica ha dato la necessaria benedizione senza attendere, qui sta la sorpresa, le articolate opinioni dei Cardinali Ruini, purtroppo per lui più bravo negli inviti all’astensione, Bagnasco e Bertone. No, di papa Bergoglio non so.
La ciliegina, però, non la prima né l’ultima poiché non dubito che ce ne saranno molte altre, già copiosamente preannunciata dalle pagine del Corriere della Sera, è arrivata da Michele Salvati. La sua tesi è cristallina. Se vincerà il NO, non sarà bocciato soltanto il governo. Non saranno bocciati soltanto i partiti e i cittadini che non hanno fatto i compiti (e se, proprio perché li hanno fatti, si fossero resi conto che le riforme sono inutili e controproducenti?). Bocciato «sarebbe tutto il Paese» (Corriere della Sera, 9 agosto 2016, p. 26).
Insomma, il plebiscitarismo buttato dalla finestra, senza che nessuno lo dicesse a Salvati, torna camuffato da nazionalismo, chiedo scusa da amor patrio, dalla porta. Chi vota no è un disfattista, secondo Salvati, un traditore della patria, un nemico del popolo italiano. Questa è, finalmente, la discussione sul merito che i renziani vogliono, impostano e, normalizzata la Rete Tre, faranno.
Panem et circenses. Il premier: “Mezzo miliardo a chi ha di meno”, e anche per il teatrino ci pensano sempre loro.
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2016 (p.d.)
La frase – tenetevi forte - è questa: “Chi propone di votare No al referendum e buttar via due anni di lavoro del Parlamento non rispetta il lavoro del Parlamento”. Chi l’ha detto? Il ministro Maria Elena Boschi. Per completezza, prima aveva dichiarato: “Abbiamo scelto di rispettare in toto la procedura prevista dall’art. 138 della Costituzione per modificarla, questo ha significato scegliere la strada più dura”. Che un povero cittadino si domanda: di grazia, che procedura avrebbero dovuto seguire? Una incostituzionale? Una illegittima?
Del resto, il Parlamento che ha votato la riforma, proprio legittimo non è (vista la sentenza della Consulta sul Porcellum). Bisogna dire che negli ultimi tempi il ministro ci ha abituati ad affermazioni bizzarre. Il 18 luglio aveva spiegato come, con la nuova Costituzione, saremo più forti nella lotta al terrorismo: “Abbiamo bisogno di un’Europa più forte e in grado di rispondere unita al terrorismo internazionale. E per riuscirci abbiamo bisogno anche di un’Italia più forte verso l’Europa: una Costituzione che ci consenta maggiore stabilità”. All’inizio di giugno disse che, a riforma attuata, davanti all’Italia si sarebbe spalancato un luminoso destino di agi e fasti: il Pil in dieci anni sarebbe aumentato del 6%. Quali fossero i modelli econometrici usati dal ministro ancora non è dato sapere.
Ma nemmeno il premier Matteo Renzi ha chiarito da quale cilindro ha tirato fuori la sua affermazione di ieri: “Se passa il Sì si eliminano costi per la politica per circa 500 milioni di euro l’anno. Pensate come sarà bello dall’anno prossimo metterli sul fondo per la povertà”. Peccato che, secondo le stime della Ragioneria dello Stato, i risparmi saranno circa di 50 milioni all’anno. Cosucce. Naturlamente in serata è arrivata la “precisazione” da parte dello staff del ministro Boschi: la frase “è stata riportata male dalle agenzie. Non si riferiva ai cittadini che legittimamente voteranno no ma solo a quelli che oggi propongono di ripartire da capo, pensando di fare un’altra riforma in sei mesi”.
La toppa è peggio del buco. Il perché ce lo spiega Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto Costituzionale a La Sapienza di Roma: “Il governo,da quando ha deciso di non ‘personalizzare’, auspica una ‘discussione nel merito’. Eppure tutte queste affermazioni sono solo propaganda. Non posso credere che un ministro della Repubblica abbia pensato di delegittimare lo strumento referendario, previsto dalla Costituzione! Non è vero che l’Italia non ha avuto riforme incisive anche dopo esiti referendari negativi. Ne sono una prova la modifica del Titolo V e la modifica dell’art. 81, approvata in sei mesi. Aggiungo: una delle ragioni del No è che questa riforma comprime l’autonomia del Parlamento. Che ora il governo si faccia paladino del Parlamento è davvero incredibile, visto come ha forzato tempi e modi dell’approvazione della riforma per arrivare, in combinato disposto con l’Italicum, a un assetto costituzionale sbilanciato verso l’esecutivo”.
Elegante esercitazione di stile nel racconto delle furbesche altalene dei governanti nell'ultimo venticinquennio e delle ragioni caratteriali che spingono il cittadino verso il si e verso il no.
La Repubblica, 9 agosto 2016
È un'estate di studi e di tormenti. Niente vacanze, dobbiamo prepararci per l’esame. Quello d’autunno, quando verremo interrogati sulla riforma costituzionale: 47 nuovi articoli da mandare giù a memoria, commisurarli al loro testo originario, soppesarne danni e benefici, in ultimo rispondere con una crocetta sulla scheda del referendum. Promosso o bocciato, sia lui che ciascuno di noi. Ci vuole testa, insomma, ci vuole raziocinio. O no? No, i più risponderanno con il cuore. In ogni referendum conta l’argomento, ma conta soprattutto il sentimento.
E a sua volta quest’ultimo dipende dagli amori e dagli umori della società italiana, perennemente instabili e sbilenchi. Del resto, proprio la Costituzione ne è uno specchio. Nei primi anni Novanta, durante Tangentopoli, eravamo tutti giustizialisti; sicché ne cambiammo un paio d’articoli (79 e 68), per rendere più impervia l’amnistia e per ridurre le immunità parlamentari.
Alla fine del decennio ci risvegliammo garantisti, e allora toccò a un altro articolo (111), modificato per inocularvi le garanzie del «giusto processo». Sempre in quel torno d’anni, ci ubriacammo di federalismo: da qui la riforma del Titolo V, varata nel 2001 da un governo di sinistra. Adesso, viceversa, le Regioni ci sono venute a noia; così un altro governo di sinistra ha appena battezzato una riforma centralista.
Alti e bassi, come la popolarità degli uomini politici. E indubbiamente il referendum costituzionale verrà influenzato anche da questo, dall’affetto o dal dispetto che ognuno prova nei riguardi del Premier. Però i sentimenti in gioco sono altri, hanno a che fare con un grumo di passioni e di pulsioni individuali, interrogano il senso stesso del nostro stare al mondo. Difatti le domande capitali sono tre, come le cantiche della Divina commedia.
Primo: sei contadino o marinaio? Hai le scarpe piantate sulla terra oppure navighi per mare, senza radici, senza l’ancoraggio del passato? Giacché un mutamento radicale della Costituzione reca in sé una sfida, mette alla prova la tua capacità d’immergerti nel nuovo, di partire in viaggio per l’ignoto. Sai ciò che lasci, non sai quello che trovi.
Non si tratta dell’eterno scontro fra conservatori e innovatori: dopotutto ciascuno è l’uno e l’altro, ciascuno rinnova ogni giorno la propria vicenda esistenziale, però ciascuno vorrebbe conservare la sua mamma. No, qui è in ballo un temperamento, un’attitudine. O forse anche una stagione della vita, della nostra vita intima e privata: c’è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce.
Secondo: ti senti orizzontale o verticale? La differenza tra il prima e il dopo di questa riforma è infatti la medesima che c’è fra una pianura e una montagna: questione d’altitudini, d’altezze. La pianura consiste nel paesaggio disegnato dai costituenti, con due Camere gemelle e un territorio popolato da una quantità d’istituzioni (centrali, regionali, locali), senza gerarchie precise, senza vincoli di soggezione.
La montagna svetta in solitudine dopo l’aratro dei riformatori. Via il Senato, che diventa un camerino della Camera. Via le Regioni, trasformate in megaprovince. Via le province, mentre altre riforme dimezzano i poteri intermedi (camere di commercio, soprintendenze, prefetture), non meno dei corpi intermedi (ha ancora un ruolo il sindacato?). Nel frattempo il comando s’accentra, si riunifica nel superdirettore della Rai o nei superdirigenti delle scuole. E nel Premier, ovviamente, al quale l’Italicum consegna un rapporto diretto, verticale, con il popolo. Tutto più semplice, però se soffri di vertigini magari ti viene un capogiro.
Terzo: sei ottimista o pessimista? Sta di fatto che la nuova Costituzione reclama un atto di fiducia, di speranza. Reclama, in altri termini, un mosaico di leggi d’attuazione, cui spetta completare l’intervento di chirurgia plastica, ma con il rischio di sfigurarle i connotati. È il caso, per esempio, della legge elettorale per i neosenatori (votati o cooptati?), da cui dipenderà la loro legittimazione, dunque il peso del Senato. È il caso dello statuto delle opposizioni, affidato ai regolamenti parlamentari. È il caso delle nuove tipologie di referendum: qui la riforma opera un rinvio al quadrato, prima a una legge costituzionale, poi a una legge ordinaria. Quanto tempo ci toccherà aspettare? L’altra volta trascorsero 22 anni fra la Costituzione del 1948 e la legge sui referendum del 1970; stavolta, chi lo sa. L’unico dato certo sta nella distinzione antropologica fra pessimisti ed ottimisti, scolpita in una battuta messa in circolo dalla burocrazia sovietica, ai tempi di Leonid Breznev. Un pessimista e un ottimista stanno in fila da ore dietro uno sportello. Dice il primo: «Peggio di così non potrà mai andare ». E l’ottimista: «Ma no, vedrai che andrà peggio».
«Il governo è ancora in tempo per fissare il voto a ottobre. Ma punta al dopo finanziaria. In Cassazione si salva per solo 4mila firme la richiesta del Sì. Intanto lo stato spenderà di più di ogni possibile, e assai ottimistica, previsione sui risparmi possibili con la riforma costituzionale».
Il manifesto, 9 agosto 2016
CI METTE LE FIRME.
NON LA DATA
Giovedì scorso, 4 agosto, ventisei giudici di Cassazione dell’ufficio centrale per il referendum hanno ammesso anche l’ultima richiesta di referendum sulla riforma costituzionale, quella depositata dal comitato del Sì e accompagnata da 579mila firme di cittadini. La notizia è stata ufficializzata ieri con un comunicato stampa. Sia il comitato per il Sì che la raccolta delle firme sono un’idea di Renzi e del suo consigliere americano Jim Messina, ragione per cui ieri il presidente del Consiglio si è variamente compiaciuto: «Questa è una sfida di un popolo. Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo», ha scritto. Registro assai diverso da quello con il quale aveva lanciato la campagna, quando spiegava che «chi vota no mi odia». Il referendum ci sarebbe stato in ogni caso, perché la riforma costituzionale è stata votata in parlamento con una maggioranza ridotta e perché la richiesta era già stata presentata dai parlamentari e accolta dalla Cassazione, il 6 maggio.
Anche l’esito positivo della (veloce) verifica della Cassazione sulle firme era cosa nota, questo giornale ne aveva scritto l’indomani, venerdì 5 agosto. La lettura dell’ordinanza offre però un dettaglio importante: il numero di firme verificate come effettivamente valide dai giudici è appena sufficiente ad autorizzare la richiesta di referendum: 504.387, la soglia minima essendo fissata a 500mila. L’iniziativa di Renzi, dunque, è salva per un pelo. Il che aggiunge dubbi in quanti avevano già notato il «miracolo» delle firme per il Sì che si producevano in assenza di banchetti destinati a raccoglierle. Due cose in effetti colpiscono. La prima è la scarsissima percentuale di firme scartate dalla Cassazione. Nel caso delle ultime proposte di referendum abrogativo arrivate alla suprema corte con le firme necessarie, quelle dei radicali sulla giustizia nel 2013 e quella di Parisi, Di Pietro e Segni contro il Porcellum nel 2011, la percentuale di sottoscrizioni ritenute non valide è stata dal 25% nel primo caso e del 55% nel secondo. Nel caso delle firme «renziane» la percentuale di scarti è stata appena del 12%. Il controllo cartolare è durato venti giorni, mentre negli altri casi i giudici hanno avuto a disposizione due mesi. Sorprendenti sono anche i numeri che i segretari regionali del Pd hanno dato sulla raccolta firme, nel tentativo di mettersi in buona luce con il segretario. 50mila firme in Toscana, 25mila in Calabria, 17mila in Sardegna e nelle Marche sono numeri che possono sembrare alti ma che per chi ha pratica di raccolta firme non consentono in genere di raggiungere il quorum. Ad esempio in Toscana (come in altre regioni) il comitato per l’abrogazione dell’Italicum ha raccolto praticamente lo stesso numero di firme, pur non essendo riuscito a raggiungere nel complesso le 500mila necessarie. Per rispondere a questi dubbi, alimentanti anche dalla vicenda del rimborso che ora spetterà al comitato del Sì, potrebbe essere utile una pubblicazione delle firme depositate e certificate. Ma il 20 luglio scorso la Cassazione ha risposto di no al costituzionalista Fulco Lanchester che con i radicali ha chiesto l’accesso agli atti. No perché l’ufficio centrale per il referendum non è una «amministrazione pubblica» ma «un organo giurisdizionale».
Anche Renzi alimenta la confusione sui numeri. Nell’esultare, ieri ha scritto che il suo Sì alla riforma è sostenuto da «quasi 600mila firme, circa il triplo degli altri». Gli «altri» sono quelli del comitato del No ma in realtà lo scarto con le «loro» 316mila firme è assai minore, non è neanche del doppio. Soprattutto, Renzi continua a evitare la comunicazione più attesa, quella della data del referendum. La legge non prevede tempi di attesa, il governo da oggi ha 60 giorni di tempo per convocare il referendum (a sua volta da tenersi tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto di indizione, firmato dal capo dello stato). Se Renzi farà trascorrere invano questa settimana, il referendum costituzionale non potrà più essere fissato il 2 ottobre, come pure lui ha detto (anche in tv) di desiderare. Se farà passare tutto il mese di agosto, il referendum slitterà inevitabilmente a novembre. E se voteremo quasi a dicembre non sarà per evitare inopportuni incroci con la sessione parlamentare di bilancio. Ci sarebbe tutto il tempo per anticipare la presentazione alla camera della legge di stabilità, il punto è che Renzi non è più di questa idea. «A ottobre ci divertiremo», ripeteva ancora a fine giugno quando leggeva sondaggi diversi e assicurava di voler votare «il prima possibile». Adesso ha bisogno di un colpo d’ala per cercare di vincere, e cercherà di piazzarlo nella finanziaria.
MEZZO MILIARDO
DI RIMBORSI INUTILI
Il referendum costituzionale non prevede quorum, dunque il rimborso elettorale al comitato del Sì è garantito, e da ieri se ne conosce esattamente l’entità. Sarà di 504.307 euro, uno per ognuna delle firme verificate come valide dall’ufficio centrale della Cassazione. Lo stabilisce la vecchia (1999) legge sul finanziamento dei partiti, che è stata completamente abrogata ma non nell’articolo che si occupa dei referendum. È in qualche modo una norma di garanzia, perché consente in astratto a un comitato di cittadini che vuole provare ad abrogare una legge – o, come in questo caso, bloccare una modifica alla Costituzione – di poterci effettivamente provare anche senza l’appoggio di un certo numero di parlamentari o di consigli regionali. Non è però la situazione in cui ci troviamo.
Questa volta i sostenitori del Sì al referendum costituzionale avevano già la loro richiesta, presentata con la firma dei deputati e senatori del Pd e immediatamente accolta dalla Cassazione il 6 maggio. Una settimana più tardi – dunque con la certezza che il referendum si sarebbe tenuto già acquisita – il 13 maggio il comitato del Sì ha presentato la sua richiesta di raccolta delle firme. Comitato la cui creazione è stata promossa dal presidente del Consiglio e segretario del Pd insieme alla stragrande maggioranza dei parlamentari di quel partito, molti dei quali avevano già firmato la prima richiesta alla Cassazione. Non si tratta di un’iniziativa dei cittadini, ma di palazzo Chigi e del super pagato consigliere americano di Matteo Renzi. Dietro il comitato che riceverà mezzo miliardo di euro a carico delle casse dello stato ci sono loro.
Mezzo miliardo per sostenere una richiesta di referendum che è due volte inutile. È inutile perché il referendum ci sarebbe comunque stato, come abbiamo visto. Ma inutile anche perché l’iniziativa in questo caso è di chi è a favore della riforma, cioè di chi non avrebbe avuto bisogno di fare nulla: trascorsi tre mesi senza nessuna richiesta la riforma costituzionale sarebbe stata automaticamente promulgata. Questa non indifferente spesa pubblica può dunque essere legittimamente contestata anche da chi non si oppone in linea di principio al finanziamento pubblico alla politica.
Anche perché il presidente del Consiglio che è all’origine di questa iniziativa, ha più volte presentato la riforma costituzionale come una novità in grado di far risparmiare molti soldi pubblici. Anzi moltissimi: ha annunciato un miliardo di risparmi. Per la verità, quando alla ministra delle riforme è stato chiesto di fare bene i conti in parlamento, questi risparmi si sono notevolmente ristretti. In maniera comunque generosa, la ministra Boschi ha conteggiato 170mila euro di minori spesa per il senato laddove la ragioneria dello stato si è limitata a 70mila. Però Boschi ha aggiunto al calcolo la stima di ben 320mila euro che risparmieremmo per l’abolizione delle province. Pure questi assai aleatori, come l’esperienza racconta, visto che la riforma costituzionale dà solo l’ultimo tratto di penna su un’abolizione già decisa dal 2014 con legge ordinaria. Ma in ogni caso, anche a dar retta alle previsioni ottimistiche della ministra, la riforma della Costituzione voluta dal governo permetterà di ridurre la spesa pubblica di 490mila euro. Adesso sappiamo che il comitato del Sì voluto inutilmente da Renzi costerà 14mila euro in più.
«Costituzione. Aveva detto: "Fosse per me lo farei il prima possibile". Adesso invece vuole spostarlo quasi a Natale. Ma non è per ragioni tecniche o perché il voto rischia di incrociare la sessione di bilancio».
Il manifesto, 2 agosto 2016
«Spero che il referendum si faccia il 2 ottobre», ha detto Matteo Renzi all’inizio di giugno in tv (Rai2). «Fosse per me lo farei subito», ha chiarito un mese dopo, sempre in diretta (Sky). Al contrario, il presidente del Consiglio sta cercando di spostare «la madre di tutte le battaglie» (definizione ancora sua) il più tardi possibile. Che è molto tardi, in teoria si può arrivare fino al 18 dicembre. Per non aprire le urne proprio sotto l’albero di Natale, al presidente del Consiglio andrebbe bene, adesso, l’ultima domenica di novembre, il 27. Quasi due mesi dopo i precedenti annunci. Cerca però di presentare questo rinvio come conseguenza naturale dei tempi tecnici e dell’incrocio con la legge di stabilità. Non si può votare durante la sessione di bilancio, spiegano Renzi e i suoi.
«A ottobre ci divertiremo», diceva il presidente del Consiglio quando ancora immaginava che il Sì potesse vincere facilmente il referendum costituzionale. Ora, non prevedendo più risate, sta cercando di azzerare la campagna elettorale per farla ripartire su basi completamente diverse dopo l’estate e soprattutto dopo una legge di stabilità che dovrebbe concedere nuove mance elettorali. Ora sostiene di non aver mai voluto personalizzare il voto sulla Costituzione, eppure è stato sempre lui a dire che «può votare no solo chi mi odia»
Se davvero le sue preoccupazioni fossero di ordine istituzionale, per evitare l’incrocio tra il referendum e la sessione di bilancio ci sarebbe tutto il tempo di votare prima che il parlamento cominci ad esaminare i conti. È vero, la legge impone al governo di presentare la stabilità alle camere (quest’anno si comincerà da Montecitorio) entro il 15 ottobre (e prima ancora i documenti andranno inviati a Bruxelles). Ma il governo Renzi l’anno scorso ha fatto arrivare la legge di stabilità in senato solo il 25 ottobre. Fino ad allora nemmeno le commissioni hanno visto un cifra. A ottobre 2016 ci sono dunque ben tre domeniche in cui si potrebbe andare a votare per il referendum prima che la manovra, con le sue annunciate elargizioni, impegni il parlamento: il 9, il 16 e il 23 di quel mese.
La legge concede al governo la possibilità di rimandare il consiglio dei ministri (che convoca il referendum) fino a 60 giorni dopo la comunicazione della Cassazione che le richieste di referendum sono regolari. La possibilità, non l’obbligo. Quanto alla comunicazione della Cassazione, questa sarebbe già arrivata non fosse per le firme che il Pd ha presentato in extremis. I giudici stanno discutendo se è il caso di sottoporle a immediata verifica o se si può soprassedere. Ne parleranno ancora dopodomani, giovedì. Se decidessero di procedere con la verifica delle firme, potrebbero ufficializzare il loro via libera al più tardi il 14 agosto. Anche allora se Renzi volesse essere di parola – «fosse per me voterei subito» – potrebbe convocare il consiglio dei ministri in tempi brevi, entro la fine di agosto, per votare prima della sessione di bilancio.
Ma giovedì i giudici della Cassazione potrebbero anche chiudere la questione, decidendo che non ha senso aspettare il conteggio delle firme dal momento che le richieste di referendum presentate dai parlamentari sono state già accolte. E così, convenienze governative a parte, il referendum potrebbe essere indetto per ottobre (dal presidente della Repubblica, che firma un decreto del governo) già la prossima settimana. Non c’è nulla di tecnico dietro la decisione di Renzi di allungare la campagna elettorale.
Sintetico elenco delle gravi distorsioni e delle paralizzanti contraddizioni della de-forma costituzionale Renzi-Boschi. Ma il veleno è innanzitutto nell'Italicum.
La Repubblica, 31 luglio 2016
SECONDO la suggestiva proposta della costituzionalista Lorenza Carlassare, l’Italicum costituisce il “perno” della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Il suo scopo sarebbe infatti quello di «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi ». Tesi che è confermata, da un lato, dai tempi di approvazione delle due leggi (prima l’Italicum e poi la riforma costituzionale) e, dall’altro, dalla ritrosia di Matteo Renzi ad accettare il suggerimento di giornalisti, imprenditori e banchieri, di assegnare l’abnorme premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista più votata. Se infatti l’Italicum è stato davvero pensato come il perno della riforma costituzionale, assegnare il premio alla coalizione anziché alla lista impedirebbe quella personalizzazione del potere, che costituisce l’obiettivo di Renzi.
È bensì vero che il premio alla coalizione eviterebbe i diffusi timori nei confronti dell’“uomo solo al comando”, ma, a parte il fatto che questa sola modifica non eliminerebbe i vari vizi di legittimità che caratterizzano l’Italicum — su cui la Corte costituzionale è già stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi — , ciò che non viene evidenziato nel dibattito in corso è che il costo del baratto (il Sì alla riforma costituzionale) sarebbe comunque eccessivamente elevato, quand’anche l’Italicum fosse radicalmente modificato.
La riforma costituzionale non solo viola i principi supremi della Costituzione, ma è addirittura confusa e pasticciata, come è testimoniato dai rilievi critici di ben 20 ex giudici costituzionali (10 ex presidenti e 10 ex vicepresidenti!) e dei più autorevoli costituzionalisti, che qui di seguito cercherò di sintetizzare.
Il Senato verrebbe eletto dai consigli regionali e non dal popolo, nonostante l’elettività “diretta” costituisca, per la Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), il fulcro della sovranità popolare. Ciò nondimeno eserciterebbe le funzioni sia legislativa sia di revisione costituzionale. Sarebbe composto da 95 senatori che, nel contempo, dovrebbero svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco — il che renderebbe praticamente impossibile il puntuale adempimento delle funzioni loro assegnate — e da cinque senatori nominati, per altissimi meriti, dal presidente della Repubblica per la stessa durata del capo dello Stato (sic!). Poiché la carica di senatore sarebbe connessa a quella di consigliere regionale o di sindaco, l’identità dei 95 senatori cambierebbe continuamente, una volta scaduti dalla carica di consigliere regionale o di sindaco. Inoltre, il Senato eleggerebbe, da solo, ben due giudici costituzionali, il che introdurrebbe nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa.
Il Senato non avrebbe natura territoriale, come erroneamente si ritiene dai sostenitori del Sì. L’elezione da parte dei consigli regionali avrebbe infatti una generica natura politico-partitica, non essendo previsti né il vincolo di mandato né l’identico numero di senatori per ogni Regione: elementi necessari perché la rappresentanza sia davvero “territoriale”. Il “nuovo” articolo 55 afferma che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali » ma, a ben vedere, è un mero flatus vocis. Il Senato continuerebbe infatti ad operare come organo dello Stato. Quanto al procedimento legislativo, dai due tipi attualmente esistenti (quello normale e la conversione dei decreti legge) si passerebbe, con la “nuova” Costituzione, ad almeno otto procedimenti “formalmente” diversi, con il rischio di potenziali conflitti tra le Camere o addirittura di incostituzionalità delle leggi.
Nel rapporto Stato-Regioni, la riforma è tutta sbilanciata a favore del potere centrale. Le cinque Regioni a statuto speciale, alle quali non si applica la riforma, risulterebbero ingiustamente privilegiate, laddove le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, superficialmente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato- Regioni. Nella riforma è infatti prevista la sola potestà legislativa esclusiva, sia per lo Stato in ben 51 materie, sia per le Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative. Conseguentemente, materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura e l’attività mineraria — di cui non si parla nella riforma — è dubbio che spetterebbero alle Regioni oppure allo Stato. Invece, materie tipicamente autonomistiche quali le politiche sociali, il governo del territorio e l’ambiente verrebbero irrazionalmente attribuite allo Stato.
Infine, quanto al sindacato parlamentare, mentre è stato eliminato il Senato come contropotere esterno, non vengono previsti contropoteri politici interni, in quanto il “nuovo” art. 64 si limita a rinviare la «disciplina lo statuto delle opposizioni » al futuro regolamento della Camera dei deputati. E poiché è noto che i regolamenti parlamentari sarebbero approvati a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea, ne segue che se l’Italicum restasse in vigore, sarebbe la maggioranza governativa a regolamentare lo statuto delle opposizioni.

«». Waltertocci.blogspot.it,
Care democratiche e cari democratici,
avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.
La soluzione senza il problema
C’è pieno accordo tra noi sull’esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
Si è fatto credere che il problema sia la velocità delle leggi, quando è evidente che sono troppe e vengono modificate vorticosamente. L’alluvione normativa soffoca le energie vitali del Paese. Si è drammatizzata la lungaggine della doppia navetta, ma riguarda solo il 3% dei provvedimenti. I più veloci sono anche i peggiori: il decreto Fornero convertito in quindici giorni viene revisionato ogni anno; le norme ad personam di Berlusconi furono come lampi in Parlamento, il Porcellum fu approvato in due mesi circa, ecc.. I tempi sono rapidi quando c’è la volontà politica, soprattutto se negativa.
Si, per fare buone leggi valeva la pena di riformare il bicameralismo. Era meglio eliminare il Senato, imponendo alla Camera maggioranze qualificate sulle leggi di garanzia costituzionale; oppure si poteva specializzare il Senato come camera di Alta legislazione, priva di fiducia, ma dedita alla produzione di Codici al fine di assicurare l'organicità, la sobrietà e la chiarezza delle norme. Erano soluzioni forse troppo semplici. Si è preferito invece un assetto tanto arzigogolato da pregiudicare perfino l’obiettivo della velocità.
Potestas sine auctoritas in Senato
È un bicameralismo abbondante, frammentario e conflittuale. Il Senato mantiene, seppure in modo contorto e controverso, molti poteri, ma perde l’autorevolezza, diventando il dopolavoro del ceto politico regionale, senza l’indirizzo politico né il simbolo di un'antica istituzione. Bisogna riconoscere che il primo testo del governo mostrava una certa coerenza cambiando anche il nome in Assemblea delle autonomie.
Poi è stato reinserito il nome Senato più per la nostalgia che per il rango. All'opposto del suo riferimento storico, infatti, è un'Assemblea dotata di potestas ma povera di auctoritas. In tali dosi la prima tende a superare i limiti e la seconda non basta a irrobustire la responsabilità. Il risultato sarà una conflittualità sulle attribuzioni delle leggi, affidata ai Presidenti delle Camere senza soluzione in caso di disaccordo.
Il contenzioso verrà alimentato da una pessima scrittura del testo. In certe parti assomiglia a un regolamento di condominio, è come uno scarabocchio sullo stile sobrio della Carta. Ora perfino gli autori dicono che si poteva fare meglio. Quale demone ha impedito di scrivere un testo in buon italiano?
Crisi politica, non costituzionale
L'ossessione nel cambiare la Costituzione è una malattia solo italiana, non ha paragoni in nessun paese occidentale. Eppure tutti i sistemi istituzionali sono prodotti storici e quindi naturalmente difettosi. La Costituzione americana non prevede neppure il decreto legge, ma consente di gestire un impero e alimenta da oltre due secoli una religione civile, nessuno si sognerebbe di modificarne decine di articoli.
Sono i governanti che devono compensare con la politica i difetti dell’ordinamento, quando non sanno farlo invocano le riforme istituzionali. Che intanto sono servite a cancellare il tema dell’attuazione della Costituzione. Basta rileggere l’articolo 36: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Sono principi negati per milioni di italiani, di giovani e di migranti, senza che il rispetto della Carta diventi mai una priorità politica.
Tutto è cominciato quando sono finiti i vecchi partiti, che nel bene e nel male comunque avevano governato il Paese, sia in maggioranza sia dall’opposizione. Da allora il ceto politico non è stato capace o non ha voluto rigenerare strutture politiche adeguate ai nuovi tempi e ha scaricato tale incapacità sulle istituzioni. Si è trasformata una crisi politica in una crisi costituzionale. Alcuni politici si sono dati l’alibi dicendo che volevano spostare le montagne ma le procedure parlamentari lo impedivano.
Che il Paese non si possa governare a causa del bicameralismo è la più grande panzana raccontata al popolo italiano nel secondo Novecento. Senza temere il ridicolo, l’establishment promette che il nuovo articolo 70 aumenterà il PIL; ora si promette anche la lotta al terrorismo e altro ancora! È un sacco vuoto che può essere riempito di ogni cosa.
Servire, non servirsi della Carta
All'inizio c'era almeno un'intenzione costruttiva, che le riforme servissero a stimolare il rinnovamento dei partiti. Anche io ho creduto in tale opera pia, ma era come il tentativo del barone di Münchausen di sollevarsi da terra tirandosi per il codino. Non era possibile che i partiti in caduta verticale di idee e di consensi avessero miracolosamente la capacità di riscrivere la Carta. Con il risultato che la crisi politica non curata è degenerata nel discredito dei partiti e le riforme istituzionali sono sempre fallite.
Sono state numerose - basta con la storiella delle occasioni mancate! – ma hanno fallito perché motivate solo da interessi politici contingenti, non da progetti costituzionali: il Titolo V della sinistra per rincorrere la Lega; la riforma del 2005 per frenare la crisi di Berlusconi; lo jus sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini; il pareggio di bilancio per celebrare Monti. Oggi si ripete l’errore con maggiore impeto: si riscrive la Carta per legittimare un governo privo di un programma presentato agli elettori e per prolungare il Parlamento addirittura come Assemblea Costituente, pur essendo costituito con legge elettorale illegittima.
Che vinca il Si o il No, comunque è una revisione costituzionale senza futuro. Non può durare nel tempo perché è scritta solo dal governo attuale, non è frutto di un’intesa, anzi alimenta la discordia nazionale. Lo so bene che alcuni si sono sfilati per misere ragioni, ma dalla nostra parte non si è cercato sempre uno spirito costituzionale. Anzi, è prevalsa l’illusione che “spianare gli avversari” – come si dice oggi con lessico desolante – potesse rafforzare la leadership del PD.
Provo un senso di pena per chiunque motivi la revisione della Carta con la lotta alla Casta del Parlamento. La riduzione dei costi degli eletti c’è già stata e si può fare di più con le leggi ordinarie. Se invece si scomoda la Costituzione è solo per impressionare l’opinione pubblica. Il populismo di governo è tanto sguaiato quanto inefficace, perché non batte neppure l’originale grillino, come si è visto alle elezioni.
E racconta mezze verità. La riduzione del numero dei parlamentari c'è solo nel Senato che perde rango, ma non nella Camera che aumenta il potere. Eppure è proprio il numero dei deputati, in rapporto alla popolazione, è tra i più alti in Europa. I “rottamatori” non hanno avuto il coraggio di deliberare per una Camera più piccola, come invece seppero fare la destra nel 2005 e la sinistra nel 2007.
L'illusione della decisione imperativa
Con la scusa di riformare il bicameralismo, e con l’aggiunta dell’Italicum, in realtà si cambia la forma di governo, senza neppure dirlo. È il “premierato assoluto” tanto temuto da Leopoldo Elia: un leader in partenza minoritario può vincere il ballottaggio e conquistare il banco, non solo per governare il paese, ma per modificare a suo piacimento le regole e le istituzioni di tutti. Ormai se ne è accorto anche il presidente Napolitano del pericolo di “lasciare la direzione del Paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno”.
La concentrazione del potere investe tutti gli aspetti dell’ordinamento: l'esecutivo domina il legislativo, la Camera prevale sul Senato, il premio di maggioranza non è compensato dai diritti della minoranza, i capilista si allontanano dal controllo degli elettori, i voti di chi vince valgono il doppio di quelli di chi perde, il capo di governo o comanda sulla Camera o ne chiede lo scioglimento, facendo pesare la legittimazione ottenuta nel ballottaggio. Infine, lo Stato ha la "supremazia" sulle Regioni.
Dopo l'ubriacatura del federalismo si "cambia verso", tornando indietro al centralismo statale di cui ci eravamo liberati con entusiasmo. Si passa da un eccesso all'altro, senza mai cercare la misura in una cooperazione tra nazionale e locale. A tal fine, la decisione più importante sarebbe la riduzione del numero delle Regioni, ma viene rinviata sine die. Quando la partita è difficile i riformatori muscolari gettano la palla in tribuna.
Da che cosa viene questa voglia smodata di concentrare il potere? Nei momenti di crisi è più facile cadere nelle illusioni. La più grande di tutte è che la complessità italiana possa essere risolta dalla decisione imperativa. Eppure essa è innaturale per il carattere nazionale, è antistorica per la Repubblica costituzionale, ed è anche inefficace per un'Amministrazione debole come la nostra.
L'ossessione di affidarsi a uno solo sembra una terapia e invece è la malattia. La fortuna del Paese è quando molti si danno la mano. Dal centralismo sono venute solo dissipazioni di risorse e ritardi storici. Le buone leggi si scrivono quando la politica non fa tutto da sola, ma aiuta la generatività sociale, ha fiducia nel Paese e ne viene ricambiata. I frutti migliori dello spirito italiano sono sempre venuti dalla molteplicità.
Il piccolo mondo antico di Aldo Bozzi
Vorrei che i giovani politici ci chiamassero a realizzare nuove ambizioni. Mi rattrista vederli cincischiare con il piccolo mondo antico Aldo Bozzi, un vero signore, dall'aspetto ottocentesco, che calcava la scena quando molti di loro non erano ancora nati. Dopo il fallimento della sua prima Bicamerale, molti ci rimasero male, ma li tranquillizzò Norberto Bobbio: le riforme istituzionali - disse - sono fanfaluche che servono solo a eludere i veri problemi della democrazia italiana.
Eppure, il programma di allora è proseguito fino a oggi, sempre la stesso, con piccole varianti. A forza di raccontarlo come il nuovo è invecchiato prima di essere attuato, perché erano sbagliati i problemi da cui partiva. Per trent'anni i politici hanno ripetuto che la governabilità era più importante della rappresentanza. Quasi la metà del popolo li ha presi in parola disertando le urne.
Le consunte ricette della politologia sono state bruciate dagli eventi. Siamo corsi dietro il modello Westminster, ma il bipolarismo non esiste più neppure in quel paese. Invece di convincere gli elettori astensionisti, si è tentato di sostituirli con i premi di maggioranza. Invece di confrontarsi sui programmi di governo, i partiti si distinguono sulle leggi elettorali.
Ha dominato da noi un imperativo quasi inesistente in Europa: la sera delle elezioni al telegiornale si deve sapere chi governa. Però nella Seconda Repubblica nessun governo è stato confermato alle elezioni, nonostante la prosopopea della stabilità. È paradossale lo scarto: mentre aumentavano i poteri degli esecutivi diminuivano i consensi dei cittadini.
Forse quell’imperativo è sbagliato, perché orienta la politica solo alla sera delle elezioni, non alla duratura guida del Paese. Spinge i partiti a diventare mere macchine elettorali, senza progetto culturale e senza radicamento sociale, e quindi senza strumenti adatti a governare i processi di cambiamento. Seleziona politici che sanno solo scrivere leggi e ne approvano tantissime. Ma la bulimia legislativa è un segno di impotenza del governo.
Occupiamoci del futuro e lasciamo agli storici la spiegazione di come mai la politica si è presa una lunga vacanza dalla realtà giocando con l’orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali. Il bicameralismo è certamente un difetto da correggere, non lo nego, ma in una graduatoria di importanza sarà forse il centesimo; con la vittoria del NO la classe politica dovrà occuparsi dei 99 problemi più importanti dell'Italia.
Cambiare il PD è una riforma costituzionale
Nel paese del melodramma si mettono in scena le tragedie anche su problemi inesistenti. Se il NO vince non è l’apocalisse. Chi ha alimentato il panico saprà anche sgonfiarlo. Ammiro gli inglesi almeno per la forma, certo non per il contenuto della sciagurata Brexit, quella si una scelta davvero dirimente per il Paese. Il partito conservatore ha bruciato il suo leader e i due probabili successori, ma in poche settimane ha trovato un quarto leader, una donna, e ha ripreso il cammino del governo. Ecco a cosa servono i partiti, a risolvere le crisi, da noi invece si utilizzano le crisi per annichilire i partiti.
Si dirà che il Pd non è solido come i Tories e non reggerebbe una smentita al referendum. Forse perché a differenza dei partiti europei dipende esclusivamente dalla persona che lo rappresenta. Non solo oggi, da quando lo abbiamo fondato - sono ormai dieci anni - il Pd si è occupato solo della leadership, tutto il resto è andato in secondo piano: il progetto Paese, la cultura, l'organizzazione, la selezione dei dirigenti. Ma è proprio di queste carenze che poi rimangono vittime i leader. Dopo lo slancio iniziale smarriscono le promesse perché non hanno lo strumento per realizzarle. È successo con Veltroni e con Bersani, e rischia di ripetersi con Renzi.
La Costituzione è difettosa soprattutto nell'articolo 49, poiché oggi mancano i partiti per "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Non basta la nuova legge sui partiti se non si riforma la sostanza della politica. Cominciamo almeno dalla nostra parte. Cambiare il PD è già una riforma costituzionale.
Postilla
Care democratiche e cari democratici, voterò NO al referendum utilizzando la libertà di voto che il nostro Statuto consente in materia costituzionale. Il dissenso è una bevanda amara da prendere in piccole dosi, quindi cerco di esprimerlo nelle forme strettamente necessarie. Non ho aderito al comitato per il NO, pur condividendone il compito e stimando tanti cari maestri che lo rappresentano. Qui ho espresso le mie personali motivazioni, ma credo ci siano nel PD tanti militanti ed elettori che con argomentazioni diverse condividono la scelta per il NO.
Sarebbe utile ritrovarsi in una dichiarazione comune e promuovere momenti di confronto e di approfondimento; ancora lo Statuto consente di esprimere in forma collettiva una scelta diversa da quella della maggioranza. Potremmo contribuire al dibattito referendario con una motivazione critica, ma rispettosa della posizione ufficiale. Sarebbe un altro buon esempio di democrazia del PD, e aiuterebbe a superare le personalizzazioni e le drammatizzazioni che si sono rivelate inutili e dannose. I democratici per il No possono contribuire a una discussione di merito sul significato del referendum.
Prima o poi, per il referendum costituzionale voteremo. Forse. Giunge notizia di una tesi che potrebbe farci dubitare. La Cassazione ha dichiarato ammissibili le richieste referendarie presentate dai parlamentari in data 6 maggio 2016. Secondo la legge 352/1970 il referendum viene indetto entro i 60 giorni successivi. Quindi il termine, se dovesse farsi decorrere dal 6 maggio, sarebbe ampiamente scaduto. Dando luogo ad almeno due domande: può essere indetto un referendum oltre il termine di legge? E se non fosse più possibile indirlo, che ne sarebbe della legge Renzi-Boschi?
Una tesi insostenibile. Anzitutto, come ho già scritto su queste pagine, la presentazione da parte di un comitato promotore della richiesta di raccogliere 500 mila firme apre la via al termine di tre mesi per la raccolta. La richiesta è stata nella specie presentata prima che i parlamentari presentassero la propria. L’iniziativa dei parlamentari non incide sulla richiesta del comitato promotore. Le norme vigenti pongono sullo stesso piano le tre possibili richieste referendarie: popolo, parlamentari, consigli regionali. Non c’è alcun criterio di supremazia gerarchica o di priorità.
Se l’iniziativa dei parlamentari non azzera quella di un comitato promotore, tanto meno può produrre questo effetto la pronuncia della Cassazione sull’iniziativa medesima. La pronuncia della Corte è meramente strumentale al prosieguo del procedimento per quanto riguarda la specifica richiesta. Quello che conta è il diritto garantito ai soggetti promotori dalla Costituzione e dalla legge. E quindi per l’indizione del referendum non può non tenersi conto dei tre mesi previsti per la raccolta delle 500 mila firme.
D’altra parte, se volessimo ritenere perentorio e scaduto il termine per l’indizione del referendum, ne verrebbe l’impossibilità di indirlo. La mancanza del voto popolare avrebbe come conseguenza inevitabile che la legge Renzi-Boschi non vedrebbe mai la luce. Ai sensi dell’art. 138 Cost. la legge di revisione approvata a maggioranza assoluta dei componenti è promulgata ed entra in vigore, qualora venga chiesto il referendum, solo a seguito di un voto popolare positivo. Se il voto è negativo, questo effetto non si produce. Lo stesso ovviamente accadrebbe se il voto mancasse del tutto. Possiamo discutere sulla qualificazione giuridica, Ma la riforma non esisterebbe come tale.
Lasciamo perdere. E pensiamo al da farsi per il voto che ci sarà, quando farà comodo al governo. La raccolta delle firme sui referendum istituzionali – legge Renzi-Boschi e Italicum – non ha avuto successo, ma ha comunque mobilitato centinaia di migliaia di persone, e ha fatto nascere un gran numero di comitati locali in tutto il paese. È su queste forze che dovremo contare nella campagna che sta per iniziare.
Va detto però che una campagna per la raccolta delle firme è cosa ben diversa da quella per il voto referendario. La persona che viene a un banchetto per firmare è già almeno in parte informata, o è disposta ad ascoltare e informarsi. Si ha la possibilità di argomentare le proprie ragioni e di controbattere quelle degli avversari. C’è un contatto ravvicinato che si conclude con la firma. Tutto questo in larga misura viene meno nella campagna elettorale in senso stretto. Nel 2006 votarono sulla riforma del centrodestra oltre 25 milioni di italiani (il 53,84% degli aventi diritto), e i no furono oltre 15 milioni (61,64%). Con una platea così vasta già sappiamo che non è il fine argomento giuridico a dare la vittoria. Non illudiamoci che possa far presa oltre una cerchia comunque relativamente ristretta l’illustrazione delle aporie, delle contraddizioni, delle omissioni, degli errori tecnici e di scrittura. Soprattutto quando dall’altra parte vengono argomenti rozzi che strizzano l’occhio all’antipolitica.
E allora? Bisogna far passare il messaggio che difendere la Costituzione conviene, è utile nel vivere quotidiano. Difendere la Costituzione non per il ricordo di ieri, ma per i bisogni di oggi. Partendo dalla constatazione che l’attacco è già cominciato con la riduzione dei diritti che la Costituzione garantisce – lavoro, salute, istruzione, ambiente – e la crescita esponenziale delle diseguaglianze. Le riforme in campo sono volte a consolidare e perpetuare le fratture sociali, economiche, territoriali, mettendo il bavaglio al dissenso e riducendo oltre ogni ragionevole misura la rappresentatività delle assemblee elettive. Puntano a un governo oligarchico e autoreferenziale, espressione di una minoranza che non sarà certo dalla parte dei più deboli. La vittoria del no può capovolgere questo indirizzo e aprire vie nuove per la politica italiana. La domanda è: Volete esserci e contare, tutti i giorni, e non un solo giorno ogni cinque anni, in cui votate per mettere i vostri diritti di cittadinanza in mano a chi comanda?

«». Il manifesto, 14 luglio 2016 (c.m.c.)
Professor Rodotà, Renzi sembra essersi emendato sulla ’personalizzazione’ del referendum e aver cambiato verso sulla legge elettorale: dopo aver imposto la fiducia, ora dice che il parlamento è libero di decidere. Ci crede? O è solo tattica, una finta per rilanciarsi?
In questi giorni Renzi sembra in difficoltà. Dire «sulla legge elettorale si vada in parlamento», visti i trascorsi, è significativo del modo in cui intende muoversi. Siamo alla contraddizione quotidiana. Ma alla fine è il sintomo di una regressione culturale, e lo dico anche se di cultura fin qui se n’è vista poca da parte sua e del suo ceto politico. Le riforme hanno chiari elementi di conservazione: non ’aprono’, non vanno nella direzione del cambiamento democratico. E la cultura di quel ceto politico è inadeguata alle domande che vengono dalla società, dallo stesso ceto politico e persino dai conflitti dentro il Pd.
Le domande della società sono quelle avanzate dal ricambio emerso alle comunali?
Il ceto politico inadeguato che si è presentato alle elezioni non poteva ottenere consenso da parte dei cittadini che si erano allontanati dalla linea del Pd. La risposta politica è stata marcata. Senza enfatizzare, basta guardare come si è distribuito il voto fra il centro e le periferie. Renzi l’innovatore ha fallito sul terreno in cui si dichiarava forte, l’incontro con la società.
Per Renzi il referendum può diventare un boomerang, come lo è stato per Cameron quello sul Brexit? E però nel voto di Londra non ci sono molti elementi progressivi.
Il parallelo con la mossa di Cameron sta nella furberia di usare un referendum per chiudere i conti nel proprio partito. Intendiamoci, in politica non è una novità. Quando in Francia ci fu il referendum sul Trattato costituzionale, io da estensore della Carta dei diritti fondamentali partecipai alla campagna per il Sì.
Ma una serie di parlamentari socialisti con cui avevo lavorato molto mi spiegarono che votavano no: «Perché Fabius gioca una sua partita nel Ps».
In questi anni si è venuto manifestando, non solo in Italia, un uso delle istituzioni legato sempre più a regolare conti interni. Il voto su Brexit ne è un esempio. Ma è sbagliato e pericoloso. Renzi non si preoccupa della divisione che promuove nella società. Invece la massima preoccupazione dei Costituenti fu che nella Carta si riconoscesse il maggior numero di soggetti politici e di cittadini, tant’è che quando De Gasperi escluse socialisti e comunisti dal governo non ci fu nessuna reazione aggressiva, si andò avanti lo stesso. Qui stiamo all’opposto, a conferma l’inadeguatezza del ceto politico. Hanno un problema con i 5 stelle, hanno bisogno di Alfano per sopravvivere, allora cambiano la legge elettorale. Gestiscono i conflitti politici con l’uso congiunturale delle istituzioni. Tutto è appiattito sul giorno per giorno.
Renzi è divisivo e felice di esserlo?
Del resto lui da subito ha puntato sulla divisione. Cos’altro è la rottamazione se non un’esclusione? Chi non accetta la mia linea lo escludo. Con parole aggressive e una continua falsificazione della realtà. Potrei parlare dell’informazione falsificata sulle proposte di Zagrebelsky, Onida, Azzariti e mie. Ma hanno persino falsificato la posizione di Pietro Ingrao della «centralità del parlamento».
Oggi invece Renzi e Boschi dicono: «discutiamo di merito», «spersonalizziamo».
Spersonalizzare non può, non può più se non abbandona le falsificazioni. E allora: non c’è alcuna semplificazione del procedimento legislativo. I risparmi sbandierati sono una strizzata d’occhio alla peggiore antipolitica, e comunque potevano esser fatti in maniera più efficace. Non sappiamo ancora come verranno selezionati i senatori. E ancora: dire che se non si vota sì non ci sarà più la possibilità di riformare la costituzione è un altro argomento falso. Quando si dà la voce ai cittadini, i cittadini debbono avere piena libertà di manifestare la loro opinione.
Il centro studi di Confidunstria calcola che la vittoria del no farebbe perdere al paese 4 punti di Pil e 600mila posti di lavoro. Anche il Fondo monetario prevede sfaceli.
La drammatizzazione è un altro modo di non entrare nel merito. Avverto che chi dice così non è in grado di analizzare la società italiana. Come chi dice che con il no l’Italia non avrebbe più un governo. In caso di dimissioni di Renzi c’è un passaggio costituzionale obbligato: il presidente Mattarella dovrebbe accertare se c’è un’altra maggioranza.
Intanto Renzi cerca di portare dalla sua qualche forza politica promettendo il premio di maggioranza alla coalizione, nell’Italicum.
È un tentativo un po’ ingenuo all’indirizzo di chi cerca un alibi per votare sì.
Anche perché quello che viene contestato all’Italicum davanti alla Consulta è il premio di maggioranza, non a chi viene attribuito.
Sull’Italicum non serve una modifica qualsiasi. I problemi aperti sono in primo luogo quelli legati alla sentenza sul Porcellum che riguarda la rappresentanza dei cittadini, l’Italicum tende a mantenerla bassa per il modo in cui è organizzata la scelta del capolista e di come sono selezionati i candidati. Ma siamo di nuovo all’uso congiunturale delle istituzioni. L’Italicum nasce quando la parola d’ordine di Renzi era un Pd al 40 per cento. Oggi che i dati sono cambiati, cambiano la legge: per costruire una coalizione che fronteggi il M5S e per tenere insieme il centrodestra.
I 5 stelle dunque hanno ragione a dire che è una mossa contro di loro?
Ma è evidente. Intendiamoci, nessuno scandalo: è chiaro che le leggi vengano fatte dalle maggioranze per vincere. Contro Le Pen Mitterrand introdusse un elemento di proporzionalità alla legge francese. Ma c’è una soglia di decenza che non dovrebbe essere superata.
Lei è favorevole allo ’spacchettamento’ del quesito?
Ho molte riserve. Sono stati messi in evidenza i problemi tecnici. E c’è il rischio che il legame fra la riforma costituzionale e la legge elettorale venga ricacciato sullo sfondo.
Ma dalla parte opposta, il fronte del no coglie la debolezza di Renzi? La mancata raccolta delle firme, anche sul quesito dell’Italicum parla di una scarsa mobilitazione oppure di una scarsa consapevolezza della posta in gioco?
Questo problema c’è. In questo momento è assolutamente indispensabile accentuare il lavoro sul versate del no. E mettere in evidenza i conflitti e le contraddizioni di cui abbiamo parlato.
C’è una coincidenza sfortunata, che forse coincidenza non è: proprio in questo momento la sinistra è debole, infiacchita dall’insuccesso delle amministrative, e nel pieno di uno stallo organizzativo.
Non c’è dubbio. Ma su questo non ho una risposta sbrigativa. Avevamo lanciato la Coalizione sociale sull’idea che non fosse sufficiente mettere insieme le forze già esistenti più o meno riferibili alla sinistra. Serviva un passo in una direzione più larga. Il tentativo non è andato bene. Dobbiamo discuterne perché, per esempio, contemporaneamente invece sono successe cose importanti: la Cgil ha raccolto le firme che annunciano una stagione referendaria importanti su grandi questioni.
Perché la Coalizione sociale di Maurizio Landini non è andata bene?
Ci rifletto da qualche tempo. Certo le forze politiche organizzate non sono state generose. Non avrebbero dovuto fare un passo indietro ma aprirsi a un altro modo di lavorare.
E come potevano i partiti non fare un passo indietro? Lei all’epoca li aveva definiti «zavorra».
Può darsi che l’espressione non fosse felice. Ma ero convinto che se non si parlava chiaro le forze politiche avrebbero portato in quella nuova esperienza i loro fallimenti passati. E non c’è bisogno di ricordarli, da Ingroia all’Arcobaleno. Ora, da spettatore, guardo all’iniziativa di Cosmopolitica. Ma aspetto di vederne il contenuto reale.
Nelle città invece un ricambio c’è stato. A Torino e Roma hanno vinto i 5 stelle, a Napoli De Magistris. Succederà che non sarà la sinistra ’storica’ a rilanciare un’idea concreta dei beni comuni?
Le città sono i luoghi della creazione dei beni comuni. Il rapporto fra i diritti fondamentali delle persone e i beni perché questi diritti vengano organizzati. Bisogna creare le istituzioni dell’eguaglianza, che sono i beni comuni, della redistribuzione delle risorse. E rilanciare la discussione sul reddito garantito, che è difficile ma non può essere liquidata dicendo che non ci sono i soldi.
Veramente Renzi ha chiuso il discorso sul tema sostenendo che il reddito di cittadinanza è incostituzionale.
Renzi ormai può dire qualsiasi cosa. C’è una lettura dell’articolo 1 della Costituzione che va in tutt’altra altra direzione. La sua è un’affermazione sbrigativa che non coglie né gli aspetti istituzionali né quelli sociali della questione. Torniamo al punto di partenza: Renzi e i suoi hanno una cultura del tutto inadeguata alle domande che vengono dalla società.
». Il manifesto, 8 luglio 2016 (c.m.c.)
Quando mancano tre mesi al referendum sulla riforma costituzionale, la Confindustria, il presidente del Consiglio e l’immancabile presidente della Repubblica emerito si scatenano preannunciando, nell’ipotesi di vittoria del No, sfracelli indicibili, tra i quali spicca – tragedia senza pari – il ritorno del giovane e incompreso premier alla natia Firenze. Ce ne faremo una ragione. Ma, intanto, è utile ricordare gli sconquassi che una vittoria del Sì provocherebbe sul sistema politico (ben più rilevanti delle personali fortune di Matteo Renzi e del suo entourage).
Gli sconquassi sono molti ma uno li riassume tutti e sta nella stessa concezione della politica sottostante alla riforma Renzi-Boschi. Essa, infatti, non è una semplice (ancorché brutta) operazione di ingegneria istituzionale ma un intervento che incide profondamente e negativamente sul senso della Costituzione, sul suo rapporto con la società, sulla struttura della democrazia. Partiamo, dunque, da qui.
Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), tracciano il quadro delle regole condivise all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro politico. Sono, in altri termini, l’elemento unificante di una collettività.
Così è stato per la nostra Carta del ’48, che ha trasformato un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune, riconosciuta come propria pur nelle profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali dalla generalità dei cittadini.
Non a caso essa venne approvata, pur all’esito di un dibattito a volte aspro, con 453 voti favorevoli su 515 e non ebbero ricadute sul patto costituzionale neppure la rottura dell’unità antifascista e l’estromissione delle sinistre dal Governo, intervenute nel maggio del 1947, come sottolineò, nella dichiarazione di voto per conto del Partito comunista, l’onorevole Togliatti precisando che: «noi siamo fuori del Governo ma dentro la Costituzione».
Questa impostazione ha guidato tutti i processi parlamentari finalizzati al cambiamento della Carta fino alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori si conclusero senza alcun intervento modificativo perché, come annunciò il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, la Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione».
Tutt’altro il disegno che ha ispirato la riforma approvata nell’aprile scorso da un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale: iniziativa del Governo (pur privo di competenza al riguardo, tanto che, per esempio, in sede di assemblea costituente l’allora presidente del Consiglio De Gasperi intervenne una sola volta e, ostentatamente, dal suo seggio di deputato e non nel ruolo di capo del Governo), iter parlamentare caratterizzato da artifici e colpi di mano, spaccatura verticale nel voto delle Camere (con prevalenza del voto favorevole per poche unità).
Non è un fatto del tutto nuovo. Così vennero approvate, dal centrosinistra, le modifiche costituzionali del 2001 (relative al titolo V) e, dal centrodestra, quelle del 2006 (relative alla forma del Governo e dello Stato). Ma si trattò allora di interventi limitati o bocciati, poi, dall’esito referendario.
Ora, anche con il supporto di una inedita campagna mediatica, si persegue la chiusura del cerchio di un progetto nato agli albori della cosiddetta seconda Repubblica su iniziativa di forze politiche estranee al progetto costituzionale del 1948. Si deve, infatti, al costituzionalista di riferimento della Lega, Gianfranco Miglio, la teorizzazione secondo cui «è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà.Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze» (L’indipendente, 25 marzo 1994).
Oggi quel progetto si realizza e la Costituzione si trasforma da “casa di tutti” in “attico per alcuni”, legge di parte, “bottino di guerra” dei vincitori. Ciò – è bene sottolinearlo – porta con sé la delegittimazione della rappresentanza, l’esclusione in radice della mediazione e del confronto come regola della democrazia, un modello di società divisa e disuguale in cui non c’è posto per gli sconfitti.
L’effetto inevitabile è una società disgregata, senza punti di riferimento comuni (in particolare nei momenti difficili, quando i governanti invocano l’unità del paese…), in cui viene travolto nei fatti anche il principio di uguaglianza previsto nell’articolo 3 della Carta (che non può fondarsi sulla prevaricazione del più forte).
Formiche.it, rilanciata dal Coordinamento Democrazia Costituzioanle online. 6 luglio 2016 (p.d.)
Prof. Pace, lei è il Presidente del Comitato per il No alla Riforma Costituzionale. Chi fa parte di questo comitato oltre a lei?
Giuristi come Gianni Ferrara, Lorenza Carlassare, Massimo Villone, Giuseppe Ugo Rescigno, Mauro Volpi, Gaetano Azzariti e Francesco Bilancia; magistrati come Domenico Gallo, Armando Spataro, Giovanni Palombarini e Nicola D’Angelo; sindacalisti come Alfiero Grandi e Mauro Beschi; ex parlamentari come Francesco Pardi, Vincenzo Vita, Giovanni Russo Spena. Successivamente si sono aggiunti ex giudici costituzionali come Franco Bile, Riccardo Chieppa, Gustavo Zagrebelsky e Paolo Maddalena; politologi come Gianfranco Pasquino, Michele Prospero, Nadia Urbinati e Maurizio Viroli; storici di discipline umanistiche come Nicola Tranfaglia, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Salvatore Settis, Marco Revelli e Tomaso Montanari; filosofi come Gianni Vattimo, Girolamo Cotroneo e Giuseppe Rocco Gembillo; fisici come Piergiogio Odifreddi, Giorgio Parisi e Giorgio Nebbia; registi cinematografici come Giuliano Montaldo e Citto Maselli; attori come Monica Guerritore, Toni Servillo e Moni Ovadia; un attore-autore come Dario Fo, e infine due sacerdoti impegnati nel sociale come don Luigi Ciotti e don Alex Zanotelli.
E cosa vi ha spinti a compiere questa scelta?
Ciò che ci ha spinti a questa scelta è stata la difesa dei principi della nostra Costituzione, che con questa riforma verrebbero travolti, in quanto essa va ben oltre alla modifica della seconda parte.
Secondo alcuni, i sostenitori del No sono dei conservatori. Persone che vorrebbero impedire che questo paese venga riformato. È così? Si ritrova in questa descrizione?
Niente affatto! Un filosofo indiano, Inayat Khan, molti anni fa, scrisse che non tutto quello che viene dopo, è progresso. E la riforma Boschi costituisce complessivamente un regresso rispetto alla Costituzione del 1947. E’ una riforma pasticciata: 1) perché i senatori, nella falsa ed infondata pretesa di rappresentare gli enti territoriali minori – che si potrebbe avere soltanto negli Stati federali – , svolgerebbero part-time sia le funzioni di consiglieri regionali o di sindaci, sia quelle di senatore, ancorché le funzioni del Senato siano notevoli e impegnative; 2) perché i tipi di procedimento legislativo, dagli attuali due, diventerebbero almeno otto, con notevoli rischi di contrasto tra Camera e Senato; 3) perché la distribuzione delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni, oltre ad essere fortemente sperequata a favore dello Stato, è piena di errori e di dimenticanze con riferimento anche a materie importanti; 4) perché, in prospettiva, grazie all’Italicum – che della riforma costituzionale ha costituito il perno -, il Presidente del Consiglio, con il Senato ridotto ad un ombra, avrebbe il dominio incontrastato dei deputati in parte da lui stesso nominati, con un implicito e strisciante ridimensionamento degli organi di garanzia.
Arriviamo alla sostanza della questione: la riforma della Costituzione. Nel testo “la Costituzione Bene Comune” lei dà un giudizio molto severo dell’operato di questo Parlamento. Cita la sentenza n. 1 del 2014 della Corte Costituzionale e il “principio fondamentale della continuità dello Stato”. Lei sostiene che questo Parlamento non era legittimato a intraprendere un percorso di riforme come quello messo in atto con Renzi?
Non lo dico io. Lo ha scritto la Corte costituzionale – nella sentenza n. 1 del 2014 – che la legge n. 270 del 2005, il così detto Porcellum, era incostituzionale perché la governabilità veniva assicurata a danno della rappresentatività.
L’intendimento della Consulta in quella sentenza era chiaro: le Camere, ancorché delegittimate, avrebbero potuto e dovuto approvare al più presto le nuove leggi elettorali, non già in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, ma in forza del «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato», e subito dopo avrebbero dovuto essere sciolte. Invece, le Camere hanno continuato ad operare. Anzi, nonostante non fossero rappresentative, venne loro affidato, grazie all’allora Presidente della Repubblica, e soprattutto al PD (con il nuovo segretario privo di mandato elettorale) e a Forza Italia, il compito più oneroso che possa essere attribuito ad un’assemblea politica: la “riforma” della Costituzione. Un vero e proprio azzardo perché la Consulta, aveva fatto capire, con due esempi, che il «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato» può operare solo per brevi periodi di tempo. La Consulta citò infatti gli articoli 61 e 77 della Costituzione, i quali consentono bensì la prorogatio delle funzioni dei parlamentari in caso di scioglimento delle Camere, ma tutt’al più solo per un paio di mesi di tempo.
Chi ha sbagliato allora, il Presidente della Repubblica o la Corte Costituzionale nel non intervenire?
È ben vero che all’inizio del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco. Ma per evitare questo pericolo sarebbe stato sufficiente soprassedere, per il momento, allo scioglimento delle Camere. Invece si è messa in cantiere una riforma costituzionale da parte di un Parlamento delegittimato, con parlamentari insicuri del proprio futuro e quindi pronti a cambiar casacca. Il che è appunto accaduto, essendoci state ben 325 migrazioni, se non di più, da un gruppo parlamentare ad un altro. La responsabilità ricade in effetti sia sull’allora Presidente Napolitano – che la Ministra Boschi ha ripetutamente omaggiato come il “padre della riforma” -, sia sul Presidente del Consiglio Renzi, sia infine, come Lei suggerisce, sulla Corte costituzionale, anche se ipotizzo che ci sia stato un tempestivo intervento del Quirinale per evitare pubbliche prese di posizione da parte dell’allora Presidente della Corte costituzionale.
Torniamo un momento indietro. La riforma della Costituzione riguarda la modifica del ruolo e delle funzioni del Senato, primariamente. Quali sono gli aspetti tecnici che valuta negativamente?
Sono svariati. In primo luogo, la violazione dell’articolo 1 della Costituzione, secondo il quale il fulcro della sovranità popolare sta nell’elettività diretta negli organi legislativi, come sottolineato dalla stessa Consulta nella sentenza citata, laddove i senatori verrebbero eletti non dal popolo bensì dai consigli regionali. E poi c’è tutta una serie di scelte irrazionali.
E dove sono, secondo lei, le ambiguità, le scelte irrazionali o le fratture che hanno spinto alcuni, come il prof. Zagrebelsky, a parlare di una “democrazia svuotata”?
In primo luogo, nonostante l’importanza e la quantità delle loro funzioni, i senatori dovrebbero nel contempo esercitare le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. In secondo luogo, la eccessiva differenza tra il numero dei deputati (630) e quello dei senatori (100), con la conseguenza dell’assoluta irrilevanza della presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. L’incongruità della nomina da parte del Presidente della Repubblica di cinque senatori per un periodo corrispondente alla durata del suo mandato. La sproporzione tra i due giudici costituzionali eletti dai 100 senatori e i tre giudici costituzionali eletti dai 630 deputati, con la conseguenza che l’elezione selettiva da parte del Senato potrebbe rischiare di introdurre nella Corte una logica corporativa.
Ma le ragioni per le quali si è giustamente parlato di democrazia svuotata stanno solo in parte nell’eliminazione del Senato come possibile contropotere. Esse stanno altresì nella mancata previsione di contropoteri in capo alle opposizioni, come la previsione del potere d’inchiesta parlamentare ad iniziativa di una minoranza qualificata, che in Germania esiste sin dalla Costituzione di Weimar. Nella riforma Boschi essa costituì l’oggetto di più emendamenti che non furono accettati dal Governo. Ma c’è di più: nella riforma Boschi i diritti delle minoranze parlamentari e lo statuto delle opposizioni sono rimessi ai regolamenti parlamentari che, com’è noto, devono essere approvati dalla maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea.
Se dovesse citare solo pochi aspetti concreti, diciamo due, per dire che è importante e giusto votare no alla riforma costituzionale, quali sarebbero?
Il pericolo maggiore, già accennato in precedenza, sta nella combinazione della riforma Boschi con l’Italicum, grazie alla quale il leader del partito vittorioso, anche con solo il 25 per cento dei voti, sarebbe, di fatto, un “premier assoluto”. Ma quand’anche, prima del referendum, venisse modificata la legge elettorale attribuendo il “premio di maggioranza” (sic!) alla coalizione vincitrice anziché al partito, l’atteggiamento critico nei confronti della riforma non cambierebbe, non solo per quanto detto in risposta alla precedente domanda, ma anche perché il Senato, così come disegnato, non funzionerebbe.
Perché?
Il futuro articolo 55 proclama che il Senato rappresenterebbe le istituzioni territoriali, ma le funzioni elencate in quell’articolo sono del Senato non in quanto rappresentante delle istituzioni territoriale, ma in quanto organo dello Stato (funzione legislativa, partecipazione alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea ecc.). Inoltre la partecipazione del Senato alla funzione legislativa, sia quella bicamerale, sia quella eventuale concernerebbe soltanto gli aspetti organizzativi. Per cui, nei rapporti dello Stato con le Regioni, le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato verrebbero disciplinate dalla sola Camera dei deputati.
La riforma della potestà legislativa nel rapporto Stato-Regioni è talmente sbilanciata a favore del potere centrale, da potersi addirittura prospettare la violazione dell’art. 5 Cost. che riconosce e tutela le autonomie locali. Le cinque Regioni a statuto speciale resterebbero immuni dalle modifiche della legge Boschi e di conseguenza ad esse non si applicherebbero gli indicatori del “costi-standard”, il che determinerebbe, nel sistema, una gravissima contraddizione di fondo. Per contro, le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, ingiustamente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato-Regioni. Verrebbero invece previste due potestà legislativa esclusive: una dello Stato in ben 51 materie e l’altra delle Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative.
Materie tipiche di ogni assetto autonomistico, quali la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo, verrebbero attribuite allo Stato ma al solo fine di dettare «disposizioni generali e comuni», senza però attribuire a chicchessia, e quindi nemmeno alle Regioni la relativa potestà di attuazione. E materie importanti come la circolazione statale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura, l’attività mineraria, le cave, la caccia e la pesca non sono state attribuite esplicitamente né allo Stato né alle Regioni, il che costituisce più il frutto di una dimenticanza che di una consapevole ma implicita scelta in favore delle Regioni.
Recentemente il Ministro Boschi è stata a Berlino per parlare alla sede della Konrad-Adenauer Stiftung, associazione vicina alla CDU di Angela Merkel. Ha raccontato di uno sforzo per avere un Senato simile a quello tedesco. Ravvede queste somiglianze?
Nessuna. Nel Bundesrat sono infatti presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder, preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871. I Länder, per il tramite di loro rappresentanti (uno o più), hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione.
Abbiamo già accennato a un aspetto importante, che molti esponenti del vostro Comitato sottolineano, cioè il combinato disposto con la legge elettorale. Perché si deve parlare della legge elettorale, se il Referendum di ottobre sarà sulle modifiche al Senato?
Perché, grazie alla legge elettorale denominata comunemente Italicum – che ripete i due vizi per i quali il Porcellumfu dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 1 de 2014, cioè il voto “bloccato” limitatamente ai capilista e premio di maggioranza assegnato, a seguito di ballottaggio, alla lista più votata ancorché abbia raggiunto anche solo il 25 per cento – il partito di maggioranza otterrebbe 340 seggi alla Camera dei deputati. Conseguentemente si avrebbe, da parte dell’elettorato, un’investitura quasi-diretta del leader del partito alla Presidenza del Consiglio, come ho già accennato. Il nostro ordinamento si orienterebbe perciò, di fatto, verso un “premierato assoluto”, non già grazie a particolari poteri ma in conseguenza dell’assenza di adeguati contro-poteri, come ho già avvertito.
Quali sono gli scenari che lei immagina per il Referendum di ottobre? Se vince il Sì davvero il Paese rischia una deriva autoritaria? Se vince il No, Matteo Renzi e una intera classe dirigente dice che lascerà la politica, e per Benigni significherà che questo Paese è irriformabile.
Ritengo eccessivo sostenere che con la vittoria del Sì ci sarebbe di per sé una svolta autoritaria. Certamente però la riforma porrebbe in essere i presupposti necessari perché un politico spregiudicato possa ridurre gli spazi di democrazia delle istituzioni repubblicane. Renzi ha sbagliato a condizionare la sua permanenza alla vittoria nel referendum di ottobre. E’ un tentativo di ricatto al quale gli elettori non devono soccombere. Ma costituisce l’ovvia conseguenza dell’azzardo dell’allora Presidente della Repubblica e dell’attuale Presidente del Consiglio, di aver voluto iniziare un percorso costituzionale in una Legislatura, come la XVII, notoriamente delegittimata, un azzardo tanto più sbagliato in quanto l’iniziativa della riforma costituzionale è stata del Governo, e non del Parlamento, con tutte le numerose storture procedurali che ho già ripetutamente denunciato altrove.
Quanto a Benigni, non credo che abbia chiara la distinzione tra revisione costituzionale e riforma costituzionale, ma sono d’accordo con lui che la nostra Costituzione non può essere modificata con riforme. Potrebbe esserlo ma solo con le revisioni costituzionali previste dall’art. 138 della Costituzione. Queste, a differenza delle riforme, concernono infatti soltanto le modifiche puntuali e omogenee della Costituzione a fronte delle quali l’elettore è libero di dire Sì o No. Le riforme concernono invece la modifica contestuale di varie parti della Costituzione, come la riforma Berlusconi che fu bocciata dal popolo nel 2006, e come la riforma Boschi, la cui intitolazione è significativa: «Superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, soppressione del CNEL e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione».
A parte il fatto che l’intitolazione della legge Boschi è addirittura parziale, perché tace, tra l’altro, delle modifiche del procedimento legislativo e dell’elezione dei giudizi costituzionali, è del tutto evidente che, a fronte delle modifiche indicate, l’elettore sarà costretto a rispondere con un solo Si o No, il che viola la libertà di voto, che costituisce uno dei principi fondamentali del nostro sistema costituzionale. Ad esempio, io voterò No, ma con riferimento all’abolizione del CNEL, se avessi potuto, avrei votato Sì.
Quindi…
In conclusione, la mia personale convinzione, da tempo maturata, è che, se si vogliono effettuare dei cambiamenti costituzionali partecipati dalla maggioranza dei cittadini, ci si dovrebbe limitare a proporre solo modifiche puntuali ed omogenee, quali la diminuzione bilanciata del numero dei deputati e dei senatori; l’attribuzione alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col Governo; la trasformazione del Senato in una effettiva camera territoriale; l’attribuzione alla Corte costituzionale del giudizio sull’incompatibilità e sull’ineleggibilità dei parlamentari; l’introduzione del potere d’inchiesta parlamentare ad iniziativa di una minoranza qualificata; l’abolizione del CNEL e così via.

«». Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2016 (c.m.c.)
Partiamo da Dossetti, perché è di lui che si occupa l’ultimo libro di Paolo Prodi (Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi, Il Mulino). «Comincio dal periodo immediatamente successivo all’approvazione della Costituzione, quando io studiavo alla Cattolica e il mio professore di Diritto costituzionale era Antonio Amorth, uno degli autori della nostra Carta», spiega Prodi. «La Costituzione, attraverso la Commissione dei 75 ha degli autori e, com’è noto, il testo fu perfino rivisto da linguisti e letterati, perché fosse efficace: la preoccupazione era che fosse comprensibile e armonico tra le sue varie parti».
E Dossetti?
Fu un protagonista di quella fase: come Aldo Moro era un giurista e dunque particolarmente preparato al compito. La sua attenzione alla Carta ebbe una nuova spinta all’inizio degli anni 90, con la nascita dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Allora parlai a lungo con lui: considerava la Carta certamente il patto tra tutti gli italiani, ma anche un patto per garantire l’equilibrio.
Nel ’46 – per evitare i pericoli di una guerra fredda, possibile in Italia perché eravamo sul confine tra i due mondi – bisognava approntare tutte le misure necessarie perché non ci fosse una prevalenza di una parte sull’altra. È qui che nasce il bicameralismo perfetto.
Qualche settimana fa Pierluigi Castagnetti ha detto: «Basta tirare per la giacca don Dossetti: è sempre stato contrario al bicameralismo paritario».
Stavo per dirlo: Dossetti ha dovuto digerire, all’epoca, il bicameralismo. Era contrario, ma lo riteneva politicamente essenziale. Una medicina amara, ma fondamentale per garantire quell’equilibrio di cui parlavamo.
Veniamo all’oggi. Cosa pensa di questa riforma?
Davanti alla Costituzione bisogna levarsi il cappello. La Carta è di tutti e non si cambia a colpi di maggioranza, specie se è una maggioranza come questa che si tiene in piedi a malapena. Ma prima ancora bisogna dire che questa nuova Costituzione è assolutamente incomprensibile, illeggibile. Sembra il bugiardino di un farmaco.
I sostenitori della legge di revisione dicono che non si tratta di estetica, ma di funzionamento delle istituzioni. La parola magica è “governabilità”.
Sento spesso parlare con disprezzo dei numerosi governi che si sono succeduti, specialmente nella Prima Repubblica. Quei governi però navigavano in acque tranquille, sia internamente che a livello internazionale. Certo calibravano, con o senza manuale Cencelli, i pesi delle correnti e delle varie personalità dentro ai partiti. Ma allora c’era una stabilità che di questi tempi ci sogniamo: a mancare non è oggi la stabilità dei governi, ma i partiti che sono evaporati.
Un problema che non si risolve con mezzucci tipo i capilista bloccati dell’Italicum. Piuttosto bisognerebbe applicare l’articolo 49 della Carta che dava ai partiti rilievo costituzionale. Nel ’58 Sturzo presentò in Parlamento un progetto di legge proprio sull’attuazione dell’articolo 49: ecco, oggi potremmo prenderlo e avremmo ben poco da aggiungere. La responsabilità politica non esiste più e si pensa di rimediare con il rafforzamento dell’esecutivo!
Il presidente del Consiglio ha legato il suo destino al felice esito della riforma.
Tutto parte dall’equivoco del doppio ruolo di premier e segretario del partito. Nella Dc uno statista come Alcide De Gasperi sapeva benissimo che se voleva vincere doveva permettere che il partito avesse una sua vita interna, dove lui come presidente del Consiglio non interveniva. Quanto a Renzi, puntando sulla vittoria come vincolo per la sua permanenza al governo si è preso un bel rischio. Quel che sta accadendo dopo il referendum sulla Brexit lo dimostra.
La riforma è molto disomogenea: voteremo su tantissime materie.
Da un punto di vista giuridico e razionale io sarei per lo spacchettamento, anche se so che è improponibile. Sottoporre al giudizio dei cittadini materie così diverse è un errore enorme.
Questa riforma è stata approvata con scorciatoie di ogni sorta: ghigliottine, canguri, sostituzione dei membri della commissione Affari costituzionali, sedute fiume. Lo spirito dell’articolo 138 è tutt’altro: una saggia ponderazione.
La forma non è stata violata, ma il metodo è profondamente sbagliato: certo i costituenti non pensavano a questo quando hanno scritto l’articolo 138. Tutta la riforma è un bitorzolo che cresce sulla nostra Costituzione. Non posso riconoscere valore costituzionale a un testo nato sotto spinte umorali e illogiche. Dicono che si migliorerà con il tempo: io studio la storia da mezzo secolo e non ho mai visto migliorare un sistema politico con questi percorsi. Il problema della democrazia è far coincidere la rappresentanza degli interessi con il tessuto sociale. Qui non si vede nulla di tutto questo.