La Repubblica, 6 maggio 2015
QUESTA riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).
La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde dell’abbandono scolastico e delle bocciature?
Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza: non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata come un successo.
I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente, non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.
Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che questa riforma può avere, ha ragione.
Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico: quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente: l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico. L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.
Il manifesto, 6 maggio 2015
Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra, ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole. Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni e che ha raggiunto nel 2013 oltre 7 miliardi di passivo! Importiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che consumiamo. Se riuscissimo a riportare in pareggio la bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30-40.000 nuovi posti di lavoro reali.
Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%, ed una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche. Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima. Come forse non tutti ricordano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini meridionali. In media venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e risorse per commercializzare i prodotti della terra. Risultato: dopo una decina d’anni le terre furono nuovamente abbandonate ed i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel Nord-Italia, in Svizzera, in Germania, nel Nord Europa.
Per non ripetere gli stessi errori occorre pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della popolazione e di un rapporto dialettico, senza escludere momenti conflittuali, con i soggetti e i movimenti sociali. Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili,per creare quelle reti sociali capaci di dare il “giusto valore” ai prodotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimostrato da alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. Diversi giovani sono andati o tornati nelle campagne, avviando esperienze di lavoro e di produzione innovativi. Inoltre, in queste zone interne dovrebbero essere finanziati quei progetti che puntano a rivitalizzare l’artigianato e la cultura locale, l’espressione artistica e la ricerca scientifica che è possibile delocalizzare (come hanno fatto alcuni Parchi nazionali in Italia ed in Europa).
Ma, questa “seconda Riforma Agraria” abbisogna di soggetti sociali che siano interessati a questa operazione. Le forze inutilizzate del mercato del lavoro interno non sarebbero di per sé sufficienti, ed adatte, a reggere una simile impresa di trasformazione del nostro territorio. Il popolo dei migranti potrebbe dare una mano d’aiuto formidabile al nostro paese. Naturalmente non tutti i migranti che vogliono venire in Europa, e che non finiscono in fondo al mare, desiderano e possono fare gli agricoltori o i braccianti. Molti di questi sono mossi non tanto dal bisogno di lavorare, ma dalla necessità di fuggire da guerre, persecuzioni, condizioni insostenibili di vita. Ma anche questi ultimi, alcuni con capacità e competenze elevate, sarebbero ben felici di inserirsi con un lavoro nelle nostre comunità, anche transitoriamente. I migranti, assieme ai giovani italiani che tornano nelle campagne, potrebbero diventare il soggetto sociale più immediatamente e direttamente interessati a questo progetto di difesa, valorizzazione e trasformazione della nostra agricoltura e del nostro territorio, al recupero di terre e paesi scartati ed emarginati, al pari di tanti giovani, da questo modello di sviluppo. Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esistere, di poter lavorare dignitosamente, di avere una casa, potrebbe costituire una occasione storica per far rinascere una parte rilevante del nostro paese ormai destinato all’abbandono ed al degrado.
Le vere Riforme che hanno modificato i rapporti di produzione sono nate sempre sotto la spinta di lotte sociali e movimenti di popolazione. La prima Riforma Agraria, nata dopo anni di occupazione delle terre e violenti scontri nelle campagne, segnò la sconfitta politica degli agrari. La seconda R.A. diventerà una realtà se verrà sconfitta la classe politica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repressione dei flussi migratori o l’accoglienza micragnosa, e questo movimento di essere umani che lottano per sopravvivere troverà la risposta appropriata nella trasformazione del nostro modello di sviluppo basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.
l manifesto, 5 maggio 2015
Nelle «20 circoscrizioni elettorali suddivise nell’insieme in 100 collegi plurinominali» i capilista, se la lista che capeggiano otterrà seggi, risulteranno automaticamente eletti senza essere stati votati. Così i deputati “nominati” dai capipartito risulteranno tanti quante saranno le liste che otterranno seggi. Quelle che di seggi ne conquisteranno uno solo, lo troveranno già scelto.
L’italicum rinnega poi il principio di uguaglianza prevedendo il “premio di maggioranza”, un dispositivo che prescrive nientemeno che la falsificazione della volontà dal corpo elettorale mediante la manipolazione del risultato dei voti espressi.
In qualsiasi pluralità umana la maggioranza dei voti si identifica nella loro metà più uno. Il “premio di maggioranza” non è attribuito a chi questi voti li ha acquisiti ma a chi non li ha acquisiti. Lo si conferisce ad una minoranza, a quella che ottiene un solo voto in più di ciascuna altra. Si traduce quindi in un privilegio per una delle minoranze rispetto a tutte le altre. Privilegio che comporta disconoscimento di voti validi e sottrazione di seggi alla maggioranza reale, reale perché composta dalla somma delle liste votate, esclusa la minoranza privilegiata. Quella a cui il corpo elettorale ha negato di diventare maggioranza ma contro la volontà popolare ne acquista il potere. Un’assurdità, una illogicità manifesta.
L’italicum è vorace. Non solo assegna 340 seggi alla lista che ottiene il 40 per cento dei voti (88 in più di quanti le spetterebbero). Ma, al secondo turno, che interviene se nessuna lista ha ottenuto il 40 per cento dei voti al primo turno, col ballottaggio tra le due liste più votate, attribuisce comunque questi 340 seggi, perciò anche ad una lista che di voti ne può aver avuto il 35 per cento, il 30, il 20 …
L’italicum, comunque, dissolve la democrazia rappresentativa stravolgendo la forma di governo e declassando il ruolo del Presidente della Repubblica. Perché trasforma l’elezione al Parlamento in elezione del “primo ministro, capo del governo”, la doppia denominazione che definiva la forma di governo vigente in Italia dal 3 gennaio 1925 al settembre 1943.
L’inventore dell’italicum, il politologo D’Alimonte, sostiene che il mostriciattolo che ha inventato realizza l’elezione diretta del premier ma non modifica la forma parlamentare di governo. Affermandolo o finge di non saperlo o ignora che la forma parlamentare di governo si identifica nella responsabilità del governo nei confronti del parlamento, organo della rappresentanza politica che esprime la sovranità popolare. Rappresentanza cui l’elezione diretta del premier sottrae tutti i poteri trasferendolo proprio al premier e renderlo anche dominus nelle elezioni degli organi di garanzia, Presidente della repubblica, Corte costituzionale, Csm.
Questa radicale mutazione della forma di governo nel suo opposto e questa oscena mistificazione di una qualche ipotesi di democrazia si connettono poi con la cosiddetta “riforma” del Parlamento che maschera, col superamento del bicameralismo paritario, l’eliminazione (della sede) di un contropotere allo strapotere del capo del governo nel regime che Renzi sta costruendo, quello dell’autoritarismo.
Va detto senza ambagi. L’italicum distorce l’arma indefettibile dei cittadini, il voto. Svuota la rappresentanza politica. Asservisce il Parlamento al governo. Soffoca la sovranità popolare. Investe di tutto il potere una persona sola.
Il testo di questa legge dovrà ora superare il controllo della promulgazione che deve essere quanto mai severo. Lo sia. In pericolo è la democrazia italiana.
La Repubblica, 4 maggio 2015
Camusso, ma non è paradossale uno sciopero della scuola contro una riforma che prevede 100 mila assunzioni di precari?
«Ma secondo lei — risponde il segretario generale della Cgil — un sindacato può scioperare contro delle assunzioni? La verità è che il governo non è in condizioni di farle per l’inizio dell’anno. E ha posto criteri assai discutibili che dividono in modo arbitrario i precari».
Non è che protestate contro una legge che vi ha tagliato fuori, che ha ignorato il tradizionale potere di veto dei sindacati?
«Francamente mi paiono argomenti vecchi e strumentali. Le cose sono assai più serie. Questa è una riforma che lede il diritto costituzionale della libertà di insegnamento, che affida a un singolo, il dirigente scolastico come si chiama oggi il preside, la totale discrezionalità su chi debba insegnare o meno. Non è quello che prevede la nostra Carta Costituzionale ».
Lei pensa che sia una riforma di impianto autoritario?
«Emerge una scuola che non ha più una funzione di carattere generale, che non punta più a formare cittadini con spirito critico. È una scuola elitaria, non di tutti. Le risorse che ci sono, peraltro scarse, vanno a chi primeggia e delle scuole di Scampìa o dello Zen di Palermo che ne facciamo?».
Eppure la competizione tra istituti scolastici può accrescere la qualità dell’offerta formativa. Non crede che possa essere un vantaggio per le famiglie?
«Guardi, io penso che la scuola debba essere migliorata. Nella nostra Costituzione la scuola vuol dire il diritto allo studio. Bene, nella riforma non c’è traccia di questo. Non c’è una visione del futuro della scuola, non c’è nulla per combattere la dispersione scolastica nel Paese che detiene il record di giovani Neet, che cioè non lavorano, non studiano, non si formano. Alla fine accederanno alla scuola coloro che appartengono a famiglie che se lo possono permettere».
Abbiamo il record dei Neet e quello dei giovani disoccupati. Secondo lei perché nonostante il Jobs Act, il superamento dell’articolo 18, lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni, le aziende non assumono?
«Perché non ci sono investimenti a partire da quelli pubblici. Perché non basta dire a un imprenditore: ti ho tolto l’articolo 18, ti ho fatto gli sconti, ora pensaci tu. Non funziona così. Gli incentivi senza vincoli si traducono nella sola sostituzione di contratti. Serve una politica industriale che indirizzi e sostenga la crescita e l’occupazione ».
Si passa dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato. Non è positivo?
«Certo che lo è. Ma siamo nel terreno di Monsieur Lapalisse. Se non si pone come obiettivo quello della piena occupazione richiamato autorevolmente dal Presidente Mattarella, non ci sarà alcun cambiamento di verso ».
La manovra sugli sgravi contributivi ci è costata circa 10 miliardi. Il governo ne dovrà recuperare quasi altrettanti per fronteggiare gli effetti cumulati della sentenza della Consulta sul mancato adeguamento delle pensioni. La Cgil ha esultato dopo la sentenza. Ora si devono trovare le risorse. Come?
«La Corte si era già pronunciata in senso negativo su soluzioni che colpivano solo parte dei pensionati. Il governo è in grave ritardo e ora è indispensabile sedersi intorno ad un tavolo per cambiare la legge Fornero che non funziona per mille motivi».
D’accordo, le risorse dove le prenderebbe?
«Ora i diritti delle persone vanno garantiti e le risorse, come abbiamo più volte detto, ci sono o si possono trovare. Questa potrebbe anche essere l’occasione per rivedere i criteri di una effettiva progressività del sistema fiscale e per contrastare seriamente l’evasione».
Facendo pagare ai ricchi? È la vostra proposta della patrimoniale?
«Senza rinunciare alla riforma complessiva del fisco, la patrimoniale sulla grandi ricchezze ha un’efficacia immediata».
Come giudica la legge elettorale su cui la Camera esprimerà la fiducia?
«Non mi convince essendo tutta piegata al principio della governabilità. È una legge che surrettiziamente porta al premierato senza che siano stati previsti i necessari contrappesi. Dissi al congresso della Cgil che eravamo di fronte ad una torsione del sistema democratico. Non ho cambiato idea».
“Il sindacato visita la sinistra tutti i giorni del calendario”, ha scritto Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica. Lei che sinistra visita?
«La sinistra che visito è quella che tenta di recuperare alcune parole e alcuni valori: uguaglianza, ricostruzione dei diritti sociali, povertà non come colpa, disoccupazione non come vergogna. La sinistra che vuole un altro Paese».
Sta dicendo che non è nel Pd, partito che lei ha annunciato non voterebbe, che trova questa sinistra?
«C’è anche nel Pd. È che oggi sono sempre di meno i luoghi della partecipazione democratica, ma non è vero che i cittadini non vogliano partecipare. L’iniziativa di oggi (ieri, ndr) di Milano ne è la riprova».
E cosa pensa di coloro che invece hanno devastato Milano?
«Si è trattato di violenza pura e gratuita che non può avere alcuna giustificazione politica».
Ma lei si impegnerebbe a dar vita a una nuova sinistra?
«La mia è un’altra funzione. Sarebbe un errore confondere i ruoli, ma sono convinta che ci sia un grande bisogno di sinistra».
Ci vorrebbe un altro partito di sinistra?
«Ci vorrebbe un partito di sinistra».
In autunno ci sarà la conferenza di organizzazione della Cgil anche per fissare le nuove regole per l’elezione dei gruppi dirigenti. Come sarà scelto il suo successore?
«Siamo ben coscienti che dobbiamo cambiare. La contrattazione non può limitare a tutelare chi è già organizzato, dobbiamo includere tutto il mondo del lavoro. Sarà la nostra riforma strutturale all’interno della quale ci saranno le nuove regole per selezionare i dirigenti. Il prossimo segretario della Cgil sarà eletto da un organismo nel quale la presenza dei delegati dei posti di lavoro sarà superiore a quella degli apparati. E sono certa che queste modalità renderanno protagoniste le nuove generazioni».
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli Usa dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni Settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono. L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazione e, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”. Ma l’evoluzione tecnologica rende sempre di più job-less, cioè senza occupazione aggiuntiva, la crescita sia della singola impresa che del sistema nel suo complesso. Anzi, molto spesso la riduzione dell’occupazione in una impresa viene salutata con un drastico aumento del suo valore in borsa.
Trasposta sul piano sociale, la filosofia del Trickle-down ha assunto i connotati del “capitalismo compassionevole”, che negli Stati uniti costituisce la dottrina ufficiale dell’ala più reazionaria del partito repubblicano, e non solo di quella. In base ad essa il welfare, come insieme di misure tese a garantire in forma universalistica i diritti fondamentali del cittadino – pensione, cure sanitarie, istruzione, sostegno al reddito – va eliminato perché induce chi ne beneficia all’ozio; e va sostituito con la beneficienza gestita dalla generosità dei ricchi, nelle forme da loro prescelte e indirizzandola, ovviamente, solo a chi, a loro esclusivo giudizio, “se la merita”. Non c’è negazione più radicale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teoria come questa. Eppure è una concezione che sta progressivamente prendendo piede in tutti gli ambiti della cultura ufficiale, anche là dove gli istituti del Welfare State (che letteralmente significa Stato del benessere, e che da tempo viene tradotto sempre più spesso con l’espressione “Stato assistenziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.
Non deve stupire quindi di ritrovare i capisaldi di questa concezione violentemente antidemocratica in quello che viene fin da ora ufficialmente indicato come “il lascito immateriale” della peggiore manifestazione della teoria e della prassi del capitalismo finanziario, o “finanzcapitalismo”: la cosiddetta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito immateriale, perché quello materiale, come è ormai noto, non è che devastazione del territorio, asfalto e cemento, corruzione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, violazione dei diritti, della dignità e della sicurezza del lavoro (l’Expò è stato il laboratorio del Job-act), propaganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria alimentare tossiche e, dulcis in fundo, un meccanismo di perpetuazione delle Grandi Opere inutili: perché, a Expò concluso, ci sarà da decidere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova corruzione di quell’area ormai devastata.
Uno dei punti o propositi qualificanti della Carta di Milano è infatti la lotta contro lo spreco alimentare attraverso il recupero del cibo che oggi viene buttato via, destinandolo ai poveri. Nella carta i riferimenti a questo proposito sono tre: “ che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori”; “individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze”; “creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari”. Apparentemente si tratta di raccomandazioni di buon senso: dare a chi non può permetterselo il cibo che altrimenti butteremmo via. E’ quello che si cerca di fare con istituzioni e programmi benemeriti, come la legge detta del “Buon Samaritano” o il Last-minute market promosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro minimizzazione (in vista del loro azzeramento, previsto dal programma Rifiuti zero, che le renderebbe superflue). Trasposte nell’ambito di un programma planetario per “nutrire il pianeta” hanno l’effetto di retrocedere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sottoalimentazione di una parte decisiva dell’umanità, la cui condizione è invece il prodotto delle grandi e crescenti diseguaglianze mondiali nella distribuzione dei redditi, del lavoro e delle risorse.
Per cogliere meglio questo punto è necessario risalire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Protocollo di Milano”: un documento elaborato dalla fondazione Barilla – emanazione dell’omonima multinazionale alimentare – a cui l’Expò ha affidato il compito di individuare i capisaldi del programma “nutrire il pianeta”, che sono poi stati tradotti “in pillole” nella Carta di Milano; e che ha la pretesa di definire un programma di azione dei prossimi decenni per tutti i soggetti del mondo – Governi, imprese, associazioni, cittadini — impegnati nella filiera agroalimentare come produttori, distributori o consumatori.
Nel Protocollo di Milano il tema dello spreco di alimenti occupa il primo posto: “Primo paradosso – spreco di alimenti: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, ovvero un terzo della produzione globale di alimenti e quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 805 milioni di persone denutrite nel mondo”. Nell’ambito dei programmi per sradicare la fame, tra cui “le disposizioni pertinenti nel quadro delle legislazioni internazionali, regionali e nazionali per la protezione e conservazione delle risorse e l’adozione di azioni finalizzate allo sviluppo sostenibile nella Direttiva quadro europea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per sradicare la povertà estrema e la fame”, il Protocollo di Milano arriva a trattare questa prima emergenza planetaria con le stesse modalità con cui, in un qualsiasi Comune d’Italia, si affronta il problema della gestione dei rifiuti: “Le iniziative per la riduzione degli sprechi devono rispettare la seguente gerarchia:
1. Prevenzione; 2. Riutilizzo per l’alimentazione umana; 3. Alimentazione animale; 4. Produzione di energia e compostaggio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta contro la trasformazione degli alimenti in rifiuti (e non per una più equa distribuzione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affamati del pianeta non spetti altro che il compito di smaltire ciò di cui i ricchi si vogliono sbarazzare. Cioè sedersi, come Lazzaro, ai piedi della tavola del ricco Epulone. Con il che la Trickle-down economics fa il suo ingresso trionfale nel “lascito” dell’Expò.
«Il significato della manifestazione contro l'Expo non è cancellato dalle inaccettabili devastazioni che hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo». L'Altra Europa con Tsipras, mailing list, 2 marzo 2015
La risposta alla convocazione del May day - che quest’anno univa a Milano, in un’unica mobilitazione internazionale, il tema consueto del precariato e la denuncia dell’Expò - è stata massiccia e articolata. Tantissimi (più di 30.000), quasi tutti giovani; meno birra degli anni scorsi; ben otto bande di “ottoni” da diversi paesi europei. E poi, cordoni di famiglie che occupano la casa, con i centri sociali che le proteggono; centinaia di lavoratori di colore; forte presenza dei sindacati di base, di anarchici, pacifisti, ambientalisti, animalisti (che nel movimento No-expò hanno un punto di forza), degli Lgbt e dei partitini della sinistra, questa volta ammessi insegne e bandiere. Striscioni, cartelli e slogan documentavano una cultura che sta imparando a connettere lavoro, reddito, casa, salute, accoglienza con la difesa del clima, del suolo, della democrazia, della pace e contro debito, speculazione edilizia, corruzione e mafia: tutti temi presenti non come mere enunciazioni, ma sulle gambe delle migliaia di persone in carne e ossa che hanno partecipato al corteo con un bersaglio comune nell’Expò e in ciò che rappresenta: un concentrato delle nefandezze della società in cui viviamo. Un “grande evento” che pretende di combatter lo spreco ma fatto di sprechi di suolo, di materiali, di denaro, di occasioni; e di sfruttamento del lavoro in ogni forma.
Poi - cioè dopo - ci sono le devastazioni che hanno accompagnato il corteo. Inaccettabili: hanno messo a rischio incolumità, beni e lavoro di chi le ha subite; ma soprattutto hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo. Nonostante la grancassa che ha preceduto e accompagnato l’inaugurazione dell’Expò, nelle ultime settimane, media e stampa nazionali, andavano moltiplicandone le critiche, in gran parte con i temi agitati dai No-expò.
E tuttavia, fermo restando che le responsabilità vanno cercate anche altrove, non si può tacere la contiguità tra chi scende in piazza per raccogliere consensi e far crescere tra mille difficoltà un movimento contro oppressione e sfruttamento e chi invece di questi sforzi, costati anni di lavoro, abusa: non solo con prove di forza, che a volte sono necessarie, ma fregandosene sia dell’incolumità che delle finalità dei manifestanti con cui si mescola. Quella contiguità è data dalla condivisione di un generico antagonismo - vissuto ovviamente in maniera diversa, e anche opposta, ma con molte sfumature intermedie - nei confronti dello “stato di cose presente”.
Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza. Ci vuole coraggio e testardaggine per parlarne in questi tempi oscuri di odi religiosi, etnici e culturali. Intercultura ne ha fatto addirittura l’oggetto del convegno “Saper vivere insieme” (Trento, 1-3 maggio, in occasione del centenario dell’Afs, che di Intercultura è madre) fondato su una quindicina di workshop in cui i relatori spiegheranno come stare insieme tra diversi è, è stato e sarà possibile. O come la differenza possa essere valore positivo anche in questo strano mondo in cui la tecnologia ci ha avvicinato come mai prima e, forse, questa ipervicinanza ci spaventa e crea mostri della mente e mostruose ideologie di morte e paura.
Roberto Toscano, una vita da ambasciatore (India e Iran), ora presidente della Fondazione Intercultura, spiega così la genesi di questa scelta: «Lo so che parlare di questi temi è molto difficile. Ma non è mai stato così urgente. Oggi, la capacità interculturale è un dato di sopravvivenza per la società». Mettere insieme convivenza e diversità è apparentemente facile. Gli italiani, 50 anni fa, quando vedere una persona di colore in giro per le strade di una nostra città era molto raro, pensavano che il razzismo non li riguardasse: «Oggi», dice Toscano, «la tensione è inevitabile. Ma indietro non si può tornare. E neanche i modelli utilizzati in altri Paesi, dall’assimilazione francese alla multiculturalità inglese sembrano funzionare». I francesi hanno promesso cittadinanza e pari opportunità a tutti: «E adesso, davanti alle promesse mancate, si trovano a fare i conti con le giovani generazioni di origine magrebina che cercano risposte nel ritorno alle tradizioni religiose estremizzate».
Gli inglesi hanno inventato la multiculturalità, “ognuno sta qui come vuole”: «Ma anche la multiculturalità è fallita», prosegue Toscano. «La strada è quella di riconoscere, attraverso il dialogo e lo scambio continui, il valore positivo della diversità. È già successo. Non è la prima volta che arrivano i barbari, gli arabi, i greci. Noi tutti siamo frutto di diversi meticciati».
Così il convegno esaminerà il complesso tema della convivenza dopo il conflitto a partire da esperienze come quelle irlandese, sudafricana, basca, dove le lacerazioni sono state profonde, ma la ricucitura, a poco a poco, c’è stata ed è ancora in corso. «Così, nell’anno del centenario, Intercultura torna alle sue origini. Non siamo in campo per insegnare le lingue ai ragazzi, ma per mettere i semi di una convivenza in cui s’impara dall’altro, in cui si restituisce una faccia al prossimo e si mettono da parte le categorie stereotipate».
Allora da che parte cominciare nel conflitto Occidente - Islam radicale? «Cominciamo col non farci coinvolgere nell’idea di un conflitto di civiltà. Io mi sento più vicino a un moderato islamico che a un razzista nostrano. Non c’entrano neanche le religioni. Tutte, prima o poi hanno prodotto versioni violente di se stesse. E i giovani che scelgono la Jihad sanno poco di religione e cercano solo identità forti. Quelle su cui si basano tutte le utopie reazionarie: madri patrie, nazionalismi, purezze etniche… ». Qualcuno studia da decenni le strade per la gestione non violenta del conflitto. Come Pat Patfoort, antropologa fiamminga che a Trento gestirà un panel dedicato al modello “Maggiore-minore-equivalente” da lei elaborato per sanare i conflitti (da quelli personali a quelli internazionali). In sintesi, il modello “maggiore/ minore” è quello tipico che porta a scontri e guerre. Quando abbiamo un problema (o quando un popolo ha un problema) spesso è portato a identificare il colpevole in una persona o gruppo i cui comportamenti e modi di pensare vengono etichettati come negativi o sbagliati: antisociali, primitivi, sottosviluppati. Portare un popolo al conflitto contro questi gruppi identificati come capri espiatori, non è difficile. Storia e cronaca sono piene di esempi. Per uscire da questo schema, Patfoort costruisce il modello dell’equivalenza. Spesso sono i terzi “pacificatori” a doverlo mettere in campo. È il modello dell’equivalenza in cui si evita di identificare buoni e cattivi ma si guarda a entrambe le parti, alle loro ragioni e al loro dolore. E ciò che accade non viene attribuito alla cattiveria di una delle parti, ma emerge come frutto dell’escalation dei fatti.
Certo, nei conflitti attuali non è facile che le parti si dispongano facilmente a cambiare modello. «Non importa chi comincia », spiega Pat Patfoort. «È sufficiente che una delle due si muova in quella direzione. In Belgio ci sono gruppi moderati islamici che si sono dati il compito di spiegare che l’Islam non è quello disegnato dall’estremismo ». Un lavoro da fare in profondità ma che può, anzi deve, partire dalle persone, dalle famiglie, dal “mio villaggio”: «Dobbiamo cominciare da noi stessi per imparare a riconoscere che gli altri hanno padri e fratelli come noi». Insomma, un cambio di mentalità non facile da ottenere, ma la sfida può essere affrontata.
Il manifesto, 29 gennaio 2015
di Andrea Fabozzi
Il rischio di essere battuto nel voto segreto era basso, molto basso, ma non inesistente. Dei cento emendamenti, quindici erano quelli potenzialmente pericolosi perché firmati dalle minoranze Pd. Proponevano di cancellare le pluricandidature, introdurre le primarie per legge, prevedere un quorum minimo di partecipanti per assegnare il premio al ballottaggio, limitare la quota dei nominati rispetto agli eletti con le preferenze, sottrarre ai pluri-eletti la possibilità di scegliere per quale collegio optare, abolire l’indicazione del capo della coalizione.
La presidente della camera aveva avvertito già da qualche giorno i gruppi che l’eventuale richiesta di fiducia sarebbe stata dichiarata ammissibile. Facendola cioè prevalere sul diritto della minoranza a chiedere il voto segreto sulla legge elettorale. Boldrini, in un’aula immediatamente accesa dalle proteste, ha risolto la questione spiegando che anche la soluzione opposta, cioè escludere la fiducia quando è possibile lo scrutinio segreto, «può avere una sua logica». Ma perché sia praticabile, ha deciso, bisognerà aspettare che venga modificato il regolamento. E allora i voti segreti sull’Italicum saranno tre, uno per ogni articolo che compone la legge con l’eccezione dell’articolo 3. La spiegazione è semplice: su quell’articolo non ci sono emendamenti.
Ammessa la fiducia, la presidenza della camera ha concesso un contentino alle minoranze che somiglia molto alla classica beffa. Il «lodo Iotti», con il quale dal 1980 viene lasciata la possibilità ai presentatori degli emendamenti e solo a loro di illustrare (per 30 minuti) le proposte di modifica, anche sapendo che non saranno messe in votazione proprio perché è stata chiesta la fiducia. In questo caso è una beffa, perché abitualmente l’unico obiettivo degli interventi a vuoto è quello di allungare i tempi dell’approvazione finale della legge. Il «lodo» è stato appunto inventato durante la conversione di un decreto legge, e da allora ha rappresentato lo scotto da pagare per un governo che chiede subito la fiducia perché ha un decreto che rischia di scadere. L’Italicum non è un decreto ed è urgente solo perché così lo presenta Renzi. Ieri pomeriggio, dopo i primi interventi, le opposizioni hanno capito l’inutilità di intervenire su emendamenti che il governo non farà votare. E la seduta della camera di questa mattina è stata addirittura cancellata. Si parte subito con il primo referendum sul governo, alle 13.45, poi nel pomeriggio gli altri due. Sì o no, «non c’è cosa più democratica»
CELODURISMO RENZIANO
di Norma Rangeri
Sarà pure in ballo la democrazia, come dice un Bersani affranto dalla sorpresa annunciata del voto di fiducia sulla legge elettorale. Tutto sta a mettersi d’accordo sull’inizio di questa danza macabra attorno alle regole della nostra convivenza politica.
Come sosteniamo da tempo, la democrazia non viene né improvvisamente sfigurata, né pesantemente umiliata solo in riferimento alla legge elettorale e alla riforma costituzionale. Al contrario, la manomissione degli assetti istituzionali della repubblica parlamentare rappresenta solo un approdo. Una lineare conseguenza degli anni in cui l’ex segretario del Pd partecipava al governo Monti per mondare la democrazia delle scorie berlusconiane. Peccato che con l’acqua sporca si stava buttando via anche l’argine rappresentato dall’idea stessa di un governo eletto, preferendo imboccare la via delle riforme dettate dai poteri europei. Renzi ha trovato la strada in discesa e l’ha percorsa con piede veloce usando i rapporti di forza fino alla cancellazione dello statuto dei lavoratori, alla riduzione del mondo del lavoro a esercito di riserva di Confindustria.
Il fatto è che ora, con la decisione di mettere la fiducia sull’Italicum, siamo giunti alle battute finali, al conclusivo giro di boa di una navigazione che fin dall’inizio ha fatto rotta verso l’approdo neocentrista. Se la mannaia della fiducia per portare a casa rapidamente una legge elettorale rappresenti il preludio dell’atto successivo (le elezioni anticipate) lo vedremo. Quello che invece è già chiarissimo riguarda la cancellazione di un’idea di pluralismo sociale, politico, istituzionale.
Senza neppure scomodare i famigerati precedenti (la legge Acerbo del 1923 e la legge truffa del 1953) basta, e avanza, osservare che questa fiducia è una bastonata sulla schiena di un parlamento già piegato e delegittimato dall’essere il risultato dell’incostituzionale Porcellum. Una bastonata premeditata, vibrata a freddo nonostante il rassicurante lasciapassare ottenuto nel voto segreto sulle pregiudiziali di incostituzionalità. A dimostrazione che al fondo della versione renziana di questo “celodurismo fiduciario” non c’è tanto il timore di non avere la maggioranza parlamentare sull’Italicum (naturalmente possibile ma non probabile), quanto la voglia di togliersi di torno i rompiscatole della minoranza.
Saranno pure solo una ventina quelli decisi a non votargli la fiducia, ma restano il fastidioso contraltare mediatico al leader, tanto più molesto finché il gruppetto resta dentro il Pd a sceneggiare il dissenso a ogni direzione o festa dell’Unità senza l’Unità. Sparare col cannone della fiducia al drappello degli antirenziani del Pd è un atto spropositato se proprio la dismisura non fosse il segno di chi scambia il potere con il governo.
ITALICUM,BATTAGLIA NEL PD E IL GOVERNO METTE LA FIDUCIA
Corriere della sera, 29 Aprile, 2015
C’È LA FIDUCIA, PDDIVISO E CAOS IN AULA
ROMA Il governo supera in scioltezza alla Camera i primi voti segreti sull’Italicum — con 385 voti, contro 208 dell’opposizione — ma nonostante il successo Matteo Renzi non si fida della sua super-maggioranza e azzera gli altri 80 scrutini segreti sugli emendamenti alla legge elettorale, imponendo al Parlamento tre voti di fiducia su altrettanti articoli del testo.
Alla fine la presidente Boldrini riesce a condurre in porto una seduta delicata. «Collusa», le urlano i grillini e lei ribatte: «Ne dovrete rispondere». Ma i precedenti sostengono la tesi della presidenza: «Sarebbe arbitrario da parte della presidenza non ammettere il voto di fiducia. Non entro certo nel merito della scelta...». Di Sera al Tg1 Renzi cita De Gasperi e Moro: «Anche loro misero la fiducia sulla legge elettorale».
La fiducia sull’articolo 1 si vota oggi pomeriggio, domani quelle sugli articoli 2 e 4 (il 3 non si tocca perché già approvato da Camera e Senato). Poi, lunedì o martedì, ci sarà il voto segreto sull’intera legge. Se approvato in terza lettura, l’Italicum sarà, come stabilito, legge vigente a partire dal 1° luglio del 2016. A meno che un decreto non ne anticipi l’efficacia.
Dice Enrico Letta che mettendo la fiducia sull’Italicum il premier rischia di ottenere una «vittoria sulle macerie». Dimentica però che l’intero edificio del governo Renzi è costruito sulle macerie. Le macerie della seconda Repubblica, di una «non vittoria» elettorale della sinistra, e della sentenza della Consulta che rase al suolo il Porcellum. Il ricordo è invece acutamente presente all’opinione pubblica, ed è questo che spiana la strada a Renzi per spianare gli avversari.
A convincere gli italiani non sono infatti gli arzigogoli di esperti professori e inesperti politici, tutti aspiranti capilista bloccati, che magnificano il genio Italicum . La legge è quel che è, uno strano ibrido di proporzionale più premio di maggioranza più ballottaggio, un vero e proprio unicum in Europa. La gente l’ha capito, non applaude nei sondaggi. Ma è forte l’argomento politico di Renzi che suona pressappoco così: o con me o come prima. Mettersi contro questo vento fino a far cadere la legge o a far cadere il governo, richiederebbe un coraggio e un progetto che la minoranza del Pd oggi non ha, anche perché è essa stessa parte delle macerie di cui sopra. Perciò Renzi ricorre alla forzatura estrema del voto di fiducia: impedisce cambiamenti alla legge e mette i dissidenti con le spalle al muro, prendere tutto o perdere tutto. In attesa dunque di seguire gli sviluppi di una partita che pare già giocata, tranne l’incertezza su quanto umiliante e umiliata sarà l’Aula di Montecitorio, è lecito chiedersi che cosa potrà davvero essere questa nuova fase che si aprirà con l’ Italicum, da molti commentatori già definita come l’era del «governo del premier».
In buona parte, sarà ciò che Renzi vorrà che sia. La sua condizione di dominus uscirà infatti rafforzata dall’arma carica di una legge elettorale, che può essere usata in qualsiasi momento, indipendentemente dalle promesse e dalle clausole di salvaguardia. Come nel Regno Unito, dove la Regina scioglie formalmente le Camere ma è il premier a decidere quando, Renzi disporrà della ghigliottina della legislatura. Però il leader dovrà prima o poi scegliere se approfittare delle macerie del sistema politico, regnando sui detriti di un’opposizione frantumata dal nuovo sistema elettorale. Oppure se provare a ricostruire su quelle macerie un sistema parlamentare equilibrato, e che riprenda a tendere verso il bipolarismo e l’alternanza. Renzi avrebbe potuto farlo già ieri, scommettendo su una maggioranza convinta, quella che ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, invece di coartarla con il voto di fiducia.
Vincere e convincere, come si direbbe nel gergo a lui caro del calcio, è obbligatorio per i grandi leader. D’altra parte nemmeno il rozzo meccanismo dell’ Italicum potrà esentare del tutto dalla ricerca del consenso: nella futura Camera, dove la lista vincente godrà di 340 seggi, basteranno 25 dissidenti per mandarla sotto. Nemmeno il destino di De Gasperi fu messo al riparo da un premio di maggioranza approvato a colpi di voti di fiducia.
La Repubblica, 29 aprile 2015 (m.p.r.)
Chiamatelo “No 2.0” o, se preferite, opposizione ai tempi dei social media. Ecco la prima vera fotografia ad alta risoluzione di chi è contro in Italia. Poco importa poi se si tratta della Tav, l’Expo, le discariche, l’eolico, le trivellazioni in Adriatico, le grandi opere. L’analisi, che verrà resa pubblica oggi, è stata condotta da Public Affairs Advisors e da Fleed Digital ed è una lente di ingrandimento su quel che è accaduto nel Web nel corso degli ultimi sei mesi. Sono stati passati al setaccio oltre venticinquemila discussioni, novemila tweet, cinquemila post su Facebook. Intendiamoci, l’indagine non entra nel merito della legittimità dei singoli movimenti, ma si limita a tracciarne un profilo evidenziando origine, affinità, modus operandi. Un panorama fatto da quattro milioni di account, quelli dei quali è possibile vedere pubblicamente i contenuti, e oltre centomila fra forum, blog e siti. Non è un campione rappresentativo su base demografica e statistica, ma indicativo di quanto successo su Internet.
Il manifesto, 28 aprile 2015
Pronto a un compromesso sempre onorevole e non a una capitolazione incondizionata, Alexis Tsipras. Ma il tempo stringe per il governo greco e il campanello d’allarme non viene dalle casse dello stato più o meno vuote, né dai bottegai, il cui presidente, già candidato europarlamentare con le liste della Nea Dimokratia, ha minacciato che «i lunghi negoziati» tra Atene e i suoi creditori «aggravano la crisi del commercio greco».
Manco a dirlo, l’allarme è giunto da Bruxelles e da Riga dove ministri dell’eurozona hanno espresso la loro rituale preoccupazione su cosa accadrà nel caso in cui l’Eurogruppo dell’11 maggio dovesse finire con un altro nulla di fatto. Il premier greco sa che anche questi «timori» fanno parte delle pressioni esercitate su Atene per farla retrocedere.
Ma il 12 maggio, senza un aiuto finanziario il governo greco difficilmente potrà rimborsare i 700 milioni di euro al Fmi. A meno di saltare stipendi e pensioni per il prossimo mese, cosa che Tsipras ha escluso. Lunedì sera, in un’intervista-fiume finita nella notte, si è detto pronto a un compromesso onorevole, ma non ha indietreggiato: fermo sempre sul programma di Salonicco, ma con uno spirito più adeguato alle circostanze.
Pronto all’autocritica, ma anche esplicito nel caso il negoziato dovesse fallire e le condizioni-diktat imposte dai creditori internazionali dovessero costringere il governo Syriza–Anel a violare le promesse elettorali. Lo stallo delle ultime settimane «sta spingendo il paese nella recessione», perció «è necessaro arrivare a un accordo in tempi stretti… entro la fine della settimana prossima», ha detto Tsipras, che è parso prò ottimista: «Siamo vicini a un accordo — ha detto -, nonostante restino divergenze su lavoro, pensioni e privatizzazioni». Perché i ricavi delle privatizzazione, per il premier greco, servono a sostenere la crisi sociale non, come sostiene Bruxelles, a ripagare il buco nero del debito lasciato dal governo Samaras.
Ma in caso di fallimento delle trattative o di intesa sfavorevole ad Atene, nel caso che la Grecia varcasse le preannunciate «linee rosse», non si tornerebbe alla dracma, né ci sarebbero elezioni anticipate come paventato da molte parti. Per Tsipras l’alternativa è un referendum. Una consultazione popolare sui risultati del negoziato europeo, malgrado le polemiche provenienti dall’opposizione e i dubbi di chi sostiene che la Costituzione ellenica non prevede referendum per leggi di bilancio.
Ma l’oggetto non sarebbe una legge di bilancio. «Si tratta di un argomento d’interesse nazionale che ha una componente finanziaria», ha risposto ieri Tsipras, che ha criticato Jeroen Dijsselbloem e Mario Draghi. «Abbiamo sbagliato a non chiedere per iscritto ciò che ci avevano promesso, ovvero la garanzia che dopo l’accordo del 20 febbraio avrebbero lasciato mano libera alle banche consentendo loro di investire di più nei titoli di stato». Riferendosi al presidente della Bce, l’ha considerato responsabile della decisione «non ortodossa» di ridurre la possibilità del finanziamento delle banche greche dall’Eurotower. Nessuna frecciata stavolta per Angela Merkel con la quale ha deciso nel recente vertice bilaterale di tenere sempre aperto il collegamento telefonico per garantire il proseguimento del negoziato.
Varoufakis? Ora è meno solo
Tsipras ha poi tessuto le lodi di Yanis Varoufakis — «il ministro delle finanze resta un asset importante per il Paese» -, nonostante domenica scorsa, nella riunione a Megaro Maximou, sede del governo, sia stato deciso di coadiuvare il suo potere di trattativa. Varoufakis mantiene sempre l’incarico del ministero delle Finanze, ma responsabile dei negoziati con i partner europei sarà d’ora in poi il viceministro delle Relazioni internazionali Euclid Tsakalotos, che ha studiato a Oxford e che, secondo alcuni, avrebbe il profilo giusto per trattare con i creditori. Il governo ha inoltre formato una squadra tecnica coordinata dal segretario generale Spyros Sagias, mentre la responsabilità del gruppo che tratta con il Bruxelles-Group l’avrà il presidente del consiglio economico Jorgos Houliarakis. Diverse le interpretazioni del mini-rimpasto del gruppo che tratta con le «istituzioni» europee.
È opinione diffusa che con tale decisione il governo intenda «estendere il sostegno» al ministro delle Finanze, mentre a sentire parte della stampa locale e internazionale (impegnata in una vasta opera di falsificazione), il «depotenziamento» di Varoufakis era quasi obbligato dopo le ennesime, dure critiche dell’Eurogruppo a Riga.
Polemiche anche sul negoziato per le riforme. Alle voci secondo le quali Tsipras sarebbe giá pronto a rinunciare alle promesse elettorali come l’aumento del salario minimo e il rafforzamento dei diritti dei lavoratori con il ripristino del contratto collettivo nazionale di lavoro, il premier mostra invece di non volere rinunciare a nessuno di questi contenuti; al massimo sembra disposto solo a rimandare a giugno il negoziato su questi argomenti nell’ambito delle trattattive per la riduzione del debito e per un programma a lungo termine. Comunque ieri il premier si é limitato a dire soltanto che l’ abolizione della tassa unica sulla casa potrebbe slittare al 2016.
Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)
Ban Ki moon gela Matteo Renzi e i suoi propositi di distruggere i barconi degli scafisti con l’avallo dell’Onu. Non è bastata una gita sulla nave San Giusto della nostra Marina militare per convincere il segretario generale delle Nazioni unite della bontà dei progetti del governo italiano, deciso più che mai ad affondare le imbarcazioni con cui i trafficanti di uomini trasportano nel canale di Sicilia migliaia di disperati in fuga dalla guerra. Ban è arrivato ieri a Roma per un vertice Ue-Onu-Italia sull’emergenza immigrazione facendosi precedere da un ammonimento che ha fatto capire al premier italiano come la strada per convincerlo ad autorizzare un qualsiasi tipo di intervento in Libia sia a dir poco in salita. «Non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo» ha detto il segretario, gettando così acqua sulle ambizioni interventiste del governo. Al punto da costringere ieri la portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera Federica Mogherini a correre ai ripari: il piano che l’Unione europea sta preparando per distruggere i barconi «non è un intervento militare» in Libia, ha detto la portavoce.
Mogherini e Ban Ki moon avranno avuto comunque modo di chiarirsi le idee ieri pomeriggio quando, insieme a Matteo Renzi, hanno preso il largo nel canale di Sicilia sulla nave San Giusto. Una crociera voluta dal premier per mostrare al segretario generale quanto accade ogni giorno lungo la frontiera meridionale dell’Europa, nella convinzione di riuscire a portarlo dalla sua parte. Qualcosa, però, non deve essere andato nel verso giusto. O forse Ban Ki moon ha capito qual è la vera urgenza del Mediterraneo: «Le autorità devono focalizzarsi sul salvataggio delle vite dei migranti», ha detto il numero uno dell’Onu una volta rimesso piede a terra. Frase che sembrerebbe prendere le distanze anche dai pochi risultati raggiunti giovedì scorso dal consiglio europeo straordinario sull’immigrazione dove sì, si sono stati triplicati i fondi destinati a Triton, ma almeno per ora non è stato modificato lo scopo della missione, che resta di sorveglianza delle frontiere e non di salvataggio dei migranti. A Renzi e Mogherini non è rimasto altro che fare buon viso a cattivo gioco: «L’Italia non è più sola», ha detto il premier. «Fermare i trafficanti di esseri umani per evitare una catastrofe umanitaria è un’assoluta priorità su cui contiamo di avere il sostegno delle Nazioni unite».
Nei prossimi giorni si vedrà se sarà così, e soprattutto se gli sforzi diplomatici messi a punto dalla rappresentante europea della politica estera avranno raggiunto o meno lo scopo (ieri la Mogherini ha parlato di immigrazione al telefono anche con il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov ed è quasi scontato che tra i temi toccati ci sia stata anche la Libia). Intanto già in questa settimana si potrebbe cominciare a capire come l’Unione europea intende muoversi per mettere fine alle stragi dei barconi. Un anticipo potrebbe arrivare mercoledì con l’intervento che il presidente della commissione Junker farà nel corso della plenaria prevista a Strasburgo, mentre la «roadmap» degli interventi potrebbe arrivare nei giorni immediatamente successivi con la spiegazione dei tempi ad aumentare del triplo i finanziamenti per Triton e la missione di politica di difesa e sicurezza su cui la Mogherini sta lavorando e che, dopo aver visto Ban Ki moon, la porteranno oggi e domani a Washington e New York. Il 13 maggio, invece, è prevista la presentazione del piano Ue sull’immigrazione in cui dovrebbe esserci anche un’ipotesi di suddivisione dei profughi tra gli Stati membri. Questione sulla quale fino a oggi si sono incontrate le maggiori difficoltà quando non dei veri veti da parti di alcuni Paesi.
Il manifesto, 28 aprile 2015
Premier Italicum, lo ha nominato Ilvo Diamanti. Stiamo parlando di Matteo Renzi, naturalmente. Difficile trovare un epiteto più azzeccato per il Presidente del Consiglio se gli riuscirà il colpo grosso di portare a casa, tra voti di fiducia, ricatti politici e psicologici, minacce di fine anticipata e traumatica della legislatura, la legge elettorale cui ha legato, inusitatamente, le sorti del proprio governo. In effetti Rosi Bindi ha rilevato quanto sia improprio che un governo ritenga vitale per la propria sopravvivenza un progetto su una materia che dovrebbe essere di squisita pertinenza parlamentare, come la legge elettorale.
Ma non si tratta di una stravaganza o semplicemente di un atto estremo di arroganza. Il problema è che l’Italicum è molto di più e peggio di una legge elettorale, anche se in quanto tale già fa rimpiangere i bei tempi della legge truffa di Alcide De Gasperi, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi già ce la aveva per conferimento elettorale.
In realtà con l’Italicum si vuole cambiare nel profondo la natura dello Stato italiano, modificandone la struttura istituzionale, i rapporti tra i poteri, i ruoli dei medesimi senza passare attraverso un’esplicita modifica del dettato costituzionale.
E’ quanto emerge dalle parole dei suoi stessi inventori e sostenitori, cui conviene prestare la dovuta attenzione. Roberto D’Alimonte deve odiare a tal punto il principio di non contraddizione, da riuscire, nello stesso articolo, a contraddire palesemente sé stesso. Sul Sole 24 Ore di domenica prima afferma che si tratterebbe di pura sciocchezza considerare l’Italicum come il cavallo di Troia che introduce il presidenzialismo nel nostro ordinamento, dal momento che le norme costituzionali concernenti le figure del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato non vengono toccati. Tutti sanno però – e il suo ideatore, cioè lo stesso D’Alimonte, non lo nasconde – che ben difficilmente un partito o una lista possono raggiungere e superare al primo colpo la soglia del 40% che farebbe scattare il premio di maggioranza, in realtà, più correttamente, di minoranza. Il della nuova legge è provocare il ballottaggio fra due schieramenti in modo da fare scegliere ai cittadini “direttamente” chi li governerà. In realtà - sia detto qui per inciso- si tratta di una pura illusione o meglio menzogna, dal momento che le politiche dei governi nazionali sono sovra determinate dalle scelte della Ue, come si vede nel caso greco.
Il nostro politologo non si scompone e con nonchalance afferma che se nel ballottaggio “la scelta è tra due leader e due partiti, sarà il leader del partito vincente a diventare capo del governo”. E il Capo dello Stato che cosa ci sta a fare? Non preoccupatevi: la nomina del Presidente del Consiglio spetterebbe formalmente sempre a lui. Ma sarà una nomina “obbligata”, continua il nostro, che aggiunge: “Dunque è vero: il meccanismo previsto dall’Italicum introduce l’elezione diretta del capo del governo” e questo al di là della forma, perché ”in politica la sostanza conta quanto la forma. Se non di più” e quindi “un sistema elettorale potente come l’Italicum influirà … sul funzionamento concreto delle istituzioni della Repubblica, in particolare Parlamento e Presidenza.”
Difficile leggere un disprezzo maggiore per le norme costituzionali, le quali verrebbero aggirate e profondamente modificate da una legge elettorale che è pur sempre legge ordinaria. Il presidenzialismo verrebbe imposto per via di fatto, e la modifica formale della Costituzione rimandata a tempi ancora più favorevoli di quelli attuali per la maggioranza renziana. Ancora una volta la volontà dei cittadini è messa sotto i piedi. Non quella virtuale, ma quella democraticamente espressa nel referendum del 2006. Che raggiunse il quorum per quanto non necessario, tanto fu partecipato, e che bocciò la riforma costituzionale votata dalla maggioranza berlusconiana che prevedeva il premierato, cioè l’incremento dei poteri del presidente del Consiglio, fra cui lo scioglimento delle camere, e la conseguente diminuzione di quelli del Capo dello Stato, fra cui la prerogativa prevista dall’articolo 92 della Costituzione, di nominare il primo ministro.
Pesante è la responsabilità di chi voterà l’Italicum nei prossimi giorni, in aperto e plateale contrasto con la Costituzione e la volontà popolare.
La Repubblica, 27 aprile 2015
L'Italicum , però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.
D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'incostituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.
È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti.
Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale: si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd.
Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione - coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 27 aprile 2015
Oggi Dario Franceschini ha rotto il silenzio politico che ha lodevolmente scelto da quando ha il peso del nostro patrimonio culturale. Lo ha fatto per giustificare la decisione di porre la fiducia sull'Italicum: invocare la libertà di coscienza (o di mandato: art. 67 della Costituzione) sarebbe «Assolutamente sbagliato. Ma come si fa a non vedere che la legge elettorale è il tema più politico del mondo? Non parliamo mica di problemi etici!».
Ora, appena ieri Eugenio Scalfari ha scritto che «Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto». Si potrà non esser d'accordo (io, invece, lo sono al cento per cento), ma come non vedere che se la posta in gioco è questa, il problema è radicalmente etico?
Ma la spia più interessante del discorso di Franceschini è l'opposizione aperta ed esplicita tra problemi 'politici' e problemi 'etici'. A me pare che una simile scissione – teorizzata e praticata – tra etica e politica rappresenti la vera antipolitica: ed è proprio a causa di questa deriva che in Italia vota ormai meno della metà dei cittadini.
Nelle scorse settimane questo violento divorzio si è celebrato pubblicamente nell'aula del Consiglio regionale toscano. Qui il Pd ha insultato l'assessore Anna Marson – una tecnica prestata al governo della regione –, rea di aver combattuto strenuamente per l'approvazione del Piano del Paesaggio, una conquista di civiltà per la quale i toscani del futuro le saranno grati.
E quanti parlamentari del Pd riconosceranno che, con buona pace di Dario Franceschini, la legge elettorale è proprio un grande tema etico, che riguarda la stessa sopravvivenza della democrazia in Italia?
La Repubblica, 27 aprile 2015
MA è chiaro che Rosy Bindi, per citare un nome, freme e si aspetta che il presidente della Repubblica dica una parola, o meglio agisca dietro le quinte per dissuadere il governo dal mettere in pratica quelle che sembrano ormai le sue intenzioni.
La Bindi è una rappresentante storica della sinistra cattolica e aveva le lacrime agli occhi per la gioia il giorno dell’elezione di Mattarella. Ma ovviamente è pericoloso credere o anche solo pensare che il presidente della Repubblica porti con sé al Quirinale, tale e quale, il proprio patrimonio di vita e di cultura e si disponga ad agire senza filtri e mediazioni. Il vertice delle istituzioni impone una cautela eccezionale, specie in una fase di passaggio come quella che il Paese sta vivendo. E rappresentare al meglio il ruolo di garanzia significa anche scontentare, in qualche caso, persone con cui un tempo si sono condivise certe battaglie politiche.
In altri termini, sembra poco plausibile che il capo dello Stato tolga le castagne dal fuoco alla minoranza del Pd o ai gruppi di opposizione a cui non piace la riforma elettorale. E quando si parla di opposizione ci si riferisce in particolare a Forza Italia, che ancora in gennaio al Senato votava con convinzione (salvo eccezioni) la stessa legge contro cui oggi si scaglia. Quanto alla minoranza del Pd, non riesce a dimostrarsi compatta se non quando protesta — con ragione — contro il ricorso al voto di fiducia. La forzatura renziana sottolineata da Bersani è reale, ma nel complesso la minoranza non è credibile come gruppo organizzato. E quando l’ex capogruppo Speranza denuncia «la violenza contro il Parlamento », è di certo consapevole che l’aula deserta dell’altro giorno, mentre Gentiloni riferiva sul povero Lo Porto, non rappresenta una violenza meno dolorosa o una mortificazione più blanda della funzione parlamentare. In altre parole, se la riforma di Renzi diminuisce lo spazio delle assemblee, essa non fa che fotografare — senza dubbio a vantaggio dell’esecutivo — una realtà pre-esistente.
Si capisce allora che sperare in un intervento salvifico del capo dello Stato sia un modo ambiguo di trarsi d’impaccio. A maggior ragione se la speranza nasconde una vaga sollecitazione. Su questo punto Mattarella non sembra incoraggiare i critici della legge. Infatti un conto è auspicare, come ha detto il 25 aprile, «le opportune convergenze» per superare i contrasti in vista del «bene comune ». Altro conto sarebbe dar mano a una fazione che sta perdendo la contesa e che può al massimo fare conto sull’ostruzionismo (destinato peraltro a essere disinnescato nei prossimi giorni) o sui franchi tiratori del voto segreto: visto che alla fine dovrà esserci per forza un voto coperto sul testo della riforma, quali che siano state le richieste di fiducia.
La verità è che la battaglia contro l’Italicum dovrebbe essere combattuta in Parlamento a viso aperto, senza scorciatoie istituzionali. Ma i guerrieri non sembrano troppo convinti. I numeri sono scarsi anche perché ci si è ridotti all’ultimo fra contraddizioni di ogni genere. È probabile che l’opportunità di modificare la riforma, o in alternativa di affossarla, si fosse presentata al Senato nella votazione che precedette di pochi giorni la seduta comune delle due Camere per eleggere il presidente della Repubblica. Quella fu l’occasione persa dalla minoranza del Pd. Ma esisteva ancora il patto del Nazareno che di lì a poco si sarebbe dissolto. E adesso alla Camera i numeri sono impietosi.
La Stampa, 26 aprile 2015
«Sono a conoscenza di queste notizie, ma tale dibattito sottolinea come il Mediterraneo stia diventando rapidamente una mare di miseria per migliaia di migranti, e l’urgenza di affrontare la loro situazione disperata. Il focus principale delle Nazioni Unite è la sicurezza e la protezione dei diritti umani dei migranti e di coloro che chiedono asilo. È cruciale che la concentrazione di tutti sia su salvare le vite, inclusa l’area libica delle operazioni di ricerca e soccorso, che è quella da cui vengono la maggioranza delle richieste di aiuto.
Lei ha detto al premier Renzi che il problema dei migranti è una responsabilità condivisa, ma alcuni Paesi europei resistono all’idea di ospitarli. Cosa possono fare l’Onu e i suoi Paesi membri per aiutare a trovare una soluzione nelle regioni più colpite, in termini di sicurezza, assistenza e sviluppo?
«Con oltre 1.700 morti e quasi 40.000 attraversamenti nel Mediterraneo, solo durante i primi quattro mesi del 2015, la dimensione di questa sfida richiede una risposta globale collettiva e onnicomprensiva. Io credo fortemente che la comunità internazionale abbia una responsabilità condivisa per assicurare la protezione dei migranti e dei rifugiati, che compiono un terribile viaggio attraverso il Mediterraneo. Le misure annunciate di recente in Lussemburgo e a Bruxelles sono un importante primo passo verso un’azione collettiva europea. Questo è l’unico approccio che può funzionare, per un problema di natura così ampia e transnazionale, e per prevenire che simili tragedie si ripetano nel futuro. Il prossimo passo sarà tradurre le misure in impegni concreti.
La stabilità in Libia sarebbe il primo passo per fermare insieme il traffico di esseri umani, e gruppi terroristici come l’Isis. La mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon è ancora l’opzione migliore per centrare questo obiettivo? Come sta procedendo il negoziato e quando avremo qualche risultato?
«Sono molto preoccupato per l’instabilità in Libia. Anni dopo la rivoluzione, il processo di transizione resta ancora appeso, e i civili stanno subendo l’urto delle violenze. Io credo fortemente che non ci siano alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso. Gli atti di terrorismo e di estremismo sono un duro richiamo al fatto che una soluzione politica all’attuale crisi va trovata rapidamente, per ripristinare pace e stabilità. Le istituzioni statali devono essere rafforzate per fermare questi atti di violenza e risparmiare al popolo libico altri spargimenti di sangue e conflitti».
A Roma incontrerà papa Francesco, con cui discuterà anche di ambiente, che ha un impatto su sviluppo, sicurezza alimentare e stabilità. Quali sono le possibilità che si arrivi ad un accordo in dicembre alla Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, e quale appello vuole lanciare ai paesi che ancora frenano?
«Sono ottimista che i governi raggiungano un accordo. Però ci sono ancora alcuni ostacoli significativi da superare, e quindi ogni Paese deve fare la sua parte per trovare una soluzione accettabile per tutti. I leader tuttavia ora capiscono quanto sia in gioco, e quanto le loro economie potrebbero trarre beneficio da un’intesa globale, che mandi il giusto segnale per una forte crescita e prosperità con basse emissioni di carbonio. Sono sempre più gli amministratori di aziende, le città e i cittadini in tutto il mondo che stanno agendo. Ha senso economico. E da una prospettiva morale e religiosa. La cosa giusta da fare, per proteggere la gente e il nostro pianeta.
Il manifesto, 26 aprile 2015
E così il problema sarebbe Yanis Varoufakis. Il quale si sarebbe dimostrato nell’eurogruppo di Riga un «incompetente», un «dilettante», un «giocatore d’azzardo». Strano però per un professore di economia tra i più brillanti attualmente a livello internazionale, che ha insegnato nelle migliori università anglosassoni, compresa Cambridge, stimato e sostenuto dal nobel Joseph Stiglitz e da James Galbraith.
Certo, se le critiche provengono dall’agronomo (dal curriculum falsificato) Jeroen Dijsselbloem e dal laureato in legge Wolfgang Schäuble, qualcosa di vero ci deve essere.
Convince in particolare l’accusa di «dogmatismo» lanciata contro il greco dall’accomodante ministro delle Finanze tedesco, lo stesso che da cinque anni ha imposto con pugno di ferro all’eurozona una brillante politica economica, che assicura alti tassi di crescita economica e – soprattutto – sociale. Lo sanno tutti, gli spagnoli, i portoghesi, i greci e anche gli italiani, che nuotano nell’abbondanza.
No, non è Schäuble il dogmatico del neoliberismo. E’ Varoufakis quello inflessibile, poiché si rifiuta ostinatamente di regalare alle banche le prime case, di abbassare le pensioni ai 350 euro, di licenziare migliaia di statali e di svendere proprietà pubbliche.
Una fermezza che assicura al suo governo altissimi tassi di consenso tra la popolazione greca, come dimostra l’ultimo sondaggio reso pubblico appena ieri. Nello stesso tempo però in cui plaude alla fermezza contro l’austerità, la stragrande maggioranza degli intervistati chiede a Varoufakis e a Tsipras di non rompere con l’eurozona. Una posizione saggia, pienamente in linea con il programma di Syriza. Un compromesso onorevole, ma per ottenerlo bisogna essere in due.
Ora però le cose si complicano. Il giorno prima dell’eurogruppo che ha tentato di linciare Varoufakis, Tsipras si era incontrato con la Merkel in tutt’altro clima. La cancelliera aveva anche assicurato che la Grecia non avrebbe dovuto rimanere senza liquidità.
Cosa è successo? E’ noto che l’eurogruppo è il regno di Schäuble mentre la Merkel gioca su uno scacchiere più grande.
C’è un gioco delle parti, del tipo poliziotto buono e poliziotto cattivo? Oppure anche a Berlino ci sono falchi e colombe? I primi continuerebbero a giocare la carta della destabilizzazione del governo Tsipras, assumendo anche il rischio di un incidente, sempre più probabile man mano che passano le settimane e i mesi. I secondi starebbero cercando di trovare una quadratura del cerchio – tutta politica – per uscire dall’impasse.
Comunque sia, non è certo colpa di Varoufakis. Il ministro delle Finanze greco lavora all’interno di un gruppo operativo specificamente dedicato ai problemi con i creditori, a capo del quale c’è il vice presidente del Consiglio Yannis Dragasakis, esponente tra i più moderati e più esperti di Syriza. Quindi ogni virgola dell’azione politica del ministro delle Finanze riflette esattamente gli orientamenti del governo greco. Una sua sostituzione è fuori discussione.
Anche se Schäuble (l’ha pure ammesso) si trovava molto più a suo agio con i suoi predecessori: Giorgos Papakonstantinou, condannato per falso, Yannis Stournaras, l’architetto dei conti truccati per entrare nell’euro, Ghikas Hardouvelis, il banchiere che portava i soldi in Svizzera.
Come andrà a finire? Non sono nella testa di Schäuble. Ma ho cercato lumi sul Corriere della Sera di ieri e ho fatto una grande scoperta. In un’intera pagina fonti (anonime) dei creditori accusano Tsipras di essere «falsamente di sinistra» e «al servizio degli oligarchi». L’ho raccontato anche in Grecia e ci siamo divertiti molto. Finché le polemiche contro di lui saranno di questo tenore potrà stare tranquillo: sarà al governo per un decennio e oltre.
Corriere della sera, 26 aprile 2015
Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall’Unione europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all’ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l’Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all’operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla.
Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un’esistenza di soggetto politico, l’Europa è ormai diventata qualcosa d’imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati.
Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: «Cari signori, l’Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto questo costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l’Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all’Unione e alle sue attività». E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un’amichevole pacca sulla spalla.
Giorni molto difficili si annunciano dunque nell’immediato per l’Italia. Ma per l’intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l’appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un’insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico.
Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l’Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l’Organizzazione dell’Unione africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi «missioni» di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei «campi di addestramento» lavorativo, linguistico e «antropologico-culturale», destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese.
Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l’appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce.