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La Repubblica, 6 maggio 2015

QUESTA riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).

La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde dell’abbandono scolastico e delle bocciature?

Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza: non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata come un successo.

I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente, non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.

Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che questa riforma può avere, ha ragione.

Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico: quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente: l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico. L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.

Il manifesto, 6 maggio 2015

Un fatto è certo : la nostra zootecnia, la pastorizia e gran parte delle grandi aziende agricole non esisterebbero senza la mano d’opera offerta a basso costo dagli immigrati. Se sono clandestini o irregolari è ancora meglio, perché possono lavorare senza limiti orari e essere sottopagati a 20 euro al giorno per 10 ore di lavoro, come capita ancora nella piana di Gioia- Rosarno o nella terra dei fuochi, o in altri luoghi ameni del nostro Bel Paese. Molti prodotti di qualità del made in Italy non esisterebbero senza il lavoro degli immigrati. Il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata non è solo una conseguenza delle leggi del mercato capitalistico, è anche il frutto di una visione miope e subalterna della gran parte delle nostre aziende dell’agroalimentare.

Come testimonia l’esistenza di SOS Rosarno, di Calabria solidale, e di Galline Felici in Sicilia e di tante altre esperienze, è possibile costruire una filiera agro-alimentare rispettando i diritti dei lavoratori, facendo guadagnare i proprietari delle aziende agricole e dando ampie soddisfazioni ai consumatori. Una magia ? No, semplicemente basta uscire dal dominio della grande distribuzione e creare una relazione diretta tra aziende, che rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori, e le organizzazioni dei consumatori responsabili, come sono i Gruppi d’Acquisto Solidale o le organizzazioni del “fair trade”. Ci guadagnano i braccianti, i contadini, i proprietari di piccole e medie aziende agricole che entrano in un percorso di legalità sociale ed ambientale. Infatti, le aziende agricole che sfruttano gli immigrati a loro volta subiscono i ricatti della grande distribuzione che comprano i prodotti della terra a prezzi irrisori e li rivendono al consumatore con un ricarico finale che arriva fino a dieci volte il costo di produzione agricolo.

Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra, ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole. Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni e che ha raggiunto nel 2013 oltre 7 miliardi di passivo! Importiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che consumiamo. Se riuscissimo a riportare in pareggio la bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30-40.000 nuovi posti di lavoro reali.

Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%, ed una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche. Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima. Come forse non tutti ricordano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini meridionali. In media venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e risorse per commercializzare i prodotti della terra. Risultato: dopo una decina d’anni le terre furono nuovamente abbandonate ed i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel Nord-Italia, in Svizzera, in Germania, nel Nord Europa.

Per non ripetere gli stessi errori occorre pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della popolazione e di un rapporto dialettico, senza escludere momenti conflittuali, con i soggetti e i movimenti sociali. Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili,per creare quelle reti sociali capaci di dare il “giusto valore” ai prodotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimostrato da alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. Diversi giovani sono andati o tornati nelle campagne, avviando esperienze di lavoro e di produzione innovativi. Inoltre, in queste zone interne dovrebbero essere finanziati quei progetti che puntano a rivitalizzare l’artigianato e la cultura locale, l’espressione artistica e la ricerca scientifica che è possibile delocalizzare (come hanno fatto alcuni Parchi nazionali in Italia ed in Europa).

Ma, questa “seconda Riforma Agraria” abbisogna di soggetti sociali che siano interessati a questa operazione. Le forze inutilizzate del mercato del lavoro interno non sarebbero di per sé sufficienti, ed adatte, a reggere una simile impresa di trasformazione del nostro territorio. Il popolo dei migranti potrebbe dare una mano d’aiuto formidabile al nostro paese. Naturalmente non tutti i migranti che vogliono venire in Europa, e che non finiscono in fondo al mare, desiderano e possono fare gli agricoltori o i braccianti. Molti di questi sono mossi non tanto dal bisogno di lavorare, ma dalla necessità di fuggire da guerre, persecuzioni, condizioni insostenibili di vita. Ma anche questi ultimi, alcuni con capacità e competenze elevate, sarebbero ben felici di inserirsi con un lavoro nelle nostre comunità, anche transitoriamente. I migranti, assieme ai giovani italiani che tornano nelle campagne, potrebbero diventare il soggetto sociale più immediatamente e direttamente interessati a questo progetto di difesa, valorizzazione e trasformazione della nostra agricoltura e del nostro territorio, al recupero di terre e paesi scartati ed emarginati, al pari di tanti giovani, da questo modello di sviluppo. Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esistere, di poter lavorare dignitosamente, di avere una casa, potrebbe costituire una occasione storica per far rinascere una parte rilevante del nostro paese ormai destinato all’abbandono ed al degrado.

Le vere Riforme che hanno modificato i rapporti di produzione sono nate sempre sotto la spinta di lotte sociali e movimenti di popolazione. La prima Riforma Agraria, nata dopo anni di occupazione delle terre e violenti scontri nelle campagne, segnò la sconfitta politica degli agrari. La seconda R.A. diventerà una realtà se verrà sconfitta la classe politica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repressione dei flussi migratori o l’accoglienza micragnosa, e questo movimento di essere umani che lottano per sopravvivere troverà la risposta appropriata nella trasformazione del nostro modello di sviluppo basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.

l manifesto, 5 maggio 2015

Si deve insi­stere senza ras­se­gnarsi. Senza remore va qua­li­fi­cata l’enormità della con­trad­di­zione tra i prin­cipi della Costi­tu­zione, tra la minima con­ce­zione della demo­cra­zia e la legge elet­to­rale appro­vata in sosti­tu­zione del por­cel­lum ripro­du­cen­done però sfac­cia­ta­mente le inco­sti­tu­zio­na­lità accer­tate dalla Corte. Inco­sti­tu­zio­na­lità che rive­ste e imbel­letta. Nulla e nes­suno però può nascon­dere che l’italicum infrange i fon­da­menti della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e mira a dis­sol­verla con­cul­cando il diritto di sce­gliere chi votare come pro­prio rap­pre­sen­tante in Parlamento.

Nelle «20 cir­co­scri­zioni elet­to­rali sud­di­vise nell’insieme in 100 col­legi plu­ri­no­mi­nali» i capi­li­sta, se la lista che capeg­giano otterrà seggi, risul­te­ranno auto­ma­ti­ca­mente eletti senza essere stati votati. Così i depu­tati “nomi­nati” dai capi­par­tito risul­te­ranno tanti quante saranno le liste che otter­ranno seggi. Quelle che di seggi ne con­qui­ste­ranno uno solo, lo tro­ve­ranno già scelto.

L’italicum rin­nega poi il prin­ci­pio di ugua­glianza pre­ve­dendo il “pre­mio di mag­gio­ranza”, un dispo­si­tivo che pre­scrive nien­te­meno che la fal­si­fi­ca­zione della volontà dal corpo elet­to­rale mediante la mani­po­la­zione del risul­tato dei voti espressi.

In qual­siasi plu­ra­lità umana la mag­gio­ranza dei voti si iden­ti­fica nella loro metà più uno. Il “pre­mio di mag­gio­ranza” non è attri­buito a chi que­sti voti li ha acqui­siti ma a chi non li ha acqui­siti. Lo si con­fe­ri­sce ad una mino­ranza, a quella che ottiene un solo voto in più di cia­scuna altra. Si tra­duce quindi in un pri­vi­le­gio per una delle mino­ranze rispetto a tutte le altre. Pri­vi­le­gio che com­porta disco­no­sci­mento di voti validi e sot­tra­zione di seggi alla mag­gio­ranza reale, reale per­ché com­po­sta dalla somma delle liste votate, esclusa la mino­ranza pri­vi­le­giata. Quella a cui il corpo elet­to­rale ha negato di diven­tare mag­gio­ranza ma con­tro la volontà popo­lare ne acqui­sta il potere. Un’assurdità, una illo­gi­cità manifesta.

L’italicum è vorace. Non solo asse­gna 340 seggi alla lista che ottiene il 40 per cento dei voti (88 in più di quanti le spet­te­reb­bero). Ma, al secondo turno, che inter­viene se nes­suna lista ha otte­nuto il 40 per cento dei voti al primo turno, col bal­lot­tag­gio tra le due liste più votate, attri­bui­sce comun­que que­sti 340 seggi, per­ciò anche ad una lista che di voti ne può aver avuto il 35 per cento, il 30, il 20 …

L’italicum, comun­que, dis­solve la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva stra­vol­gendo la forma di governo e declas­sando il ruolo del Pre­si­dente della Repub­blica. Per­ché tra­sforma l’elezione al Par­la­mento in ele­zione del “primo mini­stro, capo del governo”, la dop­pia deno­mi­na­zione che defi­niva la forma di governo vigente in Ita­lia dal 3 gen­naio 1925 al set­tem­bre 1943.

L’inventore dell’italicum, il poli­to­logo D’Alimonte, sostiene che il mostri­ciat­tolo che ha inven­tato rea­lizza l’elezione diretta del pre­mier ma non modi­fica la forma par­la­men­tare di governo. Affer­man­dolo o finge di non saperlo o ignora che la forma par­la­men­tare di governo si iden­ti­fica nella respon­sa­bi­lità del governo nei con­fronti del par­la­mento, organo della rap­pre­sen­tanza poli­tica che esprime la sovra­nità popo­lare. Rap­pre­sen­tanza cui l’elezione diretta del pre­mier sot­trae tutti i poteri tra­sfe­ren­dolo pro­prio al pre­mier e ren­derlo anche domi­nus nelle ele­zioni degli organi di garan­zia, Pre­si­dente della repub­blica, Corte costi­tu­zio­nale, Csm.

Que­sta radi­cale muta­zione della forma di governo nel suo oppo­sto e que­sta oscena misti­fi­ca­zione di una qual­che ipo­tesi di demo­cra­zia si con­net­tono poi con la cosid­detta “riforma” del Par­la­mento che maschera, col supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio, l’eliminazione (della sede) di un con­tro­po­tere allo stra­po­tere del capo del governo nel regime che Renzi sta costruendo, quello dell’autoritarismo.

Va detto senza ambagi. L’italicum distorce l’arma inde­fet­ti­bile dei cit­ta­dini, il voto. Svuota la rap­pre­sen­tanza poli­tica. Asser­vi­sce il Par­la­mento al governo. Sof­foca la sovra­nità popo­lare. Inve­ste di tutto il potere una per­sona sola.

Il testo di que­sta legge dovrà ora supe­rare il con­trollo della pro­mul­ga­zione che deve essere quanto mai severo. Lo sia. In peri­colo è la demo­cra­zia italiana.



Non succedeva da mesi. Un barcone è persino riuscito ad arrivare indisturbato fino al porto di Lampedusa, a “bucare” il via vai di soccorsi iniziato sabato mattina lungo il Canale di Sicilia. Quasi seimila persone soccorse in 48 ore, una ventina tra barconi e gommoni, dieci morti: alcuni di stenti, di sete, ustionati, trovati dai soccorritori sul fondo dei gommoni, tra i piedi dei loro compagni sopravvissuti, altri annegati in mare nel disperato tentativo di raggiungere un rimorchiatore.
Ogni soccorso nasconde una tragedia. È stata un’altra domenica di passione per le navi della Guardia costiera e della Marina militare italiana, come al solito coadiuvate da mercantili di passaggio e rimorchiatori delle piattaforme petrolifere. Una nave francese, la Commandant Birot, ha invece sbarcato nel pomeriggio a Crotone 216 migranti di varie nazionalità. «Mi vergogno perché l’Europa non fa ciò che dovrebbe e potrebbe fare per i migranti. L’Ue deve sapere cosa state facendo qui e io mi farò portavoce», ha detto il vicepresidente del Parlamento federale tedesco e leader dei Verdi, Claudia Roth, in Sicilia da tre giorni in rappresentanza del Bundestag. Una nuova ondata di partenze dalla coste libiche approfittando del meteo favorevole e centri di prima accoglienza siciliani di nuovi pienissimi. Persino a Lampedusa, dove il centro è dall’anno scorso solo parzialmente agibile e dove ormai la regia di smistamento dei profughi tende ad evitare l’arrivo di migranti, ne sono stati sbarcati più di 500.

Una ventina i barconi che, nel giro di poche ore, hanno lanciato l’Sos con i telefoni satellitari. Per le navi dei soccorsi è stata una corsa contro il tempo per evitare l’affondamento di gommoni ormai semisgonfi e il ribaltamento di vecchi barconi stracarichi. Solo in uno erano state stipate ottocento persone, come sul peschereccio ribaltatosi quindici giorni fa con il suo carico di centinaia di migranti andati incontro a una morte terribile rinchiusi nella stiva. E in un gommone, la nave Fiorillo ha tratto in salvo ben 397 persone. In due dei gommoni raggiunti dai soccorsi sono stati trovati i cadaveri di quattro migranti, tre in uno, quattro nell’altro, probabilmente morti per gli stenti della traversata. Tra i 105 profughi tutti dell’Africa subsahariana agganciati dal mercantile Prince 1 a 45 miglia a nord est di Tripoli l’equipaggio ha pietosamente composto i corpi di tre persone. Altri quattro, ormai senza vita, erano tra i 73 soccorsi da un’altra imbarcazione privata, il mercantile Zeran, a 35 miglia a nord est di Tripoli. E altre due persone erano in condizioni gravissime, quasi disperate tanto che i marinai hanno tentato estreme manovre di rianimazione.

Poche miglia più in là, in tre si sono lanciati da un gommone nel disperato tentativo di raggiungere un rimorchiatore, ma i tre migranti non ce l’hanno fatta e all’equipaggio non è rimasto che tirare a bordo i loro corpi tra le lacrime dei 78 compagni di viaggio incolumi. In extremis, quasi davanti le coste libiche, la Finanza ha soccorso un barcone con 330 migranti tra cui diciotto bambini e sessanta donne. A terra, in Sicilia e in Calabria dove il ministero dell’Interno ha dato disposizioni di sbarcare i nuovi arrivati, è stato approntato il dispositivo di primo soccorso e accoglienza, mentre Viminale e prefetture in queste ore cercano freneticamente nuovi posti liberi in strutture dalla Sicilia alla Val d’Aosta.


Il doloredell’ammiraglio
«In mare c’è un popolo intero
impossibile salvarli tutti»
PALERMO .
«Questa è una nazione, un popolo in navigazione. In tanti anni di lavoro non ho mai visto una cosa del genere. Lavoriamo senza sosta, raccogliamo persone in mare ovunque». È accorata la voce dell’ammiraglio Felice Angrisano mentre racconta la nuova emergenza.
Ammiraglio, ce la fate? Siete sommersi da richieste di soccorso.
«Facciamo il possibile. Abbiamo salvato seimila persone in 48 ore, ma la linea da controllare è enorme. Da un capo all’altro del Canale di Sicilia, parliamo di un fronte largo cento miglia. Non facciamo altro che smistare soccorsi ovunque, le nostre navi, quelle della Marina, mercantili, rimorchiatori, pescherecci. Diciamo pure che non c’è imbarcazione che si trovi a passare nel Canale che non venga coinvolta in queste operazioni. C’è anche una nave francese».
È una situazione ancora sotto controllo?

«È una situazione che ci preoccupa molto. I numeri sono in continua crescita, noi cerchiamo di soccorrere tutti ma non abbiamo occhi ovunque. Con il migliorare delle condizioni meteo non possiamo che aspettarci che l’emergenza continui. Sappiamo che sull’altra sponda del Mediterraneo ci sono centinaia di migranti pronti a partire in qualsiasi condizione, centinaia di persone finiranno ancora su gommoni mezzi sgonfi o su vecchi pescherecci. E purtroppo sappiamo che quando parliamo di numeri così consistenti, la tragedia è sempre dietro l’angolo ».

La Repubblica, 4 maggio 2015

Camusso, ma non è paradossale uno sciopero della scuola contro una riforma che prevede 100 mila assunzioni di precari?
«Ma secondo lei — risponde il segretario generale della Cgil — un sindacato può scioperare contro delle assunzioni? La verità è che il governo non è in condizioni di farle per l’inizio dell’anno. E ha posto criteri assai discutibili che dividono in modo arbitrario i precari».

Non è che protestate contro una legge che vi ha tagliato fuori, che ha ignorato il tradizionale potere di veto dei sindacati?
«Francamente mi paiono argomenti vecchi e strumentali. Le cose sono assai più serie. Questa è una riforma che lede il diritto costituzionale della libertà di insegnamento, che affida a un singolo, il dirigente scolastico come si chiama oggi il preside, la totale discrezionalità su chi debba insegnare o meno. Non è quello che prevede la nostra Carta Costituzionale ».

Lei pensa che sia una riforma di impianto autoritario?
«Emerge una scuola che non ha più una funzione di carattere generale, che non punta più a formare cittadini con spirito critico. È una scuola elitaria, non di tutti. Le risorse che ci sono, peraltro scarse, vanno a chi primeggia e delle scuole di Scampìa o dello Zen di Palermo che ne facciamo?».

Eppure la competizione tra istituti scolastici può accrescere la qualità dell’offerta formativa. Non crede che possa essere un vantaggio per le famiglie?
«Guardi, io penso che la scuola debba essere migliorata. Nella nostra Costituzione la scuola vuol dire il diritto allo studio. Bene, nella riforma non c’è traccia di questo. Non c’è una visione del futuro della scuola, non c’è nulla per combattere la dispersione scolastica nel Paese che detiene il record di giovani Neet, che cioè non lavorano, non studiano, non si formano. Alla fine accederanno alla scuola coloro che appartengono a famiglie che se lo possono permettere».

Abbiamo il record dei Neet e quello dei giovani disoccupati. Secondo lei perché nonostante il Jobs Act, il superamento dell’articolo 18, lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni, le aziende non assumono?
«Perché non ci sono investimenti a partire da quelli pubblici. Perché non basta dire a un imprenditore: ti ho tolto l’articolo 18, ti ho fatto gli sconti, ora pensaci tu. Non funziona così. Gli incentivi senza vincoli si traducono nella sola sostituzione di contratti. Serve una politica industriale che indirizzi e sostenga la crescita e l’occupazione ».

Si passa dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato. Non è positivo?
«Certo che lo è. Ma siamo nel terreno di Monsieur Lapalisse. Se non si pone come obiettivo quello della piena occupazione richiamato autorevolmente dal Presidente Mattarella, non ci sarà alcun cambiamento di verso ».

La manovra sugli sgravi contributivi ci è costata circa 10 miliardi. Il governo ne dovrà recuperare quasi altrettanti per fronteggiare gli effetti cumulati della sentenza della Consulta sul mancato adeguamento delle pensioni. La Cgil ha esultato dopo la sentenza. Ora si devono trovare le risorse. Come?
«La Corte si era già pronunciata in senso negativo su soluzioni che colpivano solo parte dei pensionati. Il governo è in grave ritardo e ora è indispensabile sedersi intorno ad un tavolo per cambiare la legge Fornero che non funziona per mille motivi».

D’accordo, le risorse dove le prenderebbe?
«Ora i diritti delle persone vanno garantiti e le risorse, come abbiamo più volte detto, ci sono o si possono trovare. Questa potrebbe anche essere l’occasione per rivedere i criteri di una effettiva progressività del sistema fiscale e per contrastare seriamente l’evasione».

Facendo pagare ai ricchi? È la vostra proposta della patrimoniale?
«Senza rinunciare alla riforma complessiva del fisco, la patrimoniale sulla grandi ricchezze ha un’efficacia immediata».

Come giudica la legge elettorale su cui la Camera esprimerà la fiducia?
«Non mi convince essendo tutta piegata al principio della governabilità. È una legge che surrettiziamente porta al premierato senza che siano stati previsti i necessari contrappesi. Dissi al congresso della Cgil che eravamo di fronte ad una torsione del sistema democratico. Non ho cambiato idea».

“Il sindacato visita la sinistra tutti i giorni del calendario”, ha scritto Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica. Lei che sinistra visita?
«La sinistra che visito è quella che tenta di recuperare alcune parole e alcuni valori: uguaglianza, ricostruzione dei diritti sociali, povertà non come colpa, disoccupazione non come vergogna. La sinistra che vuole un altro Paese».

Sta dicendo che non è nel Pd, partito che lei ha annunciato non voterebbe, che trova questa sinistra?
«C’è anche nel Pd. È che oggi sono sempre di meno i luoghi della partecipazione democratica, ma non è vero che i cittadini non vogliano partecipare. L’iniziativa di oggi (ieri, ndr) di Milano ne è la riprova».

E cosa pensa di coloro che invece hanno devastato Milano?
«Si è trattato di violenza pura e gratuita che non può avere alcuna giustificazione politica».

Ma lei si impegnerebbe a dar vita a una nuova sinistra?
«La mia è un’altra funzione. Sarebbe un errore confondere i ruoli, ma sono convinta che ci sia un grande bisogno di sinistra».

Ci vorrebbe un altro partito di sinistra?
«Ci vorrebbe un partito di sinistra».

In autunno ci sarà la conferenza di organizzazione della Cgil anche per fissare le nuove regole per l’elezione dei gruppi dirigenti. Come sarà scelto il suo successore?
«Siamo ben coscienti che dobbiamo cambiare. La contrattazione non può limitare a tutelare chi è già organizzato, dobbiamo includere tutto il mondo del lavoro. Sarà la nostra riforma strutturale all’interno della quale ci saranno le nuove regole per selezionare i dirigenti. Il prossimo segretario della Cgil sarà eletto da un organismo nel quale la presenza dei delegati dei posti di lavoro sarà superiore a quella degli apparati. E sono certa che queste modalità renderanno protagoniste le nuove generazioni».

Il manifesto online, 3 maggio 2015

Trickle-down (in ita­liano, sgoc­cio­la­mento) è il nome di una teo­ria eco­no­mica, ma anche di una filo­so­fia, che molti hanno cono­sciuto attra­verso la para­bola di Laz­zaro che si nutriva delle bri­ciole che il ricco Epu­lone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono inver­tite per­ché Laz­zaro è stato ammesso al ban­chetto di Dio, in Para­diso, men­tre Epu­lone è finito all’inferno a sof­frire fame e sete.

La teo­ria e la filo­so­fia del Trickle–down in realtà si fer­mano alla prima parte della parabola. La seconda parte è com­pito nostro rea­liz­zarla; e non in Para­diso, dopo la morte, ma su que­sta Terra, qui e ora.

In ogni caso, secondo la teo­ria, più i ric­chi diven­tano ric­chi, più qual­che cosa della loro ric­chezza “sgoc­cio­lerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ric­chi siano sem­pre più ric­chi con­viene a tutti. Discende da que­sta teo­ria la pro­gres­siva ridu­zione delle tasse sui red­diti mag­giori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, pre­di­cata negli Usa dal par­tito repub­bli­cano e, in Ita­lia, da Mat­teo Sal­vini) che, a par­tire dagli anni Set­tanta, ha inau­gu­rato la cre­scita incon­trol­lata delle dise­gua­glianze. In Ita­lia la pro­gres­siva ridu­zione delle ali­quote mar­gi­nali dell’imposta sui red­diti più ele­vati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giu­sti­fi­cata soste­nendo che ali­quote troppo ele­vate incen­ti­vano l’evasione fiscale, men­tre ali­quote più “ragio­ne­voli” l’avrebbero eli­mi­nata. I risul­tati si vedono. L’altro cavallo di bat­ta­glia della Trickle-down eco­no­mics è che le misure di incen­ti­va­zione eco­no­mica dovreb­bero essere desti­nate esclu­si­va­mente alle imprese, per­ché sono solo le imprese a creare buona occu­pa­zio­ne e, quindi, red­dito e benes­sere anche per i lavo­ra­tori. Tutte le altre spese, spe­cie se di carat­tere sociale, sono, in ter­mini eco­no­mici, “spre­chi”. Ma l’evoluzione tec­no­lo­gica rende sem­pre di più job-less, cioè senza occu­pa­zione aggiun­tiva, la cre­scita sia della sin­gola impresa che del sistema nel suo com­plesso. Anzi, molto spesso la ridu­zione dell’occupazione in una impresa viene salu­tata con un dra­stico aumento del suo valore in borsa.

Tra­spo­sta sul piano sociale, la filo­so­fia del Trickle-down ha assunto i con­no­tati del “capi­ta­li­smo com­pas­sio­ne­vole”, che negli Stati uniti costi­tui­sce la dot­trina uffi­ciale dell’ala più rea­zio­na­ria del par­tito repub­bli­cano, e non solo di quella. In base ad essa il wel­fare, come insieme di misure tese a garan­tire in forma uni­ver­sa­li­stica i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino – pen­sione, cure sani­ta­rie, istru­zione, soste­gno al red­dito – va eli­mi­nato per­ché induce chi ne bene­fi­cia all’ozio; e va sosti­tuito con la bene­fi­cienza gestita dalla gene­ro­sità dei ric­chi, nelle forme da loro pre­scelte e indi­riz­zan­dola, ovvia­mente, solo a chi, a loro esclu­sivo giu­di­zio, “se la merita”. Non c’è nega­zione più radi­cale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teo­ria come que­sta. Eppure è una con­ce­zione che sta pro­gres­si­va­mente pren­dendo piede in tutti gli ambiti della cul­tura uffi­ciale, anche là dove gli isti­tuti del Wel­fare State (che let­te­ral­mente signi­fica Stato del benes­sere, e che da tempo viene tra­dotto sem­pre più spesso con l’espressione “Stato assi­sten­ziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.

Non deve stu­pire quindi di ritro­vare i capi­saldi di que­sta con­ce­zione vio­len­te­mente anti­de­mo­cra­tica in quello che viene fin da ora uffi­cial­mente indi­cato come “il lascito imma­te­riale” della peg­giore mani­fe­sta­zione della teo­ria e della prassi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, o “finan­z­ca­pi­ta­li­smo”: la cosid­detta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito imma­te­riale, per­ché quello mate­riale, come è ormai noto, non è che deva­sta­zione del ter­ri­to­rio, asfalto e cemento, cor­ru­zione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, vio­la­zione dei diritti, della dignità e della sicu­rezza del lavoro (l’Expò è stato il labo­ra­to­rio del Job-act), pro­pa­ganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria ali­men­tare tos­si­che e, dul­cis in fundo, un mec­ca­ni­smo di per­pe­tua­zione delle Grandi Opere inu­tili: per­ché, a Expò con­cluso, ci sarà da deci­dere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova cor­ru­zione di quell’area ormai devastata.

Uno dei punti o pro­po­siti qua­li­fi­canti della Carta di Milano è infatti la lotta con­tro lo spreco ali­men­tare attra­verso il recu­pero del cibo che oggi viene but­tato via, desti­nan­dolo ai poveri. Nella carta i rife­ri­menti a que­sto pro­po­sito sono tre: “ che il cibo sia con­su­mato prima che depe­ri­sca, donato qua­lora in eccesso e con­ser­vato in modo tale che non si dete­riori”; “indi­vi­duare e denun­ciare le prin­ci­pali cri­ti­cità nelle varie legi­sla­zioni che disci­pli­nano la dona­zione degli ali­menti inven­duti per poi impe­gnarci atti­va­mente al fine di recu­pe­rare e ridi­stri­buire le ecce­denze”; “creare stru­menti di soste­gno in favore delle fasce più deboli della popo­la­zione, anche attra­verso il coor­di­na­mento tra gli attori che ope­rano nel set­tore del recu­pero e della distri­bu­zione gra­tuita delle ecce­denze ali­men­tari”. Appa­ren­te­mente si tratta di rac­co­man­da­zioni di buon senso: dare a chi non può per­met­ter­selo il cibo che altri­menti but­te­remmo via. E’ quello che si cerca di fare con isti­tu­zioni e pro­grammi bene­me­riti, come la legge detta del “Buon Sama­ri­tano” o il Last-minute mar­ket pro­mosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro mini­miz­za­zione (in vista del loro azze­ra­mento, pre­vi­sto dal pro­gramma Rifiuti zero, che le ren­de­rebbe super­flue). Tra­spo­ste nell’ambito di un pro­gramma pla­ne­ta­rio per “nutrire il pia­neta” hanno l’effetto di retro­ce­dere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sot­toa­li­men­ta­zione di una parte deci­siva dell’umanità, la cui con­di­zione è invece il pro­dotto delle grandi e cre­scenti dise­gua­glianze mon­diali nella distri­bu­zione dei red­diti, del lavoro e delle risorse.

Per cogliere meglio que­sto punto è neces­sa­rio risa­lire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Pro­to­collo di Milano”: un docu­mento ela­bo­rato dalla fon­da­zione Barilla – ema­na­zione dell’omonima mul­ti­na­zio­nale ali­men­tare – a cui l’Expò ha affi­dato il com­pito di indi­vi­duare i capi­saldi del pro­gramma “nutrire il pia­neta”, che sono poi stati tra­dotti “in pil­lole” nella Carta di Milano; e che ha la pre­tesa di defi­nire un pro­gramma di azione dei pros­simi decenni per tutti i sog­getti del mondo – Governi, imprese, asso­cia­zioni, cit­ta­dini — impe­gnati nella filiera agroa­li­men­tare come pro­dut­tori, distri­bu­tori o consumatori.

Nel Pro­to­collo di Milano il tema dello spreco di ali­menti occupa il primo posto: “Primo para­dosso – spreco di ali­menti: 1,3 miliardi di ton­nel­late di cibo com­me­sti­bile sono spre­cati ogni anno, ovvero un terzo della pro­du­zione glo­bale di ali­menti e quat­tro volte la quan­tità neces­sa­ria a nutrire gli 805 milioni di per­sone denu­trite nel mondo”. Nell’ambito dei pro­grammi per sra­di­care la fame, tra cui “le dispo­si­zioni per­ti­nenti nel qua­dro delle legi­sla­zioni inter­na­zio­nali, regio­nali e nazio­nali per la pro­te­zione e con­ser­va­zione delle risorse e l’adozione di azioni fina­liz­zate allo svi­luppo soste­ni­bile nella Diret­tiva qua­dro euro­pea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa effi­ciente sotto il pro­filo delle risorse, gli Obiet­tivi di Svi­luppo del Mil­len­nio per sra­di­care la povertà estrema e la fame”, il Pro­to­collo di Milano arriva a trat­tare que­sta prima emer­genza pla­ne­ta­ria con le stesse moda­lità con cui, in un qual­siasi Comune d’Italia, si affronta il pro­blema della gestione dei rifiuti: “Le ini­zia­tive per la ridu­zione degli spre­chi devono rispet­tare la seguente gerarchia:

1. Pre­ven­zione; 2. Riu­ti­lizzo per l’alimentazione umana; 3. Ali­men­ta­zione ani­male; 4. Pro­du­zione di ener­gia e com­po­stag­gio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta con­tro la tra­sfor­ma­zione degli ali­menti in rifiuti (e non per una più equa distri­bu­zione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affa­mati del pia­neta non spetti altro che il com­pito di smal­tire ciò di cui i ric­chi si vogliono sba­raz­zare. Cioè sedersi, come Laz­zaro, ai piedi della tavola del ricco Epu­lone. Con il che la Trickle-down eco­no­mics fa il suo ingresso trion­fale nel “lascito” dell’Expò.

«Il significato della manifestazione contro l'Expo non è cancellato dalle inaccettabili devastazioni che hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo». L'Altra Europa con Tsipras, mailing list, 2 marzo 2015

La risposta alla convocazione del May day - che quest’anno univa a Milano, in un’unica mobilitazione internazionale, il tema consueto del precariato e la denuncia dell’Expò - è stata massiccia e articolata. Tantissimi (più di 30.000), quasi tutti giovani; meno birra degli anni scorsi; ben otto bande di “ottoni” da diversi paesi europei. E poi, cordoni di famiglie che occupano la casa, con i centri sociali che le proteggono; centinaia di lavoratori di colore; forte presenza dei sindacati di base, di anarchici, pacifisti, ambientalisti, animalisti (che nel movimento No-expò hanno un punto di forza), degli Lgbt e dei partitini della sinistra, questa volta ammessi insegne e bandiere. Striscioni, cartelli e slogan documentavano una cultura che sta imparando a connettere lavoro, reddito, casa, salute, accoglienza con la difesa del clima, del suolo, della democrazia, della pace e contro debito, speculazione edilizia, corruzione e mafia: tutti temi presenti non come mere enunciazioni, ma sulle gambe delle migliaia di persone in carne e ossa che hanno partecipato al corteo con un bersaglio comune nell’Expò e in ciò che rappresenta: un concentrato delle nefandezze della società in cui viviamo. Un “grande evento” che pretende di combatter lo spreco ma fatto di sprechi di suolo, di materiali, di denaro, di occasioni; e di sfruttamento del lavoro in ogni forma.

Quel corteo, indipendentemente dai suoi esiti, ha messo in chiaro che in gioco non c’è solo un grande evento di cui si poteva benissimo fare a meno – come in gioco in Val di Susa non c’è solo “un treno”, come pretende Bersani, e a Venezia non solo grandi navi e Mose – bensì uno scontro di culture, di visioni, di modi opposti di considerare lavoro, territorio, città, denaro, diritti e dignità della persona. Che è la ragione per cui la Valle di Susa resiste da oltre vent’anni e ha costruito intorno a questa resistenza gli embrioni di un modo radicalmente alternativo di vivere i rapporti con gli altri: quel “partiamo insieme e torniamo insieme” che vale in tutti i campi e non solo nelle manifestazioni. Chi critica i No-expo perché si limiterebbero a un rifiuto invece di proporre contenuti positivi – oppure, pura ipocrisia, ne denuncia l’inutilità perché “tanto ormai l’Expò si fa” – non solo dimostra di non capire qual è la posta in gioco. Ma anche di non interessarsi a quanto il movimento, nelle sue varie articolazioni, ha prodotto in ben otto anni. O, peggio, di voler nascondere con un pretesto la subalternità alla Giunta Pisapia e ai partiti che la sostengono, che alle sue false promesse dell’Expò hanno sacrificato il programma che li ha portati al governo della città.

Poi - cioè dopo - ci sono le devastazioni che hanno accompagnato il corteo. Inaccettabili: hanno messo a rischio incolumità, beni e lavoro di chi le ha subite; ma soprattutto hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo. Nonostante la grancassa che ha preceduto e accompagnato l’inaugurazione dell’Expò, nelle ultime settimane, media e stampa nazionali, andavano moltiplicandone le critiche, in gran parte con i temi agitati dai No-expò.

In realtà non è successo molto più di quanto accaduto poche settimane fa a Francoforte, durante Blockupy BCE, o altrove: poche centinaia di ragazze e ragazzi (non pochissimi, quindi) hanno usato un appuntamento del movimento impadronendosi della scena con una prova di forza: un rito idiota e ripetitivo, per richiamare l’attenzione su di sé; ma un rito a cui è difficile sfuggire a meno di rinunciare a manifestare. Indubbiamente concorrono all’esito di aggressioni come questa sia il rilievo che viene dato loro, spesso prima ancora che abbiano luogo, in un’attesa che ne moltiplica le potenzialità distruttive, sia il comportamento delle forze dell’ordine: che a volte ne duplicano gli effetti con dosi sproporzionate di violenza; a volte, impegnate più a filmare che a contenere i danni (e magari anche a dare una mano…), come a Milano, lasciano campo libero al vandalismo, purché “confinato” in uno spazio limitato.
Lo hanno ammesso sia il Questore che il Sindaco di Milano – “è solo un chilometro e mezzo; Milano è molto più grande” – cui premeva soprattutto salvaguardare gli accessi all’Expò e alla Scala. Va anche detto che quel vandalismo senza obiettivi se non quello di rimarcare la propria presenza, imponendosi con violenza a chi è lì per tutt’altri fini e con tutt’altro spirito, ha il suo modello nelle tifoserie che le autorità italiane si guardano bene dal combattere (come hanno fatto invece molti Governi di altri paesi) e che i padroni del calcio si adoperano a sostenere (nascondendo poi la mano quando il casino supera certi limiti). Niente di strano, quindi, se qualcuno esporta questi metodi in campo “politico”.

E tuttavia, fermo restando che le responsabilità vanno cercate anche altrove, non si può tacere la contiguità tra chi scende in piazza per raccogliere consensi e far crescere tra mille difficoltà un movimento contro oppressione e sfruttamento e chi invece di questi sforzi, costati anni di lavoro, abusa: non solo con prove di forza, che a volte sono necessarie, ma fregandosene sia dell’incolumità che delle finalità dei manifestanti con cui si mescola. Quella contiguità è data dalla condivisione di un generico antagonismo - vissuto ovviamente in maniera diversa, e anche opposta, ma con molte sfumature intermedie - nei confronti dello “stato di cose presente”.

Un orizzonte comune che non può essere rinnegato, pena la perdita della ragion d’essere del proprio impegno, ma anche della possibilità del coinvolgimento in una prospettiva diversa. Anzi, quell’orizzonte comune va valorizzato, perché non è con le prediche, ma solo con la capacità di riconoscersi partecipi di una condizione comune che si può volgerlo a beneficio di tutti. Dietro quel vandalismo c’è la rabbia impotente di chi non cerca più – o non ha mai cercato - una via di uscita condivisa per sé e per i propri compagni di vita. Di chi non vede nella città un’arena per battaglie più vere della riproposizione di scontri spettacolari senza futuro. Di chi si appaga del protagonismo offerto per qualche giorno da quotidiani e media. Di chi avverte che la competitizione di tutti contro tutti alla base di questa società non ha niente da offrirgli e non vede la possibilità di una strada diversa fondata sulla solidarietà con nuovi compagni di lotta.
In questo – e solo in questo – è difficile dar loro torto: da anni le frustrazioni di chi lavora per costruire e allargare un fronte comune di lotta non si contano più (e non spostano di una virgola gli equilibri del potere); mentre a bloccare la prospettiva di un modo diverso concorrono, giorno per giorno, le continue frammentazioni politiche; e, a scadenze diluite, le esplosioni di vandalismo (ho in mente il 15.10.2011 – cinque anni fa! - quando un’acampada come quelle spagnole era stata soffocata sul nascere). Per questo “prendere le distanze” non basta, anche se è d’obbligo. Né servono i servizi d’ordine, che un movimento disperso non è più in grado di organizzare; né gli ostracismi, che nessuno può far rispettare; né tante mamme di Baltimora, anche perché molti di quei vandali sono già “grandi”. Ci vogliono iniziative più profonde, più unitarie, più coinvolgenti.

«Se l’obiettivo del Jobs Act era quello di stabilizzare e ampliare l’occupazione, si può dire che non è stato raggiunto», dice Serena Sorrentino, segreteria confederale della Cgil, classe 1978, napoletana, sindacalista da sempre. A 23 anni segretaria della Camera del lavoro di Napoli, nel 2010 al vertice nazionale, prima con Guglielmo Epifani poi con Susanna Camusso che — si dice — la consideri la sua delfina. Oggi è “il ministro del lavoro” della Cgil.

Sorrentino, non è un po’ presto per fare un bilancio della riforma del lavoro?
«Ma è lo stesso governo nel Def, il Documento di economica e finanza, a non vedere alcun impatto positivo della riforma sul mercato del lavoro: nel prossimo triennio secondo le stime del governo la disoccupazione scenderà intorno all’11 per cento e il tasso di occupazione resterà sotto il 60 per cento. Ci sarà molto turnover, si assisterà ad una accelerazione del tasso di sostituzione dai contratti più precari al nuovo contratto a tutele crescenti».

Anche questo, tuttavia, era uno degli obiettivi della riforma.
«È la strategia ad essere sbagliata. L’Italia ha una crisi da domanda aggregata. In questi casi serve una mobilitazione degli investimenti per far ripartire la produzione, i consumi e quindi aumentare la base occupazionale nei settori innovativi quelli che possono generare altro lavoro. Servono politiche attive per il lavoro per incrociare domanda e offerta di lavoro puntando a qualificare quest’ultima».
Lei propone di far ripartire gli investimenti pubblici, ma dove si trovano le risorse?
«Si possono utilizzare diversamente le risorse della Cassa depositi e prestiti, si possono indirizzare i Fondi pensionistici complementari a investire nelle imprese che abbiano piani di sviluppo per l’innovazione e l’occupazione. Ci sono i Fondi strutturali europei. Sono le tre gambe di una politica industriale che sceglie di competere sulla fascia alta della produzione».

La Cgil ha rinunciato alla proposta della patrimoniale?
«No. Proponiamo l’introduzione di una patrimoniale sulle grandi ricchezze anche per ripristinare il principio di progressività nella tassazione visto che oggi il carico fiscale è sostenuto in prevalenza da chi ha un reddito fisso».

Quanti miliardi pensate di ricavare dalla patrimoniale?
«Si possono recuperare 10 miliardi l’anno ».

Tassando quali patrimoni?
«Proponiamo di tassare con un’aliquota progressiva i redditi eccedenti i 35

Il governo ha scelto un’altra strada. Ha incentivato dal punto di vista fiscale e contributivo le assunzioni a tempo indeterminato. Perché secondo lei le imprese non stanno assumendo?
«Le imprese stanno sostituendo manodopera. Il governo ha introdotto gli incentivi, tra l’altro pagati dalla fiscalità generale cioè da tutti noi, senza condizioni».

Lei a cosa li avrebbe condizionati?
«All’aumento dell’occupazione. È sbagliata un’operazione di liquidità di tale portata senza alcuna selettività. Le imprese possono assumere pagando meno, possono licenziare senza vincoli, possono demansionare i lavoratori: questo è davvero il cambiamento del paradigma del nostro diritto del lavoro. Non era mai successo che si rafforzasse così proprio la parte che è già più forte nel rapporto di lavoro ».

Dice il ministro Poletti che comunque ci sono anche segnali positivi, tra i quali il prevedibile ritorno al lavoro dei cassintegrati visto il calo del ricorso alla cassa. Condivide questa lettura?

«No. Sta calando il ricorso alla cassa integrazione in deroga semplicemente perché non è stata rifinanziata».

Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza. Ci vuole coraggio e testardaggine per parlarne in questi tempi oscuri di odi religiosi, etnici e culturali. Intercultura ne ha fatto addirittura l’oggetto del convegno “Saper vivere insieme” (Trento, 1-3 maggio, in occasione del centenario dell’Afs, che di Intercultura è madre) fondato su una quindicina di workshop in cui i relatori spiegheranno come stare insieme tra diversi è, è stato e sarà possibile. O come la differenza possa essere valore positivo anche in questo strano mondo in cui la tecnologia ci ha avvicinato come mai prima e, forse, questa ipervicinanza ci spaventa e crea mostri della mente e mostruose ideologie di morte e paura.

Roberto Toscano, una vita da ambasciatore (India e Iran), ora presidente della Fondazione Intercultura, spiega così la genesi di questa scelta: «Lo so che parlare di questi temi è molto difficile. Ma non è mai stato così urgente. Oggi, la capacità interculturale è un dato di sopravvivenza per la società». Mettere insieme convivenza e diversità è apparentemente facile. Gli italiani, 50 anni fa, quando vedere una persona di colore in giro per le strade di una nostra città era molto raro, pensavano che il razzismo non li riguardasse: «Oggi», dice Toscano, «la tensione è inevitabile. Ma indietro non si può tornare. E neanche i modelli utilizzati in altri Paesi, dall’assimilazione francese alla multiculturalità inglese sembrano funzionare». I francesi hanno promesso cittadinanza e pari opportunità a tutti: «E adesso, davanti alle promesse mancate, si trovano a fare i conti con le giovani generazioni di origine magrebina che cercano risposte nel ritorno alle tradizioni religiose estremizzate».

Gli inglesi hanno inventato la multiculturalità, “ognuno sta qui come vuole”: «Ma anche la multiculturalità è fallita», prosegue Toscano. «La strada è quella di riconoscere, attraverso il dialogo e lo scambio continui, il valore positivo della diversità. È già successo. Non è la prima volta che arrivano i barbari, gli arabi, i greci. Noi tutti siamo frutto di diversi meticciati».

Così il convegno esaminerà il complesso tema della convivenza dopo il conflitto a partire da esperienze come quelle irlandese, sudafricana, basca, dove le lacerazioni sono state profonde, ma la ricucitura, a poco a poco, c’è stata ed è ancora in corso. «Così, nell’anno del centenario, Intercultura torna alle sue origini. Non siamo in campo per insegnare le lingue ai ragazzi, ma per mettere i semi di una convivenza in cui s’impara dall’altro, in cui si restituisce una faccia al prossimo e si mettono da parte le categorie stereotipate».

Allora da che parte cominciare nel conflitto Occidente - Islam radicale? «Cominciamo col non farci coinvolgere nell’idea di un conflitto di civiltà. Io mi sento più vicino a un moderato islamico che a un razzista nostrano. Non c’entrano neanche le religioni. Tutte, prima o poi hanno prodotto versioni violente di se stesse. E i giovani che scelgono la Jihad sanno poco di religione e cercano solo identità forti. Quelle su cui si basano tutte le utopie reazionarie: madri patrie, nazionalismi, purezze etniche… ». Qualcuno studia da decenni le strade per la gestione non violenta del conflitto. Come Pat Patfoort, antropologa fiamminga che a Trento gestirà un panel dedicato al modello “Maggiore-minore-equivalente” da lei elaborato per sanare i conflitti (da quelli personali a quelli internazionali). In sintesi, il modello “maggiore/ minore” è quello tipico che porta a scontri e guerre. Quando abbiamo un problema (o quando un popolo ha un problema) spesso è portato a identificare il colpevole in una persona o gruppo i cui comportamenti e modi di pensare vengono etichettati come negativi o sbagliati: antisociali, primitivi, sottosviluppati. Portare un popolo al conflitto contro questi gruppi identificati come capri espiatori, non è difficile. Storia e cronaca sono piene di esempi. Per uscire da questo schema, Patfoort costruisce il modello dell’equivalenza. Spesso sono i terzi “pacificatori” a doverlo mettere in campo. È il modello dell’equivalenza in cui si evita di identificare buoni e cattivi ma si guarda a entrambe le parti, alle loro ragioni e al loro dolore. E ciò che accade non viene attribuito alla cattiveria di una delle parti, ma emerge come frutto dell’escalation dei fatti.

Certo, nei conflitti attuali non è facile che le parti si dispongano facilmente a cambiare modello. «Non importa chi comincia », spiega Pat Patfoort. «È sufficiente che una delle due si muova in quella direzione. In Belgio ci sono gruppi moderati islamici che si sono dati il compito di spiegare che l’Islam non è quello disegnato dall’estremismo ». Un lavoro da fare in profondità ma che può, anzi deve, partire dalle persone, dalle famiglie, dal “mio villaggio”: «Dobbiamo cominciare da noi stessi per imparare a riconoscere che gli altri hanno padri e fratelli come noi». Insomma, un cambio di mentalità non facile da ottenere, ma la sfida può essere affrontata.

Il manifesto, 30 aprile 2015

«Il primo voto passa con 352 sì, 38 dem non rispondono. La minoranza esplode. Ex bersaniani divisi in due, nasce un’altra minoranza. Stumpo: "Fuori di qui si sappia: non diremo sempre sì". Renzi vince, ma ora le riforme ballano. I dissenzienti sono i ’no-jobs act’ più Epifani, Bersani e Speranza. Ariaccia nel Pd, martedì finale a voto segreto»
Il display con scritto «Ber­sani non risponde», le mani che tre­mano al gio­va­nis­simo Enzo Lat­tuca men­tre annun­cia un dolo­ro­sis­simo sì «avendo coscienza di come rap­pre­senti una scon­fitta, poli­tica ed isti­tu­zio­nale, per­so­nale e col­let­tiva», il «peso sul cuore» di Bar­bara Pol­la­strini, il voto con il lutto al brac­cio di Sel, quello con un libro di Dos­setti di Giu­lio Mar­con, la dichia­ra­zione solenne in aula di Guglielmo Epi­fani: «Parigi val bene una messa, ma fini giu­sti impli­cano mezzi giu­sti. Con dispia­cere, io e altri, non par­te­ci­pe­remo al voto».
Sono i flash della prima gior­nata del refe­ren­dum su Renzi, così lui stesso ha voluto pre­sen­tare le tre fidu­cie all’Italicum. La prima fini­sce con 352 sì, 207 no e un astenuto.Per la mini­stra Boschi i numeri sono «in linea con le pre­ce­denti fiducie»m per il vice­ca­po­gruppo Rosato sono «un ottimo risul­tato». In realtà aveva detto che i no si sareb­bero con­tati su una mano. E infatti la noti­zia è che il dis­senso dem batte un colpo: 38 i depu­tati non par­te­ci­pano al voto. Tra loro ci sono gli ex segre­tari Ber­sani ed Epi­fani, l’ex pre­mier Letta, gli ex pre­si­denti Pd Bindi e Cuperlo, l’ex capo­gruppo Spe­ranza. Gli altri: Roberta Ago­stini, Albini, Bossa, Bruno Bos­sio, Capo­di­casa, Cim­bro, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Fab­bri, Farina, Folino, Fon­ta­nelli, Fos­sati, Galli, Gior­gis, Gnec­chi, Gre­gori, Lafor­gia, Leva, Mae­stri, Mali­sani, Meloni, Miotto, Mugnato, Murer, Pic­colo, Pol­la­strini, Stumpo, Vac­caro, Zap­pulla, Zog­gia.

Tutti, all’unisono, hanno votato «non con­tro il governo ma con­tro una fidu­cia che non doveva essere appo­sta». I boa­tos del Tran­sa­tlan­tico li descri­vono come un mani­polo mano­vrato da D’Alema, che in una famosa riu­nione romana aveva invi­tato la mino­ranza «a muo­versi con coe­renza e defi­nire i punti inva­li­ca­bili con asso­luta intran­si­genza», e poi «asse­stare colpi». Il colpo è arri­vato. Ma fra i gio­vani che non votano c’è chi di stra­te­ghi della ’vec­chia guar­dia’ non vuole sen­tir par­lare. Come Nico Stumpo: «Area rifor­mi­sta è nata sul bino­mio respon­sa­bi­lità e auto­no­mia. Ma respon­sa­bi­lità è anche far sapere fuori dal palazzo che mino­ranza non signi­fica dire sem­pre sì. Oggi i Pd è Renzi, domani sarà Roberto Speranza».

È il pre­an­nun­cio di una bat­ta­glia con­gres­suale? «Se Renzi anti­cipa il con­gresso pren­diamo il 3 per cento e siamo morti», sbotta un depu­tato che ha votato sì. La verità è che area rifor­mi­sta, cioè quel che resta del pac­cone di mischia ber­sa­niano (e di cui Stumpo stesso è il coor­di­na­tore) di fatto non esi­ste più. Mar­tedì, dopo un liti­gio andato avanti fino alle due di notte, la cor­rente si è spac­cata. Ieri, a pochi minuti dal voto, in cin­quanta hanno annun­ciato un docu­mento con il solito ’sì nono­stante tutto’. «Non diven­terò ren­ziano, ma non ho capito la scelta del no dov’è matu­rata. Qual­cuno fa riu­nioni e poi pre­tende di dare la linea?», chiede il romano Marco Mic­coli. Quelli che hanno votato no, accu­sati di «estre­mi­smo», ora rego­lano i conti: «Da oggi le mino­ranze con­gres­suali non esi­stono più.

Da oggi c’è una mino­ranza, che non dice sem­pre sì, che si è già distinta nel jobs act, e che sull’Italicum man­tiene fede ai prin­cipi del Pd», annun­cia Ste­fano Fas­sina, più disteso dopo giorni di buio pesto. Alla scis­sione non pensa nes­suno, tranne Civati che ogni giorno rac­conta il suo tra­va­glio tra restare o andare. Cuperlo, che nel voto ha perso qual­che depu­tato dei pochi suoi, è gra­ni­tico: «Resto. Ma rivolgo un appello ulte­riore a Renzi. Un campo non va mai diviso, un par­tito non va mai spez­zato». Né scis­sione dun­que, né gruppo auto­nomo, di cui pure si era par­lato. Ma il pro­blema resta: «Al senato già 24 dem non hanno votato l’Italicum. Dispiace che nes­suno se ne sia accorto, ma il Pd era già spac­cato allora e l’esecutivo aveva una mag­gio­ranza solo in outsour­cing», ricorda Civati. Ora la vita delle riforme costi­tu­zio­nali dipende da quei 24 voti. Non a caso da Palazzo Madama arriva la soli­da­rietà di Miguel Gotor, cen­tra­vanti dei sena­tori dissenzienti.

Insomma Renzi ha vinto, ma il rischio è che sia una vit­to­ria di Pirro. Il motivo che lo ha spinto a met­tere la fidu­cia sull’Italicum ora è evi­dente: «Senza la fidu­cia e con i voti segreti il pre­mio alla lista sarebbe sal­tato. Sareb­bero tor­nate le coa­li­zioni, con gli zero vir­gola che det­tano legge alle mag­gio­ranze. E noi con quella sto­ria abbiamo chiuso», spiega un diri­gente di rango. Nel Pd il clima è pesante. Ricu­cire sem­bra una mis­sione impos­si­bile, soprat­tutto per­ché Renzi fin qui anzi ha cer­cato lo scon­tro con la mino­ranza. «Lo strappo lo ha fatto lui, ora la mossa spetta a lui», sospira Danilo Leva.


Il pre­si­dente Mat­teo Orfini non ci sta: «Que­sta dram­ma­tiz­za­zione è un errore. Ma non ci fac­ciano lezioni di demo­cra­zia quelli che ci hanno fatto votare la fidu­cia senza discus­sione al governo con Ber­lu­sconi o a un mini­stro non pro­pria­mente difen­di­bile come la Can­cel­lieri. È incom­pren­si­bile che i diri­genti che gui­da­vano il par­tito in quella fase, non votino la fidu­cia. Ora mi auguro che nelle pros­sime ore pre­valga il buon­senso. Oltre­tutto non si può affer­mare che la demo­cra­zia è in peri­colo per­ché ci sono 100 col­legi anzi­ché 80». Non è pre­ci­sa­mente un’offerta di pace. Oggi alla camera gli altri due voti di fidu­cia. Mar­tedì gran finale, con il voto segreto sulla legge. Qui il dis­senso annun­ciato sarebbe più ampio dei 38 di ieri
sessione plenaria del Parlamento europeo, Strasburgo, 29 aprile 2015. Comunicato stampa.

Barbara Spinelli, eurodeputata del Gue-Ngl, si è rivolta al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e al Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, invitati a presentare le posizioni della Commissione e i risultati del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso. Il tema della sessione era: "Le ultime tragedie nel Mediterraneo e le politiche dell’Unione su migrazione e asilo".
Accuso il Consiglio, i governi degli Stati membri, la Commissione. Ormai è chiaro: siete direttamente responsabili del crimine commesso ai danni dei migranti in fuga dalle guerre che l’Europa ha facilitato, dalle persecuzioni che ha tollerato. Dopo gli 800 morti del 19 aprile, anche l’Unione fa naufragio: nell’ipocrisia, nella negazione, nella cecità.
L'Unione dichiara la lotta contro trafficanti, fingendo di credere che siano loro i soli responsabili di tanti morti. Non sono i soli responsabili. Le morti si susseguono perché non esistono corridoi umanitari legali per i fuggitivi. Perché avete abolito Mare nostrum, che faceva Ricerca e Salvataggio in alto mare; perché continuate a finanziare operazioni - Triton, Poseidon – il cui mandato prioritario è il controllo delle frontiere, non il soccorso dei naufraghi.

La ringrazio, signor Juncker, per le parole che ha pronunciato oggi in quest'aula; ma “le porte” d'Europa non sono state aperte. Nel desiderio di sbarazzarvi delle vostre responsabilità, arrivate sino ad auspicare – cito il Commissario Avramopoulos – la “collaborazione con le dittature”: quella eritrea in testa, la più sanguinaria dittatura d’Africa.

La verità è che state violando, proprio come i trafficanti, la legge: il diritto del mare, del non-respingimento. Mi domando se sapete - se sappiamo noi qui in Parlamento - quel che si sta facendo: una guerra non dichiarata. Non contro i trafficanti, ma contro i migranti.

Subito dopo, il Parlamento ha approvato una risoluzione congiunta sullo stesso tema. Il gruppo Gue-Ngl si è astenuto, non avendo ottenuto progressi sostanziali su istituzione di un corridoio umanitario e revisione del regolamento di Dublino. In cambio sono stati accolti alcuni emendamenti importanti del Gue e dei Verdi, che hanno migliorato la risoluzione per quanto riguarda le operazioni di Search & Rescue in alto mare e la concessione agevolata di visti umanitari.

Il manifesto, 29 gennaio 2015

DEMOCRAZIAITALICUM,
PRENDERE O LASCIARE

di Andrea Fabozzi

La fidu­cia come riven­di­ca­zione: «È arri­vato il momento di fare sul serio». Ma la fidu­cia anche come scelta tat­tica. I primi voti sull’Italicum avreb­bero dovuto ras­si­cu­rare Mat­teo Renzi. Meglio lo scru­ti­nio segreto che quello palese. Le pre­giu­di­ziali supe­rate con 175 e 177 voti di mar­gine, la que­stione sospen­siva con 163. Numeri che garan­ti­vano una rela­tiva tran­quil­lità. Alla mag­gio­ranza sono man­cati non più di una ven­tina di voti, per rischiare di andar sotto sugli emen­da­menti avrebbe dovuto per­derne quat­tro volte tanti. Eppure Renzi al voto sugli emen­da­menti non ci vuole andare. Non ammette la pos­si­bi­lità che venga modi­fi­cata la legge elet­to­rale, cri­stal­liz­zata tre mesi fa al senato nell’ultimo atto del patto del Naza­reno. Il pas­sag­gio - defi­ni­tivo - alla camera può essere solo un pren­dere o lasciare. In com­mis­sione, depu­tati dis­si­denti sosti­tuiti. In aula, emen­da­menti can­cel­lati con la fidu­cia. «Non c’è cosa più demo­cra­tica», dice a sera il pre­si­dente del Con­si­glio in tele­vi­sione. O con me o con­tro di me.

Il rischio di essere bat­tuto nel voto segreto era basso, molto basso, ma non ine­si­stente. Dei cento emen­da­menti, quin­dici erano quelli poten­zial­mente peri­co­losi per­ché fir­mati dalle mino­ranze Pd. Pro­po­ne­vano di can­cel­lare le plu­ri­can­di­da­ture, intro­durre le pri­ma­rie per legge, pre­ve­dere un quo­rum minimo di par­te­ci­panti per asse­gnare il pre­mio al bal­lot­tag­gio, limi­tare la quota dei nomi­nati rispetto agli eletti con le pre­fe­renze, sot­trarre ai pluri-eletti la pos­si­bi­lità di sce­gliere per quale col­le­gio optare, abo­lire l’indicazione del capo della coa­li­zione.

Ma erano soprat­tutto due quelli che pre­oc­cu­pa­vano il pre­si­dente del Con­si­glio e le sue sen­ti­nelle alla camera. Uno fir­mato da Rosy Bindi con il quale si sarebbe ripri­sti­nata la pos­si­bi­lità di appa­ren­ta­mento al secondo turno, un altro fir­mato da Alfredo D’Attorre con il quale si legava l’entrata in vigore dell’Italicum all’approvazione della riforma costi­tu­zio­nale. Emen­da­menti simili erano stati pre­sen­tati anche dai leghi­sti e dai for­zi­sti, ed erano que­ste la posi­zione ori­gi­na­rie delle liste cen­tri­ste alleate del pre­mier. Renzi ha deciso di non rischiare. Affron­terà un solo voto segreto, l’unico che non può pro­prio evi­tare, che però è il meno insi­dioso in asso­luto. Se far pas­sare un emen­da­mento avrebbe infatti signi­fi­cato far tor­nare al senato una legge che in fondo non è urgen­tis­sima — non sarà uti­liz­za­bile prima della fine dell’anno pros­simo — dire no all’ultimo pas­sag­gio signi­fi­che­rebbe ucci­dere per sem­pre l’Italicum. E con l’Italicum il governo. Anche l’ultimo voto, rin­viato a mag­gio, sarà un voto di fiducia.

La pre­si­dente della camera aveva avver­tito già da qual­che giorno i gruppi che l’eventuale richie­sta di fidu­cia sarebbe stata dichia­rata ammis­si­bile. Facen­dola cioè pre­va­lere sul diritto della mino­ranza a chie­dere il voto segreto sulla legge elet­to­rale. Bol­drini, in un’aula imme­dia­ta­mente accesa dalle pro­te­ste, ha risolto la que­stione spie­gando che anche la solu­zione oppo­sta, cioè esclu­dere la fidu­cia quando è pos­si­bile lo scru­ti­nio segreto, «può avere una sua logica». Ma per­ché sia pra­ti­ca­bile, ha deciso, biso­gnerà aspet­tare che venga modi­fi­cato il rego­la­mento. E allora i voti segreti sull’Italicum saranno tre, uno per ogni arti­colo che com­pone la legge con l’eccezione dell’articolo 3. La spie­ga­zione è sem­plice: su quell’articolo non ci sono emendamenti.

Ammessa la fidu­cia, la pre­si­denza della camera ha con­cesso un con­ten­tino alle mino­ranze che somi­glia molto alla clas­sica beffa. Il «lodo Iotti», con il quale dal 1980 viene lasciata la pos­si­bi­lità ai pre­sen­ta­tori degli emen­da­menti e solo a loro di illu­strare (per 30 minuti) le pro­po­ste di modi­fica, anche sapendo che non saranno messe in vota­zione pro­prio per­ché è stata chie­sta la fidu­cia. In que­sto caso è una beffa, per­ché abi­tual­mente l’unico obiet­tivo degli inter­venti a vuoto è quello di allun­gare i tempi dell’approvazione finale della legge. Il «lodo» è stato appunto inven­tato durante la con­ver­sione di un decreto legge, e da allora ha rap­pre­sen­tato lo scotto da pagare per un governo che chiede subito la fidu­cia per­ché ha un decreto che rischia di sca­dere. L’Italicum non è un decreto ed è urgente solo per­ché così lo pre­senta Renzi. Ieri pome­rig­gio, dopo i primi inter­venti, le oppo­si­zioni hanno capito l’inutilità di inter­ve­nire su emen­da­menti che il governo non farà votare. E la seduta della camera di que­sta mat­tina è stata addi­rit­tura can­cel­lata. Si parte subito con il primo refe­ren­dum sul governo, alle 13.45, poi nel pome­rig­gio gli altri due. Sì o no, «non c’è cosa più democratica»

CELODURISMO RENZIANO
di Norma Rangeri

Sarà pure in ballo la demo­cra­zia, come dice un Ber­sani affranto dalla sor­presa annun­ciata del voto di fidu­cia sulla legge elet­to­rale. Tutto sta a met­tersi d’accordo sull’inizio di que­sta danza maca­bra attorno alle regole della nostra con­vi­venza politica.

Come soste­niamo da tempo, la demo­cra­zia non viene né improv­vi­sa­mente sfi­gu­rata, né pesan­te­mente umi­liata solo in rife­ri­mento alla legge elet­to­rale e alla riforma costi­tu­zio­nale. Al con­tra­rio, la mano­mis­sione degli assetti isti­tu­zio­nali della repub­blica par­la­men­tare rap­pre­senta solo un approdo. Una lineare con­se­guenza degli anni in cui l’ex segre­ta­rio del Pd par­te­ci­pava al governo Monti per mon­dare la demo­cra­zia delle sco­rie ber­lu­sco­niane. Pec­cato che con l’acqua sporca si stava but­tando via anche l’argine rap­pre­sen­tato dall’idea stessa di un governo eletto, pre­fe­rendo imboc­care la via delle riforme det­tate dai poteri euro­pei. Renzi ha tro­vato la strada in discesa e l’ha per­corsa con piede veloce usando i rap­porti di forza fino alla can­cel­la­zione dello sta­tuto dei lavo­ra­tori, alla ridu­zione del mondo del lavoro a eser­cito di riserva di Confindustria.

Il fatto è che ora, con la deci­sione di met­tere la fidu­cia sull’Italicum, siamo giunti alle bat­tute finali, al con­clu­sivo giro di boa di una navi­ga­zione che fin dall’inizio ha fatto rotta verso l’approdo neo­cen­tri­sta. Se la man­naia della fidu­cia per por­tare a casa rapi­da­mente una legge elet­to­rale rap­pre­senti il pre­lu­dio dell’atto suc­ces­sivo (le ele­zioni anti­ci­pate) lo vedremo. Quello che invece è già chia­ris­simo riguarda la can­cel­la­zione di un’idea di plu­ra­li­smo sociale, poli­tico, istituzionale.

Senza nep­pure sco­mo­dare i fami­ge­rati pre­ce­denti (la legge Acerbo del 1923 e la legge truffa del 1953) basta, e avanza, osser­vare che que­sta fidu­cia è una basto­nata sulla schiena di un par­la­mento già pie­gato e dele­git­ti­mato dall’essere il risul­tato dell’incostituzionale Por­cel­lum. Una basto­nata pre­me­di­tata, vibrata a freddo nono­stante il ras­si­cu­rante lascia­pas­sare otte­nuto nel voto segreto sulle pre­giu­di­ziali di inco­sti­tu­zio­na­lità. A dimo­stra­zione che al fondo della ver­sione ren­ziana di que­sto “celo­du­ri­smo fidu­cia­rio” non c’è tanto il timore di non avere la mag­gio­ranza par­la­men­tare sull’Italicum (natu­ral­mente pos­si­bile ma non pro­ba­bile), quanto la voglia di togliersi di torno i rom­pi­sca­tole della minoranza.

Saranno pure solo una ven­tina quelli decisi a non votar­gli la fidu­cia, ma restano il fasti­dioso con­tral­tare media­tico al lea­der, tanto più mole­sto fin­ché il grup­petto resta den­tro il Pd a sce­neg­giare il dis­senso a ogni dire­zione o festa dell’Unità senza l’Unità. Spa­rare col can­none della fidu­cia al drap­pello degli anti­ren­ziani del Pd è un atto spro­po­si­tato se pro­prio la dismi­sura non fosse il segno di chi scam­bia il potere con il governo.

La Repubblica, 29 aprile 2015

ITALICUM,BATTAGLIA NEL PD E IL GOVERNO METTE LA FIDUCIA

RENZI: “SE CADO, VADO A CASA”
di Silvio Buzzanca
«A nome del governo, autorizzata dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia... ». Sono le 15 e 24 minuti quando Maria Elena Boschi pronuncia le parole fatali che scatenano la furia di una parte dell’aula di Montecitorio. La richiesta di fiducia, attesa, temuta, alla fine è arrivata. Dopo che i voti della mattinata sembravano avere allontanato l’ipotesi paventata da giorni. Il governo e la maggioranza, infatti, avevano tenuto benissimo nei due voti a scrutinio segreto, voluti da Forza Italia, sulle pregiudiziali di costituzionalità. Respinte con 384 e 385 voti. E bene era andato anche il voto, palese, sulla questione sospensiva, respinta con 369 voti. Invece nel pomeriggio, cogliendo un po’ di sorpresa la minoranza del Pd, arriva la richiesta della Boschi. Il risultato immediato è una nuova divisione dei “dissidenti”. Pier Luigi Bersani, il capogruppo dimissionario Roberto Speranza, gli sfidanti congressuali di Renzi Gianni Cuperlo e Pippo Civati, l’ex premier Enrico Letta e poi Rosy Bindi, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre annunciano che non parteciperanno al voto di fiducia. Perché lo considerano una vera e propria «violenza al Parlamento». Alcuni deputati della sinistra dem li seguiranno, molti altri no. Sel accoglie la fiducia con un lancio di crisantemi, Renato Brunetta con l’accusa di «fascismo renziano». Intanto la presidente Laura Boldrini litiga con tutte le opposizioni sul regolamento e la sua interpretazioni delle regole sulla fiducia e il voto segreto. Alla fine resta ferma sulle sue decisioni e respinge la richiesta di convocare la Giunta per il regolamento. E deve anche alzare più di una volta la voce per tenere a freno i grillini, che intonano il coro “vergogna, vergogna” e impediscono agli altri di parlare. Si sprecano le evocazioni della legge Acerbo e della legge truffa. Matteo Renzi, invece, alla Camera non si fa vedere lasciando la scena alla Boschi.
Affida il suo pensiero a Twitter: «Dopo anni di rinvii noi ci prendiamo le nostre responsabilità in Parlamento e davanti al paese, senza paura», scrive il premier. Che poi passa su Facebook per dire: «Il governo è nato per fare le riforme. Se non vogliono fare le riforme, ce lo dicano e andiamo a casa subito, come prevede la nostra Costituzione.
Questo significa mettere la fiducia. E lo facciamo davanti agli italiani, davanti al Parlamento.». Si manifesta nel web però anche Beppe Grillo che accusa: «La fiducia su Italicum non è normale: è fascismo!». E poi tira in ballo il presidente della Repubblica: «Per lo scempio della legge elettorale — dice — non si avvertono segnali da Mattarella. Dopo i moniti di Napolitano si è passati all’estrema unzione silenziosa del Quirinale. Eia, eia, alalà».

LA PROVA DI DEBOLEZZA
di Ezio Mauro
TRAVESTITA da prova di forza, ieri è andata in scena alla Camera la prima, pubblica e plateale prova di debolezza di Matteo Renzi. Mettere la fiducia sulla legge elettorale è sbagliato sul piano del metodo, perché dimostra l’incapacità di costruire un ampio e sicuro consenso politico su una regola fondamentale, ed è sbagliato soprattutto nel merito perché come diceva lo stesso premier a gennaio — per far accettare l’alleanza con Berlusconi — non si cambia il sistema di voto a colpi di maggioranza, tanto più se quella maggioranza riottosa è tenuta insieme dalla minaccia del voto anticipato.
Perso per strada Berlusconi, Renzi sembra aver perso anche la politica, sostituita da una continua prova muscolare. Che non può però nascondere la rottura evidente tra la sinistra del Pd e il presidente del Consiglio, che è anche segretario del partito.

È contro la minoranza interna, infatti, quel voto di fiducia: che diventa così un attestato di sfiducia reciproca tra Renzi e la sinistra Pd, una sfiducia così forte da finire fuori controllo, fino a una decisione che sfida il Parlamento, ma soprattutto il buon senso. Renzi ha il diritto di portare avanti le sue riforme, anche la legge elettorale, e il Paese ha bisogno di cambiamento. In politica però non conta solo il «quanto», cioè il saldo del voto finale, ma anche il come, vale a dire il percorso, le alleanze, il consenso che si sa costruire.

QUI si porterà a casa la legge, dissipando però il patrimonio accumulato col metodo seguito per l’elezione di Mattarella, che ha fatto per un breve momento del Pd non solo il partito di maggioranza relativa, ma la spina dorsale del sistema politico e istituzionale. Tutto gettato al vento, perché la minoranza continua a considerare Renzi abusivo (mentre ha vinto legittimamente le ultime primarie, così come aveva perso le precedenti) e perché il leader preferisce comandare il suo partito piuttosto che rappresentarlo nel suo insieme.

Così non si va lontano, prigionieri di due mentalità minoritarie. Ma come leader e premier, Renzi ha oggi una responsabilità in più. Può avere i numeri: ma dovrà capire che senza il Pd nel suo insieme, il governo è nudo di fronte a se stesso, perché i partiti sono cultura, valori, storia e tradizione: quel che fa muovere le bandiere. A patto di non usarli come un tram.

Corriere della sera, 29 Aprile, 2015

C’È LA FIDUCIA, PDDIVISO E CAOS IN AULA

RENZI: SE VOGLIONO MI MANDINO A CASA
di Dino Martirano

ROMA Il governo supera in scioltezza alla Camera i primi voti segreti sull’Italicum — con 385 voti, contro 208 dell’opposizione — ma nonostante il successo Matteo Renzi non si fida della sua super-maggioranza e azzera gli altri 80 scrutini segreti sugli emendamenti alla legge elettorale, imponendo al Parlamento tre voti di fiducia su altrettanti articoli del testo.

Dopo l’annuncio del ministro Maria Elena Boschi, in Aula scoppia il caos. Il Pd si spacca e perde la vecchia classe dirigente: Bersani, Epifani, Bindi, Letta, Speranza, Civati. Altri oggi e domani non voteranno la fiducia al premier Renzi e lunedì potrebbero votare contro l’intero testo della legge elettorale. Le opposizioni lanciano crisantemi tra i banchi (Sel), denunciano «il bivacco dei manipoli fascisti di Renzi» (Brunetta di Forza Italia) e tirano per la giacchetta il presidente della Repubblica con l’hashtag #mattarellanonfirmare («L’estrema unzione del Quirinale» secondo Beppe Grillo). Indietro non si torna. E ora «la Camera ha diritto di mandarmi a casa, se vuole: la fiducia serve a questo.

Finché sto qui, provo a cambiare l’Italia», scrive su Twitter il presidente del Consiglio mentre in aula la calma apparente si trasforma urla che si levano soprattutto dai banchi di Sel e del M5S. Che la situazione stia per precipitare lo si capisce dopo il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità presentate da Forza Italia.
Si vota a scrutino segreto ma la maggioranza tiene bene: arrivano 385 voti anche se il capogruppo vicario del Pd Ettore Rosato si aspettava di più. Quota 400 voti rimane lontana e anche i voti extra maggioranza (una ventina tra quelli degli azzurri e degli ex grillini) non compensano le emorragie interne di una parte della minoranza del Pd e di quella attribuita ai centristi (Scelta civica e Popolari per l’Italia). Andrea Giorgis (Pd) non partecipa al voto sulla pregiudiziale di costituzionalità: «Il Paese non ha bisogno di un altro governo né di una legge elettorale che rischia di ripetere gran parte dei vizi del Porcellum».
Invece, gli altri bersaniani votano secondo le indicazioni del gruppo per non dare alibi al governo sulla fiducia. Però l’illusione che Renzi tiri di fioretto dura poco. Una riunione lampo del consiglio dei ministri autorizza la fiducia e dopo una manciata di minuti la ministra Maria Elena Boschi, che per settimane ha usato i «se» e i «ma», recita in Aula la formula di rito: «Autorizzata dal consiglio dei Ministri pongo al questione di fiducia sugli articoli 1, 2 e 4...». Scoppia il caos. Maurizio Bianconi (FI) urla «Fate schifo». Arturo Scotto dà il via e dai banchi di Sel volano crisantemi bianchi e gialli sull’emiciclo: «Deputati di Sel, non si lanciano fiori in aula», si sgola la presidente Boldrini. Renato Brunetta (FI) ripete almeno quattro volte: «Non permetteremo che questa aula sia ridotta a un bivacco di manipoli...». Ignazio La Russa (FdI) dice che al Senato, sull’Italicum c’è stata «una squallida compravendita dei voti...». Ma il caos vero, con tutti i grillini in piedi, scatta quando interviene per il Pd Ettore Rosato che non incassa, anzi scava nella carne viva dell’opposizione: «È il M5S che ci ha chiesto il premio di maggioranza al partito... È Forza Italia che ci ha ripensato dopo aver votato sì al Senato».

Alla fine la presidente Boldrini riesce a condurre in porto una seduta delicata. «Collusa», le urlano i grillini e lei ribatte: «Ne dovrete rispondere». Ma i precedenti sostengono la tesi della presidenza: «Sarebbe arbitrario da parte della presidenza non ammettere il voto di fiducia. Non entro certo nel merito della scelta...». Di Sera al Tg1 Renzi cita De Gasperi e Moro: «Anche loro misero la fiducia sulla legge elettorale».

La fiducia sull’articolo 1 si vota oggi pomeriggio, domani quelle sugli articoli 2 e 4 (il 3 non si tocca perché già approvato da Camera e Senato). Poi, lunedì o martedì, ci sarà il voto segreto sull’intera legge. Se approvato in terza lettura, l’Italicum sarà, come stabilito, legge vigente a partire dal 1° luglio del 2016. A meno che un decreto non ne anticipi l’efficacia.



LA PROVA DEL POTERE
di Antonio Polito

Dice Enrico Letta che mettendo la fiducia sull’Italicum il premier rischia di ottenere una «vittoria sulle macerie». Dimentica però che l’intero edificio del governo Renzi è costruito sulle macerie. Le macerie della seconda Repubblica, di una «non vittoria» elettorale della sinistra, e della sentenza della Consulta che rase al suolo il Porcellum. Il ricordo è invece acutamente presente all’opinione pubblica, ed è questo che spiana la strada a Renzi per spianare gli avversari.

A convincere gli italiani non sono infatti gli arzigogoli di esperti professori e inesperti politici, tutti aspiranti capilista bloccati, che magnificano il genio Italicum . La legge è quel che è, uno strano ibrido di proporzionale più premio di maggioranza più ballottaggio, un vero e proprio unicum in Europa. La gente l’ha capito, non applaude nei sondaggi. Ma è forte l’argomento politico di Renzi che suona pressappoco così: o con me o come prima. Mettersi contro questo vento fino a far cadere la legge o a far cadere il governo, richiederebbe un coraggio e un progetto che la minoranza del Pd oggi non ha, anche perché è essa stessa parte delle macerie di cui sopra. Perciò Renzi ricorre alla forzatura estrema del voto di fiducia: impedisce cambiamenti alla legge e mette i dissidenti con le spalle al muro, prendere tutto o perdere tutto. In attesa dunque di seguire gli sviluppi di una partita che pare già giocata, tranne l’incertezza su quanto umiliante e umiliata sarà l’Aula di Montecitorio, è lecito chiedersi che cosa potrà davvero essere questa nuova fase che si aprirà con l’ Italicum, da molti commentatori già definita come l’era del «governo del premier».

In buona parte, sarà ciò che Renzi vorrà che sia. La sua condizione di dominus uscirà infatti rafforzata dall’arma carica di una legge elettorale, che può essere usata in qualsiasi momento, indipendentemente dalle promesse e dalle clausole di salvaguardia. Come nel Regno Unito, dove la Regina scioglie formalmente le Camere ma è il premier a decidere quando, Renzi disporrà della ghigliottina della legislatura. Però il leader dovrà prima o poi scegliere se approfittare delle macerie del sistema politico, regnando sui detriti di un’opposizione frantumata dal nuovo sistema elettorale. Oppure se provare a ricostruire su quelle macerie un sistema parlamentare equilibrato, e che riprenda a tendere verso il bipolarismo e l’alternanza. Renzi avrebbe potuto farlo già ieri, scommettendo su una maggioranza convinta, quella che ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, invece di coartarla con il voto di fiducia.

Vincere e convincere, come si direbbe nel gergo a lui caro del calcio, è obbligatorio per i grandi leader. D’altra parte nemmeno il rozzo meccanismo dell’ Italicum potrà esentare del tutto dalla ricerca del consenso: nella futura Camera, dove la lista vincente godrà di 340 seggi, basteranno 25 dissidenti per mandarla sotto. Nemmeno il destino di De Gasperi fu messo al riparo da un premio di maggioranza approvato a colpi di voti di fiducia.

La Repubblica, 29 aprile 2015 (m.p.r.)

Chiamatelo “No 2.0” o, se preferite, opposizione ai tempi dei social media. Ecco la prima vera fotografia ad alta risoluzione di chi è contro in Italia. Poco importa poi se si tratta della Tav, l’Expo, le discariche, l’eolico, le trivellazioni in Adriatico, le grandi opere. L’analisi, che verrà resa pubblica oggi, è stata condotta da Public Affairs Advisors e da Fleed Digital ed è una lente di ingrandimento su quel che è accaduto nel Web nel corso degli ultimi sei mesi. Sono stati passati al setaccio oltre venticinquemila discussioni, novemila tweet, cinquemila post su Facebook. Intendiamoci, l’indagine non entra nel merito della legittimità dei singoli movimenti, ma si limita a tracciarne un profilo evidenziando origine, affinità, modus operandi. Un panorama fatto da quattro milioni di account, quelli dei quali è possibile vedere pubblicamente i contenuti, e oltre centomila fra forum, blog e siti. Non è un campione rappresentativo su base demografica e statistica, ma indicativo di quanto successo su Internet.

«La prima cosa che emerge è il tramonto dell’idea del “not in my back yard” (nimby), ovvero del “mi riguarda solo se avviene nel cortile di casa”, spiega Alessandro Giovannini, direttore di Fleed. «Sono pochi coloro chi si oppongono perché chiamati in causa direttamente. Il no sul Web è spesso ideologico, trasversale e non più riconducibile a un solo movimento politico parlamentare o extra parlamentare». In testa alla classifica c’è No Tav, nato nel 1993: ha generato un volume di discussioni tre volte superiore rispetto a quello che si oppone all’Expo dal 2007 e alle trivellazioni in Adriatico, No Triv, apparso nel 2012.
Molte le differenze, ma altrettante le similitudini e abituale il sostegno reciproco malgrado luoghi e date di nascita differenti. Come i No Tav del Piemonte e i No Muos siciliani che si oppongono all’installazione dei radar della Nato dal 2009. Il No Triv invece, sorto fra Basilicata, Abbruzzo e Irpinia, ovvero dove ci sono progetti di estrazione o esplorazione dei giacimenti petroliferi o di gas, è un movimento locale poi diventato nazionale collaborando con le associazioni ambientaliste per contrastare il decreto Sblocca Italia. La battaglia ha fatto fare ai No Triv anche un salto di qualità con l’alleanza con gli spagnoli che contrastano le trivellazioni a largo delle Canarie. Tanto che sui social media ora i post vengono scritti in doppia lingua, spagnolo e italiano. I No Tav invece preferiscono la diffusione di video, grazie all’alleanza strutturale con Anonymous. Partono da YouTube e Vimeo e poi vengono amplificati via social network. Nato in Val di Susa, ora il movimento si occupa di grandi opere a trecentosessanta gradi.
«La circolazione di informazioni è velocissima» racconta Giovanni Galgano, direttore di Public Affairs Advisors. «E in certi casi si tratta di notizie incomplete o false. Ma ciò nonostante, queste forme di dissenso dimostrano che le istituzioni perdono credibilità giorno dopo giorno. I cittadini si sentono da un lato abbandonati, dall’altro protagonisti ». Con una novità importante: ormai il no nasce quasi esclusivamente online, lì si evolve e poi solo dopo arriva nelle piazze. Ed è il movimento “liquido”, quello sulla Rete, a diventare a volte punto di riferimento della politica e non il contrario. «Questo è un aspetto interessante», concorda Stefano Epifani, docente di comunicazione digitale a La Sapienza di Roma e autore fra gli altri del saggio Manuale di comunicazione politica online.
«Se escludiamo i movimenti più grandi, ogni dissenso può esser costruito ad arte da multinazionali, gruppi di pressione, organizzazioni di vario tipo. È il “crowdlobbying” e consiste nell’utilizzare la Rete come strumento di persuasione dal basso. Ci sono aziende che, mentre continuano a fare comunicazione istituzionale, mettono in piedi pagine su Facebook di dissenso funzionali alla propria proposta ». Chiunque si occupi di lobbying sta studiando questi fenomeni. «Ma attenzione: non è detto che sia fatto per fini ideologicamente spregevoli», conclude Epifani. «Greenpeace, faccio un esempio a caso, potrebbe usare simili leve per promuovere le sue battaglie. E del resto, cosa ci sarebbe di male?» Nulla, verrebbe da dire, almeno finché è tutto alla luce del sole.

Il manifesto, 28 aprile 2015

Pronto a un com­pro­messo sem­pre ono­re­vole e non a una capi­to­la­zione incon­di­zio­nata, Ale­xis Tsi­pras. Ma il tempo stringe per il governo greco e il cam­pa­nello d’allarme non viene dalle casse dello stato più o meno vuote, né dai bot­te­gai, il cui pre­si­dente, già can­di­dato euro­par­la­men­tare con le liste della Nea Dimo­kra­tia, ha minac­ciato che «i lun­ghi nego­ziati» tra Atene e i suoi cre­di­tori «aggra­vano la crisi del com­mer­cio greco».

Manco a dirlo, l’allarme è giunto da Bru­xel­les e da Riga dove mini­stri dell’eurozona hanno espresso la loro rituale pre­oc­cu­pa­zione su cosa acca­drà nel caso in cui l’Eurogruppo dell’11 mag­gio dovesse finire con un altro nulla di fatto. Il pre­mier greco sa che anche que­sti «timori» fanno parte delle pres­sioni eser­ci­tate su Atene per farla retrocedere.

Ma il 12 mag­gio, senza un aiuto finan­zia­rio il governo greco dif­fi­cil­mente potrà rim­bor­sare i 700 milioni di euro al Fmi. A meno di sal­tare sti­pendi e pen­sioni per il pros­simo mese, cosa che Tsi­pras ha escluso. Lunedì sera, in un’intervista-fiume finita nella notte, si è detto pronto a un com­pro­messo ono­re­vole, ma non ha indie­treg­giato: fermo sem­pre sul pro­gramma di Salo­nicco, ma con uno spi­rito più ade­guato alle circostanze.

Pronto all’autocritica, ma anche espli­cito nel caso il nego­ziato dovesse fal­lire e le condizioni-diktat impo­ste dai cre­di­tori inter­na­zio­nali doves­sero costrin­gere il governo Syriza–Anel a vio­lare le pro­messe elettorali. Lo stallo delle ultime set­ti­mane «sta spin­gendo il paese nella reces­sione», per­ció «è neces­saro arri­vare a un accordo in tempi stretti… entro la fine della set­ti­mana pros­sima», ha detto Tsi­pras, che è parso prò otti­mi­sta: «Siamo vicini a un accordo — ha detto -, nono­stante restino diver­genze su lavoro, pen­sioni e pri­va­tiz­za­zioni». Per­ché i ricavi delle pri­va­tiz­za­zione, per il pre­mier greco, ser­vono a soste­nere la crisi sociale non, come sostiene Bru­xel­les, a ripa­gare il buco nero del debito lasciato dal governo Samaras.

Ma in caso di fal­li­mento delle trat­ta­tive o di intesa sfa­vo­re­vole ad Atene, nel caso che la Gre­cia var­casse le pre­an­nun­ciate «linee rosse», non si tor­ne­rebbe alla dracma, né ci sareb­bero ele­zioni anti­ci­pate come paven­tato da molte parti. Per Tsi­pras l’alternativa è un refe­ren­dum. Una con­sul­ta­zione popo­lare sui risul­tati del nego­ziato euro­peo, mal­grado le pole­mi­che pro­ve­nienti dall’opposizione e i dubbi di chi sostiene che la Costi­tu­zione elle­nica non pre­vede refe­ren­dum per leggi di bilancio.

Ma l’oggetto non sarebbe una legge di bilan­cio. «Si tratta di un argo­mento d’interesse nazio­nale che ha una com­po­nente finan­zia­ria», ha rispo­sto ieri Tsi­pras, che ha cri­ti­cato Jeroen Dijs­sel­bloem e Mario Dra­ghi. «Abbiamo sba­gliato a non chie­dere per iscritto ciò che ci ave­vano pro­messo, ovvero la garan­zia che dopo l’accordo del 20 feb­braio avreb­bero lasciato mano libera alle ban­che con­sen­tendo loro di inve­stire di più nei titoli di stato». Rife­ren­dosi al pre­si­dente della Bce, l’ha con­si­de­rato respon­sa­bile della deci­sione «non orto­dossa» di ridurre la pos­si­bi­lità del finan­zia­mento delle ban­che gre­che dall’Eurotower. Nes­suna frec­ciata sta­volta per Angela Mer­kel con la quale ha deciso nel recente ver­tice bila­te­rale di tenere sem­pre aperto il col­le­ga­mento tele­fo­nico per garan­tire il pro­se­gui­mento del negoziato.

Varou­fa­kis? Ora è meno solo

Tsi­pras ha poi tes­suto le lodi di Yanis Varou­fa­kis — «il mini­stro delle finanze resta un asset impor­tante per il Paese» -, nono­stante dome­nica scorsa, nella riu­nione a Megaro Maxi­mou, sede del governo, sia stato deciso di coa­diu­vare il suo potere di trat­ta­tiva. Varou­fa­kis man­tiene sem­pre l’incarico del mini­stero delle Finanze, ma respon­sa­bile dei nego­ziati con i part­ner euro­pei sarà d’ora in poi il vice­mi­ni­stro delle Rela­zioni inter­na­zio­nali Euclid Tsa­ka­lo­tos, che ha stu­diato a Oxford e che, secondo alcuni, avrebbe il pro­filo giu­sto per trat­tare con i cre­di­tori. Il governo ha inol­tre for­mato una squa­dra tec­nica coor­di­nata dal segre­ta­rio gene­rale Spy­ros Sagias, men­tre la respon­sa­bi­lità del gruppo che tratta con il Bruxelles-Group l’avrà il pre­si­dente del con­si­glio eco­no­mico Jor­gos Hou­lia­ra­kis. Diverse le inter­pre­ta­zioni del mini-rimpasto del gruppo che tratta con le «isti­tu­zioni» europee.

È opi­nione dif­fusa che con tale deci­sione il governo intenda «esten­dere il soste­gno» al mini­stro delle Finanze, men­tre a sen­tire parte della stampa locale e inter­na­zio­nale (impe­gnata in una vasta opera di fal­si­fi­ca­zione), il «depo­ten­zia­mento» di Varou­fa­kis era quasi obbli­gato dopo le enne­sime, dure cri­ti­che dell’Eurogruppo a Riga.

Pole­mi­che anche sul nego­ziato per le riforme. Alle voci secondo le quali Tsi­pras sarebbe giá pronto a rinun­ciare alle pro­messe elet­to­rali come l’aumento del sala­rio minimo e il raf­for­za­mento dei diritti dei lavo­ra­tori con il ripri­stino del con­tratto col­let­tivo nazio­nale di lavoro, il pre­mier mostra invece di non volere rinun­ciare a nes­suno di que­sti con­te­nuti; al mas­simo sem­bra dispo­sto solo a riman­dare a giu­gno il nego­ziato su que­sti argo­menti nell’ambito delle trat­tat­tive per la ridu­zione del debito e per un pro­gramma a lungo ter­mine. Comun­que ieri il pre­mier si é limi­tato a dire sol­tanto che l’ abo­li­zione della tassa unica sulla casa potrebbe slit­tare al 2016.

Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)

Ban Ki moon gela Mat­teo Renzi e i suoi pro­po­siti di distrug­gere i bar­coni degli sca­fi­sti con l’avallo dell’Onu. Non è bastata una gita sulla nave San Giu­sto della nostra Marina mili­tare per con­vin­cere il segre­ta­rio gene­rale delle Nazioni unite della bontà dei pro­getti del governo ita­liano, deciso più che mai ad affon­dare le imbar­ca­zioni con cui i traf­fi­canti di uomini tra­spor­tano nel canale di Sici­lia migliaia di dispe­rati in fuga dalla guerra. Ban è arri­vato ieri a Roma per un ver­tice Ue-Onu-Italia sull’emergenza immi­gra­zione facen­dosi pre­ce­dere da un ammo­ni­mento che ha fatto capire al pre­mier ita­liano come la strada per con­vin­cerlo ad auto­riz­zare un qual­siasi tipo di inter­vento in Libia sia a dir poco in salita. «Non esi­ste una solu­zione mili­tare alla tra­ge­dia umana che sta avve­nendo nel Medi­ter­ra­neo» ha detto il segre­ta­rio, get­tando così acqua sulle ambi­zioni inter­ven­ti­ste del governo. Al punto da costrin­gere ieri la por­ta­voce dell’Alto rap­pre­sen­tante Ue per la poli­tica estera Fede­rica Moghe­rini a cor­rere ai ripari: il piano che l’Unione euro­pea sta pre­pa­rando per distrug­gere i bar­coni «non è un inter­vento mili­tare» in Libia, ha detto la portavoce.

Moghe­rini e Ban Ki moon avranno avuto comun­que modo di chia­rirsi le idee ieri pome­rig­gio quando, insieme a Mat­teo Renzi, hanno preso il largo nel canale di Sici­lia sulla nave San Giu­sto. Una cro­ciera voluta dal pre­mier per mostrare al segre­ta­rio gene­rale quanto accade ogni giorno lungo la fron­tiera meri­dio­nale dell’Europa, nella con­vin­zione di riu­scire a por­tarlo dalla sua parte. Qual­cosa, però, non deve essere andato nel verso giu­sto. O forse Ban Ki moon ha capito qual è la vera urgenza del Medi­ter­ra­neo: «Le auto­rità devono foca­liz­zarsi sul sal­va­tag­gio delle vite dei migranti», ha detto il numero uno dell’Onu una volta rimesso piede a terra. Frase che sem­bre­rebbe pren­dere le distanze anche dai pochi risul­tati rag­giunti gio­vedì scorso dal con­si­glio euro­peo straor­di­na­rio sull’immigrazione dove sì, si sono stati tri­pli­cati i fondi desti­nati a Tri­ton, ma almeno per ora non è stato modi­fi­cato lo scopo della mis­sione, che resta di sor­ve­glianza delle fron­tiere e non di sal­va­tag­gio dei migranti. A Renzi e Moghe­rini non è rima­sto altro che fare buon viso a cat­tivo gioco: «L’Italia non è più sola», ha detto il pre­mier. «Fer­mare i traf­fi­canti di esseri umani per evi­tare una cata­strofe uma­ni­ta­ria è un’assoluta prio­rità su cui con­tiamo di avere il soste­gno delle Nazioni unite».

Nei pros­simi giorni si vedrà se sarà così, e soprat­tutto se gli sforzi diplo­ma­tici messi a punto dalla rap­pre­sen­tante euro­pea della poli­tica estera avranno rag­giunto o meno lo scopo (ieri la Moghe­rini ha par­lato di immi­gra­zione al tele­fono anche con il mini­stro degli esteri russo Ser­ghiei Lavrov ed è quasi scon­tato che tra i temi toc­cati ci sia stata anche la Libia). Intanto già in que­sta set­ti­mana si potrebbe comin­ciare a capire come l’Unione euro­pea intende muo­versi per met­tere fine alle stragi dei bar­coni. Un anti­cipo potrebbe arri­vare mer­co­ledì con l’intervento che il pre­si­dente della com­mis­sione Jun­ker farà nel corso della ple­na­ria pre­vi­sta a Stra­sburgo, men­tre la «road­map» degli inter­venti potrebbe arri­vare nei giorni imme­dia­ta­mente suc­ces­sivi con la spie­ga­zione dei tempi ad aumen­tare del tri­plo i finan­zia­menti per Tri­ton e la mis­sione di poli­tica di difesa e sicu­rezza su cui la Moghe­rini sta lavo­rando e che, dopo aver visto Ban Ki moon, la por­te­ranno oggi e domani a Washing­ton e New York. Il 13 mag­gio, invece, è pre­vi­sta la pre­sen­ta­zione del piano Ue sull’immigrazione in cui dovrebbe esserci anche un’ipotesi di sud­di­vi­sione dei pro­fu­ghi tra gli Stati mem­bri. Que­stione sulla quale fino a oggi si sono incon­trate le mag­giori dif­fi­coltà quando non dei veri veti da parti di alcuni Paesi.

Il manifesto, 28 aprile 2015

Premier Italicum, lo ha nominato Ilvo Diamanti. Stiamo parlando di Matteo Renzi, naturalmente. Difficile trovare un epiteto più azzeccato per il Presidente del Consiglio se gli riuscirà il colpo grosso di portare a casa, tra voti di fiducia, ricatti politici e psicologici, minacce di fine anticipata e traumatica della legislatura, la legge elettorale cui ha legato, inusitatamente, le sorti del proprio governo. In effetti Rosi Bindi ha rilevato quanto sia improprio che un governo ritenga vitale per la propria sopravvivenza un progetto su una materia che dovrebbe essere di squisita pertinenza parlamentare, come la legge elettorale.

Ma non si tratta di una stravaganza o semplicemente di un atto estremo di arroganza. Il problema è che l’Italicum è molto di più e peggio di una legge elettorale, anche se in quanto tale già fa rimpiangere i bei tempi della legge truffa di Alcide De Gasperi, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi già ce la aveva per conferimento elettorale.

In realtà con l’Italicum si vuole cambiare nel profondo la natura dello Stato italiano, modificandone la struttura istituzionale, i rapporti tra i poteri, i ruoli dei medesimi senza passare attraverso un’esplicita modifica del dettato costituzionale.

E’ quanto emerge dalle parole dei suoi stessi inventori e sostenitori, cui conviene prestare la dovuta attenzione. Roberto D’Alimonte deve odiare a tal punto il principio di non contraddizione, da riuscire, nello stesso articolo, a contraddire palesemente sé stesso. Sul Sole 24 Ore di domenica prima afferma che si tratterebbe di pura sciocchezza considerare l’Italicum come il cavallo di Troia che introduce il presidenzialismo nel nostro ordinamento, dal momento che le norme costituzionali concernenti le figure del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato non vengono toccati. Tutti sanno però – e il suo ideatore, cioè lo stesso D’Alimonte, non lo nasconde – che ben difficilmente un partito o una lista possono raggiungere e superare al primo colpo la soglia del 40% che farebbe scattare il premio di maggioranza, in realtà, più correttamente, di minoranza. Il della nuova legge è provocare il ballottaggio fra due schieramenti in modo da fare scegliere ai cittadini “direttamente” chi li governerà. In realtà - sia detto qui per inciso- si tratta di una pura illusione o meglio menzogna, dal momento che le politiche dei governi nazionali sono sovra determinate dalle scelte della Ue, come si vede nel caso greco.

Il nostro politologo non si scompone e con nonchalance afferma che se nel ballottaggio “la scelta è tra due leader e due partiti, sarà il leader del partito vincente a diventare capo del governo”. E il Capo dello Stato che cosa ci sta a fare? Non preoccupatevi: la nomina del Presidente del Consiglio spetterebbe formalmente sempre a lui. Ma sarà una nomina “obbligata”, continua il nostro, che aggiunge: “Dunque è vero: il meccanismo previsto dall’Italicum introduce l’elezione diretta del capo del governo” e questo al di là della forma, perché ”in politica la sostanza conta quanto la forma. Se non di più” e quindi “un sistema elettorale potente come l’Italicum influirà … sul funzionamento concreto delle istituzioni della Repubblica, in particolare Parlamento e Presidenza.”

Difficile leggere un disprezzo maggiore per le norme costituzionali, le quali verrebbero aggirate e profondamente modificate da una legge elettorale che è pur sempre legge ordinaria. Il presidenzialismo verrebbe imposto per via di fatto, e la modifica formale della Costituzione rimandata a tempi ancora più favorevoli di quelli attuali per la maggioranza renziana. Ancora una volta la volontà dei cittadini è messa sotto i piedi. Non quella virtuale, ma quella democraticamente espressa nel referendum del 2006. Che raggiunse il quorum per quanto non necessario, tanto fu partecipato, e che bocciò la riforma costituzionale votata dalla maggioranza berlusconiana che prevedeva il premierato, cioè l’incremento dei poteri del presidente del Consiglio, fra cui lo scioglimento delle camere, e la conseguente diminuzione di quelli del Capo dello Stato, fra cui la prerogativa prevista dall’articolo 92 della Costituzione, di nominare il primo ministro.

Pesante è la responsabilità di chi voterà l’Italicum nei prossimi giorni, in aperto e plateale contrasto con la Costituzione e la volontà popolare.

La Repubblica, 27 aprile 2015

MATTEO Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa. Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari e, quindi, del governo.

L'Italicum , però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.

D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'incostituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.

È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti.

Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale: si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd.

Un orientamento confermato in occasione della festa nazionale dell'Unità di Bologna, capitale storica dell'Italia Rossa. Dove non sono stati invitati, fra gli altri, Gianni Cuperlo (poi, sembra, "recuperato") e, soprattutto, Pier Luigi Bersani. Una biografia politica trascorsa nella famiglia del Pci e dei partiti post-comunisti. In Emilia Romagna. Dov'è stato governatore (fra il 1993 e il 1996). Un segno esplicito e perfino sfrontato di sopravvento sul passato. Tanto più perché l'Unità, il giornale a cui si ispira la Festa, è la testata storica del Pci. Bandiera della tradizione e della militanza comunista. Oggi "sottomessa" simbolicamente, e non solo, dal (e al) PdR. Matteo Renzi, peraltro, accompagna questo percorso accentuando lo stile e il linguaggio del "leader che fa e decide". E viceversa: "decide e fa". Così, nei giorni scorsi, ha dichiarato che "se l'Italicum non passa, il governo cade". Detto senza enfasi. Non una minaccia, ma, piuttosto, un annuncio. Quasi una constatazione. Perché "se il governo, nato per fare le cose, viene messo sotto, allora vuol dire che i parlamentari dicono: andate a casa". E, dunque, suggerisce Renzi, implicitamente: "vi manderò a casa". Tutti.

Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione - coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 27 aprile 2015

Quando un ministro della cultura invoca pubblicamente la separazione tra etica e politica forse è il caso di cominciare a preoccuparsi.

Oggi Dario Franceschini ha rotto il silenzio politico che ha lodevolmente scelto da quando ha il peso del nostro patrimonio culturale. Lo ha fatto per giustificare la decisione di porre la fiducia sull'Italicum: invocare la libertà di coscienza (o di mandato: art. 67 della Costituzione) sarebbe «Assolutamente sbagliato. Ma come si fa a non vedere che la legge elettorale è il tema più politico del mondo? Non parliamo mica di problemi etici!».

Ora, appena ieri Eugenio Scalfari ha scritto che «Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto». Si potrà non esser d'accordo (io, invece, lo sono al cento per cento), ma come non vedere che se la posta in gioco è questa, il problema è radicalmente etico?

Ma la spia più interessante del discorso di Franceschini è l'opposizione aperta ed esplicita tra problemi 'politici' e problemi 'etici'. A me pare che una simile scissione – teorizzata e praticata – tra etica e politica rappresenti la vera antipolitica: ed è proprio a causa di questa deriva che in Italia vota ormai meno della metà dei cittadini.

Nelle scorse settimane questo violento divorzio si è celebrato pubblicamente nell'aula del Consiglio regionale toscano. Qui il Pd ha insultato l'assessore Anna Marson – una tecnica prestata al governo della regione –, rea di aver combattuto strenuamente per l'approvazione del Piano del Paesaggio, una conquista di civiltà per la quale i toscani del futuro le saranno grati.

I consiglieri del Pd hanno tacciato la Marson di «stupidità politica», trivializzando un'infelice uscita del presidente Enrico Rossi, che aveva definito l'assessore «un grande tecnico… che quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi». Nel suo bellissimo discorso finale, la Marson ha rivendicato con forza: «invece il mio agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici». Questa è la vera politica, quella che rimane saldamente ancorata all'etica, e proprio per questo riesce a fare l'interesse generale. Ma alle prossime elezioni, tra un mese, nessun partito ricandiderà Anna Marson.

E quanti parlamentari del Pd riconosceranno che, con buona pace di Dario Franceschini, la legge elettorale è proprio un grande tema etico, che riguarda la stessa sopravvivenza della democrazia in Italia?

La Repubblica, 27 aprile 2015

PER la prima volta si tenta di esercitare qualche rarefatta pressione su Sergio Mattarella. Ed è curioso, ma non troppo, che al Quirinale guardino con una certa impazienza esponenti del mondo più vicino al capo dello Stato sul piano culturale e politico. La reticenza non sorprende perché la materia è delicata, trattandosi di quattro voti di fiducia sulla riforma elettorale.

MA è chiaro che Rosy Bindi, per citare un nome, freme e si aspetta che il presidente della Repubblica dica una parola, o meglio agisca dietro le quinte per dissuadere il governo dal mettere in pratica quelle che sembrano ormai le sue intenzioni.

La Bindi è una rappresentante storica della sinistra cattolica e aveva le lacrime agli occhi per la gioia il giorno dell’elezione di Mattarella. Ma ovviamente è pericoloso credere o anche solo pensare che il presidente della Repubblica porti con sé al Quirinale, tale e quale, il proprio patrimonio di vita e di cultura e si disponga ad agire senza filtri e mediazioni. Il vertice delle istituzioni impone una cautela eccezionale, specie in una fase di passaggio come quella che il Paese sta vivendo. E rappresentare al meglio il ruolo di garanzia significa anche scontentare, in qualche caso, persone con cui un tempo si sono condivise certe battaglie politiche.

In altri termini, sembra poco plausibile che il capo dello Stato tolga le castagne dal fuoco alla minoranza del Pd o ai gruppi di opposizione a cui non piace la riforma elettorale. E quando si parla di opposizione ci si riferisce in particolare a Forza Italia, che ancora in gennaio al Senato votava con convinzione (salvo eccezioni) la stessa legge contro cui oggi si scaglia. Quanto alla minoranza del Pd, non riesce a dimostrarsi compatta se non quando protesta — con ragione — contro il ricorso al voto di fiducia. La forzatura renziana sottolineata da Bersani è reale, ma nel complesso la minoranza non è credibile come gruppo organizzato. E quando l’ex capogruppo Speranza denuncia «la violenza contro il Parlamento », è di certo consapevole che l’aula deserta dell’altro giorno, mentre Gentiloni riferiva sul povero Lo Porto, non rappresenta una violenza meno dolorosa o una mortificazione più blanda della funzione parlamentare. In altre parole, se la riforma di Renzi diminuisce lo spazio delle assemblee, essa non fa che fotografare — senza dubbio a vantaggio dell’esecutivo — una realtà pre-esistente.

Si capisce allora che sperare in un intervento salvifico del capo dello Stato sia un modo ambiguo di trarsi d’impaccio. A maggior ragione se la speranza nasconde una vaga sollecitazione. Su questo punto Mattarella non sembra incoraggiare i critici della legge. Infatti un conto è auspicare, come ha detto il 25 aprile, «le opportune convergenze» per superare i contrasti in vista del «bene comune ». Altro conto sarebbe dar mano a una fazione che sta perdendo la contesa e che può al massimo fare conto sull’ostruzionismo (destinato peraltro a essere disinnescato nei prossimi giorni) o sui franchi tiratori del voto segreto: visto che alla fine dovrà esserci per forza un voto coperto sul testo della riforma, quali che siano state le richieste di fiducia.

La verità è che la battaglia contro l’Italicum dovrebbe essere combattuta in Parlamento a viso aperto, senza scorciatoie istituzionali. Ma i guerrieri non sembrano troppo convinti. I numeri sono scarsi anche perché ci si è ridotti all’ultimo fra contraddizioni di ogni genere. È probabile che l’opportunità di modificare la riforma, o in alternativa di affossarla, si fosse presentata al Senato nella votazione che precedette di pochi giorni la seduta comune delle due Camere per eleggere il presidente della Repubblica. Quella fu l’occasione persa dalla minoranza del Pd. Ma esisteva ancora il patto del Nazareno che di lì a poco si sarebbe dissolto. E adesso alla Camera i numeri sono impietosi.

La Stampa, 26 aprile 2015

«Non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo». È il primo messaggio che il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, manda all’Italia e all’Europa, che pensano di bombardare i barconi in partenza dalla Libia. Il secondo, in questa intervista alla vigilia della visita a Roma, che lo porterà domani dal premier Renzi e martedì da papa Francesco, è diretto invece ai Paesi che frenano sull’accoglienza: «Sono cruciali canali legali e regolari di immigrazione».

Al Consiglio europeo di giovedì sono state varate alcune misure per affrontare la crisi dei migranti, e l’Italia vorrebbe distruggere i barconi prima della partenza. L’Onu è pronta a dare l’autorizzazione legale per simili azioni?

«Sono a conoscenza di queste notizie, ma tale dibattito sottolinea come il Mediterraneo stia diventando rapidamente una mare di miseria per migliaia di migranti, e l’urgenza di affrontare la loro situazione disperata. Il focus principale delle Nazioni Unite è la sicurezza e la protezione dei diritti umani dei migranti e di coloro che chiedono asilo. È cruciale che la concentrazione di tutti sia su salvare le vite, inclusa l’area libica delle operazioni di ricerca e soccorso, che è quella da cui vengono la maggioranza delle richieste di aiuto.

«La sfida non riguarda solo il miglioramento dei soccorsi e dell’accesso alla protezione, ma anche assicurare il diritto all’asilo del crescente numero di persone che in tutto il mondo scappano dalla guerra e cercano rifugio. I loro viaggi sono carichi di rischi, inclusa la discriminazione, la violenza e lo sfruttamento, e hanno bisogno della nostra protezione nella loro ora di maggior necessità.
«Non c’è una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo. È cruciale un approccio complessivo che guardi alla radice delle cause, alla sicurezza e ai diritti umani dei migranti e dei rifugiati, così come avere canali legali e regolari di immigrazione. Le Nazioni Unite sono pronte a collaborare con i nostri partner europei a questo fine. Ho preso nota delle recenti discussioni su tali temi avvenute nell’Unione Europea. L’intero sistema dell’Onu è pronto a fornire assistenza».

Lei ha detto al premier Renzi che il problema dei migranti è una responsabilità condivisa, ma alcuni Paesi europei resistono all’idea di ospitarli. Cosa possono fare l’Onu e i suoi Paesi membri per aiutare a trovare una soluzione nelle regioni più colpite, in termini di sicurezza, assistenza e sviluppo?

«Con oltre 1.700 morti e quasi 40.000 attraversamenti nel Mediterraneo, solo durante i primi quattro mesi del 2015, la dimensione di questa sfida richiede una risposta globale collettiva e onnicomprensiva. Io credo fortemente che la comunità internazionale abbia una responsabilità condivisa per assicurare la protezione dei migranti e dei rifugiati, che compiono un terribile viaggio attraverso il Mediterraneo. Le misure annunciate di recente in Lussemburgo e a Bruxelles sono un importante primo passo verso un’azione collettiva europea. Questo è l’unico approccio che può funzionare, per un problema di natura così ampia e transnazionale, e per prevenire che simili tragedie si ripetano nel futuro. Il prossimo passo sarà tradurre le misure in impegni concreti.

«Alla fine, il test non sarà tanto se vedremo la fine delle morti in mare, quanto un efficace accesso alla protezione in Europa. Sono crucialii un approccio complessivo che guardi alle radici delle cause, la sicurezza e i diritti umani di migranti e rifugiati, così come i canali legali e regolari di immigrazione. Il sistema dell’Onu è pronto a lavorare collaborativamente con i partner europei, e con altri Paesi in tutto il mondo, per affrontare le cause profonde di questi movimenti».

La stabilità in Libia sarebbe il primo passo per fermare insieme il traffico di esseri umani, e gruppi terroristici come l’Isis. La mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon è ancora l’opzione migliore per centrare questo obiettivo? Come sta procedendo il negoziato e quando avremo qualche risultato?

«Sono molto preoccupato per l’instabilità in Libia. Anni dopo la rivoluzione, il processo di transizione resta ancora appeso, e i civili stanno subendo l’urto delle violenze. Io credo fortemente che non ci siano alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso. Gli atti di terrorismo e di estremismo sono un duro richiamo al fatto che una soluzione politica all’attuale crisi va trovata rapidamente, per ripristinare pace e stabilità. Le istituzioni statali devono essere rafforzate per fermare questi atti di violenza e risparmiare al popolo libico altri spargimenti di sangue e conflitti».

A Roma incontrerà papa Francesco, con cui discuterà anche di ambiente, che ha un impatto su sviluppo, sicurezza alimentare e stabilità. Quali sono le possibilità che si arrivi ad un accordo in dicembre alla Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, e quale appello vuole lanciare ai paesi che ancora frenano?

«Sono ottimista che i governi raggiungano un accordo. Però ci sono ancora alcuni ostacoli significativi da superare, e quindi ogni Paese deve fare la sua parte per trovare una soluzione accettabile per tutti. I leader tuttavia ora capiscono quanto sia in gioco, e quanto le loro economie potrebbero trarre beneficio da un’intesa globale, che mandi il giusto segnale per una forte crescita e prosperità con basse emissioni di carbonio. Sono sempre più gli amministratori di aziende, le città e i cittadini in tutto il mondo che stanno agendo. Ha senso economico. E da una prospettiva morale e religiosa. La cosa giusta da fare, per proteggere la gente e il nostro pianeta.

«Richiamo tutte le parti, specialmente le maggiori economie, a presentare ambiziosi impegni nazionali (INDCs) entro giugno. Sono anche ansioso di lavorare con i governi di Perù e Francia sulla Lima-Paris Action Agenda, che punta a catalizzare l’azione sui cambiamenti climatici per aumentare ulteriormente le ambizioni prima del 2020 e sostenere l’intesa di Parigi. Dobbiamo poi assicurare che i finanziamenti necessari per l’azione sul clima siano presenti prima di andare alla Conferenza in Francia. I negoziatori devono trovare opzioni che possano aprire la strada per raggiungere un accordo a dicembre».

Il manifesto, 26 aprile 2015

E così il pro­blema sarebbe Yanis Varou­fa­kis. Il quale si sarebbe dimo­strato nell’eurogruppo di Riga un «incom­pe­tente», un «dilet­tante», un «gio­ca­tore d’azzardo». Strano però per un pro­fes­sore di eco­no­mia tra i più bril­lanti attual­mente a livello inter­na­zio­nale, che ha inse­gnato nelle migliori uni­ver­sità anglo­sas­soni, com­presa Cam­bridge, sti­mato e soste­nuto dal nobel Joseph Sti­glitz e da James Galbraith.

Certo, se le cri­ti­che pro­ven­gono dall’agronomo (dal cur­ri­cu­lum fal­si­fi­cato) Jeroen Dijs­sel­bloem e dal lau­reato in legge Wol­fgang Schäu­ble, qual­cosa di vero ci deve essere.

Con­vince in par­ti­co­lare l’accusa di «dog­ma­ti­smo» lan­ciata con­tro il greco dall’accomodante mini­stro delle Finanze tede­sco, lo stesso che da cin­que anni ha impo­sto con pugno di ferro all’eurozona una bril­lante poli­tica eco­no­mica, che assi­cura alti tassi di cre­scita eco­no­mica e – soprat­tutto – sociale. Lo sanno tutti, gli spa­gnoli, i por­to­ghesi, i greci e anche gli ita­liani, che nuo­tano nell’abbondanza.

No, non è Schäu­ble il dog­ma­tico del neo­li­be­ri­smo. E’ Varou­fa­kis quello infles­si­bile, poi­ché si rifiuta osti­na­ta­mente di rega­lare alle ban­che le prime case, di abbas­sare le pen­sioni ai 350 euro, di licen­ziare migliaia di sta­tali e di sven­dere pro­prietà pubbliche.

Una fer­mezza che assi­cura al suo governo altis­simi tassi di con­senso tra la popo­la­zione greca, come dimo­stra l’ultimo son­dag­gio reso pub­blico appena ieri. Nello stesso tempo però in cui plaude alla fer­mezza con­tro l’austerità, la stra­grande mag­gio­ranza degli inter­vi­stati chiede a Varou­fa­kis e a Tsi­pras di non rom­pere con l’eurozona. Una posi­zione sag­gia, pie­na­mente in linea con il pro­gramma di Syriza. Un com­pro­messo ono­re­vole, ma per otte­nerlo biso­gna essere in due.

Ora però le cose si com­pli­cano. Il giorno prima dell’eurogruppo che ha ten­tato di lin­ciare Varou­fa­kis, Tsi­pras si era incon­trato con la Mer­kel in tutt’altro clima. La can­cel­liera aveva anche assi­cu­rato che la Gre­cia non avrebbe dovuto rima­nere senza liquidità.

Cosa è suc­cesso? E’ noto che l’eurogruppo è il regno di Schäu­ble men­tre la Mer­kel gioca su uno scac­chiere più grande.

C’è un gioco delle parti, del tipo poli­ziotto buono e poli­ziotto cat­tivo? Oppure anche a Ber­lino ci sono fal­chi e colombe? I primi con­ti­nue­reb­bero a gio­care la carta della desta­bi­liz­za­zione del governo Tsi­pras, assu­mendo anche il rischio di un inci­dente, sem­pre più pro­ba­bile man mano che pas­sano le set­ti­mane e i mesi. I secondi sta­reb­bero cer­cando di tro­vare una qua­dra­tura del cer­chio – tutta poli­tica – per uscire dall’impasse.

Comun­que sia, non è certo colpa di Varoufakis. Il mini­stro delle Finanze greco lavora all’interno di un gruppo ope­ra­tivo spe­ci­fi­ca­mente dedi­cato ai pro­blemi con i cre­di­tori, a capo del quale c’è il vice pre­si­dente del Con­si­glio Yan­nis Dra­ga­sa­kis, espo­nente tra i più mode­rati e più esperti di Syriza. Quindi ogni vir­gola dell’azione poli­tica del mini­stro delle Finanze riflette esat­ta­mente gli orien­ta­menti del governo greco. Una sua sosti­tu­zione è fuori discussione.

Anche se Schäu­ble (l’ha pure ammesso) si tro­vava molto più a suo agio con i suoi pre­de­ces­sori: Gior­gos Papa­kon­stan­ti­nou, con­dan­nato per falso, Yan­nis Stour­na­ras, l’architetto dei conti truc­cati per entrare nell’euro, Ghi­kas Har­dou­ve­lis, il ban­chiere che por­tava i soldi in Sviz­zera.

Come andrà a finire? Non sono nella testa di Schäu­ble. Ma ho cer­cato lumi sul Cor­riere della Sera di ieri e ho fatto una grande sco­perta. In un’intera pagina fonti (ano­nime) dei cre­di­tori accu­sano Tsi­pras di essere «fal­sa­mente di sini­stra» e «al ser­vi­zio degli oli­gar­chi». L’ho rac­con­tato anche in Gre­cia e ci siamo diver­titi molto. Fin­ché le pole­mi­che con­tro di lui saranno di que­sto tenore potrà stare tran­quillo: sarà al governo per un decen­nio e oltre.

Corriere della sera, 26 aprile 2015
Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall’Unione europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all’ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l’Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all’operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla.

Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un’esistenza di soggetto politico, l’Europa è ormai diventata qualcosa d’imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati.

Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: «Cari signori, l’Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto questo costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l’Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all’Unione e alle sue attività». E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un’amichevole pacca sulla spalla.

Giorni molto difficili si annunciano dunque nell’immediato per l’Italia. Ma per l’intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l’appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un’insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico.

Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l’Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l’Organizzazione dell’Unione africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi «missioni» di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei «campi di addestramento» lavorativo, linguistico e «antropologico-culturale», destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese.

Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l’appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce.

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