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Lo si capisce dalle vignette di Giannelli sul Corriere della Sera, che dipingono un Berlusconi felice di ottenere da sinistra quel che non aveva ottenuto da destra. Lo si capisce dalle parole di Federico Grosso, che su questo giornale, il 25 luglio, parla di legge necessaria al miglioramento delle carceri, ma viziata da un compromesso che garantisce impunità a crimini economici «fortemente caratterizzati da disvalore sociale e morale». Lo si capisce dalle proteste di Eugenio Scalfari, di Luca Ricolfi, di Michele Ainis, di Vittorio Grevi, dell’ex giudice D’Ambrosio, del giudice Caselli. La legge sull’indulto che ieri è passata al Senato è molto più di un errore. Nasce da una profonda, radicata indifferenza alla cultura della legalità e al rapporto sano fra Stato di diritto ed economia. Le critiche pesanti rivolte da sinistra a Di Pietro, che ha provato a fermare la legge sino a dissociare la lealtà di ministro dalla propria coscienza di cittadino, confermano questa indifferenza.

Di Pietro è sospettato di voler conquistarsi visibilità, oltre che di usare un linguaggio sleale, violento. Il che forse non è falso: se c'è un modo di coltivare il protagonismo, quello del ministro è ben scelto. Ma gli strali si concentrano sul dito anziché su quel che il dito indica, e il proverbio cinese evocato da Di Pietro è sempre valido: «Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito». Lo sciocco non guarda alla sostanza, bensì all'apparenza. Per lo sciocco vale soprattutto: Primum Vivere, e dunque la sopravvivenza di una coalizione che senza Forza Italia non avrebbe approvato l'indulto. Primum Vivere fu il motto di Craxi quando prese la guida del Psi: lo slogan rovinò una grande scommessa politica (il rafforzamento della sinistra non comunista) trascinando il socialismo italiano nella corruzione. Il centro sinistra non corre quel pericolo ma quasi sembra trascurarlo. Come se in testa venisse anche per lei, in occasioni non marginali, la conquista-salvaguardia del potere e non quel che il potere fa. In tali circostanze il resto conta poco o nulla, anche quando questo resto è la sostanza delle cose: la cultura della legalità e il senso civico della classe dirigente, in un paese dove il problema dell'etica nell'economia e nella politica è il vero suo tarlo e la vera anomalia.

Questa trascuratezza in tema di legalità non cade dal cielo: si può scrivere ormai una storia degli Indifferenti in materia, che nell'ultimo decennio e più hanno perso di vista non solo l'importanza ma anche i benefici delle regole, della buona condotta finanziaria. Che hanno consentito che alla giustizia venisse dato il nome di giustizialismo forcaiolo, alla morale il nome di moralismo. Che hanno sconnesso il legale dall'utile, l'onestà dalle esigenze - considerate più autentiche, pratiche - dell'economia o della gestione del potere. È la storia di come piano piano s'è spenta la passione di Mani Pulite, e la speranza in una classe dirigente rinnovata. Di questa storia Berlusconi ha profittato, andando al potere nel '94 e nel 2001 senza che conflitto d'interessi e processi l'ostacolassero.

Da quale cultura (nel doppio significato del termine) è germinata questa storia che ha creato uno spazio per Berlusconi e che oggi glielo preserva? Da una cultura presente nei luoghi meno prevedibili, sia a destra sia nella sinistra radicale, sia nella politica sia in parte della Chiesa: sfatando le tesi di chi considera finito il catto-comunismo e non vede sorgere la nuova, strana alleanza tra catto-comunisti e Berlusconi. In realtà, buona parte della Chiesa italiana si è rivelata attore di primo piano, e questo spiega come mai tanti cattolici di centro, pur distanziandosi da Forza Italia o combattendola, coltivano il culto berlusconiano dell'impunità. Con il passare degli anni la Conferenza episcopale ha dimenticato le sue battaglie per la cultura della legalità e contro la mafia, pur di ritagliarsi uno spazio politico che compensasse il declinare, in molti suoi esponenti, della missione spirituale e profetica. Del tutto dimenticata oggi è la nota pastorale redatta il 4 ottobre '91, poco prima di Mani Pulite, che s'intitolava «Educare alla legalità» e condannava il crescente corrompersi del colletti bianchi. Del tutto scordate sembrano le parole tremende - un anatema che sconvolse il clan Provenzano, spingendolo ai delitti della primavera-estate '93 - che Giovanni Paolo II pronunciò contro la mafia (e implicitamente contro i voti di scambio coperti da indulto). Quel discorso, pronunciato dal Papa nella Valle dei templi a Agrigento il 9 maggio '93 («Convertitevi! Mafiosi convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte!») è da anni introvabile sul sito internet della Santa Sede. La visita in Sicilia neppure è annoverata tra i viaggi del Pontefice. L'altro attore non irrilevante è Rifondazione di Bertinotti. Val la pena ricordare che fin dal 23 febbraio 2002, quando Di Pietro e la rivista MicroMega organizzarono al Palavobis di Milano una conferenza sulla legalità, l'attuale presidente della Camera si stizzì, svilendo un'iniziativa giudicata superflua, secondaria rispetto alle strutturali questioni economico-sociali: «È la rivolta dei ceti medi professionali - disse -. Da un lato (gli organizzatori) colgono fatti di involuzione della società politica, dall'altro rivendicano un ruolo come ceto e istituzioni, mi riferisco agli intellettuali e alla magistratura. È un terreno ambiguo». Più di tre anni dopo, intervistato dal Corriere della Sera sulle indagini del giornalista Travaglio (inchieste Dell'Utri, Berlusconi), disse: «Marco Travaglio? Non nominatemelo. Solo a sentire il suo nome mi viene l'orticaria. I moralisti danneggiano la sinistra. Non amo il giustizialismo a tutti i costi. Ogni volta che qualcuno si autoinveste del ruolo di censore, di moralizzatore, rischia di fare più danni di chi poi si vuole condannare» (5-10-05). Così si giunge all'oggi: estendendo l'indulto ai crimini contro la pubblica amministrazione, e a corruzione e concussione (tutti gli scandali dell’ultimo decennio, compresi Parmalat e furbetti del quartierino), il fronte degli Indifferenti di sinistra esita a regolare i conti col berlusconismo. Nei fatti ne è contagiato, come Arturo Parisi temeva nell'estate 2005, quando avvenne il disastro Banca d'Italia.

Naturalmente esiste un’ urgente necessità di migliorare le carceri italiane, disumanamente stracolme. Due papi si sono battuti per questo. Ma l'emergenza è stata usata per un compromesso con Forza Italia che ha consentito a quest'ultima di imporre la propria agenda giudiziaria, con più successo ancora che nel passato (Grosso ricorda che esisteva un disegno di legge condiviso, del gennaio scorso, che concedeva ai delitti economici un solo anno di sconto e non tre). I processi per questi delitti non sono cancellati ma la certezza della pena, mai lunghissima, è ridotta a zero. Può darsi che esistano ragioni per difendere l'interezza della legge; ma nessuno è parso convinto al punto tale da illustrarle bene. Che il disagio di chi non ha impedito questo tipo d'indulto sia grande, lo rivelano le parole stupefacenti del deputato prodiano Franco Monaco: «Sono un soldato, il testo dell'indulto lo voto, ma attenti perché è un testo inaccettabile!». Dunque, parte della sinistra ha voluto l'indulto così com'è, pur definendolo «inaccettabile». Ha ritenuto probabilmente che questo sia il prezzo del Primum Vivere, nei momenti in cui occorre conquistare il potere o non perderlo. Primum Vivere è una sorta di scetticismo degenerato, che in simili momenti prende il sopravvento.

L'intera campagna elettorale è stata condotta in fondo all'insegna di questo principio: non si sapeva se la battaglia sulla legalità avrebbe fatto vincere, e son state scelte l'indifferenza, l'afasia. Nessuna parola sul conflitto d'interessi, sulle leggi ad personam della precedente legislatura, in genere sulla questione morale. L'attenzione si concentrò totalmente sul fisco, col risultato che Prodi più che attaccare dovette difendersi. Vero è che promise di ripristinare la «maestà della legge», che denunciò in alcune interviste l'intreccio tra affari e politica. Ma la cultura della legalità è restata sconnessa dall'economia, come se non fosse invece parte fondamentale di essa. Come se per ripartire e crescere, l'economia non avesse prima di tutto bisogno di restaurare il dovere civico del pagare le tasse, del rispettare le leggi, creando un clima fondato sulla fiducia, dunque affidabile. Questo legame urge instaurarlo in Italia, perché altrimenti non solo la democrazia ma anche il mercato, divenendo diseducativi o distorti, falliscono e muoiono. La grande vocazione pedagogica di Prodi, che tante volte lo ha premiato, diverrà più che mai essenziale.

Abbiamo parlato di scetticismo degenerato perché gli scettici non intendevano questo, quando giudicavano superflue tutte le cose sensibili. Nel IV secolo avanti Cristo, Pirrone consigliava l'atarassia e cioè l'imperturbabilità; raccomandava l'afasia, ritenendo che astenersi dal parlare fosse meglio delle affermazioni perentorie; suggeriva l'apatia, che evita emozioni forti. Era poi raccomandata la sospensione di giudizio sulle cose del mondo (l'epoché) ma lo scopo era l'Atman: il collegamento con l'io più profondo dell'uomo, con la scintilla di Dio. Oggi l'Atman è la conquista del potere, la coalizione a qualsiasi prezzo, non la sostanza di quel che in politica si fa e il linguaggio con cui lo si spiega ai cittadini. Primum vivere, deinde philosophari - in primo luogo bisogna vivere, dopo fai filosofia. Il detto antico non è errato: la ricerca della massima saggezza non può soffocare i bisogni elementari e animali dell'uomo, del suo convivere sociale. Prima di dedicarsi alla sapienza e alla virtù, bisogna procurarsi il necessario per vivere. Ma gli antichi esaltavano le quotidiane virtù dell'onesto cittadino, quando posticipavano l'astratta cerca della Repubblica perfetta. Non esaltavano - oscuro oggetto del desiderio, sensualità speciale di chi comanda - il potere fine a se stesso.

I tassisti, come le farmacie, sono percettori di rendite oligopolistiche grazie alle barriere frapposte all´ingresso di nuovi competitors. In Italia i taxi sono pochi: a Barcellona, modello per tutti i sindaci italiani, i taxi per abitante sono sei volte quelli di Milano. Di qui il prezzo spropositato a cui vengono scambiate le licenze: fino a 200mila euro in città come Roma, Milano o Firenze; una compravendita peraltro illegale, mai registrata ai prezzi effettivi. Il costo di ingresso nel settore viene recuperato con le tariffe. Per il recupero (pay-back) dell´investimento si parla di cinque-dieci anni. 200mila euro recuperati in dieci anni sono un balzello annuo di ventimila euro, quasi cento euro al giorno, cioè da cinque a dieci euro su ogni corsa, che vanno ad aggiungersi alla remunerazione del tassista, al canone associativo e al costo di assicurazione, manutenzione, carburante e rinnovo periodico del mezzo.

In altre città italiane queste stime vanno ridotte di un terzo o della metà. Il balzello, comunque, grava soprattutto sui costi delle imprese: oggi può permettersi il taxi quasi solo chi è rimborsato da una ditta o da un ente.

Una volta recuperato il costo della licenza – nel caso che non sia stata ereditata – i tassisti guadagnano molto: per lo meno rispetto agli addetti a mansioni simili. Quanto, esattamente, non si sa; perché non sono tenuti a rilasciare ricevute (quelle che danno al passeggero non hanno alcun riscontro fiscale): le ha abolite, pochi mesi dopo la loro introduzione, il primo governo Berlusconi. A fronte di questi guadagni, il lavoro dei tassisti è stressante e gli orari sono lunghi: dieci e a volte anche sedici ore al giorno. Non è detto – anzi, non accade quasi mai – che durante il turno siano sempre in moto: stanno fermi, in attesa dei clienti, anche per metà della giornata.

La cessione della licenza rappresenta una sorta di buonuscita, in assenza di tutele previdenziali più adeguate: è un "fai-da-te" eretto a sistema di governo; sulla sua perpetuazione si reggono lobby, clientele e "pacchetti" di voti che stanno all´origine della frammentazione della categoria in associazioni e cooperative che invece di collaborare per rendere efficiente il servizio, si combattono per difendere le prerogative di chi le governa. Basti pensare che nelle principali città italiane, nonostante i molti tentativi esperiti, non si è riusciti nemmeno a istituire un numero unico per le chiamate: cosa che evidentemente pesa sia sulla qualità del servizio (tempi di attesa) che sul suo costo (l´attesa spesso la paga il cliente).

Non parliamo delle innovazioni rese possibili dalle tecnologie dell´informazione e delle telecomunicazioni (Itc): nove anni fa l´allora ministro dell´ambiente Ronchi, nel quadro di un decreto sulla mobilità sostenibile, aveva istituito – sulla carta – una nuova modalità di trasporto a domanda, chiamandola impropriamente "taxi collettivo" e assegnandone incautamente la gestione alle aziende di trasporto pubblico locale (Tpl). Le quali, sostenute dai contributi regionali, avrebbero potuto fare una concorrenza sleale ai tassisti. Per reazione un compatto sciopero aveva offerto a Berlusconi l´occasione di un bagno di folla tra i tassisti romani. Il provvedimento era stato subito revocato e reso non operativo.

Le misure sui taxi del sacrosanto decreto-legge del governo Prodi, se non sarà accompagnata da interventi che affrontino tempestivamente la questione nel suo insieme – e purtroppo la questione non è stata nemmeno sfiorata nel lungo processo di elaborazione programmatica dell´Unione – rischia di sortire effetti analoghi. Vale la pena evidenziare rischi e opportunità a cui si espone la decisione del governo:

1. Senza misure di accompagnamento, il decreto è una mera spoliazione di lavoratori che hanno investito molte risorse nell´acquisto della licenza; o che contano su di essa per una tranquilla uscita dal lavoro;

2. Una compensazione monetaria non è praticabile. Le licenze in Italia sono circa quarantamila. A un costo cautelativo di 100mila euro ciascuna, fanno 4 miliardi di euro. Chi li può sborsare di questi tempi? Il Governo? Le Regioni? I Comuni? Nessuno dei tre;

3. Uno scontro frontale con i tassisti alla lunga è pericoloso: innanzitutto perché svolgono un servizio pubblico essenziale; poi, perché possono adottare forme di lotta estreme, come il blocco del traffico, emulando i camionisti che avevano preparato il terreno al rovesciamento violento di Allende. Sarebbe però gravissimo se il governo facesse marcia indietro;

4. È sbagliato però pensare di affidare progressivamente il servizio a imprese gestite con criteri capitalistici e forme di lavoro subordinato o in appalto come accade negli Stati Uniti. Per capire a quali eccessi di sfruttamento, parassitismo, inefficienza, e anche di conflitto sociale, esso possa portare, consiglio la lettura di Taxi! - Driver in rivolta a New York di Biju Mathew, Feltrinelli. Qualità ed efficienza del servizio sono garantite meglio da una compagine di lavoratori indipendenti;

5. Non ci si può aspettare che dalle attuali organizzazioni dei tassisti vengano proposte diverse dalla difesa dello status quo. Non sono venute finora e non c´è motivo perché le cose cambino improvvisamente. Dovrà farsene carico qualcun altro.

Che fare, allora? Alcune considerazioni di buon senso possono contribuire a imboccare una strada vantaggiosa per tutti:

1. La palla passa alle Regioni e ai Comuni che dovranno assegnare le nuove licenze. Dovranno graduarle nel tempo, in modo da permettere a chi la ha acquistata un recupero almeno parziale del suo valore;

2. Occorre introdurre subito la ricevuta fiscale stampata in automatico dal tassametro. È un altro duro colpo per i tassisti! Ma giacché il governo non se li è certo ingraziati con l´attuale decreto, tanto vale completare l´opera e porre le basi di un effettivo rinnovamento del servizio. Così potrà anche monitorare i guadagni effettivi dei tassisti e graduare la liberalizzazione del servizio sulla loro capacità di recuperare almeno una parte del valore perso;

3. Per ridurne l´opposizione bisogna offrire ai tassisti delle chance: per esempio la possibilità di alternarsi su più turni sullo stesso mezzo; la reintroduzione del trasporto dei disabili finanziato dai servizi sociali; la concessione ai titolari di licenze già in essere di nuove licenze per i coadiuvanti familiari e delle licenze, con facoltà di recesso, per i servizi innovativi: quelli basati sulla condivisione del veicolo tra una pluralità di utenti;

4. Occorre soprattutto predisporre normative e agevolazioni per l´acquisizione delle tecnologie necessarie all´innovazione: tassametri a ripartizione di tariffa; display che segnalino la destinazione del veicolo, per consentire la raccolta di nuovi passeggeri lungo il percorso; display e corsie differenziate in base alla destinazione in tutti i grandi poli di attrazione (aeroporti, stazioni, stadi, ospedali, centri commerciali, quartieri dei divertimenti); interconnessioni, software e terminali per servizi su chiamata estemporanea per passeggeri con percorsi e orari compatibili. E poi, servizi a chiamata sostitutivi del trasporto di linea in zone periferiche e orari di morbida; promozione e agevolazione di convenzioni con utenti collettivi: imprese, enti, categorie.

VICENZA - Sono così convinti, gli americani, di poter costruire la loro nuova base militare sui terreni dell´aeroporto «Dal Molin» di Vicenza, anche se il governo italiano non l´ha ancora autorizzata, che hanno già pubblicato sul sito internet della loro Marina l´avviso per la gara d´appalto dei lavori. Una «sortita» che ha fatto dire seccamente al ministro della Difesa Arturo Parisi, che l´emanazione di questa «Presolicitation notice», come la definisce, «è priva del presupposto essenziale: l´assenso del governo italiano». Il ministro conferma infatti che «nessuna decisione è stata assunta al riguardo», dal momento che «non si è ancora conclusa l´istruttoria in corso, e in particolare la verifica e la valutazione del consenso di tutte le parti in causa». Una di queste ha già detto di no: l´altra sera il consiglio comunale di Caldogno, competente per territorio, ha espresso la sua contrarietà alla realizzazione della base. Hanno protestato anche i parlamentari Luana Zanella dei Verdi («Il governo non ci faccia condizionare dalle pressioni degli Usa»), e Severino Galante del Pdci: «Siamo allarmati e preoccupati che il nostro paese appaia come un territorio a sovranità limitata».

Ma gli americani, a leggere quanto scrivono sul loro sito, non hanno di questi dubbi. Loro sono già alla fase operativa. Difatti il «Comando opere ingegneristiche» della Marina Usa annuncia un appalto da 300 milioni di euro «per l´affidamento in un unico blocco» dei lavori per la costruzione della nuova base. E si rivolge alle più importanti imprese italiane, informandole che sino a fine gennaio potranno chiedere le informazioni necessarie per la gara d´appalto che scatterà fra marzo e aprile.

L´aggiudicazione delle opere, spiegano gli americani, verrà fatta privilegiando non tanto chi farà l´offerta più conveniente sul piano economico, ma chi darà maggiori garanzie, certificate internazionalmente, sul piano della qualità delle opere eseguite, sia riguardo agli edifici che alle infrastrutture civili, così come per gli acquedotti, le fognature e tutta l´impiantistica.

Parole che, per il ministro italiano della difesa, sono soltanto un fatto «interno all´ordinamento statunitense», e in quanto tale «del tutto privo di rilevanza per l´ordinamento italiano». Parisi aggiunge che la decisione che prenderà il governo, verrà assunta «a partire dagli orientamenti espressi dalla comunità locale», tenendo conto delle conseguenze derivanti dall´impatto del nuovo insediamento militare sul territorio coinvolto, «per il significativo accrescimento della sua dimensione». Proprio i motivi che hanno spinto la popolazione di Caldogno a dire no alla base. «La scelta di individuare l´area presso l´aeroporto Dal Molin è sbagliata», afferma il sindaco Marcello Vezzaro. Contro il progetto è stata indetta per il 2 dicembre una manifestazione dei comitati di cittadini contrari alla base.

Sull'argomento vedi Alberto Statera ed Edoardo Salzano

Mussi a tutto campo sull'università. Gli effetti collaterali da correggere della riforma Berlinguer: limiti del «tre più due», proliferazione dei corsi, frammentazione degli insegnamenti, algebra dei crediti, sistemi di valutazione, concorsi, precari. La latitanza degli investimenti privati in un sistema che deve restare pubblico. Servono più soldi e più governance, o «la società della conoscenza» resterà in Italia solo uno slogan mentre la terza rivoluzione tecnologica avanza in tutto

Ida Dominijanni

Il convegno di Orvieto sul partito democratico sta per cominciare mentre con Fabio Mussi, alla Camera, facciamo il punto sulla politica dell'università dopo i non troppo incoraggianti investimenti della finanziaria in questo settore cruciale del rilancio del «sistema paese». Rimpianti per essere qua e non là? «Nessuno, sono sereno, non volevo fare la parte di quello che dice 'o presepe nun me piace'. Non credo che Orvieto riserverà grandi sorprese, e la mia posizione è nota: sono favorevole alla costruzione di una solida alleanza democratica, e alla costruzione di una forte sinistra che abbia l'ambizione di rappresentare interessi e promuovere idee. L'incontro di Orvieto è il primo passo della costruzione di un partito che nasce dalla fusione tra Ds e Margherita, su cui non sono d'accordo».

Una domanda personal-politica al ministro dell'università ex studente della Normale: quanto ha contato nella tua vita aver fatto dei buoni studi?

Molto. La Normale era la mia sola possibilità: vengo da una famiglia poverissima, entrarci era l'unico modo di garantirmi vitto, alloggio e una piccola argent de poche. Avevo preso la maturità con la terza pagella d'Italia - non ho mai saputo chi fossero quei due che avevano osato essere più bravi di me! - e il massimo dei voti nelle materie scientifiche: avrei voluto iscrivermi a fisica o chimica, ma venendo dal liceo classico non ce l'avrei fatta a superare il concorso della Normale in quelle materie. Così scelsi filosofia, ma ho mantenuto una forte curiosità per la cultura scientifica, leggo le riviste più importanti e non tollero di non capire di che trattano. Gli anni di Pisa, fra Università, '68 e Pci sono stati cruciali, anche ai fini del mio lavoro di oggi. Mi è rimasta la convinzione che l'università di massa, aperta a tutti, è una sfida fondamentale, se però tiene alto il livello della qualità.

Saltiamo a trent'anni dopo. Lisbona 2000: in una fase di relativo ottimismo sulla costruzione europea, fu lanciata la parola d'ordine della «società della conoscenza». In Italia c'era il governo D'Alema, ricordo commenti entusiasti. Cos'è rimasto di quella prospettiva nel secondo governo Prodi? Poco, a giudicare dalla finanziaria...

La prospettiva è sempre quella, è fortemente ribadita nel programma dell'Unione ed era ben presente nelle dichiarazioni programmatiche di Prodi alle Camere. Va detto però che in Europa, sei anni dopo, si avverte una certa stanchezza, «la società della conoscenza» rischia di diventare poco più che uno slogan. Mentre a livello planetario si dispiega la terza grande rivoluzione tecnologica della storia: gli investimenti nella formazione e nella ricerca passeranno in pochi anni da 330 a 850 miliardi di dollari - una cifra ancora di molto inferiore alla spesa per armamenti, il che dimostra che la rivoluzione suddetta non si converte in saggezza -, e il grosso ce lo metteranno l'India, la Cina, la Malesia, la Corea, il Giappone, la Tailandia e gli Stati uniti, i quali hanno appena lanciato un piano decennale per raddoppiare gli investimenti nella ricerca pubblica. Il Brasile, l'Argentina e il Messico stanno entrando in questa stessa scia. L'Europa segna il passo: i paesi del Nord sono gli unici ad aver raggiunto l'obiettivo di Lisbona, con un investimento in formazione e ricerca superiore al 3% del Pil.

Ma l'Italia investe meno dell'1%.

Lo 0,88 nell'università, contro l'1,2 della media dell'area Ocse e il 2,6, fra pubblico e privato, degli Stati uniti. Nella ricerca investiamo l'1,1%.

In una classifica ideale delle ragioni del «declino italiano», in quale posto collocheresti questi dati?

Abbastanza in alto, ma la risposta non è univoca: siamo di fronte a uno dei tanti paradossi italiani. E' ovvio che un paese che investe tanto poco su formazione e ricerca si mangia il futuro a morsi. Ma questo non toglie che in Italia ci siano ancora risorse di qualità e zone di eccellenza. Nella fisica della materia, nella fisica nucleare e nelle biotecnologie, per esempio, continuiamo ad avere posizioni di prestigio. Sforniamo laureati di ottimo livello che vengono rastrellati sul mercato del lavoro intellettuale internazionale. D'altro canto è vero che abbiamo un numero basso di studenti universitari e di laureati, e che nella classifica delle prime cento università del mondo non compaiono nei primissimi posti atenei italiani - anche se la Sissa di Trieste sta al quinto posto in Europa e la Normale di Pisa al settimo. Ti segnalo però che nella classifica Tongji di Shangai sulle prime 500 università del mondo 270 sono europee, parecchie delle quali italiane, e solo 180 sono americane, mentre quelle cinesi e indiane avanzano: nella terza rivoluzione tecnologica l'Europa procede a passo lento, ma ha ancora un capitale enorme da far valere.

Però - fonte AlmaLaurea - gli studenti europei Erasmus dicono che le università italiane sono le peggiori fra quelle che hanno frequentato. In Italia c'è una gran retorica contro la «fuga dei cervelli», ma a me pare che dovremmo essere felici che tanti italiani vadano all'estero e preoccuparci di più di attrarre studenti stranieri qui da noi.

Esattamente. Ormai la comunità scientifica è internazionale, ognuno deve andare dove vuole, possibilmente non spinto dalla disperazione. Il problema è come rendere attraenti le università italiane, migliorandone qualità e governance. Nel recente viaggio in Cina di Prodi è stato siglato un accordo interuniversitario per accogliere studenti cinesi in Italia.

Ministro, diciamoci la verità: per il centrosinistra l'università è materia non solo di progetto ma anche di bilancio. Più che di Letizia Moratti, l'università che abbiamo è figlia di Luigi Berlinguer. Sette anni dopo, qual è il bilancio della parola chiave della riforma Berlinguer, «autonomia»?

E' vero, la vera riforma è stata quella del '99, Letizia Moratti si è limitata a degli interventi peggiorativi. L'autonomia, intesa come capacità di autogoverno e responsabilità, è un processo inesorabile e giusto. Che però ha prodotto alcuni effetti collaterali da correggere. In primo luogo c'è stata una spinta alla proliferazione scriteriata di sedi, ordinamenti, insegnamenti. In secondo luogo, lo schema «tre più due», laurea triennale più laurea specialistica - che a ben vedere è uno schema tre più due più x, triennale più specialistica più master - è rimasto incompiuto. Il tre più due prevede che uno studente esca dalla triennale con un profilo professionale definito, ma in realtà non è così: la triennale è una sorta di vicolo cieco, o una tappa per la specialistica. Una specie di liceone: non va bene, bisogna correggere.

Come?

La riforma Berlinguer si inseriva in una più ampia politica europea lanciata a Bologna nel '99, che prevedeva una prima verifica nel 2007 a Londra e una seconda nel 2010, per andare a regime nel 2012. Andremo a Londra dopo una discussione di massa con studenti e docenti, con un'indagine molecolare degli effetti della riforma e qualche proposta. E' in vista di questo che convocherò gli «stati generali» dell'università.

Qualche correzione intanto è già partita.

Sì. Con alcune norme della finanziaria viene bloccato il numero delle università telematiche - ce ne sono dodici, appena insediato ne avevo bloccate altre cinque, in Spagna sono in tutto due -, che sono università a tutti gli effetti e devono avere requisiti di qualità ineccepibili. Viene bloccata la proliferazione di corsi e facoltà fuori dalle sedi naturali: i corsi di studio sono passati in pochi anni da 2.300 a 5.500, d'ora in poi per aprirne uno sarà necessario avere almeno la metà di docenti strutturati. E vengono bloccate le cosiddette «lauree facili»: la riforma Berlinguer prevedeva che si potesse «laureare l'esperienza» concedendo quasi tutti i crediti necessari sulla base di un percorso di studio e di lavoro; sotto il governo Berlusconi, allargando le maglie di questa norma, sono state regalate lauree a intere categorie di dipendenti dei ministeri e delle regioni, di iscritti all'ordine dei giornalisti e via dicendo; d'ora in poi verranno concessi al massimo 60 crediti, ai singoli e non alle categorie. C'è inoltre un mio decreto al parere della Conferenza dei rettori, che prevede d'ora in poi un massimo di 20 esami per il triennio e di 12 per la laurea specialistica.

Quasi una rivoluzione, data la frammentazione attuale di moduli, esami e crediti. Che avrà effetti a cascata sulla didattica...

Bisognerà accorpare i moduli, o coordinarli, e sempre sulla base di un organico fatto almeno per metà da docenti strutturati, dunque solo una metà può essere fatta di docenti a contratto.

L'autonomia ha anche un lato economico cruciale: è la porta aperta all'ingresso dei privati nell'università. Anche qui, qual è il bilancio di questi otto anni, e come si dovrebbe configurare per il futuro il rapporto pubblico-privato?

Il sistema dev'essere pubblico, dopodiché ben venga se ci investono i privati: magari! Ma ci investono pochissimo, fra sponsorizzazioni e contratti. Nel campo della ricerca, per ogni euro dello stato ce n'è mezzo, non due, di privati.

Insomma: Tronchetti Provera, per dirne uno, poteva bene investire nella ricerca universitaria sulle telecomunicazioni, ma non l'ha fatto...

No, non l'ha fatto. Sul valore aggiunto, il capitalismo italiano investe in ricerca pubblica e privata il 2,2%, contro la media europea del 5,8. In Germania il dato è del 7,5%, in Giappone del 9,6, negli Usa dell'8,7.

La finanziaria prevede qualche incentivo, o sbaglio?

In finanziaria c'è il fondo della legge Bersani per un piano di sostegno a ricerca e innovazione «top down». E un incremento di 960 milioni di euro in tre anni del fondo ordinario per la ricerca, che vanno ad aggiungersi alle risorse correnti (600 milioni di euro per l'anno prossimo), per la ricerca «bottom up» e «curiosity drive», quella cioè non immediatamente finalizzata - che è cruciale, perché non si può fare ricerca solo su quello che si sa che è utile. Poi c'è un ulteriore fondo di 300 milioni di euro come credito d'imposta per il 10% di investimenti in proprio dei privati e il 15% di committenze alle università e agli enti pubblici.

Non si può fare ricrerca solo su quello che è utile, dici giustamente. Però fra crediti, valutazioni, risorse, economicità, funzionalità al mercato del lavoro, non ti pare che l'università parli ormai solo la lingua dell'utile? Questa perdita del senso della gratuità del sapere, a me sembra l'effetto collaterale più pericoloso della riforma Berlinguer.

Effettivamente anch'io uso questo linguaggio con un certo disagio...Bisogna distinguere. Un conto è il sistema della valutazione, che è fondamentale e va casomai reso più efficace. Sul piano culturale però sono d'accordo, va rilanciata la dimensione estetica del sapere. Non è un caso che oggi si parli di eleganza delle formule in matematica, o che certi premi alla ricerca tecnologica siano destinati in base alla bellezza delle scoperte. L'estetica invade anche le scienze esatte, e il linguaggio del bello è diverso da quello dell'utile.

Valutazione: come funziona e come va corretto il sistema?

Abbiamo l'esperienza dei due comitati di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che a giorni presenteranno i loro rispettivi rapporti. Bisogna partire da qui per costruire l'Agenzia della valutazione. Che sarà un'istituzione terza sia rispetto ai suoi oggetti sia rispetto al potere politico - insomma non sarà una dependance del ministero - e dovrà spostare l'asse della valutazione dalle procedure ai risultati, sia nella ricerca sia nella didattica, sulla base di parametri internazionali. La valutazione sarà decisiva ai fini della ripartizione di una quota crescente del fondo ordinario - che ovviamente deve complessivamente crescere -, in modo che venga premiato chi migliora.

Concorsi: cosa cambierà?

Fosse per me li abolirei e li sostituirei appunto con un efficace sistema di valutazione. Ma non si può: l'articolo 97 della Costituzione prevede «valutazioni comparative». E' un problema delicato, sono state sperimentate molte formule possibili, ma nessuna ha eliminato i vizi storici. Proveremo a sperimentarne altre. Per prima cosa però bisogna introdurre la terza fascia di docenza per i ricercatori: è fondamentale per allargare la base della docenza.

Hai annunciato 2000 assunzioni per i precari, qualcuno obietta che sono meno di quelle degli ultimi tre anni...

Ma no, sono 2000 assunzioni in più rispetto a quelle ordinarie. Abbiamo anche tolto il blocco del turn over agli enti di ricerca, che possono assumere non sulla base della pianta organica ma del budget, entro l'80% del loro bilancio.

Che pensi delle università di eccellenza che stanno spuntando qua e là, a Firenze, Milano e altrove?

Funzionano se sono integrate col sistema complessivo e col territorio. A Lucca abbiamo migliorato in questo senso la situazione dell'Imt.

Commentando non entusiasticamente la finanziaria hai detto: Speriamo dall'anno prossimo di indossare gli stivali delle sette leghe». E' solo un problema di soldi?

Anche di soldi. Da un lato le due spine sono il modesto incremento del fondo di finanziamento e il taglio ai consumi intermedi di università ed enti di ricerca. Dall'altro lato, dall'anno prossimo bisognerà operare una riforma complessiva della governance del sistema universitario, dal ministero ai consigli di dipartimento. Ma di questo è prematuro parlare adesso.

«È un accordo che difficilmente migliorerà il servizio e sicuramente non abbasserà le tariffe. Così i benefici per i cittadini spariscono»: parole pesanti come pietre. Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano e collaboratore del «pensatoio» della voce.info, boccia senza appello l'intesa siglata mercoledì sera da Walter Veltroni e dai tassisti romani per l'applicazione del decreto Bersani. E non è l'unica voce critica. Nel giro di 24 ore una piccola bufera si è abbattuta sul Campidoglio, che aveva celebrato la firma del protocollo per il potenziamento del servizio come un evento «storico». Ma nella maggioranza c'è malumore e imbarazzo per la linea soft adottata dal sindaco di Roma. E i consumatori del Codacons sono sul piede di guerra: non vogliono aumenti dei prezzi, mentre Veltroni, per ottenere il via libera dei sindacati di destra all'accordo, si è impegnato a discutere già a partire dalla prossima settimana l'adeguamento delle tariffe.

«È una beffa - va all'attacco Daniele Capezzone, segretario dei Radicali e presidente della commissione Attività produttive della Camera - . Il decreto Bersani nasceva come una liberalizzazione che avrebbe dovuto aprire il mercato per migliorare il servizio e far scendere i prezzi. Invece alla fine non ci saranno nuove licenze e le tariffe aumenteranno. Quella di Veltroni di mediare con i tassisti non è stata una buona idea, il sindaco ha dato l'impressione di cedere alle prepotenze corporative. Veltroni si è assunto la responsabilità di depotenziare una riforma possibile».

Secondo Amedeo Piva, coordinatore della Margherita in Campidoglio, «l'intesa è molto importante e permette il reale potenziamento del servizio». Ma poi lo stesso esponente del partito di Rutelli riconosce che «non è una liberalizzazione, ma è solo un primo passo. Si poteva fare di più. Ma interverremo di nuovo». Tace invece per adesso il ministro per le Attività produttive, Pierluigi Bersani. Nella trattativa di mercoledì fra Comune e tassisti, secondo quanto hanno riferito diversi testimoni, l'assessore Mauro Calamante ha più volte invitato i sindacalisti a capire che «qualche pezzo del decreto lo dobbiamo salvare, qualcuna delle misure varate da Bersani dobbiamo mantenerla, altrimenti non è possibile alcun accordo». E alla fine il compromesso scaturito - come sintetizzato da Donato Robilotta, capogruppo dei Socialisti nella Regione Lazio - «è un semplice prolungamento dei turni. La liberalizzazione del sistema doveva servire ad aumentare il numero dei taxi, migliorare il servizio e e abbassare i costi: non mi pare che l'accordo risponda a questi obiettivi. Lo spirito del decreto Bersani è stato tradito».

«Non consentiremo alcun aumento delle tariffe, semmai devono scendere» dice invece Carlo Rienzi, presidente del Codacons. Un sogno irrealizzabile quello dell'abbassamento dei prezzi. Almeno a sentire le tesi del professor Ponti: «In questo accordo c'è una componente volontaria affidata ai tassisti troppo forte, aumenterà l'offerta solo nel breve periodo.

Solo un aumento obbligatorio dell'offerta fa perdere valore alle licenze e fa abbassare i prezzi. Sono le regole base del monopolio». All'economista del Politecnico non piacciono nemmeno le tariffe predeterminate per gli aeroporti: «Va bene il prezzo fisso, ma libero: ogni cooperativa dovrebbe scegliere quale tariffa applicare e pubblicizzarla. Questa è concorrenza». E da Palazzo Chigi sottolineano che a pagina 130 del programma elettorale dell'Unione si parlava di «liberalizzione nei settori della distribuzione dei farmaci e dei taxi». I medicinali da banco sono ormai arrivati nei supermercati. Le licenze delle auto bianche restano invece privilegio per pochi.

Il sangue di Cana è schizzato in faccia a tutti. E´ sangue di innocenti (trentasette bambini su sessanta vittime) e non sarà facile cancellarlo. Domenica mattina è traboccato dai teleschermi su cui da diciannove giorni si inseguivano le immagini dell´Europa in vacanza e quelle del Libano sotto le bombe e degli israeliani nei rifugi di Galilea.

Erano diventate una routine. La strage di innocenti ha rivelato, imposto il crudo orrore di quel conflitto, abbattutosi su un paese appena ricostruito, e già semidistrutto. Un paese che ospita una guerriglia indomabile, ma anche la sola società (quasi) democratica del mondo arabo. Va detto subito che il sangue si è riversato su una platea molto vasta di responsabili: protagonisti diretti e indiretti, spettatori potenti e impotenti.

Ha imbrattato gli israeliani, certo, poiché israeliani erano i missili che hanno provocato il massacro. Ed ora sull´immagine dello Stato ebraico risalta vistosa, non soltanto per gli occhi arabi, una macchia di sangue.

Questa nuova strage non fa certo scendere nella regione il mercurio che misura l´odio nei suoi confronti. Il desiderio di vendetta dilaga, è palpabile nelle società arabe dove si assiste al lamento straziante, riproposto senza sosta da tutti i teleschermi, di Mohamed Chaloub, che ha perduto i cinque figli, di cui uno di due anni. La rabbia è subito esplosa a Beirut e si è accanita contro la sede dell´Onu, simbolo dell´impotenza, anche se era diretta contro gli Stati Uniti e Israele. L´eco di quella collera arriva forte, assordante anche a Gerusalemme, a Haifa, a Tel Aviv, dove si avverte con chiarezza quanto quell´esplosione di odio sia annunciatrice di altre tragedie.

Cana è un nome maledetto: dieci anni fa, nell´aprile 1996, un´incursione di rappresaglia israeliana, promossa in seguito ad azioni di hezbollah, fece cento morti.

E costò al laburista Shimon Peres una inaspettata sconfitta elettorale, poiché gli arabi israeliani alcuni giorni dopo non gli perdonarono quell´incursione e gli negarono i voti indispensabili.

La vicenda mediorientale si ripete nella sua tragica monotonia. Spesso in peggio. Questa volta la strage riguarda soprattutto degli innocenti.

La macchia non risparmia neppure gli hezbollah, che muovendosi tra la popolazione civile la espongono alle rappresaglie. La usano come uno scudo. I militari israeliani si sono naturalmente prodigati nel dimostrare che da quella casa di Cana presa di mira della loro aviazione partivano i missili diretti su Kiryat Shmona e Aufula, due località della Galilea occidentale. E´ assai probabile che l´accusa sia esatta. Ma Israele, che dispone di una forza militare molto più potente e sofisticata dell´avversario, ha anche responsabilità alle quali uno Stato sovrano (e in questo caso democratico), non può venir meno. Un errore «collaterale» come quello di Cana assomiglia a una rappresaglia collettiva e indiscriminata. Ad essa assomiglia del resto l´intera operazione libanese, così come viene condotta dallo Stato maggiore israeliano. Venti giorni fa, all´avvio dell´operazione contro gli hezbollah, furono in molti a definire giusta o giustificata la reazione israeliana. Dietro gli hezbollah ci sono la Siria e soprattutto l´Iran, si disse, e quindi la risposta alle loro provocazioni, non può che essere forte e immediata. Tre settimane dopo quella risposta giusta è diventata qualcosa che assomiglia, appunto, a una rappresaglia collettiva.

La strage degli innocenti di Cana appesantisce questa impressione.

Nelle crisi più acute le critiche rivolte a Israele possono apparire spesso dettate da un moralismo spicciolo, che non tiene conto della realtà mediorientale. Ma c´è una costante che solleva molte perplessità anche nella società israeliana. In particolare l´abitudine, ormai quasi un dogma, con cui i governi di Gerusalemme agiscono unilateralmente, ossia senza trattare con le forze che si trovano di fronte. Nel 2000 Israele si ritirò unilateralmente dal Libano meridionale, e così l´estate scorsa si è ritirata da Gaza. Senza rendere partecipe Abu Mazen, il leader palestinese moderato, in quell´occasione umiliato e squalificato agli occhi dei suoi, che alle elezioni gli hanno poi preferito i leader di Hamas. Non pochi nell´opposizione israeliana attribuiscono a questo atteggiamento («sprezzante») parte dell´ostilità di cui è circondato lo Stato ebraico. E parlano di un´arroganza ancor più evidente su un piano militare, dove la superiorità è schiacciante.

Il sangue di Cana, come dicevo all´inizio, è tuttavia schizzato sulla faccia di tutti. Non solo su quella dei protagonisti diretti.

Gli spettatori potenti, in prima linea gli Stati Uniti, ne hanno ricevuto una buona dose. Dopo la strage degli innocenti, rifiutando di ricevere a Beirut Condoleezza Rice, come previsto, Fuad Siniora, il primo ministro libanese, ha denunciato con coraggio la responsabilità americana nel dramma.

Soltanto la superpotenza può pesare in modo determinante sul governo israeliano. E´ cosi da decenni. In questo caso non poteva fermare bruscamente un´operazione militare, che interrotta avrebbe perduto la sua efficacia, ma era senz´altro in grado di imporre un certo ritegno nelle azioni militari. E comunque avrebbe potuto impegnarsi di più nel tentare di convincere Israele a trattare con gli avversari. Con chi si tratta se non con i nemici? Per ora l´America ha ottenuto una sospensione dei bombardamenti di 48 ore, per permettere ai civili di lasciare il sud Libano sotto attacco. Una semplice parentesi nel dramma?

L´unilateralismo è una prerogativa degli onnipotenti. In queste occasioni ricordo sempre quel che dice Amos Oz: ai finali shakespeariani, in cui la scena è cosparsa di cadaveri, lui preferisce i finali cecoviani, in cui sulla scena restano personaggi melanconici e scontenti, ma vivi.

Il sequestro di 64 parlamentari palestinesi di Hamas, fra i quali otto ministri, in tutte le città della Cisgiordania da parte dell'esercito israeliano non è un rappresaglia, è il tentativo di affondare per sempre la già assediata e affamata Autorità palestinese e di chiudere con ogni trattativa che pareva potersi aprire negli ultimi giorni. Sul documento dei prigionieri palestinesi in Israele,Hamas e Al Fatah avevano raggiunto un accordo per molti versi storico. Per la prima volta Hamas riconosceva, sia pure implicitamente ma in modo inequivocabile, la legittimità dell'esistenza di due stati.

Contro questo accordo, che innovava radicalmente non solo la linea di Hamasma anche i suoi rapporti conAl Fatah, un gruppo fondamentalista - del quale, mentre scriviamo,non conosciamo l'identità - aveva catturato un pilota di tsahal, dichiarando che non l'avrebbe riconsegnato finché non fossero state liberate le donne e i bambini che sono fra i circa ottomila detenuti palestinesi in Israele (obiettivo tanto umanamente ragionevole quanto sicuramente negato da Tel Aviv) e poi sequestrava un colono di 18 anni - ieri poi ucciso.

La collera di Israele era comprensibile, ma la reazione è stata spropositata al punto da preoccupare anche iG8 oggi riuniti a Mosca, che le hanno mandato un ammonimento formale: non esagerate. Manon si tratta di una sbavatura di militari infuriati: la cattura di un così consistente gruppo di parlamentari dei territori occupati, l'annuncio che ne seguiranno altre, mirano a mettere fuori gioco l'intero governo palestinese costringendo in queste ore tutta la rappresentanza diHamasa entrare in clandestinità.

Non solo: Israele ha appena bombardato il principale asse stradale di Gaza, distruggendone tre ponti, la centrale elettrica che fornisce energia a metà della Striscia di Gaza e ha tagliato le forniture d'acqua, sprofondando il paese in una situazione sanitaria insostenibile. Già stava succedendo dopo le sanzioni inflitte dall'Europa.

Qui non si tratta di un eccesso di vendicatività, si tratta della volontà del governo di Ehud Olmert, in cui evidentemente sta anche il laburista Amir Peretz, di chiudere qualsiasi porta o dialogo di pace per togliere la Palestina come nazione dalla faccia del Medio Oriente. Politicamente parlando, è l'esatto reciproco del gruppo fondamentalista islamico che sequestrando due israeliani e uccidendoneuno havoluto sabotare ogni possibile avvio di scioglimento dell'ormai tragico e quasi quarantennale contenzioso fra le parti. C'è un fondamentalismo in Palestina che non riconosce l'esistenza di Israele e un fondamentalismo israeliano che non riconosce quella della Palestina. Così stanno le cose, naturalmente tra forze del tutto impari. Sharon in coma, sembra caduto in comaogni residuo di ragionevolezza del governo israeliano.

Non è possibile, non è decente che il Consiglio di sicurezza non intervenga. Èben vero che da decenni Israele disattende le sue decisioni ma è anche vero che questa arroganza le è stata consentita, specie dagli Stati uniti. E senza attendere il Consiglio di sicurezza bisogna che l'Europa, su questo terreno dubitosa e incerta per l'incrocio ormai evidente fra il sentimento di colpa verso gli ebrei e un antiarabismo inconfessabile, si esprima subito. E subito ha da esprimersi il governo italiano. Non farlo sarebbeun gesto inammissibile di irresponsabilità.

La vigilia di Natale è, obbligatoriamente, quella degli auguri: di Natale e di buon anno. Io e tutti noi del manifesto facciamo senza esitazione i migliori auguri a Prodi e al suo governo (le critiche le abbiamo già fatte e non le dimentichiamo).

Ma gli auguri, se non debbono ridursi a formale retorica, debbono anche tener conto della situazione del soggetto al quale si fanno gli auguri. Ora Prodi è riuscito a portare in porto la finanziaria. È difficile giudicarla ottima, tuttavia ottenuto il voto la situazione di Prodi diventa più difficile. I vari e diversi soci dell'Unione, che finora erano obbligati a sostenere la finanziaria e quindi il governo, ora che la finanziaria è fatta si sentono più liberi e più attenti ai loro interessi particolari. Dall'altra parte anche l'opposizione ora che non corre più il rischio di assumersi la responsabilità della finanziaria (anche per lei sarebbe stato un problema non di poco peso) si sente più libera e più aggressiva. Il 2007 non si annuncia tranquillo.

L'altro giorno Prodi al Tg1 ha dichiarato, con un po' di arroganza, che «non si governa per essere popolari, ma per cambiare il paese». Mi viene da dire che il paese non si cambia senza il consenso del popolo, che è vario. Ma Prodi, subito, aggiunge che le priorità per il 2007 sono le riforme economiche. Domanda d'obbligo: quali? Andrebbe subito detto, al popolo, quali riforme. Dicendo anche a quale parte del popolo la riforma (da definire) porta vantaggio e per quale altra parte del popolo comporta un costo.

In una società complessa (un popolo) non ci sono riforme che fanno il bene di tutti e, pertanto, hanno anche un costo per chi le riforme le vuole e le attua. Mi pare utile ricordare che nel 1950, sotto la pressione delle lotte contadine e bracciantili, la Democrazia Cristiana approvò una riforma agraria e vale ancora ricordare che quella riforma segnò la rottura del blocco del 18 aprile del 1948: e produsse una notevole perdita di voti da parte della Dc ed emersero missini e monarchici.

Questo per dire che quando si parla - come fa Prodi - di riforme non si tratta di regalie a tutti, al ricco e al povero, ma di danneggiare qualcuno a vantaggio di qualche altro. Senza questa coscienza e questa sincera precisazione, le riforme rischiano di essere - anzi sono - parole al vento.

Allora, rinnoviamo i più sinceri e interessati auguri a Romano Prodi, ma, allo stesso tempo, gli chiediamo di essere più chiaro sulle annunciate riforme: quali, a quale prezzo? Prodi insiste a dire che l'obiettivo del suo governo è «far crescere l'Italia». Ottimo, ma a vantaggio di chi e a spese di chi? L'interrogativo è d'obbligo tanto più che la finanziaria approvata non manca di confusioni e equivoci.

Se si parla, e a ragione, di separazione della società dalla politica questo dipende anche dal fatto che la politica è assai poco «chiara e distinta». Poi, sullo sfondo, c'è la questione delle pensioni: sarebbe assurdo che il positivo allungamento della vita media invece che un successo di tutti debba essere un danno per chi ha lavorato e non è morto secondo i calcoli attuariali del passato. Dobbiamo dire: si stava meglio quando si moriva prima?

Se c´era bisogno (e non ce n´era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un´ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell´ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).

E alla fine, per non far mancare nulla all´indimenticabile occasione storica, fuochi d´artificio come a Piedigrotta nell´illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna.

Mario Merola, con tutta l´indecorosa ammuina, non c´entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell´ora dell´addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell´oggi, un´identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.

Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov´è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell´inerzia di troppi. Per accettare quest´atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un´icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.

Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l´assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».

Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell´uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell´illegalità, scava un solco tra l´illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz´e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.

Può essere l´illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l´illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l´uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all´anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata… il mio lungo viaggio», spiega che «l´uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».

Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore – "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.

Roma, Torino, Firenze, Bologna. La protesta dei sindaci delle grandi città - e altre sono già in fila per aggiungersi al sofferente coro - contro una legge finanziaria giudicata «insostenibile» non è né inedita né sorprendente; eppure può essere dirompente per il già fragilissimo equilibrio del governo e della sua maggioranza. Non è inedita: gli stessi sindaci hanno detto le stesse cose quando, una finanziaria dopo l'altra, il governo centrale ha tagliato loro i viveri. Non è sorprendente, anche se viene da esponenti della stessa maggioranza che sostiene Prodi: già negli scorsi anni contro Berlusconi con i sindaci del centrosinistra protestarono anche quelli del centrodestra, a dimostrazione del fatto che la materialità di alcuni problemi e la vicinanza ai propri elettori fa premio (per fortuna) sulle esigenze di bottega politica nazionale. Ha una carica dirompente: i quattro sindaci in questione - tutti dei Ds, il primo partito della coalizione; tutti molto popolari; tutti con statura politica nazionale; e, tra loro, uno che rappresenta tutti i comuni d'Italia e l'altro che è candidato perenne nella panchina dei leader - hanno un peso politico rilevantissimo. E potenzialmente sovrastante, rispetto a quello di un Prodi fiaccato dal caso Telecom e appannato dalla trattativa sulla finanziaria (senza parlare delle secche nelle quali si trova il progetto del partito democratico).

Forse è presto per dire che sulla legge finanziaria sono già iniziate le grandi manovre in vista del dopo-Prodi (anche se in questo senso c'è più di un indizio); ma certo sono in pieno corso le manovre del dopo-finanziaria. Gli industriali, che hanno ottenuto quel che volevano sulla riduzione del cuneo fiscale, piangono sul Tfr da versare; la sinistra radicale, soddisfatta sull'impatto redistributivo della manovra fiscale, va all'attacco sul ticket al pronto soccorso; gli autonomi si preparano a ogni forma di pressione per scampare ai nuovi rigori; i sindaci, ai quali sono stati tolti soldi oggi in cambio di nuove entrate domani, chiedono un cambiamento di rotta radicale; in più, tutti i partiti più o meno di centro si autoeleggono rappresentanti dei presunti ceti medi e chiedono ribassi delle aliquote al di sopra dei 75mila euro l'anno.

In questo contesto, il governo - Prodi - ci tiene a tener fermo un solo punto: il saldo di bilancio. Con il rischio che, alla fine del percorso, una manovra di grandissimo volume ma dall'identità non chiarissima resti identica nel volume ma senza nessuna identità. Quella che entra in parlamento non è la Finanziaria di Robin Hood, che toglie ai ricchi per dare ai poveri: è una Finanziaria che cerca di toccare l'area grigia e nera dell'evasione, che per la prima volta da anni cerca di colpire un po' di più chi ha di più, che rimette un po' di ordine nel caos ereditato dal governo precedente. Ma è anche una Finanziaria che taglia i fondi agli enti locali - cioè ai servizi sociali - che taglia la spesa sanitaria, che non rilancia né scuola né ricerca. E soprattutto che non dice il perché di questi sacrifici, l'obiettivo finale: il risanamento? lo sviluppo? il welfare? il mercato? Nel '96-'97 l'obiettivo era uno solo: l'Europa, anzi l'euro. Raggiunto quello, non se n'è ancora trovato un altro. Se ci fosse, forse anche la mediazione con le tante proteste - più o meno giuste - sarebbe al rialzo e non al ribasso.

La forza di interposizione è partita, non senza lasciare nelle relative patrie chi ne auspica più che temere il fallimento. Lo auspica chi è persuaso, in Israele e fuori di Israele, che sia opportuno un secondo round per farla finita con gli Hezbollah; sono gli stessi che vorrebbero si facesse bellicosamente finita con Hamas, e si mettessero museruole alla Siria e all'Iran. Sul lato opposto e reciproco stanno coloro che sospettano nell'accordo sull'interposizione tutto un imbroglio fra occidente e Usa, via Israele e auspicano una ripresa del conflitto che veda una vittoria degli Hezbollah, un irrigidimento di Hamas e muscolose affermazioni della Siria e dell'Iran.

Noi, che non siamo nati ieri, siamo lontani dall'ignorare la fragilità - a prescindere da ogni tesi complottistica - dell'accordo, che incidenti anche non premeditati possono mettere in causa, inducendo una spirale incontrollabile. Ma sicuri che in Medio Oriente essa non risolva nulla, puntiamo decisamente sul successo della spedizione per alcuni buoni motivi. Primo la consapevolezza, che ci sembra crescente, che occorra risolvere la questione palestinese, nodo centrale finora negato: restituire ai palestinesi la terra entro i confini del 1967 e garantire la sicurezza di Israele. Sono due questioni correlate, perché la Palestina ricominci (per un'intera generazione si tratta appena di cominciare) a vivere nella pace e perché gli israeliani cessino di sentirsi in stato d'assedio.

Sono interessanti, per prima cosa, i movimenti abbozzati da Hamas anche per quanto riguarda Gaza, perché spostano decisamente la questione dal «chi ha cominciato per primo» al «come possiamo convivere», non era così sicuro che accadesse, e dimostra che l'intervento europeo e dell'Onu, per quanto timido e tardivo, riapre i giochi. In questo quadro è interessante anche una modifica delle abituali dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad, che per la prima volta ha smesso di farneticare la scomparsa di Israele e ha dichiarato che il suo paese non ha intenzione di usare dell'energia nucleare contro nessuno, neppure il «nemico sionista». Poco, ma meglio che niente. In secondo luogo, Israele ha subìto una ferita di immagine che ne spezza la presunzione di invincibilità, cattiva consigliera per tutti. E' vero che l'agitazione che vi imperversa è marcata soprattutto dalla destra e da una volontà di rivincita, della quale sembrano far parte le colpe vere o presunte imputate dal governo nei confronti dell'esercito o dall'esercito stesso nelle persone del suo stato maggiore - colpe che non paiono, a questo momento, essere impugnate da una spinta pacifista che chieda una inversione di tendenza, almeno per quanto siano in grado i media di un paese sotto choc di darne correttamente notizia. Che la forza di interposizione tenga, significa dare anche tempo al travaglio interno a Israele di decantare, senza precipitare un rovesciamento del governo e un'elezione anticipata che oggi la rimetterebbe assai probabilmente in mano a Nethanyau.

Terzo punto, ma non da poco, l'essere gli Stati uniti in una situazione di scacco da tutte le parti: non sono battuti come in Vietnam, ma non riescono a diminuire il numero dei loro che cadono in Afghanistan e in Iraq, e non sono felicissimi i rapporti neanche con i loro governi fantoccio. Non sanno come tirarsene fuori senza perdere la faccia e il petrolio di Dick Cheney e altri. L'Iraq è stato pensato e attuato anche come un colossale affare, ma la condizione era che la guerra fosse rapidamente vinta e una guerriglia non sorgesse o fosse facilmente domata. Ancora una volta i famosi servizi di informazione della Cia non hanno capito né previsto. La mancata elezione del senatore democratico e (o ma) guerrafondaio Lieberman è uno spettro che aleggia assai minacciosamente sulle prossime elezioni autunnali di medio termine.

Insomma, c'è uno smuoversi delle ferree posizioni politiche che parevano irriducibili fino a ieri. Forse è anche questo che ha dato coraggio a Kofi Annan. E' stato giusto imboccare questa strada stretta per tentare una svolta in Medio Oriente, se ai primi passi seguirà davvero il ritiro dall'Iraq, e si prenderà in considerazione quello dall'Afghanistan - Non basta un avallo strappato dagli Usa all'Onu a cose fatte, pagine poco gloriose del Palazzo di vetro - e ha sempre meno senso chiamare quella a Kabul una missione di pace. Hanno ragione i deputati di Rifondazione e (per una volta) il rampognato ministro Mastella. Chi scrive non è abitualmente una ammiratrice di Massimo D'Alema, ma la linea di politica estera che sta imprimendo al governo è buona. Sarebbe bello che ci fosse chi fa lo stesso in tema di finanziaria.

Il documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) è ormai un inevitabile tormentone estivo. Alcuni pensano che potrebbe essere evitato, fondendolo con quell´altro davvero inevitabile appuntamento di settembre: la legge finanziaria.

Ma la ragione delle distinzione tra i due momenti mi sembra logica. Nel primo si determinano le linee generali della politica economica del governo e la portata complessiva della manovra finanziaria impegnando, sulla base di una visione globale della situazione economica del Paese, Governo e Parlamento all´osservanza di limiti non più discutibili della spesa e della pressione fiscale. Si fissa così una cornice entro la quale ogni amministrazione dovrà collocare e potrà misurare la portata delle sue esigenze. Tra i due momenti ci deve essere un certo tempo; e quello, per giunta estivo, che corre tra DPEF e legge finanziaria, sembra appena sufficiente.

Il Governo ha assolto il compito relativo alla prima fase. Come? Luigi Spaventa ha illustrato con chiarezza su Repubblica del 27 luglio i meriti del DPEF, nonché gli interrogativi che suscita la manovra macroeconomica prevista; e ai quali si potrà dare risposta soltanto con la legge finanziaria. Problemi che riguardano la coerenza quantitativa della manovra economica che la legge finanziaria dovrà, ovviamente, precisare e verificare.

Vi è poi l´aspetto qualitativo: quello degli obiettivi che si intende dare alla spesa pubblica, con riferimento ai problemi economici e sociali del Paese. Ci si può chiedere se le procedure attraverso le quali le Amministrazioni fissano i loro obiettivi e il Ministro dell´Economia e il Governo, finalmente, determinano le relative priorità, siano i più appropriati per un paese moderno. Io non lo credo.

Negli Stati Uniti e in molti paesi europei obiettivi e priorità della spesa pubblica sono determinate, da tempo ormai, con una procedura di programmazione basata sul calcolo dei costi e dei benefici economici e sociali degli interventi previsti. Questa programmazione strategica per obiettivi, distinta da quella tradizionale amministrativa, per competenze, è un processo permanente, non una sgobbata estiva, che impegna tutti i centri di spesa a dare e a darsi conto con continuità, in termini non solo finanziari e quantitativi, ma economici e qualitativi, dei risultati attesi e di quelli realizzati, valendosi di certi indicatori.

In un libro (Per restare in Europa, Utet, Torino) Franco Reviglio si sofferma ampiamente sulle disfunzioni della spesa pubblica italiana. Per esempio, nel campo della sanità (i fattori patologici della lievitazione sanitaria, la maldistribuzione dei posti letto, i prezzi troppo elevati e le forniture disparate agli ospedali, gli sprechi nell´utilizzo dei farmaci, i lunghi tempi di attesa); nel campo previdenziale ( fattori che determinano una spesa elevata e crescente senza evidenti benefici: numero di pensioni eccessivo, discrasia tra spesa e contributi, eterogeneità di trattamenti e diseguaglianze distributive, onerosità eccessiva del debito pensionistico). E poi le disfunzioni dell´assistenza, dell´istruzione, dei servizi pubblici, qui non voglio farla troppo lunga, meglio leggere il libro. Non dovrebbe, proprio la legge finanziaria essere il momento in cui l´insieme di questi problemi viene misurato, per dar conto concreto dell´efficienza e della equità della spesa pubblica italiana?

Nella nostra legge finanziaria questa elementare esigenza di programmazione viene ridotta alla misurazione della sostenibilità economica della spesa e al vincolo che ad essa è posto (per fortuna!) dalla Commissione Europea. E poiché è ovvio che quel vincolo impone limiti severi alla spesa, si riduce il problema ai «tagli» della spesa, e a come distribuirli tra le varie grandi categorie; senza precisare e misurare le azioni concrete e specifiche dirette ad aumentare la produttività dei servizi e a ridurne i costi. Si è giunti, durante la precedente legislatura, fino alla ridicola pretesa di tagliare la spesa di tutti i Ministeri del due per cento. Questa è stata la programmazione del precedente governo, clamorosamente fallita, del resto, insieme alle furbate e ai trucchi della finanza creativa.

E´ augurabile che il nuovo Governo, così come ha cominciato a fare con le riforme liberalizzatrici, realizzi, con lo sguardo rivolto un po´ al di là delle eterne emergenze, una riforma della legge finanziaria ispirata a quella, da molti anni introdotta in America, della programmazione strategica (strategic planning). Perché non inviare una commissione a Washington (per carità, di dimensioni ridottissime e approfittando del cambio favorevole) di esperti che studino, una buona volta, «il modello americano»? E vedano se, per caso, possiamo imparare qualche cosa, non solo dalla CIA, ma anche dal Bureau of Budget?

Programmazione. Non è un po´ strano che, almeno per quanto riguarda le tecniche, non gli obiettivi, di politica economica, siano gli americani, come sembra, ad applicarla con rigore? Succede.

Noi tentammo, tanti anni fa, di introdurre questo concetto nel lessico italiano. Ci riuscimmo anche troppo. Ma soltanto nel lessico. Quella che si chiama ancora «programmazione» finanziaria non è niente altro che una brutale partita di rugby: una ripartizione delle risorse fondata sui rapporti di forza politici nel Governo e burocratici nell´Amministrazione, arbitrata con antica sapienza dalla Ragioneria dello Stato.

Noi ci provammo a cambiare. Dio sa se non abbiamo fatto delle sciocchezze, frutto di presunzione ideologica e di avventatezza politica. Personalmente, non ho mancato di fare pubblicamente e ripetutamente la mia personale autocritica. Pretendere di controllare i flussi finanziari e gli investimenti delle imprese, figuriamoci!. Ma pretendere di programmare la spesa dello Stato non era giacobinismo, era ragione e rigore finanziario e responsabilità democratica. Ne abbiamo fatti, di errori. Ma abbiamo anche lanciato idee giuste che caddero vittima del cinico e sterile sarcasmo italico sul «libro di sogni». Non solo quando proponemmo la programmazione della spesa pubblica «per progetti». Anche quando, per esempio, disegnammo nel Progetto 80 una visione di pianificazione territoriale nazionale che servisse da guida a una scelta razionale dei grandi investimenti sul territorio (aree urbane, aree verdi, reti dei trasporti e delle comunicazioni) che offriva al Paese uno strumento che gli avrebbe evitato tante ignobili devastazioni; e al Governo criteri oggettivi e coerenti per giudicare i grandi investimenti infrastrutturali; invece di correre da una emergenza all´altra, in una continua serie di stress emergenziali che si risolvono in una deprimente paralisi.

Se, magari seguendo il «modello americano» ci provassimo ad uscire dall´emergenzialismo, per riprendere la strada di una programmazione aggiornata e moderna, che utilizzi le esperienze del mondo e della storia?

Che cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? Che cosa ne pensano il Ministro delle Infrastrutture e il Ministro dei Trasporti?

Una vittoria da non svendere

Che senso ha vincere, se i partiti del Centro-sinistra mediano tra chi ha vinto e chi ha perso. Da il manifesto del 29 giugno 2006

«A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina». E' la famosamassima di un vecchio saggio come Giulio Andreotti, il quale, da buon cattolico, ammette che anche il peccato può essere utile. Sarò diffidente e pessimista, ma sentire ieri le dichiarazioni sul dopo referendum e le riforme istituzionbali di Castagnetti, Violante, Fassini, e anche Prodi,mi ha fatto pensar male. Che cosa vuol dire Castagnetti, quando dice che con l'opposizione, «potrà essere avviata non solo una fase di dialogo, ma di convergenza? » Sulla stessa linea Violante e Prodi: visto che abbiamo vinto, adesso trattiamo con i berlusconiani, non per caso nobilitati a opposizione costituzionale. Questo pericolo era lucidamente enunciato nell'editoriale sul manifesto di ieri di IdaDominijanni: «incassare la vittoria del No come autorizzazione a procedere sulla strada delle riforme perseguite in passato».

Era un rischio implicito nello scarso impegno dei partiti nella campagna per il No. Ma ora i partiti rischiano di esagerare volendosi attribuire una vittoria che è stata soprattutto del popolo e mostrano disprezzo per il voto popolare, quando si dichiarano, già oggi, promotori di una trattativa, che in politica volgare suona solo come «inciucio», parola che mi ripugna. Non faccio appello alla brutale massima «bastonare il cane che affoga », ma non si può nemmeno svendere una vittoria straordinaria, importante e popolare. Una vittoria che non consiste solo nella salvezza della Costituzione del 1946 per salvaguardarne e rinvigorire i contenuti, quelli che sono stati alla base dell'intervento pubblico in una economia che non può essere abbandonata al mercato dei potenti, che poi sono diventati piuttosto impotenti, come conferma lo stato attuale dell'economia italiana e, mi si consenta, anche il peso assai ridotto della Confindustria.

Il voto del 25 e 26 di giugno non può essere messo al mercato per un po' di brutti accordi con una opposizione (fino a ieri definita incostituzionale e oggi risanata nonsi sa perché). Ancora una domanda: con questa disposizione a trattare vogliamo dare ossigeno al berlusconismo che nonè certo un fenomeno superficiale, non è l'invasione degli Iksos, ma un male profondo della nostra società. Il programma elettorale dell'Unione non ci aveva fatto andare in visibilio, tuttavia era qualcosa, alcuni impegni li assumeva: questo non va dimenticato. La vittoria del No è stata più forte di quella delle passate elezioni, è stata - scusate l'ardire - persino più importante. Ha dimostrato che questo popolo italiano si sta liberando dalla fascinazioni berlusconiane e, allora? Allora bisogna aiutarlo a credere che Berlusconi non era tutto male e che può essere utile riprendere una trattativa con la sua banda? La vittoria del No è stata grande, importante e poco favorita dai partiti dell'Unione: è stata una vittoria del popolo italiano. Sforziamoci di evitare che possa diventare oggetto di mercanteggiamenti di basso conio.

La pubblicazione di un piccolo libro e una grande manifestazione popolare, pochi giorni fa, ci hanno messi di fronte a una domanda essenziale per la democrazia. Il libro è La democrazia che non c´è (Einaudi, pagg. 152, euro 8) di Paul Ginsborg, uno studioso assai noto al pubblico italiano per le indagini ch´egli ha dedicato alla realtà italiana con l´attenzione distaccata di chi viene di lontano, ma con la passione di chi è intimamente partecipe dei problemi del Paese che l´annovera tra i professori della sua Università. La manifestazione sono le centinaia di migliaia di persone convenute in piazza San Giovanni a Roma, per protestare contro la legge finanziaria e soprattutto per rinnovare il carisma del leader e di nuovo esibirlo coram populo. Un libro e una manifestazione di piazza: un accostamento già di per sé ricco di simboli rispetto alla domanda. La possiamo enunciare come segue.

La democrazia, nella versione rappresentativa che conosciamo, è una classe politica, scelta attraverso elezioni, che immette nelle istituzioni istanze della società per trasformarle in leggi. È dunque, nell´essenziale, un sistema di trasmissione e trasformazione di domande che si attua attraverso una sostituzione dei molti con i pochi: una classe politica al posto della società. Qui, piaccia o no, c´è la radice inestirpabile del carattere oligarchico della democrazia rappresentativa, carattere che per lo più viene occultato in rituali democratici ma che talora non ci si trattiene dall´esibire sfrontatamente. Ma, al di là di ipocrisia o arroganza, ciò che è decisivo è il rapporto di sostanza che si instaura tra questa oligarchia e la società. Dire "società" è però un parlare per astrazioni, perché essa, in concreto, è fatta di parti diverse tra le quali è inevitabile che la rappresentanza proceda per passaggi selettivi: dal popolo tutto intero agli elettori effettivi, dagli elettori alle assemblee parlamentari, dalle assemblee parlamentari alla loro maggioranza, dalla maggioranza al governo, dal governo al suo capo. Si dice spesso che la classe politica è uno specchio, né migliore né peggiore, del Paese che rappresenta, ma è una banale falsità auto-assolutoria.

La classe politica, ai suoi diversi livelli, è quello che è perché seleziona i suoi riferimenti sociali, illuminandone alcuni e oscurandone altri, stabilendo rapporti con i primi e tagliandoli con i secondi. Per questo, la classe politica non è e non può essere lo specchio della società. Se fosse un semplice rispecchiamento e non una selezione, sarebbe solo una miniatura, mentre la democrazia rappresentativa è tale perché della società la classe politica deve dare una rappresentazione, per poterla governare conseguentemente. Eccoci allora alla domanda: quali sono i riferimenti sociali della nostra classe politica? In breve: che cosa rappresentano i rappresentanti? Questo è il problema qualitativo della democrazia rappresentativa.

Guardiamoci attorno. La classe politica "pesca" dalla società le istanze ch´essa vuole rappresentare per ottenere i consensi necessari a mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell´auto-conservazione delle élite. Che cosa trovano? Aspirazioni di massa al benessere materiale, esigenze di sviluppo e di tutela dei soggetti economici, affermazioni di "valori" immateriali della più diversa natura. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra di loro e al loro stesso interno, che, con i mezzi più diversi, leciti e criminali, cercano di farsi strada e che la classe politica è chiamata a selezionare; un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura. In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o incapacità di allargare e allungare lo sguardo.

Questa summa divisio fa oggi passare in seconda linea altre polarizzazioni politiche. Destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti, sono divisioni importanti, ma vengono dopo e sono interne a quella principale, tra coloro che sanno interessarsi solo al loro presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. È una tipologia del carattere degli esseri umani (la cicala e la formica) che oggi assume un significato eminentemente e drammaticamente politico, a fronte degli interrogativi che pesano sul mondo.

La grande manifestazione e il piccolo libro di cui si è detto all´inizio sono rappresentativi di questa alternativa.

Una parola d´ordine della grande manifestazione - libertà - ha riassunto tutte le altre, e non si è minimamente pensato di farla seguire da responsabilità. Libertà, da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola.

Un popolo di individui liberi e irresponsabili ha i nervi fragili di fronte all´insicurezza per l´avvenire perché avverte, al tempo stesso, di esserne causa senza avere strumenti per affrontarla. Per questo, più di tutto detesta i profeti di sventura e ama chi lo tranquillizza. La paura è uno strumento politico. Per legare a sé questo popolo, per un demagogo non c´è di meglio che, prima, diffondere paura e, poi, dissiparla. Al potere starà non il grande fratello ma il grande rassicuratore. Naturalmente, i motivi di paura reali, di cui non si ha il controllo, quelli occorre minimizzarli o occultarli. Le risorse energetiche sono alla fine? L´inquinamento ambientale è alle stelle? L´acqua scarseggia? I ghiacci polari si sciolgono? La desertificazione avanza? Niente paura. Gli scienziati non sono d´accordo nelle diagnosi e nelle prognosi. L´Aids continua a diffondersi? Nessun problema. Basta non parlarne più. Lo stesso per le inquietudini morali. Paesi interi dell´Africa tropicale muoiono? Le disuguaglianze nel mondo aumentano progressivamente? Forse non è così vero e, comunque, non ci deve importare, perché la colpa è loro e dei loro governi. Continuiamo così liberamente e non facciamoci domande inutili!

Nel nucleo del discorso sulla democrazia che non c´è di Ginsborg troviamo la nozione di società civile, il contrario di tutto questo. L´espressione ha ascendenze filosofiche, illuministiche, hegeliane e marxiane, liberali e gramsciane ma qui non è usata in nessuna di queste accezioni. Se ne prendono elementi diversi per costruire una nozione indicante un ambito di rapporti sociali che si collocano prima e fuori dei rapporti di potere pubblico ma si elevano al di sopra dei meri interessi particolari e pongono al potere politico disinteressate ma stringenti domande.

Per Ginsborg, la società civile è una «società civilizzata», portatrice di suoi valori sostenuti da libere energie di natura non egoistica; è il luogo di coloro che sanno alzare lo sguardo dalla loro pura e semplice convenienza individuale, per vedere più avanti e più in largo. È la società partecipante, che vince la passività e l´indifferenza per i problemi comuni, considerate il segno maggiore di malessere delle nostre democrazie, un segno non contraddetto, anzi semmai confermato dall´alta partecipazione a elezioni vissute come consegna delle difficoltà comuni a qualche grande rassicuratore. L´espressione che più frequentemente ritorna nel libro è «soggetti attivi e dissenzienti»: dissenzienti rispetto all´uniformità antropologica e alla improduttività spirituale indotte dalla società mondiale dei consumi; attivi nell´elaborare valori, punti di vista e bisogni differenziati rispetto a quelli dominanti. Il soggetto della società civile è l´individuo, in quanto però inserito in un «sistema aperto di connessioni». A condizione che possano sprigionare energie sociali al loro esterno, le strutture sociali comunitarie sono viste con favore: associazioni, circoli, club, movimenti di base, organizzazioni non governative nazionali e sopranazionali. L´accento, però, è posto sulla famiglia: una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all´apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico.

Questa società civile è più un obbiettivo da perseguire che un dato che possiamo constatare. In essa è riposta la speranza di una politica non di mera sopravvivenza a breve termine, non appiattita su suicidi interessi solo particolari. Non è un soggetto direttamente politico e sbaglierebbe quindi a candidarsi come forza di governo. È infatti un soggetto pre-politico, più un luogo di elaborazione e confronto di istanze sociali che un luogo di sintesi politica. Ma una classe politica non totalmente dedita alla propria auto-riproduzione farebbe bene a prestare attenzione e, anzi, a valorizzare questa risorsa della vita sociale. È lì che si possono trovare le energie che aiutano a vedere più in là delle piccole cerchie di interessi egoistici. Constatiamo le difficoltà che incontra un governo, quando chiede sacrifici nel presente, per ragioni che guardano al futuro. Dove può sperare di trovare il consenso necessario, se non in questo genere di società civile, ove sia coltivato il senso delle comuni responsabilità? L´alternativa è il circolo vizioso di forze in competizione particolaristica che si votano all´auto-distruzione, senza nemmeno rendersene conto.

In un capitolo del suo libro Collasso (Einaudi, 2005), il biologo e geografo Jared Diamond narra l´affascinante e terribile storia di Pasqua, l´isolotto in pieno Oceano Pacifico, al largo della costa cilena, un tempo rigoglioso di vita e risorse. I suoi abitanti furono presi da una razionale follia che si manifestava in una gara di potenza tra clan su chi costruisse e installasse le più mastodontiche raffigurazioni delle proprie fattezze umane, quelle statue che oggi presidiano insensatamente un paesaggio spettrale e dal mare verso terra fissano i visitatori con il loro sguardo di pietra. Nel corso di tre secoli, questa corsa al successo e al prestigio fece il deserto attorno a loro. Furono abbattuti i grandi banani il cui tronco serviva a muovere i massi scolpiti e a rizzarli nei campi. La vegetazione si ridusse ad arbusti e sparirono gli animali di terra; gli uccelli cambiarono rotta; senza i tronchi per le canoe, anche la pesca cessò.

Finirono con l´abbrutirsi mangiando i ratti e poi divorandosi tra loro. Ci si chiede come abbiano potuto trascinarsi così in basso, addirittura con i loro stessi sforzi, riducendo una terra feconda in un´infelice gabbia mortifera dalla quale, avendo distrutto anche l´ultimo albero che sarebbe servito per l´ultima imbarcazione, finirono per non poter andarsene via. Una società tanto cieca rispetto al suo avvenire, si dice debba essersi fidata fino all´ultimo delle parole di qualche grande assicuratore che, per non dispiacere al suo popolo e farlo credere libero di proseguire nella sua follia, non usava altro che parole di ottimismo, parole con le quali gli impedì di alzare la testa e aprire gli occhi.

Prima sono arrivate le telefonate anonime; poi, le minacce di morte, infine, la scorta e l’esilio lontano dalla sua città. Tutto è cambiato per Roberto Saviano, 28 anni, da quando ha pubblicato il suo primo libro, "Gomorra", che ha già venduto 300mila copie. Fino ad allora, la sua vita era stata relativamente tranquilla. Viveva a Napoli, amava percorrere le strade sulla sua Vespa e seguire le trame criminali. La camorra era, e continua a essere, la sua ossessione. Dedicava tutto il suo tempo a rivedere gli incartamenti giudiziari, si sintonizzava sulla radio della polizia per arrivare sul luogo del delitto insieme alle pattuglie.

"El País" lo ha intervistato nel suo rifugio, mentre a Napoli si scatenava una nuova guerra tra camorristi e si lanciava l’ennesimo allarme per l’aumento della criminalità mafiosa.

Qual è la differenza tra la mafia siciliana e la camorra napoletana?

«La mafia siciliana ha una struttura piramidale e la Camorra l’ha orizzontale. Entrambi i sistemi si rapportano in maniera diversa al potere politico. Il meccanismo mafioso è semplice e si riduce al binomio appalti-mafia. Vale a dire che la mafia, tramite la politica, ottiene appalti pubblici (edilizia, raccolta dei rifiuti, ospedali, ecc.). La camorra, invece, funziona con una logica ultraliberale il cui fulcro non è l’appoggio dei politici. Ciò rende la camorra più flessibile e più imprevedibile. Non può esistere nella camorra un boss che abbia il monopolio dei prezzi, perché se lo facesse sarebbe assassinato o arrestato. Un esempio: Sandokan Schiavone a un certo punto aveva monopolizzato l’usura, il prezzo del cemento e il prezzo del latte. Fu arrestato. Altri boss arrivarono e il prezzo del latte tornò a scendere».

Quindi nella camorra non possono esistere boss come Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra per decenni?

«No, è molto difficile. Un boss che mantiene il potere fino ai 70 anni e, inoltre, con quel carisma ... È stata molto significativa la vicenda di Provenzano, lo hanno scovato nella sua casa. Viveva in condizioni indecenti. Anche Sandokan Schiavone fu trovato nel suo paese nascosto sotto la sua casa. Ma lì non aveva una cantina, ma un palazzo».

I boss della camorra l’affascinano in qualche modo?

«La struttura criminale è molto più importante degli individui. Ma le personalità semplici hanno per me, che sono uno scrittore e non un giornalista, un valore letterario enorme. Penso a Augusto la Torre, il boss psicoanalista, che parlava citando Lacan. O a Giuseppe Misso, che ha scritto diversi libri. O a Luigi Volla, soprannominato Il Califfo, che ama i quadri di Botticelli. O a Sandokan Schiavone, che possedeva una vasta biblioteca dedicata a Napoleone ... Sono stato accusato spesso di essere vittima del loro fascino e in qualche modo è così. Mi sono lasciato prendere dal carisma di questa gente per poterlo raccontare. Perché sono i miei miti, i miti del posto in cui sono cresciuto. Per capire i boss, ho dovuto guardarmi allo specchio, più che guardare loro».

Si è lasciato ossessionare dalla camorra?

«Sì. E credo che uno scrittore debba ossessionarsi con ciascuno dei suoi libri. Se avessi scelto di scrivere di cavalli, avrei visto muscoli, tendini, figure in velocità e metafore equine ovunque. Ma ho scelto di raccontare la mia epoca e la condizione umana attraverso la camorra. Mi sono lasciato ossessionare da queste storie perché sono una loro vittima, perché sono cresciuto in quel luogo».

Se potesse tornare indietro, lo scriverebbe Gomorra?

«No. E non per le minacce, ma per quello che esse hanno comportato: il comportamento degli editori e di molte persone vicine. La solidarietà è solo una parola».

(Copyright El País-La Repubblica

traduzione di Guiomar Parada)

La cancellazione delle rappresentazioni dell´"Idomeneo" a Berlino solleva l´importantissima questione della nostra percezione del mondo musulmano, argomento che non è stato affrontato in modo soddisfacente. La rappresentazione – alla quale non ho assistito e sulla quale non sono pertanto in grado di emettere un giudizio – è stata temporaneamente eliminata dal cartellone di questa stagione del Deutsche Oper, perché conteneva qualcosa che avrebbe potuto offendere o insultare alcune persone le quali, di fatto, non è assolutamente necessario che vi assistano.

Un governo ha il dovere di proteggere i propri cittadini dai rischi della violenza e del terrorismo, ma un teatro ha il dovere di proteggere il proprio pubblico da espressioni artistiche che potrebbero essere interpretabili come infamanti? Il legame tra espressione artistica ed associazioni mentali che essa evoca non è dissimile dal legame esistente tra sostanza e percezione. Troppo spesso noi alteriamo la sostanza per adeguarla alla sua percezione. Naturalmente, non vi è modo di determinare le associazioni evocate dall´arte, in quanto si tratta di una prerogativa esclusiva dell´individuo. In ambito musicale la differenza tra contenuto e percezione è fornita dallo spartito scritto. Nel teatro o nell´opera, nei quali non esiste una partitura per la direzione di scena, la responsabilità esclusiva ricade sul regista.

L´essenza stessa del ruolo del teatro nella società è la sua capacità di rimanere in dialogo continuo con la realtà, indipendentemente dall´impatto che esso può avere sugli avvenimenti reali. Questa forma di dialogo non è segno di coraggio come non è segno di codardia, ma deve nascere dalla necessità interiore ad esprimersi di un individuo o di un´istituzione. Limitare la propria libertà di espressione per paura è tanto inconcludente quanto imporre il proprio punto di vista con la forza marziale.

L´arte non è né morale né immorale, non è né edificante né offensiva: è la nostra reazione ad essa a renderla una cosa oppure l´altra nel nostro intendimento. La nostra società sempre più considera la controversia una caratteristica negativa, quando al contrario la divergenza di opinioni e il contrasto tra il contenuto e la sua percezione costituiscono l´essenza stessa della creatività. Se il contenuto può essere manipolato, la percezione può esserlo in misura doppia. Censurandoci sul piano artistico per la paura di offendere un determinato gruppo di persone non soltanto poniamo limiti al pensiero umano in generale - invece di espanderlo e dilatarlo -, ma di fatto infliggiamo un oltraggio all´intelligenza di una vasta parte di musulmani, privandoli dell´opportunità di dimostrare la loro maturità di pensiero. Tutto ciò è in antitesi assoluta con il dialogo, ed è una conseguenza dell´incapacità a effettuare una distinzione tra i molti e diversi punti di vista esistenti nel vasto mondo musulmano.

L´arte non ha nulla a che vedere con una società che respinge quelli che io definirei standard di intelligenza ufficialmente accettati, come avveniva nell´antica Grecia, imboccando invece la scorciatoia della correttezza politica, che in realtà nella sua sostanza non è diversa dal fondamentalismo nelle sue molteplici manifestazioni. Sia la correttezza politica sia il fondamentalismo forniscono risposte non al fine di migliorare la comprensione, bensì allo scopo di eludere le domande. Quando si agisce per paura non si placano i fondamentalisti - che ad ogni buon conto non hanno alcuna intenzione di lasciarsi placare -, e non si incoraggiano neppure i musulmani illuminati che si prefiggono di dialogare e migliorare. Al contrario: si emarginano tutti i musulmani, rendendoli parte del problema piuttosto che partner alla ricerca di una soluzione. Questa sconvolgente mancanza di differenziazione insulta e al contempo svigorisce la nostra società, estromettendo la fruttuosa partecipazione di elementi fondamentali e consentendo al seme della paura di attecchire e di tramutarsi in una foresta di panico. Privando la società di questo dialogo essenziale, continuiamo di fatto ad alienare le persone la cui collaborazione pacifica è indispensabile per un futuro senza violenza.

Forse il mondo musulmano avrebbe bisogno di un equivalente moderno di Spinoza, in grado di spiegare la natura dell´Islam nello stesso modo in cui Spinoza seppe esprimere la natura del pensiero giudeo-cristiano, rimanendo a uno stesso tempo fuori di esso e arrivando perfino a negarlo. La decisione di non rappresentare l´"Idomeneo", in definitiva, è la decisione di non distinguere tra illuminati ed estremisti, tra intellettuali e dogmatici, tra popoli culturalmente interessati e popoli di vedute ristrette, di qualsiasi origine e religione essi siano. Per la precisione, rifiutare di permettere di vedere certe rappresentazioni è proprio la paura che gli elementi violenti del mondo musulmano vogliono che noi abbiamo.

Come ho detto all´inizio di questo articolo, non ho assistito a questa produzione. Posso soltanto sperare che Neuenfels ritenga l´esibizione delle teste mozzate di Gesù, Maometto e Budda una necessità interiore assoluta della partitura di Mozart. Forse, egli avrebbe dovuto far sì che le teste decapitate prendessero la parola, così da poter perorare il riconoscimento della grande saggezza e della forza di pensiero che tutte insieme, collettivamente, esse rappresentano.

(traduzione di Anna Bissanti)

L'Europa che non s'è fatta a Bruxelles e Strasburgo, l'Europa bocciata dai civili a Parigi e ad Amsterdam, si farà invece con i militari a Beirut? Certo, c'è da sostenere la missione dei caschi blu, augurandosi contro ogni pessimismo della ragione che sia effettivamente una missione di pace. Certo, c'è da essere soddisfatti che l'Italia, la Francia, la Germania parlino finalmente, sia pure con differenze di tono non lievi, una lingua comune; che a riattivare questa lingua abbia contrubuito in modo rilevante il tandem italiano D'Alema-Prodi; che questa lingua possa contrastare e debilitare quella dell'unilateralismo e della guerra preventiva di Bush, alla quale il precedente governo italiano si era adeguato. Meno soddisfa tuttavia dare ragioni a quanti, nel processo di costituzione europea, hanno sempre messo al primo posto la moneta e al secondo l'esercito e la difesa, come se forza economica e forza militare fossero i due principali, se non unici, pilastri della formazione della «potenza» europea, e come se l'Europa potesse esistere solo in termini di forza e di potenza. Un'Europa più politica, impiantata su pilastri diversi (rappresentanza, stato di diritto, stato sociale, cultura, memoria), non sarebbe meno forte e potente, ma solo più capace di contrasto rispetto ai modelli oggi imperanti della forza e della potenza. E di «quale» Europa è in gioco è bene che non ci si dimentichi nel plaudere alla sua presenza nel teatro mediorientale. Dove non ne va e non ne andrà solo di techiche militari e regole d'ingaggio: ne va e ne andrà per l'appunto di sensibilità politica e sociale, di intelligenza storica, di capacità di dialogo, di senso del diritto, di volontà di rispondere delle strategie geopolitiche ai cittadini continentali. Sul campo non si misurerà solo la forza, ma l'idea d'Europa e l'immaginario europeo; con alle spalle il peso di un passato europeo drammatico e diviso, e di fronte i ritorni europei di antisemitismo e di islamofobia. Per quanto ci accontentiamo per ora di contare navi e soldati e di ponderare le strategie politiche, sappiamo sin d'ora che tutto questo non sarà il contorno ma il contesto della missione, un contesto che la missione rimetterà in movimento non nel teatro mediorientale ma in quello europeo. Un tratto del processo di costituzione europea che si farà e si sta facendo fuori dai confini europei.

Non l'unico, del resto. Per quanto l'impaginazione dei giornali e dei telegiornali le tenga rigidamente divise, dovremmo sforzarci di connettere le immagini dei soldati europei in partenza sulle navi per il Libano con quelle dei migranti africani in arrivo sulla carrette del mare alla porta europea di Lampedusa. Da una parte uomini in divisa, dotazioni tecniche, schemi di tattica militare e visioni geostrategiche; dall'altra uomini, donne e bambini nudi, cadaveri lasciati in mare e corpi sopravvissuti per caso, e nessuna tattica né strategia di vita, solo una vaga speranza in una possibilità migliore. Da una parte l'Europa degli stati che esce dai suoi confini, dall'altra popolazioni che premono ai suoi confini, li violano, li forzano. Non solo a Beirut ma anche a Lampedusa è in gioco l'idea di Europa. Non solo nel «peace making» in medioriente ma anche nell'accoglienza dell'altro sul continente si misura la civiltà europea. Non solo sulle navi dei «nostri soldati» ma anche sulle carrette del mare si riformula l'immaginario europeo: non diversamente da come sulla navi dei nostri emigranti, nelle traversate transatlantiche d'inizio secolo, si riformulò l'immaginario dell'America, e quello dell'occidente nel suo insieme fra nostalgia delle origini e sogno del mondo nuovo, fra speranze di accoglienza e frustrazioni razziste.

Dobbiamo sforzarci di connettere queste due immagini perché è duplice e doppia la possibilità che per l'Europa si apre fuori dai confini europei. Duplice e doppia, funzionerà solo se li romperà, non se li rafforzerà, e se scuoterà, non se confermerà, l'identità del vecchio continente. Spogliata delle sue divise, esposta ai rischi della navigazione in mare, dei suoi imprevisti, dei suoi ospiti inattesi.

Dieci palazzi di Beirut abbattuti per ogni missile lanciato su Haifa. È la rappresaglia ordinata dallo Stato maggiore israeliano contro i quartieri meridionali della capitale libanese, roccaforte di Hezbollah. A riferirlo alla radio militare un’ufficiale dell’aviazione che racconta come a dare l’ordine sia stato lo stesso capo di Stato Maggiore: «Il generale Dan Halutz ha ordinato di distruggere dieci immobili di più piani nei sobborghi meridionali in risposta a ciascun lancio di missili su Haifa».

La notizia, inizialmente passata quasi inosservata, provoca la protesta dell’Associazione per i diritti civili in Israele. In una lettera al ministro della difesa Amir Peretz, gli attivisti israeliani chiedono chiarimenti sull’ordine che avrebbe impartito Halutz: «la vendetta non può giustificare azioni militari – si legge nella lettera - una politica sistematica volta a terrorizzare la popolazione civile è vietata dal diritto internazionale e in casi estremi rischia di essere qualificata come un crimine di guerra».

La smentita e i precedenti

Dopo qualche ora il portavoce militare smentisce «in maniera categorica» che il capo di stato maggiore abbia mai emesso l'ordine di abbattere edifici nel rione sciita Dahya di Beirut come ritorsione. «Si tratta di una notizia totalmente infondata» spiega alla televisione commerciale israeliana Canale 10, che aveva espresso perplessità sull’operazione.

Fatto sta che il generale Halutz era finito altre volte sui giornali per le proteste di attivisti e militanti della sinistra israeliana. In particolare nell'agosto dle 2002, quando il generale era ancora vicecapo di stato maggiore, fece sensazione una sua intervista al quotidiano Haaretz in cui sembrava minimizzare la uccisione di 14 civili palestinesi in un raid a Gaza ( l’intervista è ancora on line). Tanto che al momento della sua nomina al comando delle forze armate di tel Aviv gruppi umanitari ricorsero in appello alla Corte Suprema di Gerusalemme. Ovviamente senza esito.

Pacifici: «comunque sono solo palazzi»

Comunque sia c'è, anche in Italia, chi non si meraviglia troppo di una punizione collettiva che evoca «le tecniche naziste». «Sono felice della smentita ma parliamo di palazzi e non di persone - è infatti la dichiarazione di Riccardo Pacifici, esponente della destra e portavoce della Comunità ebraica di Roma - chi vuole mettersi in salvo può farlo perché‚ l' aviazione israeliana avverte prima di bombardare».

In un passo della Storia d´Italia dal 1871 al 1915 Croce - a commento delle clamorose vicende a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 dell´Ottocento legate allo scandalo della Banca Romana e ai suoi molteplici sviluppi politici e giudiziari che avevano profondamente turbato l´opinione pubblica, rivelando una vasta trama corruttiva la quale, una volta messo in luce il coinvolgimento di ambienti finanziari, uomini di governo, parlamentari, funzionari, giornalisti, si era conclusa con la riforma del disordinato sistema bancario grazie alla creazione della Banca d´Italia nel 1893 - scriveva quanto segue. Che i fenomeni corruttivi sono «cose di tutti i tempi e di tutti i paesi», che «in certi tempi e in certi paesi si addensano e scoppiano in modo grave», e che «il male vero si ha» quando essi «non danno luogo alla reazione della coscienza onesta, e al castigo e alla correzione». Croce riteneva che lo scandalo romano si fosse chiuso infine positivamente con la riforma bancaria, senza però mostrare sensibilità per il fatto che la magistratura, soggiacendo alle pressioni politiche, avesse ridotto l´opera della giustizia a un colabrodo. Il che aveva invece ben colto, proprio nel corso di quegli eventi, Giolitti, trascinato anch´egli nel ciclone. Il quale in un lettera rivolta al re Umberto I usò parole di amara lucidità, che sembrano davvero valere oggi come ieri, e che avrebbero potuto e dovuto essere riscritte pressoché ad ogni tornata degli scandali che hanno segnato la storia d´Italia: «L´assolutoria scandalosa di ladri di milioni ha fatto pur troppo una triste reputazione al nostro paese, e ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi delinquenti. Ora si aggiungerà la prova che i grossi delinquenti in Italia, oltre ad essere assolti, possono con i milioni rubati far processare coloro che li avevano scoperti, denunciati e messi in carcere». Dal canto suo Cavallotti con la Lettera agli onesti di tutti i partiti del giugno 1895, denunciando quella che definiva l´apertura di una vera e propria "questione morale", apriva il primo capitolo di un libro destinato a non chiudersi più. Non poteva egli allora immaginare con il suo appello al fascio degli onesti di essere il precursore di un altro grande bardo della questione morale ovvero di Berlinguer, il quale quasi un secolo dopo, reagendo agli inizi degli anni ‘80 a quelle ondate devastanti e maleodoranti costituite dall´"affare Sindona", dalla bancarotta dei Caltagirone, dalla faccenda dell´Italcasse, dalle truffe dei petrolieri, dal bubbone della P2, avrebbe preso a invocare il governo degli "uomini capaci e onesti dei vari partiti e anche al di fuori di essi".

Ora a dichiarare che ci troviamo di fronte per l´ennesima volta alla questione morale è in prima linea il Presidente della Camera. Ciò che sta alle spalle di questa ultima denuncia è la fitta serie di scandali aventi per oggetto negli ultimi anni, per nominare solo le punte dell´iceberg, le vicende della Cirio, della Parmalat, del gruppo Previti, degli assalti alle banche da parte della compagnia dei "furbetti" con relative complicità in Banca d´Italia, delle società di calcio, della Rai, per arrivare alla tragicommedia degli ultimi Savoia. Tutto ciò avvenuto dopo i grandi atti di corruzione che Tangentopoli aveva portato alla luce: quella Tangentopoli che aveva rotto la tradizionale subalternità della maggior parte della magistratura al mondo dei mali affari, aveva fatto sperare in un profondo risanamento il quale è risultato nulla più se non una breve tregua prima che, dissipatasi l´illusione e superata la paura degli affaristi nel favorevole clima politico del centrodestra al governo, il fiume melmoso riprendesse il suo corso. Unico elemento controcorrente, bisogna dire, è stato il dato di grande significato che i giudici non hanno piegato la schiena, affrontando una lotta frontale con i potenti pronti sempre a seminare la corruzione e a pescare nel torbido.

Dunque, la "questione morale" si presenta come il filo rosso di un´irrisolta questione nazionale. Le scene del teatro cambiano con lo scorrere del tempo, si aggiornano, ma lo sfondo, la sostanza è sempre la stessa. È l´intreccio tra affari e politica, tra dilagante mancanza del senso della legalità e disprezzo dell´etica pubblica, tra l´inesausta e patologica avidità di danaro comunque acquisito e l´uso di qualunque mezzo per ottenerlo. Ma alle spalle di tutto ciò sta, proprio come affermava Giolitti, la convinzione dei delinquenti di poter contare su una diffusa rete di complicità, di essere in grado di far valere gli opportuni ricatti in forza di grandi complicità e chiamate di correo, di riuscire a sfuggire alle giuste pene o comunque, quando inevitabile, di sottostare a pene modeste, lanciando il perverso messaggio che esiste una giustizia per i ricchi e una per i poveri. Così stando le cose, si vede bene che la questione morale è nella sua essenza una questione politica, che l´appello agli onesti è tanto necessario quanto insufficiente, che la piaga della corruzione la si può combattere unicamente per mezzo delle leggi, che le leggi non bastano se non vengono applicate con la forza capace di costituire davvero un deterrente.

Il rinvigorirsi dell´etica privata e pubblica non sarà mai perseguibile senza gli esempi di giustizia che danno credibilità ai buoni propositi. E per questo ci pare di dover dire, in relazione ai progetti di amnistia, che un´amnistia a larghe intese che comprendesse anche i reati di corruzione, di saccheggio delle risorse comuni, rappresenterebbe un messaggio ulteriormente inquinante. Ci pensi il nuovo Guardasigilli, e ci pensi con lui la nuova maggioranza di governo.

Mancanza di chiarezza

Luciano Gallino - la Repubblica, 8 dicembre 2006

Quasi certamente non saremmo qui a discuterne se l´evento non si fosse verificato a Mirafiori, luogo simbolo del movimento sindacale. Ma le voci di dissenso che in modo civile, benché non per questo meno netto, gli operai hanno levato ieri nei confronti dei "loro" segretari generali Angeletti, Bonanni ed Epifani, sono risuonate precisamente in quel luogo, dove le tre confederazioni hanno gli iscritti su cui possono maggiormente contare. Dunque è bene parlarne.

E a parte le contestazioni verbali, che possono essere dettate a caso dagli umori del momento, val la pena di soffermarsi su un passo dell´ordine del giorno, che si può supporre meglio meditato, presentato nelle assemblee degli operai tenutesi a Mirafiori: "Noi lavoratori… riteniamo questo silenzio del sindacato sulla Finanziaria incomprensibile. E chiediamo che eventuali accordi su pensioni e Tfr siano sottoposti al nostro giudizio". Con questo odg i lavoratori esprimono il timore che la Finanziaria abbia ricadute impreviste, conseguenze forse negative, in merito alla loro condizione sul lavoro, al di fuori di esso, e dopo di esso. E si stupiscono che i sindacati non si siano fatti maggiormente sentire dal governo per ottenerne assicurazioni precise, se non anzi mutamenti di impostazione della legge.

I segretari generali hanno risposto con la grinta e la competenza che tutti gli riconoscono. Però quel passo dell´odg operaio un paio di problemi ai sindacati li pone. E anche al governo. Anzitutto, se i lavoratori trovano incomprensibile il silenzio del sindacato sulla Finanziaria, la spiegazione più plausibile è che in prima battuta sia questa ad apparire incomprensibile alle persone comuni. Di certo le segreterie generali posseggono mezzi adeguati per decodificare la Finanziaria e prevederne le conseguenze a medio e lungo termine sulle persone. Quasi tutti, tra il centinaio di articoli che compongono la legge, rinviano ad altri articoli di altre leggi, che per essere letti e compresi, risalendo volta per volta alle fonti, richiedono il lavoro di buon numero di esperti. Per il singolo che di tali mezzi non dispone essa rimane un messaggio cifrato. La conseguenza è che il sindacato si trova sospinto nella situazione di dover parlare pressappoco come il governo, ricorrendo ad analoghe formule generiche e reiterate all´infinito per giustificare il fatto di non essere intervenuto con decisione nella formulazione della Finanziaria, quali la necessità di rimettere ordine nei conti pubblici, promuovere lo sviluppo e l´equità, e recuperare fondi da destinare a investimenti. Mentre le domande che girano nella mente delle persone sono se avrò qualche euro in più o in meno sul foglio dello stipendio, rispetto ai soliti 1200 o giù di lì, a quanto ammonterà la mia pensione, quando potrò andarci (in pensione), e che fine farà il mio Tfr.

E´ qui che affiora l´altro problema prospettato dall´odg delle assemblee di Mirafiori. Nella lunghissima discussione intorno alla Finanziaria è venuto fuori che il capitale rappresentato dal Tfr non optato, ossia non esplicitamente destinato a un fondo pensione, potrebbe venir gestito prima dall´Inps e poi dal Tesoro, per essere alla fine investito in opere pubbliche. Anche su questo punto occorre riconoscere che, a fronte di tali intenzioni del governo, i sindacati non hanno esattamente battuto i pugni sul tavolo per ribadire un principio: il Tfr è una parte differita ma integrante del salario, quindi rappresenta una proprietà esclusiva del lavoratore. Il quale può anche pensare di destinarlo a qualche forma di investimento, ma conservando il diritto di decidere dove indirizzarlo, in quale misura, e fino a quando. Così come potrebbe pensare di lasciarlo per intero all´Inps, però non per effettuare investimenti, bensì per accrescere la quota pubblica della propria pensione, anziché affidarlo a un fondo pensione privato.

Ci sarebbero stati insomma diversi motivi per indurre i sindacati a prendere posizione in modo più determinato allo scopo di ottenere dal governo modifiche della Finanziaria che fossero, a un tempo, un po´ più favorevoli ai lavoratori, almeno in tema di pensioni e mercato del lavoro, e un po´ meno criptiche circa i loro possibili effetti. La chiarezza delle leggi agli occhi dei cittadini non è un ornamento della democrazia; è una parte integrale di essa. In modo nemmeno troppo indiretto, i lavoratori di Fiat Mirafiori si sono permessi di ricordarlo ai sindacati per cui in massa votano.

La rimozione delle tute blu

Ilvo Diamanti - la Repubblica, 10 dicembre 2006

Hanno sollevato sorpresa le critiche espresse, in modo civile e misurato, dagli operai della Fiat a Mirafiori nei confronti dei segretari delle confederazioni sindacali. Perché segnalano un contrasto fra il sindacato e la sua base "storica". Perché rivelano incomprensioni da parte degli stessi ceti che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero beneficiare maggiormente della finanziaria. Ma soprattutto perché abbiamo assistito al "ritorno degli operai". Se ne erano perse le tracce, da tempo, nel dibattito pubblico. E, poi, sui media, come nella ricerca e nella riflessione economica e sociale. Parevano scomparsi. Lo stupore sollevato dall´episodio di Mirafiori costringe a riflettere.

Prima ancora che sui contenuti della protesta, sui motivi del nostro stupore. Perché gli operai non fanno più notizia?

Si potrebbe rispondere, in primo luogo, che la loro immagine si è sbiadita perché essi sono effettivamente in declino, come categoria professionale. Soprattutto quelli della grande impresa. A Mirafiori, ad esempio, l´occupazione è calata dei due terzi dopo la "mitica" marcia dei quadri, che decretò la sconfitta del sindacato "operaio", nell´autunno del 1980. Da circa 60mila a poco più di 14mila.

Tuttavia, gli "operai", nel 2005, secondo l´Istat erano ancora otto milioni. Un terzo degli occupati complessivi, la metà dei lavoratori dipendenti. Anche limitandoci alla sola industria manifatturiera, si tratta di circa 3 milioni di persone. Molti, comunque.

Se non li vediamo, se sono stati "rimossi" dalla scena pubblica, i motivi sono altri.

1. In primo luogo, la loro crescente dispersione, in una struttura produttiva diffusa, fatta di piccole e piccolissime aziende. Gran parte dei nuovi occupati, peraltro, accede attraverso lavori intermittenti, a tempo. Le attività più usuranti, più faticose, sono svolte dagli stranieri. I legami di solidarietà, ma anche di "comunità", dunque, si sono persi. O meglio, dispersi.

2. Ne consegue un evidente deficit di rappresentanza. Ormai nessuno più parla di sindacati "operai". D´altra parte, i caratteri dell´occupazione operaia rendono sempre più difficile, al sindacato, il compito del reclutamento. Il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti, nell´industria e nell´impiego privato, infatti, è progressivamente sceso. Oggi si colloca intorno al 35%. Ciò vale anche per la Fiat e per Mirafiori, dove il grado di adesione sindacale non è mai stato elevatissimo. Oggi, nel sindacato è divenuta maggioritaria la componente dei pensionati. Anche così si spiega la reattività sul tema delle pensioni. Mentre la vertenza sul contratto dei metalmeccanici è durata anni, senza produrre pari coinvolgimento.

3. Gli operai hanno minore visibilità di un tempo anche perché le loro tradizionali forme rivendicative hanno perduto efficacia. Gli scioperi aziendali e/o generali non "danneggiano" più come un tempo le grandi aziende (nelle piccole, perlopiù, non si fanno). Che hanno largamente delocalizzato il loro tessuto produttivo in altri Paesi. L´azione di protesta, invece, si è progressivamente "terziarizzata" (come ha osservato Aris Accornero). Non solo perché si è spostata nel settore "terziario", ma perché, insieme, tende a scaricare i propri effetti sui "terzi". Sui cittadini. Sugli utenti. Gli scioperi più efficaci, infatti, riguardano i trasporti urbani, ferroviari, aerei. I taxi oppure le banche, le poste. Perché generano disagio collettivo.

Ed entrano nel circuito "mediatico". Un elemento decisivo, ai fini dell´efficacia della protesta, perché influenza negativamente l´opinione pubblica. Alimenta la sfiducia e il dissenso. Esercita, per questo, pressione politica.

Per cui, i controllori di volo o i tassisti (romani), che sono pochi, di numero, ma agiscono in punti nevralgici della comunicazione (in senso lato), ottengono più ascolto degli operai metalmeccanici. Ai quali, per farsi vedere e sentire, non resta che uscire dalla fabbrica e adottare forme di lotta "non convenzionali". Occupare stazioni ferroviarie, attuare blocchi autostradali.

4. Tuttavia, tutto questo non basta, ancora, a spiegare la scomparsa degli operai, dalla scena e dall´immagine pubblica. Importante, a questo fine, pare il declino della loro identità sociale. Negli anni Settanta, dirsi operai - meglio: classe operaia - era motivo di orgoglio. Il segno che gli ultimi non erano più tali. Uscivano dalla solitudine e dalla loro marginalità sociale. Ottenevano un riconoscimento, una immagine comune. Oggi non è più vero. Per vent´anni, fino agli anni Novanta, abbiamo assistito al trionfo del mito dell´imprenditore. Nel quale si identificavano tutti i lavoratori autonomi indipendenti. I non-dipendenti. Negli ultimi mesi, è riesplosa la questione dei ceti medi. A differenza di quando, oltre trent´anni fa, Paolo Sylos-Labini, fornì loro definizione e misura, oggi i ceti medi appaiono quanto mai in-definiti e vaghi. Una formula usata, spesso, con finalità polemiche e di propaganda. In cui confluiscono figure diverse. Lavoratori autonomi, piccoli proprietari, partite IVA, impiegati. Un po´ alla rinfusa. Associati, nel linguaggio comune, alla "protesta" e alla "delusione".

Così, gli operai sono finiti ai margini. Anzi: fuori scena. La "classe operaia": una parola vecchia. Sostituita dai "nuovi ceti popolari" (ne hanno scritto, di recente, Magatti e De Benedettis). Che riassumono flessibilità nel lavoro, incertezza e vulnerabilità sociale. Cococo, contrattisti a progetto, lavoratori part-time e intermittenti, reclutati per telefono. Un´area che cresce, forse, più nella percezione che nella realtà. Al contrario degli operai.

Eppure, questa sottovalutazione, secondo noi, più della loro invisibilità, riflette la cecità nostra e di chi dovrebbe "rappresentarli". Gli operai, infatti, non sono solamente una "categoria" ampia del nostro sistema produttivo (tra i pochi che ancora "producono"…), ma:

a) forniscono ancora una identità condivisa. Visto che il 34% degli italiani, per definire la propria posizione parla, appunto, di "classe operaia" (Osservatorio Demos-Coop, maggio 2006). Mentre solo il 6% richiama i "ceti popolari".

b) pesano in modo rilevante, sugli orientamenti elettorali. Il recupero del centrosinistra nel 2006, rispetto al 2001, è avvenuto, infatti, soprattutto grazie allo spostamento elettorale, a suo favore, dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (come rileva Roberto Biorcio, nel recente volume di Itanes, Dov´è la vittoria?, Il Mulino).

c) e soprattutto, "rappresentano" una parte della società ampia. A cui il programma dell´Unione ha dedicato grande attenzione. L´80% dei lavoratori dipendenti in Italia, nel 2004, dichiarava un reddito complessivo (inclusivo di abitazione etc.) inferiore a 25.000 euro annui lordi. Dunque, sotto i 1.500 euro mensili (inclusi premi ecc., per tredici mensilità). Gli "operai" (ai gradini bassi del lavoro dipendente) rappresentano (come ha suggerito l´economista Bruno Anastasia) il "popolo di quelli che guadagnano 1.200 euro al mese". Poco più, ma anche (spesso) poco meno. E, per sopravvivere, sono costretti a praticare lavori e lavoretti. Quando è loro possibile. (Non tutti hanno il privilegio del "nero"). Oppure, se non dispongono di altre entrate in famiglia, se non hanno casa di proprietà, procedono navigando a vista.

L´insoddisfazione degli operai di Mirafiori nei confronti del sindacato riflette la precarietà di questa parte della società, più ampia di quanto non si immagini. Esprime, inoltre, una domanda di rappresentanza, particolarmente esplicita, verso un governo considerato "amico". Perché il problema non è solo di "recuperare", dalla revisione della curva dell´Irpef, qualche decina di euro, che rischia di venire riassorbita dalla pressione di altre tasse, in ambito locale. Più importante, forse, è evitare che le loro voci risuonino come echi di un passato che non si rassegna a passare. Per non rimuovere, insieme agli operai, anche le questioni che essi sollevano.

Napoli, Napoli, Napoli. Parlano tutti. La camorra uccide. La città ha paura e si interroga. Lo Stato corre ai ripari. Mentre due vecchi viceré dei disastri andati tentano un’operazione impossibile. Un mostruoso lifting della loro storia di uomini che a Napoli hanno gestito il potere per un ventennio e più. In un colpo solo quei due uomini provano a far dimenticare ad una Italia smemorata cosa furono «i loro anni». «Questo qui è peggio di noi» hanno sentenziato Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino ai cronisti che gli hanno chiesto lumi e giudizi su Bassolino.

«Quando a Napoli c’eravamo noi», è il ritornello recitato in questi giorni con patetica nostalgia da don Antonio e da Paolo «’o ministro». I cronisti annotano, si compiacciono dell’innocente «ciciniello» (l’abnorme anello infilato sul dito di Gava gioia e dolore delle tumide labbra dei fedelissimi) e della colorita parlata di Pomicino e passano oltre. «Scurdammece ‘o passato».

Anni Ottanta. Il terremoto. Anni Novanta. Il sacco di Napoli. 24 giugno 1993, la giunta comunale della città dichiara lo stato di dissesto del Comune. 12 agosto, il Capo dello Stato accoglie la richiesta del ministro dell’Interno di sciogliere il Consiglio. Il sindaco della città, Tagliamonte: «Siamo decisi ad assicurare la governabilità...». Su 80 consiglieri comunali del consiglio eletto nel ‘92, 18 sono raggiunti da ordini di cattura. Sette del Psi, 5 Dc, 2 repubblicani, 2 liberali, 1 a testa per Pds e Msi. Nel calderone della Napoli bollente di quell’anno finiscono anche 2 consiglieri provinciali (un liberale e un Dc), 13 consiglieri regionali (7 Dc, 5 Psi, 1 Pli). «Tutti questi amministratori - si legge nella relazione sulla camorra della Commissione parlamentare antimafia del 21 dicembre 1993 - sono stati coinvolti in vicende giudiziarie connesse alla loro attività di governo e spesso in concorso con elementi della camorra». Questo accadeva nei tempi d’oro dell’«eravamo meglio noi».

Era la Napoli di Gava e Pomicino, dove la camorra era fortissima. Organizzata. Politica. Violentissima: 2621 omicidi, il 21% degli assassinii di tutto il territorio nazionale, dal 1981 al 1990. I clan sono 111 nel ‘93 e gli affiliati 6700. In città 25 sono i gruppi dominanti. Nel decennio la camorra si è ingrassata col terremoto e le grandi opere pubbliche. Una torta da 60mila miliardi di vecchie lire dell’epoca. «L’attività di ricostruzione - si legge nella relazione dell’Antimafia - è caduta quasi interamente nelle mani della camorra che controllava capillarmente il territorio». Ma il passato va «scordato». E così nel 2005, venticinque anni dopo la tragedia, gli amministratori pubblici della Campania - questa volta tutti di centrosinistra - il terremoto lo ricordano tra fiumi di lacrime e litri di champagne. Si distribuiscono medaglie, onorificenze. La retorica seppellisce gli scandali del passato. «’O ministro» e don Antonio sono raggianti.

Cemento, appalti, rapporti con le grandi imprese del Nord e legami con la politica: la ricetta era questa. Eppure, in un freddo pomeriggio di febbraio del 1992, Paolo Cirino Pomicino lancia la grande idea per la città. Appalti pubblici per migliaia di miliardi. «Neonapoli», la chiama e il gioco è fatto. A quel tempo «’o ministro» non conta moltissimo nella Dc napoletana: appena il 25%, poco rispetto al 60 dei suoi due rivali storici, Gava e Scotti. Come risollevarsi? Semplice, proponendo un nuovo ciclo del cemento: 7227 miliardi di lire per rifare il volto della città. Nuovi quartieri, 150mila vani, speculazioni edilizie su Bagnoli e Napoli Est. La città degli affari applaude. «Perché questa - spiega all’epoca Mirella Barracco - è una realtà dove è possibile ogni fondazione e ogni rifondazione. Qui si è costantemente all’anno zero». Pomicino è un occasionista, si fa moderno Principe, parla a quei ceti che aspirano ad un diverso sviluppo della città. Il progetto muove tanto fumo. Poi si ferma. La storia prende un’altra piega.

Aprile 1981. Sulla carne di Napoli e della Campania le ferite del terremoto sanguinano ancora. La città è sconvolta dall’irrompere sulla scena della follia brigatista. L’azione più eclatante è il sequestro di Ciro Cirillo, braccio destro di Antonio Gava. Lo tengono prigioniero per 90 giorni. Tre mesi e succede di tutto. Imprenditori napoletani vicini al partito di Gava raccolgono fondi, la Dc e i servizi segreti trattano con Raffaele Cutolo e le Br per la liberazione del notabile di Torre Del Greco. Quello che non era stato fatto per Aldo Moro viene fatto per Ciro Cirillo. Alla fine viene pagato un riscatto: 1miliardo e mezzo alle Br, quasi il doppio a Cutolo. Il resto della storia è una lunga catena di morti, almeno 12 possibili testimoni. Depistaggi. Uccisioni per fermare la verità. Antonio Ammaturo, capo della Squadra Mobile di Napoli, aveva scritto un dossier sui retroscena di quel sequestro, viene ucciso dalle Br nell’82. Il commando gode dell’appoggio di uomini della camorra. Quando sei anni dopo il giudice istruttore Carlo Alemi consegna la sua inchiesta sul sequestro Cirillo, viene attaccato in Parlamento e definito dal capo del governo «un giudice che si è posto al di fuori del circuito istituzionale». Presidente del Consiglio era Ciriaco De Mita, ministro dell’Interno Antonio Gava. Alemi fu messo sotto inchiesta dal Csm. Aprile 2001, Ciro Cirillo viene intervistato da Giuseppe D’Avanzo de «La Repubblica». «Signore mio - dice - la verità sul mio sequestro la tengo per me. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte si vedrà». Accadeva a Napoli, ai bei tempi di quelli che «eravamo meglio noi».

«Definire storicamente cosa sia il ceto medio non è difficile; decisamente più complicato è intrecciare questa definizione con i redditi che vengono denunciati al fisco italiano: le denunce dei redditi presentate dai contribuenti sono una caricatura del paese reale. Quello che è certo è che questa finanziaria non è fatta contro il ceto medio e trovo ridicolo chi fa affermazioni di questo contenuto. Mentre trovo positivo che per la prima volta un governo affermi apertamente che la finanziaria è stata concepita per operare una redistribuzione del reddito a favore delle classi che in questi anni sono state fortemente penalizzate». Luciano Gallino dà giudizi netti sulla manovra economica del governo anche se i 217 articoli della legge e le oltre 250 pagine di testo non sono una lettura agevole. «Piena com'è - sostiene - anche di molti aspetti tecnici».

Professore, l'opposizione di destra attacca il governo Prodi sostenendo che la finanziaria è un duro colpo ai ceti medi. Possiamo provare a definire che cos'è il ceto medio?

Il ceto medio è una definizione che nasce un paio di secoli fa. Oggi come allora con questo termine definiamo coloro che dispongono di mezzi e anche competenze per poter lavorare e guadagnare. Semplificando: imprenditori, commercianti, professionisti, avvocati. Questo è un po' il nucleo classico del ceto medio. Al quale dobbiamo aggiungere i dirigenti, i tecnici, i funzionari della Pubblica amministrazione, i professori universitari.

Ma esiste ancora un ceto medio? Non ritiene che la tendenza sia quella di una proletarizzazione, anche in forme diverse dal passato? O meglio ancora: secondo studi recenti quella cui stiamo assistendo appare come una polarizzazione verso le classi estreme.

Non sono d'accordo con l'affermazione che il ceto medio stia scomparendo e che ci sia un forte aumento della proletarizzazione. Mi sembra eccessivo dirlo. Sono invece d'accordo con chi parla di una polarizzazione: la piramide sociale sembra avere un vertice più ristretto e i passaggi tra le varie classi sono meno frequenti. Polarizzazione è un concetto più aderente alla realtà.

Banalizzando, mi sembra che lei affermi che chi è già ricco tende a essere ancora più ricco, mentre per tutti gli altri è difficile fare passi avanti, risalire la piramide.

La distanza tra il 10-20 per cento della popolazione più ricca e il 10-20 di quella più povera è aumentata. E non solo in Italia.

Da un punto di vista delle statistiche del reddito e del patrimonio è possibile fissare chi oggi in Italia è «ceto medio»?

Se parliamo dell'Italia ci scontriamo con una straordinaria povertà delle statistiche. Negli Stati uniti è sufficiente collegarsi con il sito del Congresso o con quello del Census bureau, tanto per citarne solo un paio, per sapere tutto o quasi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Certo, anche negli Usa c'è evasione fiscale e come sempre una reticenza dei più ricchi a far sapere quanto sono effettivamente ricchi. Però i dati complessivamente sono significativi ed è sicuro che tra i poveri non si nascondono i falsi poveri, cioè gli evasori fiscali. In Italia, purtroppo, le statistiche non sono altrettanto soddisfacenti: le indagini campionarie dell'Istat e della Banca d'Italia forniscono sono una parziale approssimazione. I dati dei bilanci delle famiglie, quelli sui consumi e sulla distribuzione della ricchezza sono molto approssimati. Prima di tutto perché le indagine sono campionarie e un campione anche se ben fatto è sempre una rappresentazione approssimata dell'universo. E poi perché l'approssimazione cresce al crescere dei redditi. Queste indagini, anche se recentemente hanno rilevato la dicotomia nella crescita dei vari redditi, non possono essere la base per cercare di definire la soglia reddituale del ceto medio.

Insomma c'è una sorta di omertà, anche se l'indagine è anonima e non vale a fini fiscali.

Decisamente. Ma va anche peggio se utilizziamo i dati sulle denunce fiscali per cercare di capire quale sia la vera distribuzione dei redditi in Italia: dalla configurazione della piramide dei redditi quella che emerge è una caricatura del paese reale.

Fare stime dell'evasione fiscale non è facile: i dati sul reddito nazionale stimano però un prodotto interno lordo di un 25-30 per cento superiore a quello che emerge dai dati fiscali.

Non c'è solo l'evasione, ma anche l'elusione e l'erosione. Si stima che il lavoro nero equivalga all'occupazione di almeno altri 5 milioni di persone. In parte anche lavoro dipendente, di chi svolge un doppio lavoro. In realtà l'area dell'evasione si nasconde soprattutto nel lavoro autonomo, nelle imprese. Fa cascare le braccia apprendere che in base ai dati delle denunce dei redditi al fisco solo l'1,59% dei contribuenti denuncia più di 70mila euro l'anno.

I dati sul patrimonio mobiliare (712mila persone con oltre 500mila euro, un miliardo di lire) dei quali più volte recentemente abbiamo scritto sul manifesto mi sembrano confermare che gli italiani non sono molto sinceri con il fisco. Ma torniamo al problema politico: questa finanziaria può essere etichettata - come fa la destra - come «contro il ceto medio»?

E' una forzatura politica: se le dichiarazioni dei redditi fossero corrispondenti o vagamente vicine alla realtà ci potrebbe essere qualche appiglio, anche se questa finanziaria a quanto mi sembra tende a far pagare qualche centinaia di euro in più solo agli alti redditi. Ovvero i contribuenti che denunciano più di 75mila euro l'anno. Tutti gli altri, almeno fino alla soglia dei 40mila euro, che sulla base delle dichiarazioni sembrano costituire il ceto medio, avranno invece dei benefici fiscali che crescono al diminuire dei reddito. E questo mi spinge a pensare che la finanziaria operi un passo, magari piccolo, verso una politica di redistribuzione del reddito. La prima finanziaria se non sbaglio, è del 1978 e questa è la prima volta che sento parlare un governo di redistribuzione del reddito. Non è poco.

Non c'è il rischio che la redistribuzione del reddito privilegi chi è un evasore fiscale?

Nel ceto medio non c'è solo chi denuncia più di 40mila euro l'anno, ma anche i gioiellieri che, se non ricordo male, denunciano circa 20mila euro di ricavi al fisco. Il problema quindi è la spaccatura tra l'appartenenza al ceto medio e il reddito che viene denunciato. E' evidente che il vero problema è la lotta all'evasione fiscale, che consente di determinare il vero livello di reddito.

Fra chi più si lamenta di questa finanziaria sembra esserci la reale classe media, secondo la definizione che ne ha dato, che è anche quella che denuncia al fisco quanto realmente guadagno. Insomma, i lavoratori dipendenti, i manager, i professori universitari che saranno costretti a pagare più tasse solo perché denunciano più di 70mila euro lordi l'anno.

E' vero. In Italia esistono molte persone che non possono sfuggire al fisco. Non so quante siano esattamente. Tra loro per esempio vi sono i professori universitari i quali - parlo per esperienza personale - ai 70mila euro non arrivano. E credo che non sia piacevole per loro vedersi continuamente inseriti in una classe di privilegiati, mentre i veri privilegiati sono quelli che hanno redditi reali simili ai loro che però sfuggono a qualsiasi tipo di tassazione.

L'unica vera «persecuzione» al ceto medio sarebbe fare un lotta seria all'evasione fiscale.

Non c'è dubbio, visto che per molti appartenenti al ceto medio siamo a livello di dichiarazione dei redditi al disotto della decenza fiscale.

Che giudizio dà complessivamente di questa finanziaria?

Salvo le piccole distorsioni alle quali accennavo, cioè alcune migliaia di contribuenti che si sentono presi in giro, direi che è un notevole passo in avanti, per quanto sostenevo prima: ovvero la redistribuzione del reddito. E' un fatto politico di rilievo.

I quaresimalisti lavoravano sulle midolla, vedi Paolo Segneri a proposito d’inferno, morte improvvisa, sorti dell’anima. La forma moderna del sermone è l’editoriale. Ad esempio: viviamo nel rischio d’attentati; in ogni istante può scatenarsi il diavolo; esplosioni, gas tossico, peste manufatta; e quando la posta sia enorme, avrebbe senso rifiutare espedienti forse utili, quali la tortura, in ossequio all’etica inerme? Shock nel pubblico. L’autore se ne compiace: voleva scuoterlo; il problema, capitale nel pensiero politico, è se la tutela assoluta delle libertà sia compatibile con una guerra endemica, fuori d’ogni regola. No, l’apparato pacifico non ferma i kamikaze. Fortunatamente esiste la via d’uscita: un «compromesso tacito» dove lo Stato conservi l’aspetto virtuoso, mantenendo acque grigie tra legalità e delitto, dove nuotino tranquilli i pesci dell’agenzia che combatte l’alieno; lì non vigono norme; lo Stato in maschera virtuosa s’arresta sulla soglia; vi mette piede solo nei casi straordinari, «con la massima cautela», senza disturbare gli addetti al lavoro talvolta sporco. E i possibili effetti degenerativi? Vigilerà il governo ma sia chiaro: l’affare nasce e muore nella sfera politica; il diritto non c’entra. Spira aria burlesca (vengono in mente Voltaire, Candide ou l’optimisme, e sul versante fosco, Molière, Tartuffe), ma vuol essere un sermone serio, terribilmente serio. Vediamo dove porta.

Se ho capito bene, l’oratore non invoca arnesi legali d’eccezione quali gli stati d’assedio, martial law, i pieni poteri d’Hitler votati dal Reichstag a salvaguardia «del popolo e dello Stato», 23 marzo 1933, o il «Patriot Act» Usa 26 ottobre 2001 (misure interinali a carico dello straniero sospetto) o gli assai più incisivi «Military Commission Orders» del Presidente, 21 marzo e 21 giugno 2003, nonché le otto «Military Instructions» che li attuano: niente d’analogo; e finché esista l’attuale Carta, nascerebbe invalida ogni previsione d’impunità. Né versiamo nel contesto del romano iustitium, dal verbo «sistere», fermare corpi o fluidi in moto: tale è metaforicamente lo ius, macchina del diritto (succede anche al sole, «sol-stitium»); un senatoconsulto l’arresta perché incombono pericoli letali (Annibale alle porte, Catilina complotta, tumulti); fuori delle solite competenze, qualcuno salva la res publica; talvolta germinano poteri spontanei; capita che il privato agisca quasi fosse console. Stasi breve. L’atto cade in spazi legalmente vuoti: è valutabile poi, appena l’astro riprenda il corso interrotto; mettere a morte i catilinari era decisione dubbia, infatti Cicerone subisce un breve esilio. Tutto chiaro invece nell’affare Roehm. Questo turbolento capo delle SA, guardia armata nazista, guasta l’armonia con le gerarchie militari ed economiche: Hitler è solo cancelliere, in attesa che il decrepito Hindenburg passi a miglior vita cedendogli la presidenza, acquisita la quale, diventerà Führer, e non ci pensa due volte; sabato 30 giugno 1934 matta i dissidenti, inclusi vari estranei. Due settimane dopo, racconta al Reichstag d’avere operato da supremo giustiziere. Gli canta un inno Carl Schmitt, politologo troppo intellettuale, quindi senza fortuna nella birreria nazista (le sue piccole e vaghe idee in brodo ornato riscuotono ancora un culto trasversale): Adolf Hitler è Führer; ordinata da lui, la carneficina diventa pura giurisdizione. Su scala minore era avvenuto in casa nostra. Bologna, domenica 31 ottobre 1926: qualcuno spara a Mussolini; gli squadristi linciano Anteo Zamboni, 15 anni; l’indomani il «Popolo d’Italia» chiama fulmini sui mandanti; sarebbe «un’onta» seguire le «procedure ordinarie».

L’oratore, dunque, non chiede leggi speciali né contempla stasi del diritto quali sopravvenivano nello iustitium: liquidare i catilinari o le SA era affare d’uno o due giorni, mentre il pericolo d’attentati permane; tra qualche anno forse sarà peggio, Iddio non voglia. E allora? L’ha detto, ci vuole uno stato equivoco in cui vigano le norme consuete, purché gli angeli abbiano mano libera, sotto un misterioso controllo politico: e calca l’accento sul qualificativo; è roba segreta; i giusdicenti non vi mettano becco. Come dire «piove ma non piove». Diritto e logica esauriscono l’universo: nei sistemi a due qualificatori, l’atto è x o non-x; ha mai letto Wittgenstein? Supponiamo che gli operatori della cosiddetta sicurezza sequestrino dei sospetti, li tengano in prigioni occulte, li torchino ad eruendam veritatem, e la cosa trapeli. Il pubblico ministero indaga, indi agisce: tribunali o corti competenti accertano l’accaduto; risultando vera l’accusa, possono solo condannare. L’unica alternativa è un illegalismo delittuoso: che il magistrato requirente chiuda gli occhi, complice del potere esecutivo la cui sfera non tollera sguardi profani (obbligo d’agire e pubblico ministero indipendente stanno sullo stomaco ai quaresimalisti): o se una testa storta lo instaura, il processo finisca in mano a giudici duttili, dallo stomaco forte, sicché i serventi segreti escano indenni; bella prospettiva, inquinare organicamente la giustizia. Nelle monarchie assolute circolavano lettere col sigillo reale. Qui avverrebbe tutto nelle anticamere, a bisbigli. Poteri occulti sicuri dell’impunità sviluppano una versatile delinquenza, dai traffici lucrosi al colpo di Stato. Così vuol difendere un paese moralmente debole, nella cui storia le collusioni politico-militari mischiano inettitudine, avventurismo, fantasia negromantica, sciagure? Vedi Luigi Cadorna, comandante supremo 1915-17: dissangua l’esercito in undici stupide offensive, finché poche divisioni prestate dai tedeschi rompono l’assurdo schieramento italiano, allora diventa falsario; incolpa i soldati e la mano molle governativa, rammollita dall’ideologia democratica, quindi tollerante del «nemico interno»; opportunisticamente riabilitato, proclama che mai vi sarebbe stata Caporetto sotto il timone mussoliniano. Ancora più nefasti i successori nella seconda guerra mondiale. Giolitti memorialista, abitualmente cauto, usa parole dure sulla clique militare politicante.

ROMA - Alle sei del pomeriggio il deputato dimissionario Paolo Cacciari, barba grigia molto curata, fratello "massimalista" del sindaco riformista di Venezia, è nel suo studio al quarto piano di palazzo Marini. Su una scrivania lo scatolone pieno a metà di cartelle e fascicoli dei suoi due mesi di vita parlamentare. Il cellulare squilla in continuazione. In tivù Franco Giordano, il segretario del suo partito, sta spiegando in aula le ragioni del sì al decreto che rifinanzia le missioni militari.

Onorevole Cacciari, Giordano sta dicendo che la pace è qualcosa che in politica si costruisce giorno per giorno, a piccoli passi. Perché non ha condiviso questa linea e si è dimesso, all’improvviso?

«Mi spiace molto aver spiazzato i compagni. Giudico però questo dibattito parlamentare inadeguato e insufficiente. Si è avvitato su un carro armato in più e un fucile in meno. Io vengo dalla scuola della non violenza, sono promotore di quel convegno che ogni anno sull’isola di San Servolo a Venezia mette insieme e cerca di contaminare il movimento operaio con le posizioni anarchiche e le pratiche pacifiste e non violente. Bertinotti mi ha scelto per questo. E io cosa faccio? Vengo qui e rinnego tutto? Non è possibile. Così ho raccolto l’invito avanzato da Sofri sulle pagine di Repubblica e lascio libero il mio seggio(l’articolo è sulla scrivania sottolineato in rosso e blu, ndr)».

Si è dimesso per un problema etico e di coscienza? La politica non sempre ha queste priorità...

«Io credevo, e lo credo ancora, che Rifondazione sia il partito che mette fine alla divisione tra etica e politica. Ho iniziato così il mio intervento stamani: "Questa volta la politica non mi aiuta a tenere insieme ragionamento e convinzione". E ho citato Bobbio: "L’etica della responsabilità è quella della coscienza"».

Nel discorso con cui ha spiegato le dimissioni, lei però riconosce che la mozione parlamentare e il disegno di legge sono "le migliori possibili nelle condizioni date".

«Ma la coscienza mi dice anche che le carneficine in corso in Medio oriente avrebbero bisogno di una rottura netta e immediata con le pratiche e le scelte fatte finora dall’Italia e dall’Occidente».

E’ consapevole che la sua scelta apre la strada a una sconfitta della maggioranza al Senato?

«Sia chiaro che io, al contrario di Strada, non brindo se cade questo governo. Ma sono anche tristissimo se da questo governo non arriva un contributo alla crescita di una cultura non violenta e di pace. Ho cercato di fare la cosa più indolore per la maggioranza».

Cosa doveva fare, secondo lei, il governo per segnare la discontinuità in politica?

«Io riconosco una discontinuità in politica estera a questo governo. Ma i contingenti Onu in Libano e Palestina e le missioni militari di pace sono un’abdicazione della politica. Ed è un’illusione suicida credere che siano la soluzione del problema».

Quindi?

«Quindi penso ai corpi di pace, alla diplomazia dal basso, alla cooperazione, alla confidence building, alla costruzione del consenso. Ma tutto questo sembra politica di serie b».

A chi ha rassegnato le dimissioni?

«Al Presidente della Camera».

Cosa dice ai vertici di Rifondazione?

«Che ho rotto un mandato politico che il partito ci ha chiesto ripetutamente di non tradire. Per questo restituisco il mio mandato».

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