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10.2004 - Uno scambio di messaggi, a proposito di un articolo su Eddyburg. L'editing e la traduzione in italiano sono di F. Bottini.


Dear Mr. Taylor,

In case my friend Edoardo Salzano hadn't sent the e-mail address you asked, here it is. I look forward to hearing from you (about my bricoleur "critics" on Vicolungo, I suppose)

Yours faithfully

Fabrizio Bottini

Gentile Mr. Taylor

Nel caso l’amico Edoardo Salzano non avesse spedito il mio recapito e-mail, eccolo qui. Spero di sentirla (presumo a proposito della mia improvvisata “critica” sul progetto per Vicolungo).Cordiali saluti

Fabrizio Bottini

Hi Fabrizio,

Yes, I was writing about your article on the outlets at Vicolungo. I could only use the internet-based translation, which was virtually incomprehensible. Would you be interested in giving me an English synopsis? I am very much interested in your critique. I am not so interested in the political grumblings about how the project was approved by agencies, but any architectural and "urban" design comments would be welcome.

Best regards,

W Taylor

Ciao, Fabrizio

Sì, mi riferivo al tuo articolo sull’outlet di Vicolungo. Ho a disposizione un testo tradotto da internet, che è quasi totalmente incomprensibile. Potresti farmene avere una sintesi in inglese? Sono molto interessato ai tuoi commenti.Non mi importano tanto le chiacchiere politiche sull’approvazione del progetto da parte delle autorità, ma qualunque commento sull’architettura e la forma “urbana” sarà il benvenuto.

Cordiali saluti,

W. Taylor

My critique was exactly about what you call "political grumbligs" (the text is a short "Part II" of a longer article on regional planning issues). So I tried to sketch something more form-oriented. As you will see I'm not an expert, but just a middle aged guy with an old (and never used) degree in architecture.

The file with my "form-oriented" English homework is in attachment. (*)

Any answer will be welcomed

Fabrizio Bottini

Le mie critiche riguardavano proprio quello che tu chiami “chiacchiere politiche” (il testo è una breve seconda parte di un articolo più lungo su temi di pianificazione vasta). Comunque ho tentato di abbozzare qualcosa più orientato alle forme fisiche. Come capirai, non sono un esperto, ma solo un tizio di mezza età con una (mai usata) vecchia laurea in architettura.

Troverai in allegato il file col mio compito a casa di Inglese. (*)

Qualunque risposta sarà la benvenuta

Fabrizio Bottini

Thanks very much for sending your translation. We enjoyed reading it here in the office. And we agree with most of it. As you must know it is difficult to design in another culture. Hopefully over time the pedestrian connection can be made to the village of Vicolungo, and the project will make more urbanistic sense. Architecturally, I hope that the small towers can soon be filled with mannequins and displays, since that is one of the better features, I think.

Best regards,

W Taylor
Molte grazie per averci mandato la traduzione. L’abbiamo letta insieme qui in studio. E siano d’accordo quasi su tutto. Come saprai, è difficile progettare in un contesto culturale diverso. Speriamo che nel tempo il collegamento pedonale col villaggio di Vicolungo possa essere realizzato, così che il progetto possa avere più senso urbanistico.Dal punto di vista architettonico, mi auguro che le piccole torri possano al più presto arricchirsi di sagome insegne, dato che credo quella sia una delle migliori caratteristiche.

Cordiali saluti,

W Taylor

(*)


Vicolungo: not just shopping!

The “long march” of the factory outlet villages, from the foothills of Serravalle Scrivia (2000) has finally reached four years later the outskirts of the Milan metropolitan area, changing many skins but not its core. “Parco commerciale”, in Vicolungo, is located at a 20-minute drive from the intersection Tangenziale Ovest/Milano-Torino, right in the middle of the huge “building site” strip, where various huge works overlap, stretching West-East from one city to another.

The area is a former rice field country, just west of Novara, on the left bank of the river Sesia. With quite small villages, the big squares of the rice fields, and the big “cut” of the six-lanes motorway. On the north side of the lanes, a stone’s throw from the old village, Parco Commerciale Vicolungo is a “development of community, retail, dining and retailing destinations” (I take it from the designer’s site). A good mixed-use development, one would think, and the radio advertisings sing: “Vicolungo: not just shopping!”. I drove there to see myself.

Coming from the motorway exit, one feels like having been literally “shot”, through the four-lane street (compared with local roads with a maximum of meagre two) to the parking lot: a black ring surrounding all the place poorly landscaped. Parco Commerciale (it’s still unfinished, with empty spaces and building workers coming and going) is quite a good quality space, when you stroll down the “continuous and consistently designed pedestrian walkway”.

I’m not an architecture critic: just a guy walking around, and not shopping at all. So I really can’t say a word about the “architecture of the narrative” I’ve read of. But, and everybody can take a look by himself, this pedestrian walkway winding through changing perspectives seems much better than any other “fashion village” popping up in the Po river area: modern retail format, and modern, good architectural design. Nothing to share with the fake “traditional” seen in Serravalle Scrivia and Bagnolo San Vito (respectively: McArthur Glen and Fashion District), or the fake country style in Rodengo Saiano near Brescia. But this modern “narrative” doesn’t seem to take me anywhere, and more important I can’t see anything going “through the project to the existing main street of Vicolungo”. Just those four lanes going from the motorway exit to the parking lot. Yet that link sounds good: something like the traditional pedestrian/bicycle path connecting almost every local centro storico with its surrounding centers of interest (the country church, the cemetery and so on). But I can’t see neither this path, nor the space to build it. Just the usual ring of parking lots.

Strolling back from the western edge to the first tower (the first seen from the motorway exit) one can appreciate the changing perspectives, or the visual role of the towers themselves. But take just a few steps down the minor pathways cutting at intervals the main promenade, and “you are leaving the social area”. In other words, the rule is the same as in every other retail structure: you are “in” (shopping), or you are out (wandering in the no man’s land of the parking lot).

On a saturday morning I have seen people from the existing center of Vicolungo take out their car from the garage to drive the 45 seconds distance to Parco Commerciale, probably impressed by all this automobile-oriented structure. May be the something going “through the project to the existing main street” would help. But there isn’t one.

Is there any hope for the future?

Vicolungo: non solo shopping!

La “lunga marcia” dei villaggi factory outlet , partita ai piedi delle colline di Serravalle Scrivia (nel 2000) ha finalmente raggiunto, quattro anni dopo, i margini dell’area metropolitana milanese, cambiando nel frattempo parecchie bucce, ma non il succo. Il “Parco commerciale” di Vicolungo, sta a 20 minuti d’auto dallo svincolo della Tangenziale Ovest con la Milano-Torino, giusto in mezzo all’enorme striscia del “cantiere” dove si sovrappongono vari altrettanto enormi lavori di trasformazione, e che si estende da una città all’altra.

La zona è un’ex campagna di risaie, poco a ovest di Novara, sulla riva sinistra della Sesia. Fatta di piccoli villaggi, con i grandi quadrati delle coltivazioni di riso, e il largo “taglio” delle sei corsie autostradali. Sul lato nord di queste corsie, a un tiro di sasso dal vecchio villaggio, il Parco Commerciale Vicolungo è [come si legge sul sito del progettista] “un complesso di funzioni urbane, commercio, ristorazione e servizi”. Un intervento a usi misti di di buona qualità, verrebbe da pensare, mentre le radio cantano: “Vicolungo: non solo shopping!”. Ho preso la macchina e ci sono andato, a vedere coi miei occhi.

Arrivando dallo svincolo dell’autostrada, si ha la sensazione di essere letteralmente “sparati” attraverso il percorso a quattro corsie (soprattutto con strade locali che ne hanno al massimo due, e scarse) dritti al piazzale del parcheggio: un anello nero che circonda tutto quanto, con pochissimo arredo a verde. Il Parco Commerciale (ancora non completato, con spazi vuoti e muratori che vanno e vengono) è uno spazio di buona qualità, se si passeggia dentro il “percorso pedonale continuo e definito”.

Non sono un critico di architettura: solo un tizio di mezza età che girella attorno, senza comprare niente. Quindi non posso dire niente a proposito della “architettura della narrativa” di cui ho letto. Ma, come può vedere da solo chiunque, questo percorso pedonale che serpeggia tra prospettive sempre diverse sembra migliore rispetto ai vari “villaggi della moda” che sbucano dappertutto nella valle del Po: qui c’è un nuovo formato commerciale, e c’è nuova architettura. Niente da spartire col falso “tradizionale” visto a Serravalle Scrivia e a Bagnolo San Vito (rispettivamente della McArthur Glen e della Fashion District), o col finto stile campagnolo di Rodengo Saiano, vicino a Brescia. Ma questa “narrativa” moderna non pare che ci porti da nessuna parte. E, cosa più importante, non si vede niente, da nessuna parte, che “attraversa tutto il complesso fino a raggiungere la strada principale di Vicolungo”. Solo quelle quattro corsie, dallo svincolo dell’autostrada al piazzale del parcheggio. Eppure suonava piuttosto bene: qualcosa di simile ai percorsi tradizionali, pedonali o ciclabili che si trovano in quasi tutti i centri storici, e che connettono a centri di interesse esterni come il cimitero, o la cappella nei campi, o simili. Ma non riesco a vedere né questo percorso, né lo spazio per realizzarlo. Solo, il solito anello dei parcheggi.

Se si passeggia nella direzione opposta, dal margine ovest verso la prima torre (quella che si vede venendo dallo svincolo), si possono apprezzare le visuali sempre diverse, o lo stesso ruolo prospettico delle torri. Ma basta fare quattro passi lungo i rami laterali, che tagliano a intervalli il passeggio centrale, e sembra di sentire un avviso tipo: “state lasciando il settore sociale“.In altre parole, vale ancora la regola di qualunque struttura commerciale: puoi stare “dentro” (a fare shopping), altrimenti sei “fuori” (nella terra di nessuno del parcheggio).

Era un sabato mattina, e ho visto gente di Vicolungo tirar fuori la macchina dal garage per farsi il percorso di 45 secondi dal centro al Parco Commerciale, probabilmente messi in soggezione da tutta questa struttura pensata solo per l’automobile. In questo senso, probabilmente aiuterebbe, quel qualcosa che “attraversa tutto il complesso fino a raggiungere la strada principale di Vicolungo”. Ma non c’é.

Possiamo sperare, per il futuro?

"Il momento è catartico". Così suona la battuta più nota del cabarettista di chiara fama televisiva che giovedì sera ha inaugurato il nuovo "parco commerciale" di Vicolungo (NO). Partita dal pedeappennino di Serravalle Scrivia qualche anno fa, la lunga marcia dei factory outlet villages è arrivata, variante dopo variante, alle porte di Milano. Siamo infatti a pochi minuti di autostrada dallo svincolo della Tangenziale Ovest, nel bel mezzo del solco arato dai cantieri dell'Alta Velocità ferroviaria, e adeguamenti di contorno.


La Strada Provinciale 103 in località Ponzana (a nord della SS 11) Il bacino di riferimento commerciale del "parco" di Vicolungo (dal sito Neinver) Borgo agricolo isolato fra le risaie a sud di Vicolungo (SP 103)

Per capire un po' meglio dove ci si trova, però, forse è meglio non prenderla l'autostrada, e risalire dal tratto della SS 11 Padana Superiore a ovest di Novara, lungo la provinciale 103 che attraversa le risaie parallela al corso della Sesia, fino a ricongiungersi in territorio di Biandrate all'altra strada proveniente dal Capoluogo, che collega al casello della A4 nel "quadrante" definito dall'incrocio con la A26. Qui, nella migliore tradizione dei complessi commerciali, appena a sud del centro storico, si è collocato il nuovo "villaggio", che ha al centro della sua campagna pubblicitaria lo slogan: NON SOLO SHOPPING.


Planimetria del quadrante autostradale col parco commerciale Vicolungo Ingresso ai parcheggi dal casello autostradale della A4 Milano-Torino Planimetria del progetto (da notare il parcheggio a fascia)

Per chi arriva dal casello autostradale, la sensazione deve essere quella di essere sparato direttamente nel parcheggio, che (con effetto negativo) circonda su tutti i lati un gruppo di padiglioni uniti da percorsi pedonali attorno a un unico "corridoio" centrale. Le aperture/ingressi per ora sembrano più abbondanti che in altri casi simili, ma non è detto che a progetto ultimato l'effetto rimanga identico. In compenso i parcheggi sono davvero enormi, e (forse volutamente) escludono qualunque rapporto del villaggio con il territorio circostante.


Uno degli ingressi dal parcheggio L'area ancora in costruzione sul lato sud (forse uno specchio d'acqua)

Non sono un esperto del settore, e quindi non so dire se si sia realizzata o meno quella "architettura della narrativa" che è il marchio di fabbrica del progettista, William Taylor. E' certo però che nel caso di Vicolungo non si è scelto nessuno stile mimetico: né il phony colonial di Serravalle o di Bagnolo San Vito, né la citazione culturale da fumetto di Fidenza, o quella campagnola di Rodengo Saiano. Le forme qui sono decisamente moderne, salvo l'inesplicabile "citazione" del toponimo e della realtà di Vicolungo, con un percorso pedonale che serpeggia tra vetrine senza una logica comprensibile. Salvo forse quella, appunto, di imitare le strade del centro storico: distante qualche centinaio di metri in linea d'aria, qualche anno luce in termini di qualità dello spazio. Cosa curiosa: il Comune ha deciso di dare ai percorsi interni del complesso commerciale toponimi del tutto normali, tipo "Via San Tizio", "Vicolo Sempronio" ecc., forse a sottolineare l'assimilazione almeno virtuale di questi spazi alla comunità. Mah!


Una delle "piazze"/snodo di percorso Una delle torri sul lato ovest Il percorso principale - con guardia - visto dalla porta delle toilettes (lato sud)

I percorsi fra le vetrine e i bar (tra poco dovrebbero aggiungersi anche elementi da parco tematico o simili) si articolano fra piccole piazze/snodi dove la prospettiva dell'osservatore cliente cambia, anche oltre le diverse immagni degli allestimenti delle vetrine. A contrassegnare ulteriormente questi cambi di visuale, e a orientare meglio il passeggio, alcune torri segnalano in verticale gli ingressi dal parcheggio, e servono anche come landmark dall'autostrada e dalla zona circostante. Dato che si tratta di architetture molto simili tra loro, anche se non identiche, è probabile (immagino) che in seguito possano essere ulteriormente caratterizzate da scritte, o effetti di illuminazione per la notte, ecc.


La strada principale "vera" di Vicolungo La strada pedecollinare verso Milano (Fara Novarese) Strada pedecollinare verso Milano

Lasciando il parco commerciale, e tornando a Milano - stavolta sulla direttrice di alta pianura verso l'Hub Malpensa - si nota ancora di più il contrasto fra gli spazi dell'insediamento commerciale (anche dimenticando i parcheggi a cappio) e le forme dell'insediamento consolidato, fatte di borghi ex rurali, campi coltivati, viabilità di sezione ridotta. Il "parco" da questo punto di vista si rivela ancor di più per quello che ovviamente è: un addendo dell'ambiente autostradale, realizzato girando del tutto le spalle (come si nota anche visivamente) al contesto. Con la società. locale e non, ridotta al solito ruolo di vettore di portafogli da svuotare. Da vedere, anche per l'incredibile presenza di vigilantes, che confermano l'ascesa anche da noi degli spazi a-sociali ad alto rischio, come se di queste cose non si parlasse fino alla noia da lustri. Gli architetti della narrativa probabilmente non leggono Jane Jacobs: roba vecchia.

Nota: qui il link al primo articolo - di qualche mese fa - sul tema del parco commerciale di Vicolungo poi gli sviluppi successivi, come lo scambio di opinioni con il progettista William Taylor, o le novità sull'ampliamento del Parco Tematico, di fianco a questo (fb)

Qualcuno forse si ricorda ancora, di MiTo: la megalopoli magicamente evocata negli anni Settanta da una battuta (o poco più) dei due sindaci di Milano e Torino. Una battuta, o intuizione, o provocazione, che fece rapidamente emergere idee di tutti i tipi, da varie utopie tecnologiche di insediamento lineare, a battute salaci sulla riorganizzazione nazionale per megalopoli, da MiTo a SaLaMe (Salerno-Lamezia-Messina), ponte sullo stretto incluso.

Del resto, a parte l’accattivante sigla-nomignolo, si trattava pur sempre del lato maggiore di Ge-Mi-To, il mitico triangolo industriale che tanto spazio e aspettative aveva occupato nell’immaginario della grande modernizzazione italiana, fra boom economico, prima automobilizzazione di massa, “libri dei sogni” sulla programmazione anche territoriale dei centri metropolitani e delle grandi localizzazioni. Un processo che, Mi-To o non Mi-To, è andato avanti per conto suo a spron battuto, e che oggi appare visibilissimo e tangibile nell’urbanizzazione e infrastrutturazione continua che collega lungo la fascia di alta pianura i due capoluoghi regionali. Un’urbanizzazione ben diversa da quella del neo-mitico Nord-Est, molto più densa e compatta, caratterizzata dai tracciati della statale Padana Superiore e dell’A4, a cui si sta sommando (già vistosissima nei grandi cantieri che spiccano fra campi abbandonati e deviazioni stradali provvisorie) la striscia dell’Alta Velocità ferroviaria.

C’era quasi da aspettarselo che qui, in un’atmosfera tanto carica di aspettative di investimento, dove il “Corridoio 5” europeo sembra davvero materializzarsi, anche il modesto fenomeno degli Outlet Villages avrebbe avuto accenti inediti, diversi da quelli rilevati sinora, di “fighettopoli” catapultata su campagne più o meno ignare. La cosa curiosa è che qui, di futuribili cittadelle della moda “ retailtainment style”, ce ne sono non una, ma due: una per ora solo sulla carta, l’altra fatta di mozziconi costruiti che spuntano da ex risaie, ma con le luci ancora spente, e solo qualche corvo che becchetta nell’immancabile ciclopico parcheggio. Vuoto. Se e quando l’uno e l’altro (o l’uno o l’altro) si popoleranno di curiosi, commessi, clienti, e veline sgambettanti invitate per il fatidico Gala inaugurale, ancora non lo sappiamo. La cosa certa, però, è che qui si sta sviluppando una contraddizione in seno al popolo immobiliar-modaiolo. Una contraddizione a ben vedere già prevista, anche se sbrigativamente, da un osservatore privilegiato, e sinora rimasta sospesa mentre le luci dei nuovi giocattolini si accendevano una dopo l’altra, ben distanziate lungo la valle del Po, e ancor più lontane nel resto dello Stivale.

Era il lontano ottobre 2001, e a Firenze nella magica cornice di Villa Strozzi si svolgeva il convegno “Gli outlet nel settore moda: evoluzione industriale e strategie per la crescita globale”. Tale Luca Bastagli Ferrari, della Fashion District Italia, dichiarò tra l’altro che il numero approssimativo di insediamenti tipo Outlet proponibile per il nostro paese, non avrebbe potuto superare le 7-8 unità, in modo da spartirsi il mercato e non rischiare di “inabissarlo” (Cfr. http://www.polimoda.com). E proprio la Fashion District, con uno dei suoi quattro “Cugini di Campagna” – quello di Santhià – è protagonista della battaglia fra le due sponde della Sesia, a colpi di griffes e carte bollate, di cui intendiamo parlare. Che vogliano suicidarsi, “inabissando il mercato”?

La Fashion District, consociata del gigante USA Prime Retail, è appunto protagonista dell’impresa che abbiamo già descritto su eddyburg, con il nomignolo di Cugini di Campagna, soffermandoci poi sul caso del villaggio a Bagnolo San Vito, e la sua notte padana illuminata da architetture “virgiliane”, dalle note musicali di Gloria Gaynor, dalle note curve di Luisa Corna. Uno dei quattro “cugini” era (ed è) previsto a Santhià, poco a Ovest di Vercelli, geograficamente quasi speculare al villaggio pioniere della MacArthur Glen a Serravalle Scrivia.

Come abbastanza ovvio, e come più volte ripetuto in questa serie di descrizioni, la strategia territoriale degli operatori è piuttosto standardizzata: si identifica un “nodo” di flussi di traffico e convergenza di interessi vari, al centro di un bacino ricco in termini di popolazione/clientela, e ci si aggiungono e soppesano poi altri fattori: la particolarità geografica e/o culturale, la sinergia (parola bruttissima ma a volte inevitabile) con altre attività, in primo luogo quelle connesse alla valorizzazione turistica. Il territorio comunale di Santhià innanzitutto si colloca in uno dei fatidici nodi, visto che qui convergono l’autostrada Mi-To, la perpendicolare direttrice verso le valli di Biella e Ivrea, il poco distante asse della Padana Superiore, su cui convergono anche le strade provenienti dalle zone verso il Po, e dalla Lomellina. Per dirla col linguaggio degli investitori, questo bell’angolino della mappa geografica, ai piedi delle prima colline, è “il più ricco bacino di attrazione d'Europa, con una popolazione residente di circa 9 milioni di persone, nei 60 minuti d’auto, di cui l’80% ha un reddito superiore alla media nazionale” ( http://www.marketpress.info). Per dirla col linguaggio tecnico della pianificazione territoriale, che conferma quanto sopra, si tratta di un “centro di servizio alla scala sovracomunale” (dalla Relazione al Piano Territoriale Provinciale). Il che, considerando anche l’approccio consolidato a questo tipo di interventi, pone le migliori premesse perché i progetti architettonici e di allestimento di Arata Isozaki, Ettore Sottsass, Bob Noorda e altri, possano trovare la miglior collocazione possibile.

Non è dato di sapere a chi scrive, per ora, quali forme fisiche avrà il progetto, dato che non si è trovato nulla on-line che lo descrivesse. Comunque si orienti la scelta, si può stare comunque certi che la sensibilità dei progettisti lavorerà al meglio per realizzare la profezia dei promotori: “Il progetto segnerà un punto di svolta nella concezione stessa di fashion”. Del resto, enfasi autocelebrativa a parte, il sito prescelto si presta sia ad un approccio decisamente moderno, sia al citazionismo più o meno libero delle tipologie locali già visto altrove, senza particolari compromissioni di un paesaggio pedecollinare segnato dai grandi lavori infrastrutturali e per la localizzazione di due zone industriali su entrambi i lati della statale Vercellese, in località Moleto, a ovest del centro storico e staccata dall’abitato.

Si possono conoscere invece le quantità, del progetto, così come emergono dalla “Autorizzazione regionale preventiva al rilascio delle concessioni edilizie per insediamenti commerciali” (BUR n. 18 del 2 maggio 2002). Il villaggio della moda si svilupperà su una superficie lorda di calpestio pari a 14.637 metri quadri, articolati su cinque lotti a loro volta suddivisi in unità di vendita di qualche centinaio di metri quadrati (da un massimo di 900 a un minimo di 150 circa). Il fabbisogno di parcheggi, che presumibilmente produrrà la solita ciambellona d’asfalto a circondare e rovinare anche le architetture più accattivanti, è per 30.456 metri quadri, ad accogliere 1.128 automobili. Il tutto per circa 400 posti di lavoro, che si presumono più o meno articolati e suddivisi come quelli del “cugino di campagna” inaugurato a Bagnolo San Vito lo scorso novembre.

È il risultato di un lungo processo di negoziazione, formalizzato nella Conferenza dei Servizi prevista dall’ordinamento regionale in questi casi, ma che a quanto pare fatica a tradursi in concreti movimenti terra, opere edilizie, stipulazione di contratti di lavoro. Se ne chiedono il perché alcuni consiglieri provinciali, in una interrogazione al Presidente datata 25 marzo 2003: come mai il tempo passa, i cantieri dell’Alta Velocità e del nuovo svincolo autostradale di Santhià vanno avanti, e in località Moleto le due aree industriali nord e sud, separate dalla rotatoria sulla statale per Biella, restano desolatamente vuote? Perché questi continui rinvii, e voci che corrono, secondo cui il progetto di Outlet si sta ridimensionando, se non del tutto accantonando? Non è che questo è collegato, si chiedono i consiglieri vercellesi, al fatto che “a Vicolungo è in avanzata fase di costruzione un complesso che di fatto ha le caratteristiche di un Outlet e la cui superficie è doppia rispetto a quella prevista a Santhià”? (Interrogazione verificabile interamente sul sito web della provincia di Vercelli, Atto n. 50 2003, prot. 12967). Insomma, qui rischia di saltare la strategia messa a punto – nientemeno – dalla regionale “Agenzia per l’attrazione degli investimenti esteri in Piemonte”, per intervenire “in un’area che ha bisogno di compensare una situazione di crisi” generando “flussi straordinari di turisti-visitatori e quindi di ricchezza indotta” (Comunicato dell’estate 2001 di “Piemonte informa”, agenzia di comunicazione della Regione, http://www.italnet.it). E tutto per colpa di Vicolungo.

Vicolungo: chi era costui?

Come sempre accade quando si avvicina il mondo delle grandi dimensioni e grandi strategie, per capirci qualcosa è sempre indispensabile aver sotto mano una carta topografica. Attorno a Santhià Vicolungo non si trova, e neppure nella zona di Vercelli, sia su verso l’arco alpino che giù nella bassa delle risaie. Vicolungo sta invece, ed era abbastanza logico aspettarselo, lungo lo stesso insediamento (o meta-insediamento) lineare discontinuo che abbiamo chiamato MiTo, o più in grande Corridoio 5, o con più senso della storia semplicemente scendendo il corso del Canale Cavour, costruito alla fine del XIX secolo per modernizzare l’agricoltura padana. Vicolungo è un piccolo centro, e appartiene al gruppetto di comuni del comprensorio Est-Sesia, lungo una delle direttrici che salgono dalla pianura novarese verso l’alta valle del fiume. Un sito di informazioni turistiche (Vicolungo non ha una pagina web comunale) ci informa rapidamente: 13 chilometri quadrati divisi tra un bel centro storico e molte cascine, abitati da meno di mille vicolunghesi, che stanno lì dall’età del bronzo in poi, costruendo nei secoli una chiesa con parti romaniche e affreschi cinquecenteschi, un “castello con rocchetta”, e altri edifici di notevole interesse architettonico.

Vicolungo, oltre a questi nobili ascendenti storici, condivide coi vicini comuni di Biandrate e Recetto il fatto di affacciare alcuni appezzamenti sul tracciato dell’Autostrada-Alta velocità, giusto all’incrocio con un altro “corridoio” di importanza internazionale, il Voltri-Sempione, rappresentato qui dall’Autostrada Gravellona-Toce. Dal punto di vista infrastrutturale quindi siamo in presenza di un nodo di primaria importanza, a pochissima distanza da Novara, dalla Padana Superiore, e anche baricentrico rispetto ad altri assi di comunicazione di rango inferiore, come le varie direttrici nord-sud Valsesia-pianura, o l’asse trasversale che dal ponte di Carpignano (unico attraversamento del fiume per chilometri, prima di quello urbano alle porte di Vercelli) collega vercellese, novarese e attraverso il ponte di Oleggio l’alto milanese e l’Hub Malpensa 2000.

È qui, che il Piano Territoriale Provinciale di Novara testualmente “propone di consolidare (e sviluppare) gli insediamenti produttivi nelle aree di prossimità dei caselli autostradali con l’obiettivo di migliorare le condizioni generali di accessibilità da parte del traffico operativo su gomma, di realizzare economie di aggregazione dei servizi e delle attività e di determinare effetti positivi nella razionalizzazione e qualità ambientale degli insediamenti circostanti” (dalla Relazione al PTP, p. 43). Una prospettiva di “aggregazione dei servizi e delle attività”, che non poteva lasciare indifferente l’amministrazione comunale di Vicolungo, la cui legittima inclinazione a promuovere lo sviluppo locale si incrocia qualche anno fa con l’intraprendenza di una multinazionale spagnola specializzata in progetti insediativi “chiavi in mano”: Neinver.

Come si può leggere con dovizia di cifre e particolari sul sito http://www.neinver.com la Neinver propone varie tipologie di intervento urbanistico-edilizio integrato, che spaziano dal complesso industriale, a quello per uffici, al modello factory outlet semplice, a forme ibride di compresenza di molte o tutte queste funzioni. Il modello più interessante è senza dubbio quello che porta il marchio Nassica, una vera e propria linea di centri commerciali e per il tempo libero, che combina scelte architettoniche di avanguardia, con un’accurata selezione di funzioni e servizi adattati all’ambiente locale. I centri Nassica possono appoggiarsi sulla presenza “anchor” di un Factory Outlet Center, di commercio tradizionale, aree per il tempo libero, servizi di ristorazione, ed eventualmente miscelare – se necessario e possibile – industrie, uffici, e servizi di cui sia richiesta la presenza nel bacino di riferimento.

Esempi di questo tipo di insediamento sono già stati realizzati a Madrid, dove il mix di funzioni variamente commerciali e a parco tematico ha attirato nel solo 2002 più di 8 milioni di persone. Il più recente è il centro Nassica a Vila Do Conde, in Portogallo nei pressi di Oporto, con un bacino di utenza strettamente locale di oltre tre milioni di persone: una vera e propria (a sentire i promotori naturalmente) “business city” con uffici, spacci di tipo outlet, commercio tradizionale, sale cinematografiche e servizi di ristorazione.

Il “Corriere di Novara”, commentando in prima pagina il 20 febbraio 2002 la presentazione del progetto Nassica per Vicolungo, non può fare a meno di mostrare un certo entusiasmo davanti ai bellissimi schizzi dello studio Morris di Houston, Texas, ispirati da un misterioso approccio “Architecture of the Narrative” (Cfr. http://www.morrisarchitects.com sezione Entertainment; oppure anche il sito personale del progettista capo William Taylor, dove si trovano gli unici schizzi disponibili: http://www.taylorfierce.com ).

Lo stesso periodico locale si pone però da subito un dubbio: “tutto questo è stato concepito esclusivamente fra il Comune di Vicolungo e la Neinver, senza che altri organismi deputati al controllo del territorio, come Provincia e Regione (ma anche i Comuni limitrofi) potessero intervenire per dare un loro parere autorizzativo. Come è stato possibile?”. Già.

Quello che torna, sull’altra sponda della Sesia e in un’altra provincia (a ben vedere, a un tiro di sasso se non del tutto sovrapposto in termini di bacino di utenza) è il dilemma dei consiglieri provinciali di Vercelli: perché a noi è toccato il virtuoso ma lungo percorso della Conferenza dei Servizi, mentre a Vicolungo comune e operatori internazionali sembrano decidere tutto a cena, e aprire i cantieri subito dopo il caffè?

E non è tutto, visto che all’ottantina di negozi su complessivi 250.000 metri quadri del “Parco commerciale”, si devono aggiungere i 200.000 metri del “Parco Divertimenti”, di cui riportiamo di seguito l’abbondante per quanto essenziale scheda reperita sul sito http://www.Parksmania.it

I dati generali inerenti il progetto, che ci sono pervenuti a fine febbraio 2001:

Il 23 gennaio è stata firmata la Conferenza di Servizi all'interno della quale Regione, Provincia e 7 Comuni del territorio di Novara hanno dichiarato un forte interesse all’iniziativa.

La società che farà il parco si chiama TLT Tempo Libero Turismo con sede a Biella.

I problemi di viabilità sono risolti in quanto l'autostrada TO-MI ha già deliberato di ampliare il casello di Biandrate da 1 a 8 corsie e sono già state approvate 2 varianti che tagliano fuori il centro di due paesi.

Le attrazioni saranno più di 30, tra cui 3 Rollercoaster (anche inverted), 2 dark ride, flume ride e river rapids.

Il progetto del parco è già stato visionato e in linea di massima approvato dagli enti sopra citati, mentre Rifondazione Comunista ha formulato parere negativo.

L'area già acquisita è di 260.000 mq.

La posizione del Parco è da considerarsi assolutamente strategica in quanto all'incrocio tra le autostrade Torino Milano e Voltri Sempione. Tale posizione consente di avere un bacino d'utenza di 11.000.000 di persone in un ora di viaggio e 18.000.000 di persone nell'arco delle due ore di viaggio.

In linea di massima possiamo affermare che il parco verrà suddiviso in 4 principali aree tematiche differenti all'interno delle quali saranno ubicate 33 attrazioni, 6 punti di ristoro primari oltre ad altri punti minori, 6 negozi di gadget oltre che alle varie zone di servizio per i clienti (reception, oggetti e persone smarrite, infermeria, noleggio passeggini ecc.).

A lato del parco è stato previsto un albergo con circa 60 camere.

In merito alle attrazioni si è cercato di unire le già affermate attrazioni meccaniche alla novità del multimediale ovvero i cinema 4D con effetti speciali stile Universal Studios.

Parliamo delle attrazioni maggiori, che comunque potrebbero anche subire delle modifiche: 1 Cinema 3D, 1 Cinema 4D con schermo a 360°, 1 Teatro per spettacoli, 1 Inverted Coaster, 2 Roller Coaster (compreso quello per bambini), 1 Roller al buio con effetti speciali, 1 Family Coaster, 1 Torre panoramica alta 100 metri, 2 Dark ride, 1 attrazione al chiuso che abbina il meccanico al multimediale, 1 Flume ride, 1 River rapid.

Dati tecnici: 30.000 mq. di aree verdi, 24.000 mq. occupati da giostre, 10.000 mq. occupati da bacini d'acqua, 4.600 mq. occupati da tematizzazioni, 31.100 mq. di percorsi pedonali, 2.700 mq. di zone di attesa, 2.700 mq. di zone di ristorazione”.

Impressionante, no? Personalmente credo di capirci piuttosto poco: mi pare che “inverted coaster” suoni più o meno come montagne russe a testa in giù, su “family coaster” sono un po’ in crisi, ma mi riprendo sulle rapide mezze vere e mezze finte (chissà se ci si bagna davvero o virtualmente?).

Ma lasciamo – ahimè – da parte tutti questi bellissimi giocattoli, per tornare all’oggetto del contendere tra le due rive della Sesia: il meccanismo decisionale sugli insediamenti commerciali a vasto bacino di utenza. Un ricorso al TAR del febbraio 2003, presentato dalla associazione commercianti novaresi e altri, porta al sequestro del cantiere di Nassica Vicolungo, quando gli edifici sono già quasi ultimati e l’inaugurazione con seguito di ballerinette, lustrini e gorgheggi sembra ormai alle porte. Le accuse nascono (ma va?) da un esposto della società interessata al progetto Outlet-Santhià, secondo la quale “la realizzazione del centro Nassica sarebbe avvenuta aggirando la legge regionale che disciplina l’insediamento di nuovi grandi centri commerciali” (dal Corriere di Novara, 9 ottobre 2003, p. 4).

E risiamo al punto di partenza, comunque la faccenda vada a finire: il tetto di 7-8 centri di tipo Outlet Village per tutto il territorio nazionale, e il suo immediato sforamento per i più ovvi e banali meccanismi di concorrenza, e per i più ovvi e banali buchi nei meccanismi di decisione e controllo. Perché il piccolo trucco usato qui, a quanto pare, è stato quello prima di chiamare l’oggetto del desiderio “parco commerciale” anziché “centro commerciale”, e poi di rilasciare 13 diverse concessioni edilizie, ciascuna per ogni singolo negozio, aggirando così la Conferenza dei Servizi richiesta per le grandi superfici di vendita. E il trucco ha funzionato, almeno fino al punto da consentire la realizzazione fisica del progetto della Morris Architects di Houston.

E ci sarebbe da sorridere, per il fantomatico e temuto “inabissamento del mercato” a causa del soprannumero, se non fosse per gli ettari di territorio doppiamente e ineluttabilmente sconquassati, o per i posti di lavoro sospesi a un filo, pronti a involarsi di qua o di là, verso lidi più accomodanti (secondo l’approccio Nassica Vicolungo) o con più certezza delle regole (secondo l’approccio Fashion District Santhià).

L’unica consolazione, è che qui non sembra – per ora – verificarsi un particolare carico ambientale e/o paesistico, visto che il “corridoio” è ingombro di ben altri e più invadenti “giocattoli”. Speriamo solo che questi più piccoli e colorati gingilli non restino lì, rotti e abbandonati, come succede quando bambini capricciosi incrociano adulti inadeguati.

Nota: qui il resoconto di una visita a Vicolungo dopo l'inaugurazione, che è poi avvenuta, il 7 ottobre 2004 (fb)

Su Eddyburg, per gli stessi temi, nella sezione Megalopoli, vedi anche:

Il Factory Outlet di Serravalle Scrivia (AL)

L’Outlet di Serravalle: valutazione di impatto

Invasione degli Ultrashopping: il Factory Outlet di Fidenza (PR)

Cambiando l’ordine dei Factory, il risultato cambia? Il Village Franciacorta (BS)

Cugini di Campagna: il Fashion District di Bagnolo San Vito (MN)

Centri Commerciali Apocalittici. Centri Commerciali Integrati. Il caso di Borgarello (PV) e altri

Gli spazi dei centri commerciali sono da considerarsi pubblici, o privati? È una questione ad esempio aperta da tempo anche in alcuni insediamenti britannici del tipo new town, dove le scelte della progettazione architettonica hanno mescolato spazi civici collettivi e spazi commerciali, privilegiando però forme a galleria chiuse e semichiuse che prima o poi hanno posto o tuttora pongono il problema.

Il caso forse più curioso è quello del Maine Mall a South Portland, Maine, dove la polemica, con alcuni strascichi anche legali, ha interessato da un lato il management di gestione del complesso di immobili, dall’altro nientemeno che l’Esercito della Salvezza. I volontari suonavano le loro campanelle per raccogliere offerte vicino agli ingressi principali del mall, ma sono stati invitati ad allontanarsi perchè il rumore “disturbava alcuni negozianti e clienti”. Alla fine di proteste varie (pare anche da parte di altri “negozianti e clienti”), i miti raccoglitori di offerte hanno potuto tornare al loro ragguardevole introito di circa 50.000 caritatevoli dollari l’anno, ad una condizione: sostituire le campane d’ordinanza con cinture e bretelle a campanellini, graditi alla direzione.

E naturalmente il problema si pone e si porrà, probabilmente in modo meno clamoroso ma più grave, quando di fronte all’onnipotente Simon Property Group (manager del Maine Mall e di altri trecento circa negli USA) dovessero porsi non le campanelle dei temperanti, ma i banchetti di una raccolta firme sgradita, o un volantinaggio sindacale, uno spettacolo di strada ... insomma tutto quanto fa parte integrante della corrente vita urbana, in qualunque strada o piazza.

Ma per quanto ancora, questo tipo di vita urbana sarà “corrente”? E fino a che punto gli spazi a vario grado di formalizzata privatizzazione del centro commerciale si sono già sostituiti a quelli della città?

Ad un punto preoccupante per quanto riguarda il caso americano, di cui ancora il Maine Mall offre un intero campionario. Basta scorrere i dati sull’argomento nel comprehensive plan di South Portland, la circoscrizione municipale di 25.000 abitanti che “ospita” fisicamente questa articolata struttura commercial-terziaria di scala regionale, che è la principale fonte di occupazione locale. E poi le lamentele degli espliciti oppositori alla sua continua crescita.

Enormi investimenti pubblici per migliorare le infrastrutture di accesso metropolitano e di comunicazione interna, congestione da traffico, difficoltà per la pianificazione locale ad impostare una politica di mixed use che spezzi il blocco monofunzionale di un enorme settore urbano. E parallelamente, la crisi verticale del distretto commerciale metropolitano tradizionale esistente, Greater Portland Downtown, con la crescita dei vuoti, degli edifici sfitti, e dell’insicurezza, della criminalità ... C’è anche chi invita addirittura a “fare libero shopping in città, anziché farsi spiare dal Grande Fratello”, riferendosi alle telecamere della sicurezza, che discutibilmente spiano i clienti in ogni anfratto del mall, e con la scusa della sicurezza invadono la privacy.

E come sempre accade (Esercito della Salvezza a parte) le truppe che si fronteggiano in campo sono come al solito alcuni cittadini, una parte dell’amministrazione locale, e sull’altro fronte la grande impresa proprietaria e/o di gestione del distretto commerciale. A South Portland c’è il gigante Simon.

Simon Property Group, Inc., è una compagnia con quartier generale a Indianapolis, Indiana, con investimenti orientati principalmente alla acquisizione e/o gestione di spazi commerciali, in primo luogo malls di scala metropolitana e regionale, o shopping centers di dimensioni urbane. Attraverso proprie articolazioni o in forma associata, possiede o ha interessi in poco meno di 300 proprietà, per una superficie commerciale lorda di circa 20 milioni di metri quadrati in 37 stati USA, oltre ad altri interessi vari di tipo immobiliare.

Recitava con licenza poetica John Donne nel suo brano più famoso: “ Every man is a peece of the Continent, a part of the maine”. E qui la sua licenza poetica casca a fagiolo, perché aver usato “ maine” anziché “ main” per dire “il tutto”, ci può far tradurre con altrettanta licenza “Ogni essere umano è parte del Maine”. Anche noialtri, che so, di Merate (LC), o di San Rocco al Porto (LO), tanto per citare a memoria, siamo parte del Maine, e soprattutto delle sue rogne con Simon Property Group. Perché come ci informava discretamente il bollettino di Wall Street dello scorso 17 novembre 2003, si era finalmente trovato “ An American Partner for Rinascente for the Ownership and Development of Shopping Malls”.

I gruppi Rinascente e Simon annunciavano di aver firmato l’accordo per una joint venture riguardante la proprietà, gestione, realizzazione di shopping malls in Italia, attraverso una società denominata Gallerie Commerciali. Si parte da 38 centri commerciali già esistenti ed operanti, su circa 250.000 metri quadrati, e da parecchi progetti in vari stadi di realizzazione o progettazione, per altri circa 450.000. Letteralmente: “La società ha lo scopo di consolidare una posizione di leadership sul mercato nazionale, attraverso il contributo in risorse e in know-how da parte del nuovo socio americano”.

Simon Says: Ciao Italia!Così titola, un paio di giorni dopo l’annuncio, la rivista specializzata Retail Traffic, specificando che il maggior gruppo americano ha intenzione di “svilupparsi lungo tutto lo stivale”, nel quadro dell’espansione europea e globale di tutti i grandi operatori.

E agli italiani al momento non resta nemmeno la possibilità di dire, che so “Ciao Simon”, o qualcosa del genere, perché nella migliore strategia di accostamento a nuovi mercati, il consumatore continuerà a vedere i marchi familiari, rappresentati in questo caso soprattutto da Auchan, il principale anchor delle gallerie commerciali targate Rinascente.

Per capire se e quando è cambiato qualcosa, basterà forse andare con una campana davanti all’ingresso principale di Merate, o San Rocco al Porto o chissà dove altro, e vedere cosa succede, e vedere se siamo diventati tutti “parte del Maine”.

Perché la nota citazione di John Donne, è – quasi ovviamente - quella che si conclude con “E dunque non mandare a chiedere per chi suona la campana: suona per te”.

Se si da' retta al titolo del pezzo che segue (e bisogna dargli retta per forza, vista la fonte), stiamo davvero freschi. La formula della magica pozione che stiamo già assaggiando da tempo, e che trangugeremo in futuro, è stata già ben sintetizzata da Edoardo Salzano nell’ultima edizione del suo Fondamenti di urbanistica: “la città, la scimmiotto e la svuoto”. Svuotare la città perché sia riempita da altro, mica quegli inutili e fastidiosi animaletti conosciuti un tempo come abitanti, e ora lì a ostacolare il luminoso scorrere della “valorizzazione”. Meglio, molto meglio, che vadano a valorizzare di tasca propria altri territori, che da timide vergini si faranno allegre puttane, con ampie possibilità di rivalutazione anche culturale nel tempo: come appunto accade ora, alle starlets come alle ex fuligginose ciminiere, o agli ex paesi dei barocchi a suo tempo assai poco apprezzati dagli ex contadini cacciati lì dentro a pedate.

Ma, oltre le mie discutibilissime elucubrazioni (di cui i frequentatori di eddyburg potrebbero anche essere un po’ stufi, dopo la telenovela a puntate sui fashion villages padani), forse gli asciutti dati così ben presentati da Luca Tamini possono e devono far riflettere, soprattutto sull’inutilità dell’arroccamento, per quanto elegante. A pensarci bene, le torri d’avorio si costruiscono col cimitero degli elefanti.

Pensare, che all’inizio di tutto c’è un palazzo di cristallo, al centro di un parco, al centro di una città giardino. Lì la gente si incontra, magari quando nel parco piove, e già che c’è beve qualcosa, o fa acquisti. È l’immagine, dimenticata, del Crystal Palace con cui il vecchio Ebenezer Howard pensava alle guarnizioni finali del suo “sentiero verso una vera riforma”. Un sentiero percorso e deciso dalla società nel suo insieme, di cui appunto quelle arcate luminose sarebbero state un simbolo, e i bottegai eventuali quanto graditi ospiti. Mica forza propulsiva, e avanguardia della rivoluzione.

E ha ragione Peter Hall quando, nel suo Sociable Cities, the legacy of Ebenezer Howard, dice che pianificare il decentramento è ancora possibile: basta avere un’idea forte, forte e che non confligga con dati di fatto come l’enorme domanda sociale di mobilità, di accesso ai servizi, e perché no anche alle merci e a un po’ di immaginario. Anche nel teatro vivente del territorio.

Se l’hanno capito gli “svuotatori e scimmiottatori”, magari potrebbe iniziare a pensarci anche qualcun altro. O no? (Fabrizio Bottini)

Da: Il Denaro edizione online, 23 dicembre 2003

Commercio & Logistica – tendenze - CAMBIANO LE CONNOTAZIONI TECNICO-OPERATIVE DEI PUNTI VENDITA AL DETTAGLIO - Factory Outlet: formula del futuro - di Luca Tamini (docente del Laboratorio Urbanistica e Commercio del Politecnico di Milano)

La localizzazione di molti centri commerciali in contesti suburbani e a ridosso di circonvallazioni e svincoli d’accesso di medie e grandi città è assai diffusa in Italia e in molti casi alquanto discutibile sotto l’aspetto insediativo e sociale. Fino ad oggi questa localizzazione si è legata alla tipica tipologia del centro commerciale integrato, mentre solo più recentemente, ad una scala edilizia maggiore e con bacini d’attrazione ancor più ampi essa è stata fatta propria dai Factory Outlet Centre (FOC).

Queste strutture a formula mista (negozi e department store) — sorta di evoluzione tipologica (Tab. 1) dei tradizionali spacci aziendali (come centri di vendita diretta di rimanenze di stagioni precedenti, overstock di magazzino in seguito a eccedenze di programmazione e di produzione) e organizzati per sfruttare le sinergie tra industria e distribuzione e le capacità di vendita dei diversi “marchi” attraverso partnership di mercato (affitto di ramo d’azienda) — sono localizzati in aree ad alta accessibilità, spesso a vocazione turistica, secondo una logica simile ai parchi e ai centri commerciali integrati e con una connotazione urbanistica simile alle grandi superfici di vendita, pur nel quadro di una diversa organizzazione interna (non necessariamente indoor) orientata alla configurazione areale (Outlet Village).

In questo quadro evolutivo, è da ricordare che nel settore non alimentare la presenza dell’industria nella rete distributiva è significativa, soprattutto a seguito di due fenomeni: la rilevanza delle aree ad alta specializzazione produttiva (distretti industriali, aree sistema, sistemi produttivi locali) con la notevole diffusione degli spacci aziendali e la prevalenza di punti vendita di piccole dimensioni con assortimento specializzato con la diffusione di forme di controllo verticale (franchising, punti vendita monomarca in proprietà, etc.).

A scala internazionale, uno dei principali orientamenti sul tema dell’impatto degli Outlets Village sui contesti locali è la Planning Policy Guidance “Town Centres and Retail Development” realizzata nel luglio 1993 dal Ministero dell’Ambiente britannico (PPG6, aggiornata nel giugno 1996), inerente la pianificazione e le politiche di governo degli insediamenti commerciali (planning for retail developments) connesse all’impatto sulla vitalità e sulla viabilità dei centri urbani. Come linea guida si acquisisce la consapevolezza del ruolo critico del sistema della pianificazione di limitare la competizione, di valorizzare i valori posizionali commerciali esistenti e di contrastare i processi di innovazione del settore. Questa PPG introduce il concetto di sequential approach utile a selezionare le nuove localizzazioni commerciali e di entertainment in ambito periferico-extraurbano solo in caso di impossibilità di realizzazione del progetto in area urbana.

L’identikit della nuova struttura

PRINCIPIO INSEDIATIVO

Aggregazione spaziale di ampia dimensione di più punti vendita monomarca (esercizi di vicinato e medie superfici) con configurazione insediativa di tipo areale.

LOCALIZZAZIONE

In ambiti extraurbani — con buona dotazione infrastrutturale ad alta accessibilità (spesso in prossimità di un asse autostradale) — spesso a vocazione turistica secondo una logica simile ai centri commerciali extraurbani (sostanzialmente equiparati in sede di Conferenza dei Servizi regionale o provinciale).

Connotazione urbanistica simile alle grandi superfici di vendita, pur nel quadro di una diversa organizzazione interna.

CAPACITÀ DI ATTRAZIONE Sono organizzati per sfruttare le sinergie e le capacità di vendita dei diversi "marchi" e l’integrazione con altre format di offerta legati al tempo libero e all’intrattenimento, ai servizi di ristorazione, alla promozione turistica.

Bacini gravitazionali estesi di scala sovracomunale (interprovinciale e interregionale).

Titolo originale Greyfield Regional Mall Study– Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

[...]



Introduzione

L’obiettivo dell’incarico di ricerca era di fornire al Congress for New Urbanism (CNU) uno white paper metodologicamente valido, indipendente, privo di pregiudizi, sulle caratteristiche immobiliari e demografiche delle “aree grigie” di centri commerciali regionali degli Stati Uniti al 1999. Studi successivi si possono focalizzare sulle strategie di ristrutturazione urbanistica per i siti degli ex centri commerciali e le necessarie iniziative in termini di politiche pubbliche che si richiedono per indirizzare queste idee nel quadro di una riforma regolamentare, a sostegno delle attività di recupero urbano in queste “zone grigie”.

Perché esistono, le zone grigie? Secondo le teorie sui cicli di vita, le proprietà immobiliari senza la necessaria manutenzione, rinnovamenti, e altri investimenti di capitale possono deprezzarsi a causa di obsolescenza funzionale. Alla fine, il valore totale di un centro commerciale zona grigia può essere semplicemente quello del terreno, meno le spese di demolizione delle vecchie strutture.

Un mall zona grigia tipo ha un’età di 32 anni, e ha subito l’ultima grossa espansione o rinnovamento circa 13 anni fa. In media i greyfields identificati hanno entro un raggio di otto chilometri 22 aree commerciali concorrenti, con complessivi 230.000 metri quadrati. Un’altra spiegazione logica dell’esistenza delle zone grigie sono i nuovi formati commerciali, in nuovi insediamenti, che hanno captato quote di mercato. In sintesi, ci sono tutta una serie di ragioni per cui i centri commerciali declinano: dai cambiamenti nella competenza all’interno dell’area, a quelli demografici, all’insufficiente capacità di gestione e comportamenti degli operatori commerciali affittuari.

Quadro 1: Cause per il possibile declino di un centro commerciale

Rassegna della letteratura tecnica

I paragrafi che seguono forniscono un breve resoconto della ricerca scientifica in materia di centri commerciali. La maggior parte degli articoli citati si concentrano sui regional malls, le teorie di localizzazione, le vendite, gli affitti, i profitti. Ciascun saggio è brevemente riassunto, concentrandosi sulle conclusioni dell’autore. A seguito della rassegna, riportiamo le conclusioni del presente studio sui greyfield malls.

In aggiunta a questi studi editi di carattere accademico, sono state scritte numerose storie sulla stampa popolare sul declino dei centri commerciali. Molte si focalizzano sugli sforzi intrapresi per rinnovare o ristrutturare centri in declino o già “zone grigie”.

Dati

Gi estensori del presente studio riconoscono i limiti dei dati disponibili sugli immobili commerciali. Ma sono comunque state applicate metodologie consolidate a quelli disponibili, per arrivare a dei risultati. In questo studio sono state usate le seguenti fonti:

Metodologia

Lo studio è stato suddiviso in due parti. La prima si concentra sulla descrizione del panorama commerciale attuale, con attenzione particolare ai malls regionali e super-regionali. La seconda parte dello studio valuta la quantità di potenziali “zone grigie”.

Utilizzando le informazioni del Cd-Rom National Research Bureau, edizione 2000, abbiamo riassunto un panorama nazionale commerciale, per tipologie di centro e superficie totale. Questa prima parte dello studio si è poi orientata esclusivamente ai malls regionali e super-regionali, che erano il centro focale della ricerca.

Si trattava di raccogliere informazioni si ciascun centro commerciale di scala regionale e oltre negli Stati Uniti. Lo Shopping Center Database del National Research Bureau (NRB) edizione 2000, indica che ci sono 2.847 centri di questo tipo negli USA. Di questi, circa 147 sono nelle fasi di progettazione o costruzione. Ne restano 2.700 da prendere in considerazione.

Si è condotta un’analisi aggiuntiva sul database NRB per costruire una lista di centri che comprendesse solo quelli regionali e super-regionali. I dati della pubblicazione SCORE, International Council for Shopping Centers (ICSC), indicano una media di 56 negozi nei malls regionali degli USA. Basandoci sulla media di 56, abbiamo eliminato tutti i casi del database con meno di 35 negozi. Questa eliminazione dai centri classificati regionali da NRB ha restituito un universo di 1.689 casi. C’erano anche, nel database NRB, 387 malls (classificati regionali o super-regionali) di cui non era disponibile il numero dei negozi. Dunque abbiamo stabilito una fascia di oscillazione, valutando il numero di centri regionali o super-regionali degli USA fra 1.689 e 2.076 (1.689 + 387). La seguente Tabella 2 riporta i tipi di dati rilevati per ciascun mall regionale.


Tabella 2: Informazioni raccolte dal Database NRB
Nome del centro Longitudine Superficie commerciale non-anchor “Introverso” o aperto
Indirizzo Proprietà Tipo di centro Numero di piani
Città Telefono Quote d’affitto Forma del mall
Stato Fax Vendite per unità di superficie Indicazioni costruttive
Codice postale Numero di negozi Costi del centro Anno di apertura
Contea Percentuale di occupazione Spazi parcheggio Anno dell’ultimo rinnovo
Area Statistica Metropolitana Superficie totale Codice di mercato Anno dell’ultimo ampliamento
Latitudine Superficie commerciale Ore di apertura Regione geografica

[...]

Risultati

[...] La Tabella 5 presenta sommari descrittivi relativi a “zone grigie”, centri a rischio, centri vitali, e infine centri commerciali in piena salute, da un campione di 698 malls.


Classificazione Variabile Media

Zona Grigia

Ettari 18,6
Superficie commerciale 46.000
Percentuale di occupazione 84,56
Vendite 114,3
Anno di apertura 1968
Anno di ampliamento 1988
Anno di rinnovamento 1991
Negozi 62,7

A Rischio

Ettari 22,00
Superficie commerciale 50.000
Percentuale di occupazione 82,85
Vendite 174,4
Anno di apertura 1971
Anno di ampliamento 1990
Anno di rinnovamento 1992
Negozi 71,1

Vitale

Ettari 24,5
Superficie commerciale 60.000
Percentuale di occupazione 90,14
Vendite 219,2
Anno di apertura 1976
Anno di ampliamento 1990
Anno di rinnovamento 1993
Negozi 84,2

In salute

Ettari 28,5
Superficie commerciale 84.000
Percentuale di occupazione 93,68
Vendite 321,3
Anno di apertura 1973
Anno di ampliamento 1999
Anno di rinnovamento 1999
Negozi 123,7

[...]

Conclusione

Questo studio stima che approssimativamente il 7% dei centri commerciali regionali siano “zone grigie”, con l’aggiunta di un 12% di malls a rischio di diventarlo nel futuro. Utilizzando i dati dell’impresa commerciale, le indagini degli investitori immobiliari, ed estese analisi statistiche, abbiamo rilevato significative differenze fra le varie categorie, principalmente fra zone grigie e centri vitali e in piena salute. Questo studio mostra anche che la maggioranza dei malls “zona grigia” sono collocati in zone a basso reddito, con case vecchie e a basso costo. Infine, riteniamo che la ristrutturazione di queste zone grigie in aree residenziali ad alta densità e a usi misti possa essere di beneficio ai malls regionali esistenti, vitali e in buona salute.

La ristrutturazione di immobili non è un concetto nuovo. Uffici sono convertiti in condomini, magazzini in laboratori di ricerca, vecchi depositi in zone centrali diventano appartamenti loft, e anche i grandi centri commerciali possono diventare zone a usi misti. Si possono già trovare esempi di greyfield malls in corso di riconversione in varie comunità locali di tutti gli Stati Uniti.

Questa indagine non vuole lanciare un allarme, né affermare che ci sia un pericolo immediato per i centri commerciali regionali ben localizzati e gestiti. Gli autori credono nella vitalità a lungo termine dei centri regionali, anche nell’epoca di internet e dello e-tailing. I consumatori sono esseri sociali, e dunque spazi del commercio come i malls regionali continueranno a servire i propri fini di divertimento, socialità, e consumi nel prevedibile futuro.

Ad ogni modo, crediamo che questo studio confermi la definizione e identificazione delle “zone grigie”. Gli autori auspicano ulteriori analisi del fenomeno, allo scopo di sviluppare le necessarie iniziative in termini di politiche pubbliche e risposte dell’impresa commerciale privata.

Nota: Il portato di questa analisi, del resto abbastanza coerentemente con il tono (se non la sostanza) delle conclusioni, è una risposta tecnica al momento di profilo piuttosto basso, ovvero la progettazione variamente siglata New Urbanism. Un tipo di progettazione che, buona volontà a parte, sembra del tutto inadeguata ai problemi posti da questa velocissima dismissione commerciale generatrice di “zone grigie” (fb).

Tappa a Serravalle Scrivia, in quello che viene considerato il più grande “Outlet” d’Europa, che sarebbe un posto dove le più importanti griffe, con il loro marchio ufficiale, si disfanno dell’invenduto.

Impressiona, al primo impatto, la soluzione urbanistica. Uno si aspetta un grande centro commerciale coperto come tanti ce ne sono - tipo ipermercato, per intendersi - e si trova invece in un paese nuovo di zecca, con strade e case sorte dal nulla, sulla statale che da Serravalle porta a Novi Ligure, tra le dolci colline che fanno da cornice allo Scrivia. Questo nuovissimo agglomerato urbano, è circondato da un immenso parcheggio (questo si, somigliante ai centri commerciali che conosciamo) nel quale si trova sempre posto per l’automobile.

Le costruzioni, in genere a due piani, sono d’impronta tipicamente ligure. Ed è logico. Non bisogna dimenticare che ambedue le cittadine, oggi in provincia di Alessandria, appartenevano storicamente a Genova. Sono case fatte con gusto, diverse tra loro, in schiere ininterrotte che si snodano sinuose, creando vie e piazze, tutte rigorosamente riservate ai pedoni. Diversi e appropriati i colori d’ognuna. Ogni costruzione – se non fosse per il “nuovo” quasi abbagliante, sembrerebbe trapiantata li da Portofino o da Lerici o da Rapallo o da Alassio o da una delle cento cittadine della riviera ligure. Ad una delle porte-piazze d’ingresso, chiamata Piazza Levante, una “Lanterna” ci ricorda il dominio genovese su queste terre.

Il piano terra di ognuna delle costruzioni, è interamente occupato da negozi di abbigliamento e di accessori. Tutte le principali case italiane ed anche parecchie estere, sono presenti. Non disdegnano neanche Bulgari o la Villeroy e Boch. Vi sono anche un ristorante, una pizzeria, alcuni bar. Vi sono centoventi negozi, alcuni anche piuttosto grandi, uno attaccato all’altro. Al primo piano, finestre con i gerani, balconi, loggiati. L’idea dovrebbe essere quella di far credere che qualcuno vi abita, ma tutto è troppo ordinato, troppo preciso perché sia così.

Passata la prima impressione di ammirazione, comincio a vedere questo villaggio come uno di quelli costruiti per girare un film western, qualcosa di posticcio, di artificioso, di falso, insomma. Mia moglie dice che sbaglio. “Pensi siano meglio quegli squallidi mega prefabbricati di tipo industriale, come Auchan, Panorama, Ipercoop, Esselunga?” mi chiede. No, ma sono più onesti, ribatto, ché ormai devo tenere il punto. Questa Disneyland dell’abbigliamento è molto più subdola, vuol far credere di essere quello che non è. E questa storia dell’outlet, è un bello specchietto per le allodole, un modo come un altro per vendere.

La discussione potrebbe continuare all’infinito, ma ormai sono le otto di sera, mia moglie ha visto tutto quel che voleva (la fermata è a suo beneficio) i negozi cominciano a chiudere, tra poco – e fino a domattina - questa diventerà una città fantasma. “Mangiamo qualcosa qui prima che chiudano?” mi chiede lei. No dico, stanno per attuare il coprifuoco, andiamo a Novi, che è una città vera, in un locale vero, a mangiare una pizza vera. Così facciamo, finalmente d’accordo.

Fonte: http://www.medusina.com/talk/1060041498,66958,.shtml

La “morte” dei centri commerciali, come abbiamo già visto in parecchi dei contributi presentati, è ormai vista come fatto fisiologico, comunemente accettato, con cui le comunità devono in qualche modo imparare a convivere. Resta naturalmente aperto il problema ambientale e sociale di questi vuoti, che nello stesso modo di quelli militari, ferroviari, industriali, rappresentano una vera piaga, che trascina nel proprio declino la comunità e il territorio nel suo insieme. Il testo che segue si limita (a mio parere) a sfiorare il problema, anche se non ne disconosce esplicitamente la complessità. Non a caso, si deve alla corrente culturale cosiddetta New Urbanism, che come il concetto parallelo di smart growth spesso nasconde approcci ideologici, o di comodo, o un marchio come un altro per riverniciare di nuovo pratiche professionali per nulla innovative. Resta naturalmente l’interesse che suscita (oltre l’incomprensibile, o forse comprensibilissimo, fatalismo di fondo) il fatto di affrontare la questione a scala nazionale, identificando piaccia o meno un problema che va oltre qualunque logica di “progetto”, richiamando ad altre, più mature riflessioni di carattere sia disciplinare che sociale. Questioni naturalmente colte quando ad affrontarle c’è in un ruolo centrale la pubblica amministrazione: non certo progettisti che, per quanto bene intenzionati, sono pur sempre “operatori commerciali” tanto quanto i negozi in crisi che vogliono rivitalizzare. (fb)

Titolo originale Greyfields into Goldfields: from Failing Shopping Centers to Great Neighborhoods – traduzione di Fabrizio Bottini

I centri commerciali in crisi: un problema nazionale

I centri commerciali obsolescenti punteggiano il panorama urbano d’America. Per trovarli non ci vuole un’abilità particolare. Un parcheggio recintato ne tradisce la presenza. Le vendite di auto usate nel fine settimana sono un forte indizio. Le vetrine dei negozi trasformate in centri di attivismo politico comunitario e ambulatori, sono chiari segnali. Proprietari immobiliari, affittuari e investitori sono consapevoli del proprio declino. I vicini, ex commercianti, ex dipendenti, lo sanno. Chi governa la città, i rappresentanti dei cittadini, lo sanno. Ma non è che, semplicemente conoscendo il problema, conoscano anche la soluzione.

Il Congress for the New Urbanism (CNU) vede molti di questi centri commerciali come luoghi ideali per insediamenti a usi misti, orientati ad una mobilità servita dal trasporto pubblico. Alcuni di essi non sono più adatti alla distribuzione commerciale a scala regionale. Ma molti sono ben dotati delle caratteristiche di un sito a insediamento new urbanist, che comprenda abitazioni, commercio, uffici, servizi, spazi pubblici.

Will Fleissig, un costruttore della Continuum Partners di Denver, di recente ha riconvgertitio la “zona grigia” del centro commerciale Villa Italia di Lakewood, Colorado. Fleissig afferma: “Sentiamo tanto parlare di edificazione nelle zone già urbanizzate ( infill n.d.t.), di smart growth, sobborghi di prima fascia, insediamenti orientati a trasporto pubblico, e di sprawl. Se guardate ad un quadro più ampio, si tratta della principale questione d’America, oggi. Abbiamo bisogno di costruire quartieri migliori dentro le città, vicino ai mezzi di trasporto pubblici. Queste “zone grigie” sono la prima ondata di una grande quantità di terreni disponibili nelle comunità esistenti, vicino ai trasporti, dotati di servizi, con un potenziale per maggior densità”.

In questa relazione si usa il termine “zone grigie” ( greyfields n.d.t.) per descrivere aree commerciali che necessitano di un significativo intervento pubblico e privato per arrestare il declino. Più noti sono i brownfields (siti urbani contaminati) e i greenfields (aree rurali inedificate). Al contrario, le zone grigie sono aree edificate, fisicamente ed economicamente mature per importanti ristrutturazioni.

In mancanza di positivi interventi di rivitalizzazione, il valore dei centri commerciali “zona grigia” si riduce a quello del suolo, meno quello di demolizione degli edifici. Ci sono siti che hanno già raggiunto questo stadio, con gravi ripercussioni sull’economia e sulla comunità, in tutto il paese. Per una comunità locale, una zona grigia è più di un’immagine di degrado. Significa una perdita di base fiscale, perdita di opportunità di lavoro, aree di valore inutilizzate. La serietà dei danni di questo degrado è stata messa in luce quando il Daily Camera di Boulder, Colorado, ha votato la propria “storia dell’anno” per il 2000: il declino del Crossroads Mall. Gli sforzi in sede locale per rivitalizzare zone commerciali deboli o in decadenza sono piuttosto frequenti. Alcuni hanno avuto successo, altri no. Il CNU sta conducendo un’analisi a livello nazionale su come rivitalizzare queste aree, così che possano fornire risorse a comunità e proprietari. L’obiettivo, detto in poche parole, è quello di trasformare le zone grigie in miniere d’oro ( greyfields into goldfields n.d.t.).

Il New Urbanism e i centri commerciali

Il Congress for New Urbanism ha da molto tempo un interesse particolare per i centri commerciali “zone grigie”.

Dal 1989 al 1996, i new urbanists hanno contribuito a fare del centro Minzer Park di Boca Raton, Florida, da lungo tempo in decadenza, un insediamento a usi misti finanziariamente riuscito. A metà anni Novanta, un altro gruppo new urbanist ha redatto un piano per lo Eastgate Mall di Chattanooga, Tennessee. Ora è in corso di realizzazione, ed è diventato una delle cose di cui gli abitanti di Chattanooga sono più orgogliosi.

Lo scorso anno, altri centri commerciali regionali in tutto il paese hanno visto operare il new urbanism: Cinderella City a Englewood, Colorado; Plaza Pasadena a Pasadena, California; Town & Country a San Jose, California. Altri casi in cui si sono considerate le suggestioni new urbanism sono il Parole Plaza nei pressi di Annapolis, Maryland; Bannister Mall a Kansas City, Missouri; South Square Mall a Durham, North Carolina.

Altri attendono. La PricewaterhouseCoopers (PWC) stima per difetto che ci siano almeno 140 centri commerciali di scala regionale negli Stati Uniti, che sono già “zone grigie”, e altri 200-250 che si stanno avvicinando a questa condizione. Nel complesso, queste due categorie rappresentano il 18% di tutti i centri commerciali regionali a scala nazionale.

Lo Studio

Il CNU ha cominciato il suo studio dei centri commerciali “zone grigie” all’inizio del 2000. L’indagine contava su vari contributi:

Lo studio PWC si concentra sui centri commerciali regionali, e non prende in considerazione i molti altri tipi di proprietà commerciali che pongono problemi simili di ristrutturazione. La CNU si focalizza sulla scala regionale perché questi siti – con almeno 35.000 metri quadrati di spazio commerciale affittabile e un minimo di 35 negozi – hanno effetti particolarmente gravi quando entrano in declino, offrendo contemporaneamente una particolarissima opportunità per il riuso.

Caratteristiche delle “zone grigie”

Le caratteristiche dei centri commerciali in crisi citati qui si basano sui dati delle analisi PWC. La PWC ha calcolato che le zone grigie hanno una dimensione media di poco più di 20 ettari. In particolare, questi siti sono sia più piccoli che meno collegati ai sistemi di trasporto regionali, di quelli che ospitano i centri commerciali di maggior successo della nazione, che hanno dimensione media di oltre 35 ettari, visibilità dall’autostrada e accesso diretto dalla rampa d’uscita. Molte zone grigie sono localizzate entro quartieri e zone commerciali consolidate. Will Fleissig, un costruttore che recentemente ha riconvertito un greyfield in Colorado a centro città a usi misti, afferma: “Questi centri commerciali tendono a stare su arterie suburbane con servizio di autobus. Molti sono già stazioni di interscambio di autobus”.

La PWC ha rilevato che l’obsolescenza dei centri commerciali è connessa al formidabile livello di concorrenza. In media, i centri in crisi hanno 230.000 metri quadrati di spazio commerciale in competizione in 22 altri centri (compresi quelli di quartiere e urbani, oltre ad altri malls regionali) nel raggio di otto chilometri. Molti stanno dentro bacini commerciali dominati da formati più recenti e operatori di maggiori dimensioni. Sono spesso più vecchi e piccoli di quelli di maggior successo nella regione.

Mark Eppli, un ricercatore in campo commerciale alla George Washington University di Washington, D.C., afferma che le forme di rinnovamento convenzionali non sono sufficienti a dare una boccata di nuova vita per molti insediamenti: “Una plastica facciale non aiuta gran che. Anche un nuovo negozio anchor, a seconda della posizione di mercato del centro, può non servire”.

C’è bisogno di nuovi modelli di riuso: modelli che vadano oltre la plastica facciale e il tradizionale commercio regionale.

Modelli di riuso

Se i classici centri commerciali “zona grigia” sono ormai inadeguati agli standards attuali, essi generalmente offrono la superficie necessaria per creare progetti insediativi integrati, utilizzando i principi del new urbanism. In quanto localizzazioni commerciali, questi siti possono soffrire l’eccessiva distanza dalle autostrade. Ma una posizione del genere può essere vantaggiosa in un riuso new urbanism. Offre la possibilità di integrare le varie attività entro un contesto di quartiere.

Victor Dover, un architetto che ha lavorato in parecchie rivitalizzazioni new urbanism di centri commerciali, dice che questo approccio spesso è la soluzione migliore. “Qualche volta il centro commerciale va in crisi perché ha perso la propria ragion d’essere economica. Ma quasi ogni comunità ha dei bisogni. Smettiamo di pensare a questi siti come a zone commerciali fallite, e iniziamo a considerarli aree a potenziali usi misti”.

Le comunità lungimiranti, in presenza di zone grigie, stanno costruendo e sperimentando nuovi modelli di riuso. Modelli di cui ci sarà necessità urgente, visto che la dismissione dei centri commerciali è una tendenza in crescita: PWC identifica oltre 200 malls possibili candidati “zona grigia”. Se molti altri centri commerciali ben gestiti prosperano, altri non sfuggiranno all’obsolescenza. Le zone grigie saranno un problema costante, strettamente legato alla pratica contemporanea dell’insediamento commerciale per malls. Con l’emergere di nuove tendenze, e lo spostamento “verso l’alto” dei nuovi insediamenti, i siti più vulnerabili sono spinti al declino. Il rinnovamento riuscito di un centro commerciale può causare la crisi di molti altri, più vecchi, entro il bacino di utenza.

I proprietari di malls hanno tentato molte tecniche di rivitalizzazione della vivacità economica dei loro immobili. La maggior parte dei centri, semplicemente, si espande, si ridecora, attira un nuovo negozio anchor. Alcuni centri commerciali si sono convertiti a uffici secondari, o centri di elaborazione dati. In questi casi, la comunità ospite ha perso la funzione civica precedentemente offerta dal mall. Più importante, né l’ampliamento né la conversione in uffici sfociano nel fornire l’area di una combinazione di residenza, commercio, terziario, e spazi pubblici che i cittadini e i loro rappresentanti desiderano.

I principi per creare ambienti new urbanism comprendono:

Ulteriori approfondimenti

Il CNU sta continuando i propri studi e ricerche sulle “zone grigie”. Continueremo a sollecitare la partecipazione sia di esperti che di operatori del settore, a migliorare la qualità e importanza del nostro lavoro. La CNU è l’unica organizzazione finalizzata al miglioramento dei centri commerciali decaduti, sia dal punto di vista finanziario, sia per la loro capacità di perseguire più ampi fini sociali.

La prossima pubblicazione del CNU sul tema sarà un catalogo di esperimenti riusciti di rivitalizzazione new urbanist. Continueremo anche i nostri sforzi per analizzare le cause del declino dei malls, e dei catalizzatori di rivitalizzazione.

(Una breve rassegna di principi generali)

Il New Urbanism per le zone grigie: i siti dei centri commerciali abbandonati aiutano a invertire la tendenza allo sprawl urbano

Nota: seguirà, quanto prima su Eddyburg/Megalopoli, l'intero studio a scala nazionale ampiamente citato sopra (fb)

Preludio pedemontano

La storia commercial-territoriale che andiamo qui a raccontare, comincia nella periferia industriale bresciana. O, meglio, nel vicino Portogallo.

Portogallo che – abbastanza ovviamente se ci si pensa un secondo – non è abitato solo da seriose donne contadine vagamente baffute, o ridenti pescatori con berretto da tonno nostromo, ma anche da modernissimi managers rampanti, tali e quali a quelli che da noi, in tutta Europa e Stati Uniti, svolazzano da un moquettato ufficio all’altro, decidendo in anglofono specialistico iniziatico gergo i destini dello sviluppo, globale o locale fa lo stesso. Managers come quelli della Sonae.

Come possiamo leggere sul sito http://www.sonae.pt, Sonae nasce nel 1959 a Maia, in Portogallo, come impresa specializzata nelle lamine di legno ornamentali, sviluppandosi poi per circa vent’anni sempre nel campo dei prodotti derivati dal legno. Con gli anni Ottanta e l’entrata del Portogallo nella Comunità economica europea, le attività di impresa cominciano a diversificarsi, con l’acquisizione di una catena di supermercati, il lancio del primo ipermercato portoghese, e la creazione del ramo specializzato immobiliare finalizzato alla realizzazione di Shopping Centers. Contemporaneamente, l’impresa entra anche nei campi della comunicazione, delle tecnologie dell’informazione, delle attività per il tempo libero e turismo. Da successive espansioni internazionali e riorganizzazioni, nasce la holding Sonae Investimentos, interamente dedicata al moderno commercio, e separata dalle altre attività industriali. Gli shopping centres interessano Portogallo, Brasile, Spagna, Grecia, Germania, Italia, Austria.

L’immagine dell’impresa, in generale e in particolare nel campo dei “centri commerciali integrati” (che offrono una gamma di servizi più ampia del solo commercio) punta molto sull’idea di sviluppo ambientale sostenibile, che informerebbe di sé le politiche industriali e di mercato. Leggiamo a questo proposito: “il management ambientale è una delle priorità di impresa, e un fattore chiave”. Nel 2001 il gruppo ha pubblicato un pamphlet che delinea la sua “politica ambientale”, distribuisce ai propri dipendenti il periodico Eco-Noticias, e edita periodicamente un Environmental Report. La seconda edizione del Rapporto, quella attuale, sottolinea come sia ora che in misura

maggiore per il futuro “non intendiamo focalizzarci solo sui risultati della Sonae in campo economico e ambientale, ma anche sui progressi in campo sociale, dimostrando il nostro impegno per un progresso continuo verso la Sostenibilità Ambientale”. In effetti, scorrendo affermazioni e cifre, emerge interesse e impegno in ambiti come le emissioni, il trattamento dei rifiuti, la qualità dei prodotti e processi, l’impatto sul paesaggio, e molti altri temi di interesse per l’ambiente alle varie scale. Se si considerano tutte le azioni complesse che comporta la individuazione, progettazione, realizzazione, gestione e sviluppo di un grande centro commerciale integrato, non si può negare che nel Rapporto, anche solo considerando la parte della Sonae Immobiliare (altri spunti interessanti emergono dal resto delle attività), c’è ampio spazio per i temi ambientali in senso lato.

Rassicurante, per esempio, nel caso di un sito in un’area dismessa delle nostre città o cinture metropolitane. Ferme restando, naturalmente, le ovvie attenzioni all’ambiente inteso come sistema locale, fatto anche da cose come la infrastrutturazione, i flussi, insomma tutto quanto non si può ridurre e ricondurre ai compiti specifici dell’impresa, ma che con la sua logica si incrocia eccome.

E nel primo scorcio del terzo millennio, i destini della Sonae nel suo girovagare tra Europa e Sud America, incrociano quelli della nostra Brescia: un tempo industriale, ancora in gran parte tale, ma alle prese con una complessa e strategica trasformazione urbana e metropolitana, verso un uso del territorio tra l’altro più attento, proprio, alla questione del recupero ambientale. L’occasione è un’area dismessa abbastanza tipica per le nostre città italiane: a ridosso del centro storico, degradata, ma squisito bocconcino per chi volesse e potesse investirci in operazioni di redevelopment nel segno del commercio, terziario, e vari altri usi più lucrosi delle obsolete e fuligginose ciminiere. Siamo nel “comparto Milano” della città, noto alle cronache per i veleni che la vicina Caffaro ha sparso in tutta la provincia per generazioni, e l’area è quella già occupata dagli impianti Atb, definita dal crocicchio fra le vie Italia (una parallela ai viali di circonvallazione del centro storico) e Cassala (una radiale che dalla stessa cerchia taglia le linee ferroviarie e immette nel sistema di circonvallazione e tangenziale sud), pochi minuti a piedi a ovest della stazione. Si tratta quindi di una operazione di recupero piuttosto delicata, per la città come per gli investitori, ma ghiotta: 44 milioni di Euro investiti solo per l’acquisto dell’area, per un totale di 52 mila metri quadrati destinato a contenere commercio, uffici, intrattenimento, servizi per la città come la sede del Museo dell’Industria, per un totale di 100 milioni di Euro fra area e rinnovo. Il Giornale di Brescia ci informa tra l’altro che “la più contenta sembra la Signora Maria ... di vedere come un pezzo di città che se ne va via, giorno dopo giorno” portandosi appresso fumi, o angoli magari pericolosi e bui (Gianni Bonfadini, Bisider-Atb, le macerie e il futuro, 7.8.2002). Mai contenta, la probabilmente inventata signora Maria, quanto gli ambientalisti-capitalisti della multinazionale portoghese e della sua consociata italiana. Fermi restando i soliti dubbi dei soliti scettici, sul fatto che insieme ai fumi se ne vadano via per esempio anche cose come i contratti collettivi, pare che il passo a cui partecipa la Sonae sia decisamente in avanti. Si recupera alla città un’area strategica sinora buco nero, a ridosso della ferrovia e a snodo fra la città intermedia e la prima fascia periferica, e la si può destinare ad attività “centrali” in senso lato, ovvero non generico terziario da palazzoni per uffici in affitto, ma usi più complessi ed articolati. Resta da vedere il risultato concreto, ovviamente, ma ci sono ottime premesse di riuscita, e le garanzie offerte dall’operatore, di un approccio ambientalmente / socialmente sostenibile, sembrano rispettate (grazie, presumibilmente, all’elevata capacità di interazione tecnica e politica dell’ente locale interessato).

Sviluppi di pianura

Come si diceva all’inizio, Brescia pedemontana è solo la tappa introduttiva della storia iniziata in Portogallo e ramificata qui. Il mondo è piccolo, figuriamoci la Lombardia vista da uno staff manageriale multinazionale. Per capirlo anche in mancanza di elicottero, basta imboccare una delle due vie che tagliano l’area industriale dismessa: viale Cassala. La strada, con l’andamento a grande curva regolare tipico delle zone industriali disegnate su tracciati e scambi ferroviari, scorre fra i muraglioni delle zone ex siderurgiche e le “sironiane” torri degli acquedotti. Poi attraversa un passaggio a livello infilandosi nel sistema di uscita meridionale da Brescia, che nel giro di qualche centinaio di metri prende il nome di via Orzinuovi, e oltre i confini comunali di provinciale 235. Raggiunta Orzinuovi dopo qualche decina di chilometri fra paesi, semafori fra il bar e il sagrato, e case sempre più rade, si incrocia un’altra 235, la Statale che lungo un grande arco percorre tutta la media pianura lombarda: dall’asse della Brescia-Goito-Mantova a Montichiari, attraverso i raccordi tangenziali di Crema e Lodi, a Pavia. Sembra un giro piuttosto lungo, ma basta provarci per scoprire che non è affatto così, e la “distanza”, come quella dell’ex zona industriale dal centro di Brescia, è soprattutto mentale: una bazzecola, per chi opera a tutto campo.

Bruce Springsteen liquiderebbe il tutto con un: the highway is alive tonight, where it’s headed, everybody knows. In effetti, anche contando semafori, traffico di piccolo cabotaggio, cantieri vari, a velocità media ci vuole circa un’ora e mezza per andare dall’ombra delle torri d’acquedotto dismesse bresciane, attraverso la pianura irrigua, fino all’incrocio per la Becca nella periferia orientale pavese, dove la 235 finisce nell’anello della tangenziale Est. Logica vorrebbe che il grande semianello, dopo aver attraversato la media pianura lombarda, girasse tutto intorno a Pavia per risalire poi, Parco Ticino permettendo, verso l’asse della Padana Superiore, ma al momento la tangenziale pavese si interrompe davanti a un grande spazio verde. Certo, il piano regolatore prevede da tempo la chiusura dell’anello attorno al capoluogo, e a ben guardare i cantieri sono già aperti e segnano una larga striscia di terra smossa che prosegue tra i campi: ma a sinistra e a destra c’è sempre e solo verde, campagna, spazio aperto. Qui dove ci siamo idealmente fermati, in territorio di Pavia e lungo la statale Vigentina per Milano, questa bella campagna si chiama parco della Vernavola, dal nome del torrente che lo attraversa. Più a nord il cuneo verde si allarga e si articola, e si chiama Parco Visconteo. E proprio al centro di questo

parco, nei terreni quasi affacciati sul nuovo tracciato della tangenziale di Pavia, c’è l’altra faccia della medaglia dell’iniziativa multinazionale e multiprovinciale Sonae, che ci eravamo lasciati alle spalle cento chilometri fa con il fiore all’occhiello del redevelopment bresciano a fianco della ferrovia: il progetto di un altro, e ben altro, Centro Commerciale Integrato.

Borgo Borgarello

Il celeberrimo complesso monumentale della Certosa di Pavia, famoso anche per aver dato il nome ai formaggi freschi prodotti negli stabilimenti lì vicino, ha la particolarità di non stare a Pavia, come farebbe pensare il nome. Si trova infatti nel territorio comunale omonimo, di Certosa, ed è l’estremità settentrionale di un insieme naturalistico e insediativo complesso, voluto e realizzato nei secoli dalla famiglia Visconti e per un lungo periodo anche recintato con una muraglia di 22 chilometri, dotata di porte come una vera e propria città fortificata. Solo, all’interno non c’erano palazzi e popolo, ma una grande riserva di caccia, con annessi alcuni stabili “di servizio”. Ora, il cosiddetto Parco Visconteo è uno dei punti più qualificati, se non il più suggestivo e prezioso, di una grande fascia verde più o meno continua che dai margini meridionali dell’area metropolitana milanese scende sino a lambire i margini del centro storico di Pavia, e quindi il parco del Ticino.

A differenza del parco urbano pavese della Vernavola, per esempio, il parco Visconteo “non esiste” se non nelle intenzioni di alcuni entusiasti, o nei progetti di riqualificazione annunciati dall’amministrazione provinciale, come quello di un Piano Paesistico, attuativo delle linee generali stabilite dal Piano Territoriale di Coordinamento. Il piano, si legge nel sito Metropolisinfo.it, “sarà pronto entro l’anno ... e serve ad evitare che possano sorgere strutture in contrasto con l’importanza storica del territorio”. Un territorio che comprende, ricapitolando, i comuni di Pavia a sud, Certosa all’angolo settentrionale ovest, San Genesio a quello est, e proprio al centro, fra il Naviglio e il tracciato della ferrovia, Borgarello. Proprio qui, a partire dal 2000 si sono sviluppati rapporti fra l’amministrazione comunale e la Gestione Sviluppo Commerciale di Bergamo, rappresentante italiana della portoghese Sonae, per un centro integrato che, su una superficie di 200.000 (duecentomila) metri quadri, offra un insieme di servizi commerciali, terziari, di intrattenimento, culturali. Il che, da un certo punto di vista non fa una piega, perché se ci guardiamo intorno, anche qui nelle brume tra fantasmi viscontei, cosa vuole la società? La risposta mi pare innegabile: accesso ai servizi, anche di tipo commerciale. Naturalmente qualcuno pensa che non si possa risolvere tutto con cattedrali più o meno moderniste, sparpagliate a casaccio, che crollano sulla testa della storia insediativa locale. A volte è la soluzione più semplice, e molti la accettano o la subiscono (come si vede dalle folle che si accodano ogni week-end). Ce ne sono altre? Certamente si, ma forse non si trovano nell’atteggiamento che Peter Hall chiama BANANA ( Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), o nella proposta localistica magari in buona fede, della conservazione tout court di un sistema commerciale e servizi pensato molti anni fa per un contesto completamente diverso di bisogni, mobilità, opportunità di scelta. Quindi, occorre se non altro descrivere il campo di gioco, in cui si muovono gli attori di questa partita.

La scacchiera e le pedine

Borgarello è, praticamente e come già capivano i Visconti con la loro riserva di caccia, Pavia. Non solo, ma se lo si inserisce in un quadro più ampio si tratta anche dell’ultimo tratto della discontinua greenbelt agricolo/paesistica che dalle ultime sfrangiature dell’insediamento compatto di Milano qui arriva alle porte di Pavia, sempre più schiacciata nella convergenza (ovvia, su un capoluogo) delle grandi linee di comunicazione territoriale, ma mantenuta non solo visivamente in esistenza dai cunei verdi che arrivano fino alla prima cerchia di circonvallazione urbana. E non si tratta di modellistica astratta, ma del ragionamento primordiale di qualunque pianificazione urbanistica, o meglio di buon senso residuo, che dal Frederick Law Olmsted del Central Park di New York o della Emerald Necklace di Boston, attraverso la cultura del landscape planning anglosassone, abbiamo come al solito re-importato sotto mentite spoglie.

Uno dei cunei verdi, in questo caso specifico, è quello che contiene il piccolo insediamento di Borgarello. Il paese sta ora separato e risparmiato dai grandi flussi regionali di attraversamento, chiuso com’è a ovest dal corso d’acqua del Naviglio che costeggia la Statale 35 dei Giovi, con un unico accesso da un ponte che immette quasi direttamente sia in centro storico che nelle (proporzionalmente vistosissime) aree orientali di nuova espansione residenziale a villette, su uno schema a scacchiera monotono e artificioso (che anticipa le bellezze di una certa “modernizzazione”). A est, il territorio comunale è ulteriormente delimitato dalla linea ferroviaria Milano-Pavia, superabile con cavalcavia in corrispondenza del confine comunale a nord con Certosa (proprio di fianco alla recinzione del complesso monumentale), o con passaggio a livello nei pressi del cimitero, qualche centinaio di metri a est del centro storico.

Come già detto, il problema di qualunque sviluppo edilizio, qui, è quello da un lato di interrompere la continuità della rete di spazi aperti, e in più nel caso specifico di un “centro integrato” di scala regionale, quello di inserire un enorme attrattore di flussi che creerebbero la base alla domanda di ulteriori stravolgimenti nel sistema di accessi: quindi una reazione a catena tale da rendere quasi automatica l’abolizione - salvo residui visuali di testimonianza - dell’ambiente attuale e del sistema insediativo campi/irrigazione/viabilità secondaria. A ben vedere, un articolo dell’urbanista Giuseppe Boatti sulla Provincia Pavese del 4 ottobre scorso (“Quel che resta della Certosa”), non suona neppure troppo polemico quando osserva che il Sindaco di Borgarello vede: “La città futura fatta ... da mattoni, cemento, asfalto e metri cubi e quadri. E l’interesse comunitario finisce dove terminano i confini del proprio comune. Oltre? Ognuno per sé e Dio ce la mandi buona”. Perché la questione, qui, non sembra quella del “fare” o “non fare”, come posta nella solita prospettiva dei modernizzatori a senso unico, ma del “dove fare cosa, e per chi”. E forse vale davvero la pena di concentrarsi su quel “chi”, pensando a quanti giovani, casalinghe, pensionati, legittimamente auspicano una maggiore offerta di spazi per i servizi, il commercio, la cultura, l’intrattenimento. Basta vederli, in un giorno qualunque per non parlare del fine settimana, mentre si affollano accodati sulle strade grandi e piccole che qui percorrono il territorio su e giù. Ma, secondo i Comitati che si oppongono al Centro di Borgarello, hanno già un sacco di posti dove andare, in un raggio piccolo e medio. Sarà vero? L’unico modo per scoprirlo, come al solito, è quello di seguirli.

Un tranquillo week-end fra centri commerciali e tracce di campagna

Quello che chiunque, nella trasferta da Brescia attraverso l’arco della Statale 235, può vedere, è che con l’eccezione di qualche angolo sull’Oglio o casuale scorcio, qui la campagna è soprattutto un ricordo: al massimo si vede “il cuore verde della Megalopoli”, come l’ha definito

Eugenio Turri. E puntualmente, a tutti gli incroci, nodi, tangenzialine, dove il grande arco incrocia le direttrici verso la linea del Po, spuntano lontano o vicino le guglie e pinnacoli plastificati dei centri più o meno complessi che offrono benzina, tonno, pannolini, cinema, danze e soprattutto grandi parcheggi. Ce n’è uno, piuttosto vistoso e ingombrante, proprio fra le tangenziali di Lodi e Pavia, in corrispondenza del casello autostradale dell’A1, di cui è naturalmente “parassita”, e che provoca ingorghi a non finire. Ma anche più vicino a Borgarello non scarseggia certamente, questo tipo di merce.

Per capirlo meglio, l’ambiente in cui si posano queste astronavi della grande distribuzione, niente meglio di un percorso abbastanza lineare di pochi chilometri, a partire dalla linea della “strada Cerca” (nome tradizionale ancora usato in alcuni tratti), che col nome ufficiale di Provinciale 40 Melegnano-Binasco taglia la fascia del Parco Sud quasi esattamente lungo la discriminante fra zone urbanizzate con qualche “vuoto”, e zone agricole con qualche (a volte parecchi) “pieno”. Il punto di partenza ideale è all’altezza di Lacchiarella, dove il centro Il Girasole, con blasone Fininvest e aggiunta di un padiglione esterno della Fiera di Milano e di altro, marca piuttosto significativamente i limiti della conurbazione compatta milanese. Proprio qui, si era vagheggiato anche di mettere la Fiera “esterna” vera e propria, ovvero quella che con i suoi cantieri aperti ora giganteggia nell’ex raffineria di Pero, un pezzo di statale 35 e mezza Tangenziale più su. A pensarci, all’immagine di quell’enormità piazzata qui in mezzo al Parco Sud, c’è davvero da tirare un sospiro di sollievo.

A sud, abbandonando le provinciali, si entra nel centro di Lacchiarella. Un paese con la via principale che scorre fra case, negozi, piazze, incroci, con il tracciato abbastanza integro nell’irregolarità dell’ex strada di campagna lungo la quale nel tempo sono cresciuti gli edifici. Alla fine del tratto urbano, quando i due tracciati centrale e di circonvallazione si ricongiungono, comincia davvero l’ambiente che, più o meno, proseguirà identico per chilometri fino al territorio comunale di Pavia.

Sono strade tortuose, asfaltate ma piuttosto strette. Citando Alabama di Neil Young, si può dire che qui le macchine viaggiano with a wheel in the ditch, and a wheel on the track. Nonostante tutto, e soprattutto nei fine settimana, il logorio della vita moderna si fa sentire anche qui, eccome: c’è parecchio traffico, direi quasi tutto locale vista l’abilità con cui i vari “piloti” si barcamenano tra le buche, i fossi a tre dita dalla ruota, e le curve tra gli angoli ciechi di vecchie cascine. Siamo comunque in un altro mondo rispetto al percorso parallelo della Statale 35, qualche centinaio di metri a ovest: case isolate, campi, macchie d’alberi, qualche insediamento un po’ più consistente, come Giussago, fino a Certosa e al monumento che spicca alla fine del rettifilo proveniente proprio da uno dei pochi ponti sul Naviglio in questa direzione. Qui è possibile proseguire lungo un percorso secondario lungo l’enorme recinzione del complesso monumentale, fino all’angolo posto sulla strada che, scavalcando la ferrovia, raccorda la SS 35 con un’altra direttrice principale da Milano per Pavia: la Vigentina. Proprio sull’angolo opposto della recinzione della Certosa si trova l’incrocio verso Borgarello, il cui territorio comunale inizia da queste parti.

La strada comunale scorre tra il tracciato della ferrovia a est, e quello del Naviglio e della Strada dei Giovi a ovest. Dopo il piccolo cimitero, ancora in piena campagna, e un nuovo bivio, la via si restringe per entrare nel piccolissimo centro storico, dietro cui si nota piuttosto vistosa tutta la zona di nuova e nuovissima espansione, più o meno a sud-est. È presumibilmente oltre queste aree, che dovrebbe sorgere il progettato Centro Commerciale (o Centro Chissàcosa), nella zona che anche visivamente ha un aspetto strutturato secondo un aspetto tradizionale, nonostante, appunto, la piccola ma decisa villettopoli che appare in vigorosa crescita. Anche sull’altro margine, lungo la strada alzaia che scorre sul lato opposto del Naviglio rispetto alla Statale 35, Borgarello si fa notare per la quantità di edificato (la “città fatta di metri cubi e quadri” stigmatizzata da Boatti), con case di due o tre piani allineate su una o anche due file, che solo dopo il confine col territorio di Pavia lasciano il posto agli spazi aperti. A collegare la strada alzaia al tracciato della Statale dei Giovi, nell’ultimo lungo rettifilo prima del bivio della Tangenziale Ovest di Pavia, un ponte “normale”, e più a sud un altro stretto passaggio selciato, in corrispondenza di una chiusa. Questo è l’ambiente generale dove il sindaco di una popolazione di un migliaio di abitanti ritiene che un centro commerciale di 200.000 metri quadrati possa chissà come atterrare a “impatto zero”.

Imboccato l’ultimo tratto della strada dei Giovi lungo il Naviglio, quasi subito si salgono le rampe della tangenziale, e si intravedono per un po’ i quartieri della città compatta, tra cui spicca la grande area ospedaliera. Il percorso taglia poi in sopraelevata attraverso le aree molto meno urbanizzate a ridosso del Ticino, e dopo il ponte sul fiume e un altro tratto la tangenziale si ricongiunge alla direttrice urbana proveniente dall’altro ponte (quello due-trecento metri a monte del famoso Ponte Coperto).

Siamo in territorio comunale di San Martino Siccomario, ovvero nell’area geografica che dovrebbe concludere i 90 chilometri della lunga striscia verde del Parco Ticino, da qui alla punta della Becca, alla confluenza col Po. Ma la continuità del parco, o delle aree libere, o di qualunque cosa, se ne è andata chissà dove chissà quando nel passato. Ora la Statale, dal confine comunale di Pavia fino a qui, e oltre a sud fino al territorio di Cava Manara, è una striscia continua di quello che gli inglesi chiamavano ribbon development, e gli americani più onestamente road slum, salvo poi abituarsi e non farci più caso, come la tosse per i fumatori. La traduzione letterale italiana in uso, di “sviluppo a nastro”, mischiata ai colori vari delle insegne luminose e delle bandiere e striscioni promozionali, forse aiuta a migliorare l’impressione, ma non certo la qualità dell’aria, o del bordo stradale, o degli accessi ai piazzali ghiaiosi che in maggioranza costituiscono da queste parti i “parcheggi attrezzati”. In questo ambiente, il centro commerciale San Martino alla confluenza fra la Tangenziale, la Statale dei Giovi e le direttrici per la Lomellina, spicca come relativa isola di ordine ed efficienza, a modo suo. E se non altro contribuisce a schermare il vecchio tracciato, che attraversa il paese e immette nell’ultima punta rurale fra Ticino e Po, dal traffico che qui imperversa a tutte le ore del giorno, più o meno incolonnato. Il centro commerciale è uno spazio senza storia: supermercato, fast-food, qualche gregario collocato ai margini del parcheggio principale, che circonda tutto quanto e fa bello spettacolo di sé (opinione personale) soprattutto nelle mattine festive e nebbiose, visto dall’ultimo tratto sopraelevato della tangenziale.

Proseguendo verso sud il traffico si dirada man mano si aprono spazi a destra e a sinistra. Contemporaneamente e ovviamente, si attenua anche il curioso effetto rue-corridor che riesce a dare questo tipo di insediamento, anche sparso. La fila delle luci di coda si dirada fino a sgranarsi nella normalità di una grande arteria interregionale al ponte sul Po, e poi al territorio di Bressana Bottarone, dove il percorso verso il tracciato della Padana Inferiore si sdoppia: a sinistra prosegue la Statale dei Giovi verso Casteggio, a destra ma solo lievemente divergente la provinciale per Voghera, che sbuca comunque sulla stessa linea pedecollinare della Padana, in territorio di Montebello della Battaglia. Qui si ripete, stavolta in forma moderna e a modo suo pianificata, l’esperienza del road slum o ribbon development che dir si voglia, già descritta. Siamo a un tiro di sasso dall’imbocco della tangenzialina di Voghera (efficientissima, a modo suo), ma l’astronave di precompresso e asfalto che ha deciso di atterrare da queste parti, ha deciso pure che può farne a meno, di quella tangenzialina, e che si costruirà un ambiente viabilistico tagliato a pennello, di cui per ora si intravedono solo sovrappassi imbandierati, pezzi di cantiere, e qualche tracciato interrotto dalle barriere conosciute come new jersey. A quell’incrocio tutti, ma proprio tutti, i flussi obbligati del percorso pedecollinare Piacenza-Alessandria (qui nei tratti urbani si usa ancora il nome “giusto” e appropriato: Via Emilia Pavese), trovano un bel semaforo, a tutto e completo servizio dell’ingresso al parcheggio, o poco più. Ovvero, come abbiamo già visto e stravisto in altri casi, si obbligano tutti, che magari con la multisala, il fast-food, l’ipermercato ecc. non hanno niente a che fare, a una coda probabilmente piuttosto pittoresca da vedere, di notte, dall’alto. Meno pittoresca da farsi, imprecando con quello che sta al telefonino e ti fa perdere il semaforo atteso da cinque turni, o spendendo tutta la moneta possibile coi due o tre schieramenti fisiologici di questuanti con o senza cartello. E sul limitare delle colline dell’Oltrepo, il percorso tra l’offerta commerciale della zona si può anche interrompere.

Conclusioni?

Tornando all’oggetto principale di questa passeggiata, si ripete: perché mai il sindaco di Borgarello ritiene che 200 metri quadrati/abitante di centro commerciale (o centro integrato che sia) possano collocarsi “senza impatto” in quel cuneo verde storico che scende dai margini del Parco Sud metropolitano milanese, e si conclude integrato con altre strisce gemelle (come quella della Vernavola) sotto le mura di Pavia? E perché mai proprio lì, con tutta l’offerta di crocicchi, spianate, triangoli, appezzamenti, cavalcavia, di cui il territorio anche prossimo sembra pullulare? La risposta potrebbe essere: perché si è convinto della bontà dell’iniziativa, e soprattutto della serietà dei proponenti, una multinazionale portoghese che nei comunicati ufficiali sembra mettere l’ambiente quasi alla pari dei bilanci.

Una risposta convincente, a modo suo, e che in teoria dovrebbe spazzare come fuscelli le solite opposizioni passatiste dei nimbies: quelli che non vogliono nulla a sporcare il proprio cortile, e poi “perdono il treno dello sviluppo”. Ma, e qui la domanda si pone ai lettori e alla fine di questi vaghi appunti in diretta dal territorio: voi (potenziali frequentatori di passerelle, scansie, mostre di pittura ecc.) siete convinti?

Un architetto progettista come Sir Richard Rogers, autore fra l’altro del grande Designer Factory Outlet a bacino di utenza “europeo”, allo sbocco britannico del Chunnel, in una recente intervista al Sole 24 Ore osservava desolato come ormai si possa andare da Torino a Venezia senza trovare significative interruzioni nella trama continua dell’edificato, delle infrastrutture doppie, triple, di un coperchio di cemento e asfalto che rischia di soffocare con la sua inefficienza sia l’ambiente che la sua ragion d’essere storica, ovvero quello che lo mantiene vivo e vitale.

Facciamo due conti, e supponiamo: se ciascun sindaco decide di adottare un “piano dei servizi” delegato a una multinazionale “ambientalista”, con uno standard di 200 metri quadri/abitante di Centro Integrato, cose ne esce? E vogliamo negare l’ingresso nel mercato, multinazionale e locale, di altri soggetti magari ancora più dinamici e “ambientalisti”?

Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Ma per averne, di posteri, forse è meglio anticipare qualche risposta qui e ora.

Titolo originale, Belling the Box: Planning for Large Scale Retail Stores – Traduzione di Fabrizio Bottini

Introduzione

I punti vendita big-box possono variare di molto per dimensioni: alcuni ora hanno raggiunto proporzioni mastodontiche, oltre i 15.000 metri quadrati. Variano anche le loro nicchie di mercato. Ci sono i discounters come Wal-Mart, gli warehouse clubs come Pace, i category killers come Toys “R” Us o Best Boy (che offrono una vasta selezione di merci in relativamente poche categorie), e gli spacci aziendali – factory outlet stores – gestiti direttamente dalle fabbriche produttrici. Ma tutti hanno alcune caratteristiche comuni: grossi edifici rettangolari a un solo piano con facciate standard, orientamento esclusivo alla clientela che si sposta in automobile, sistemate dentro ettari di parcheggi, e nessun fronzolo progettuale concesso alla piacevolezza per la città o per i pedoni.

Alcune città e piccoli centri, preoccupate dell’impatto economico del commercio big-box sulle attività esistenti in centro, o per i suoi effetti in termini di sprawl, stanno dicendo di no a questi leviatani. Ma per una serie di ragioni, la grande maggioranza delle città hanno, o srotolato il tappeto rosso di benvenuto, o almeno approvato, brontolando. I negozi big-box offrono prezzi bassi e una grossa comodità, per una società sempre più povera di tempo. E per le amministrazioni locali che contano sulle entrate delle tasse commerciali per finanziare i servizi municipali, i grandi negozi big-box sono come manna dal cielo. La questione critica, per queste comunità è: il quali termini dare il benvenuto a queste grosse scatole?

Ad una estremità, nei casi di comunità che non conoscono le proprie possibilità o avvertono di avere pochi margini di trattativa con questi giganti del commercio, il risultato possono essere semplici scatoloni color crema di qualità industriale, coperti dai colori e marchi della compagnia, circondati da ettari di asfalto senza nemmeno un albero o un cespuglio in vista. All’altra estremità, un crescente numero di amministrazioni stanno “domando la scatola”, chiedendo un più alto livello di progettazione architettonica e intraprendendo azioni per assicurarsi che i superstores si rapportino meglio con l’ambiente e i dintorni. A Fort Collins, Colorado, della cui esperienza si farà un profilo in questa relazione, il consiglio municipale ha detto la sua adottando nuove regole per insediamenti di grosse dimensioni: “Questi standards e linee guida sono una risposta all’insoddisfazione rispetto alle strategie delle grandi imprese di distribuzione, che impongono progetti indifferenti all’identità e agli interessi locali. Scopo principale [delle regole] è di incoraggiare uno sviluppo che contribuisca a fare di Fort Collins un luogo distinto, riflettendole su caratteristiche fisiche a sommandosi ad esse in modo corretto”. Altri ritengono che la qualità generi qualità. Come ha sottolineato un urbanista nel territorio in rapido sviluppo della Douglas County, area suburbana a sud di Denver in Colorado, sostenendo gli standards locali sulla costruzione di big-box, “Non sarebbe saggio mortificare le regole. È un investimento che dà risultati. Se tieni un’immagine di basso profilo non sarai capace di attirare altre attività ad alta qualità che migliorino l’economia” (intervista al vicedirettore dell’Ufficio Urbanistica, John Johnson “New Wal-Mart Architecture Reflect Dougles Standards”, Rocky Mountain News, 10 luglio 1995).

Se ci sono segnali che l’ondata di negozi big-box possa aver raggiunto il massimo alla metà degli anni Novanta, come gli shopping malls hanno dominato i Settanta e gli Ottanta, è comunque chiaro che essi continueranno a porre problemi alle comunità anche negli anni del prossimo secolo. Molto dello sviluppo di alcune catene big-box si verifica come risultato di incursioni entro nuovi mercati, e questa caccia continuerà nella ricerca da parte degli operatori di aree prima non identificate o evitate, o di nuove che stanno emergendo a causa della crescita in località come la Douglas County in Colorado, una delle circoscrizioni a crescita più rapida livello nazionale. In mercati più maturi, le grandi catene lotteranno per la divisione degli spazi, aprendo nuovi negozi nella speranza di attirare clienti prima che essi raggiungano i punti vendita dei concorrenti: un fenomeno noto come cannibalizzazione. Il rallentamento e consolidamento del mercato big-box dovrebbe anche far suonare un campanello d’allarme nelle comunità potenziali ospiti. Quanto sarà spendibile un guscio standard big-box vuoto col suo piazzale a parcheggio, quando il negozio sarà chiuso? Resterà a lungo termine come un pugno nell’occhio della zona?

Questa relazione offre spunti e consigli al crescente numero di comunità che vogliono avere un esercizio commerciale big-box, ma averlo in modo sensibile agli effetti locali, e aiuterà ad operare perché questi superstores rimangano un elemento della città per gli anni a venire. Si concentra sulle esperienze recenti a Fort Collins, Colorado, che ha adottato una serie di linee guida e standards molto completi per adattare aspetto ed effetti degli insediamenti commerciali di grosse dimensioni.

Esposizione

Fort Collins, in molti e importanti aspetti, era un terreno ideale di sperimentazione di nuovi standards e linee guida per i negozi big-box. Si era già dotata di regole dettagliate riguardo al verde e alle insegne, la classica prima linea di difesa che le comunità impiegano nel rapportarsi coi superstores. Il problema, come ha dimostrato l’esperienza in tutti gli Stati Uniti, è che se il controllo delle insegne e la piantumazione di alberi possono aiutare ad attutire l’impatto, si tratta solo dei primi passi per un programma davvero efficace. In questo modo Fort Collins rea pronta ad andare oltre gli approcci abituali. La città aveva anche una base economica molto forte e occupava una posizione centrale nell’economia della regione, e in questo modo i consiglieri comunali non sbavavano certamente alla prospettiva di aggiungere qualche punto vendita in più, a qualunque costo. Unite a ciò, gruppi di quartiere di alto livello (Fort Collins ospita la Colorado State University) e un ufficio urbanistico con una formazione raffinata, anni di esperienza nel ben noto Land Development Guidance System della città e alte qualificazioni progettuali, e avrete il quadro per una riflessione innovativa. È anche importante sottolineare che l’amministrazione di Fort Collins agisce come autorità di governo cittadino secondo le leggi del Colorado, e ha di conseguenza ampi poteri di regolazione nell’uso del suolo.

Di fronte al flusso continuo di nuovi punti vendita di grosse dimensioni, Fort Collins ha adottato una moratoria su questo tipo di insediamenti, per consentire agli uffici di studiare gli impatti sulla comunità, e formulare chiare ed attuabili politiche per attenuarli. Gli uffici hanno organizzato un comitato consultivo informale comprendente rappresentanti dei quartieri, professionisti nel campo immobiliare, e cittadini interessati a collaborare con gli uffici di piano e di zoning per valutare nuove azioni. È stata coinvolta la Clarion Associates di Denver, per fornire consulenza riguardo alle esperienze in altre città, e assistenza nella redazione dei nuovi standards. Per rpima cosa, l’analisi si è concentrata sui seguenti aspetti:

Il consulenti, basandosi sulle proprie esperienze nella redazione di standards progettuali commerciali, e su una rassegna di misure innovative adottate in altre città come Bozeman, Montana; Jackson, Wyoming; Rancho Cucamonga, California, hanno presentato un insieme di potenziali linee guida e regolamenti alla città. Dopo diversi mesi di discussione, la planning commission e il consiglio municipale hanno adottato all’unanimità un corpo completo di standards basati sulle raccomandazioni del comitato consultivo e degli uffici comunali. Questi regolamenti si applicano a nuovi insediamenti commerciali di “grandi dimensioni”, definiti come “insediamenti commerciali o combinazioni di punti vendita in un singolo edificio, occupanti un’area di più di 2.500 metri quadrati lordi”, o che siano in aggiunta a grossi insediamenti commerciali esistenti, di cui incrementerebbero la superficie lorda di pavimento del 50%.

Caratteristiche Architettoniche

L’obiezione che più di frequente si solleva ai grossi superstores è che sembrano grandi e anonime scatole. Con facciate piatte e senza finestre, tetti piatti, mancanza di dettagli architettonici, entrate microscopiche difficili da vedersi, i negozi big-box sono nel migliore dei casi una noia, e nel peggiore un pugno nell’occhio per il futuro. Fort Collins ha adottato un insieme di chiari standards ad incoraggiare progetti architettonici migliori, che vadano oltre i prototipi presi belli e fatti dagli uffici della compagnia. Le nuove regole:

Colori, Materiali

Colori e materiali dell’edificio, così come il dettaglio delle architetture, possono qualificare o squalificare un big-box dal punto di vista estetico. Per alcune catene, in particolare i warehouse clubs e i deep-discounters, la scelta sembra essere quella dei materiali a disposizione, ovvero quelli più adatti agli impianti industriali. Altri usano composizioni di colori forti, e illuminazioni al neon per attirare l’attenzione, in modo tale che l’edificio diventa un gigantesco tabellone pubblicitario. Fort Collins ha adottato severe regole per incoraggiare l’uso di materiali di più alta qualità, che si inseriscano meglio nell’ambiente commerciale esistente e nei quartieri residenziali circostanti.

Relazioni con le strade e il quartiere circostante

Un aspetto spesso ignorato dei superstores è il modo in cui si relazionano e interagiscono con la comunità circostante e le pubbliche strade. L’approccio standard a volte sembra quello di tirare su una recinzione di legno alta due metri a separare le zone residenziali vicine, e un’altra recinzione a catenella con assi a schermare le zone di carico dei rifiuti. I quartieri di Fort Collins volevano qualcosa di più. I nuovi regolamenti richiedono che:

Flussi di traffico pedonale

Il pedone di solito è l’orfano abbandonato del commercio big-box, finché inizia a camminare dentro il negozio. Ci si aspetta di solito che schivi automobili, carrelli della spesa spinti dal vento, e altri ostacoli, prima di trovare la sua strada verso il negozio. Fort Collins ha adottato un insieme di requisiti per tentare di rendere i superstores più attraenti e sicuri ai pedoni.

Piazzali a Parcheggio

In aggiunta ai requisiti riguardanti i percorsi pedonali attraverso gli spazi dei parcheggi, Fort Collins si è cimentata anche con la stessa quantità e sistemazione delle centinaia, a volte migliaia di spazi parcheggio che classicamente sono il cortile dei big-box superstores. L’ordinanza promuove la localizzazione di queste strutture più vicino alle strade, e la discontinuità degli spazi a parcheggio, spezzettati secondo moduli separati da verde o altri elementi. Prima regola obbligatoria è che “non si localizzi fra la facciata principale e la strada principale, più del 50% dell’area di parcheggio non stradale complessiva”.

L’esperienza sino ad oggi

Fort Collins ha adottato i suoi standards per i big-box all’inizio del 1995. Le linee guida e i regolamenti erano parte integrante dell’orientativo Land Development Guidance System della città, e da allora sono stati interamente incorporati nel Land Use Code. Gli standards sono stati applicati dagli uffici nell’esame delle proposte, in stretto contatto con i consulenti progettisti. Anche se molti grossi progetti commerciali sono stati considerati fuori dagli standards e linee guida dopo l’adozione, due degli insediamenti principali stanno progredendo attraverso il processo di verifica dei progetti e i risultati, almeno sinora, sono positivi dal punto di vista della città. Secondo i funzionari degli uffici, la qualità delle proposte che esaminano è molto migliorata rispetto a prima dei regolamenti. Si avverte che le richieste della comunità per una progettazione responsabile stanno instaurando un clima in cui i divergenti obiettivi della qualità dei quartieri e del grande commercio possono essere affrontati e sommati attraverso la professionalità degli urbanisti.

La maggior parte dei costruttori e operatori di big-box hanno prestato attenzione e stanno sforzandosi in buona fede di venire incontro alle esigenze della città. Per esempio i progettisti di quello che dovrebbe essere un grosso insediamento, con un Wal-Mart di 20.000 metri quadrati, e un edificio da 12.000 metri quadri con vari occupanti, hanno presentato un piano che rappresenta un significativo avanzamento rispetto alla media dei negozi della catena. Ma la collaborazione ha rallentato quando sono stati coinvolti responsabili a livello nazionale. La questione principale, oltre all’intensità di utilizzo per quel sito particolare, è la richiesta di progettare un parcheggio distribuito tutto attorno all’edificio. I funzionari dell’impresa sono irremovibili, sulla costruzione della maggior parte degli spazi a parcheggio davanti alla facciata principale.

Un secondo grosso progetto vicino all’approvazione, un power center che comprende insieme sei big-box, sembra anche più promettente. La proposta comprende sette esercizi, da 7.500 a 10.500 metri quadrati, insieme a sei spazi per interventi futuri su 25 ettari. Quattro delle attività saranno raggruppate insieme in un solo grande edificio di 13.500 metri quadri. Il costruttore ha proposto un piano eccellente, che dimostra una grande dose di creatività nel venire incontro agli obiettivi standard dei big-box. Ciascuna facciata dell’edificio è dotata di caratteristiche architettoniche interessanti, molte delle costruzioni sono situate vicino alla strada, i parcheggi sono distribuiti attorno alle strutture principali anziché stare piazzati di fronte, percorsi pedonali ben definiti sono collocati in tutto lo spazio e le aree di carico sono integrate nel progetto edilizio, e relegate discretamente lontano dalla vista.

Conclusioni

Fort Collins ha fatto un grosso sforzo per influenzare le strategie di mercato delle grandi catene commerciali, che di solito dettano criteri di progetto indifferenti all’identità e interessi locali. Ciò è stato realizzato adottando un insieme dettagliato di standards progettuali e linee guida che adattano gli insediamenti commerciali secondo modi rispettosi dei caratteri comunitari, e ad attutire gli impatti negativi.

La discussione continua con gli operatori commerciali, sulla praticabilità degli standards scelti, in particolare la richiesta di ingressi multipli e di distribuire i parcheggi attorno agli edifici, rende questa attività in divenire un elemento di interesse e attento studio. Altre città negli Stati Uniti possono trarre beneficio dalla riflessione su quanto è accaduto qui, ma devono badare a tagliare su misura i propri approcci alla propria specifica situazione politica e di mercato, e agli impatti locali percepiti riguardo ai superstores commerciali.

Nota: il riferimento, generale, è a tutti gli altri articoli già riportati su Eddyburg/Megalopoli sul tema "big-box", nessuno escluso (fb)

La concorrenza commerciale, sia sul territorio che nell’iper-uranio multinazionale, inizia a produrre e rendere visibili cloni geneticamente modificati, che cambiano pelle (ma non più di tanto) per adattarsi meglio all’ambiente. La particolare operazione che qui si descrive brevemente, si può chiamare dei “cugini di campagna”: sono quattro, si assomigliano tanto, e sono pensati per la stessa campagna italiana. Visto che in questo campo l’inglese, a proposito e sproposito, va via come acqua fresca, preciso che la campagna qui si intende sia come campaign, che come countryside. Non che per i cugini la cosa faccia molta differenza.

26 ottobre 2004

L’impatto dei “villaggi della moda” è soprattutto visivo: come le lucine si accendono una dopo l’altra su un albero di Natale, nello stesso modo i nuovi colori dei villaggi si sovrappongono via via nel panorama italiano a svincoli dell’autostrada, a campagne, a periferie, ed è così che sino a questo punto sono stati trattati in questa serie di pezzi scritti per eddyburg.it. In altre parole, all’apparizione presentata come tale seguiva una riflessione, più o meno (di solito, meno) seria e approfondita. Il caso del Fashion District di Bagnolo San Vito, nel sud mantovano, è la prima occasione per procedere in senso inverso, visto che l’apparizione al momento in cui scrivo deve ancora avvenire, e le luci sono spente. Ovvero, mentre vengono stese queste note il villaggio è ancora in costruzione, e le quinte quasi cinematografiche delle architetture in stile spuntano ancora piuttosto brulle e grigie dalla pianura a ridosso del Po. Prontissime, sono invece le premesse e le promesse di questa ulteriore variazione sul tema dei nuovi insediamenti commerciali. Premesse e promesse che scivolano via lisce, su quello che tale Steve Collins (della JHP-Design, consulente “globale” della Fashion District) chiama the red velvet rope to value.

L'impresa e il lavoro

Come ci informa l’ufficio stampa nel file scaricabile dal sito, “la Fashion District è una holding costituita da un insieme di società immobiliari e di gestione”, con lo scopo di lanciare “un format commerciale distributivo innovativo, che si sviluppa sul modello del distretto industriale, che è ciò che ha determinato il successo del sistema imprenditoriale italiano”. Naturalmente, come si capisce scorrendo le specifiche di questa variazione sul modello del distretto industriale, non si vuole riprodurne il modello insediativo (con relativo disordine, sparpagliamento e quant’altro), ma lo spirito di azione complementare fra le imprese, in questo caso con un rapporto integrato fra produzione, distribuzione,

immagine. A parte le specifiche scelte in campo commerciale, pare proprio però che dal punto di vista spaziale interno/esterno e da quello dei rapporti col territorio vasto, non si esca dall’importato schema degli outlet villages, o almeno così si intuisce leggendo che a Bagnolo - come nelle altre tre “gambe” dell’articolata operazione a scala nazionale - vedremo “città in miniatura con strade, piazze, persino portici, che assecondano e favoriscono un modo del tutto italiano di fare acquisti: la passeggiata”. Scala nazionale, si diceva, visto che anche la struttura della holding e l’azione parallela immobiliare/organizzativa atterra contemporaneamente e con criterio identico su quattro siti: questo di Bagnolo nel mantovano, uno a Santhià nel vercellese, e due nel centro sud, rispettivamente a Valmontone nell’area romana e Molfetta nel barese. In cifre, e sempre intendendo complessivamente l’organismo a quattro gambe, questo sta a significare una superficie totale di vendita di 125.000 metri quadri, suddivisi fra 521 negozi più 225 “shop in the shops” (l’articolazione distributiva che probabilmente caratterizza l’approccio denominato per “distretti”), che creano 2.630 posti di lavoro e 10.500 posti auto, a servire una clientela annua calcolata in 52 milioni di gruppi/auto.

Solo qui, nella striscia di campagna fra gli abitati di Pietole (Virgilio) e Bagnolo, chiusa tra un canale e l’Autobrennero, servita dalla Statale 413 Carpi-Modena poco dopo la diramazione della 62 per la Cisa, si creeranno 550 posti di lavoro. Anche se per ora a questo proposito il supplemento specializzato del Corriere della Sera (10 ottobre) specifica solo “100 addetti alle vendite, 30 responsabili punti vendita, 25 viceresponsabili punti vendita”. Il totale, cifre alla mano, fa 155.

E gli altri? Anche il sito mantovaninelmondo.org resta un po’ sotto le previsioni dei promotori, e scrive che “Quando la struttura sarà a pieno regime, gli occupati si aggireranno sulle 400 unità”, ma forse c’è solo un metodo di calcolo diverso. Lo stesso sito web, ci informa tra l’altro che più o meno di fianco al Fashion District, nella stessa zona già a destinazione produttiva, su una superficie di 160.000 metri quadri si insedierà dal 2005 un impianto tessile decentrato dal polo mantovano, la Lubiam, per cui si prevedono altri 400 posti di lavoro. Quindi a quanto pare non vale la pena andare tanto per il sottile sulle questioni di impatto ambientale (come suggerito tiepidamente dal programma di sviluppo locale del basso mantovano): “Nemmeno il ritrovamento di preziosi reperti archeologici nell’area ha rallentato l’intervento”.

Cosa esattamente ci andranno a fare, i nuovi occupati, tra le colorate pareti degli “shops” o negli angoli specializzati degli “shops in the shops”? Possiamo cercare di indovinarlo scorrendo le job opportunities del sito di impresa fashiondistrict.it, opportunities a cui corrisponde - spesso se non sempre - l’attivazione di corsi del Fondo Sociale Europeo. Il piccolo popolo che in futuro occuperà professionalmente i vari anfratti del finto villaggio in stile padano/rinascimentale, si articola fra addetti - manageriali e non - alla vendita, personale per la ristorazione, e presumibilmente qualche unità per servizi, vigilanza, manutenzione ecc.; molti anche se non tutti - in una quota da definirsi - avranno contratti di tipo interinale, per cui la società ha già stipulato accordi con la Synergie (da qui, forse, le varie discrepanze nelle cifre). I corsi di formazione FSE di 600 ore per figure di Sales Promoter, gestiti dalla Fashion District in collaborazione con gli enti amministrativi territoriali interessati, prevedono lezioni in aula e stages in materia di: Comunicazione; Orientamento al mercato; Inglese; Altra lingua straniera; Organizzazione aziendale; Tecniche di vendita; Servizio al cliente; Modalità espositive; Gestione strategica e operativa di un punto vendita; Merceologia; Informatica. Non è poco, e a questo si aggiunge la formazione permanente di aggiornamento per personale già assunto, su approfondimenti delle materie citate, e/o altre discipline necessarie a muoversi tra la clientela anche internazionale e le varie proposte di Adidas, Rosenthal, Calvin Klein, Calzedonia, Pompea, Bassetti, Arimo ecc. Altro che braccia inopinatamente strappate all’agricoltura, come qualche spiritoso (a partire dal sottoscritto) potrebbe insinuare guardando i padiglioni a colori caldi che spuntano dagli ex campi arati della pianura mantovana.

Territorio e ambiente

Come ci conferma - se necessario - il dossier sui factory outlet italiani proposto dal sito infocommercio.it (curato da Luca Tamini, del Laboratorio Urbanistica e Commercio del Politecnico di Milano), quella dei parchi commerciali è tutt’altro che una moda passeggera, ma vero

nuovo paradigma del paesaggio socioeconomico e territoriale, che volenti o nolenti ci avvicina alle modalità distributive e insediative moderne europee. I principi alla base del villaggio tematico-commerciale, riassumendo al massimo, sono: grande dimensione pur nella relativa forte articolazione delle proposte (gli “shops in the shop”, o comunque i piccoli esercizi o produttori); sinergia interna ed esterna (col “territorio” in senso lato) che determina localizzazione e ruolo; amplissima capacità di attrazione (che nei fatti travalica di gran lunga il “territorio” di cui sopra).

Queste caratteristiche, comuni a tutte le varianti sul tema, mettono ben in luce la irrinunciabilità, ad esempio, di una collocazione altamente focalizzata (e altamente focalizzante ad esempio riguardo ai flussi di traffico), di una stretta integrazione con altri interventi (nel caso mantovano, ma anche altrove, una zona produttiva, o un bacino turistico di massa prossimo), ma allo stesso tempo una particolare attenzione a temi di impatto ambientale e paesistico. Un quadro generale delle precondizioni, potenzialità e cautele, per il caso specifico del Fashion District di Bagnolo San Vito, è ben riassunto dalla relativa scheda del Piano Territoriale provinciale di Mantova, di cui riportiamo di seguito alcuni elementi.

Il contesto comunale in cui l’intervento si colloca, è descritto dal sito web municipale comunebagnolosanvito.it come “prevalentemente agricolo, ma si diversifica anche in altri settori grazie al lavoro di piccole e medie imprese artigianali e commerciali e alla presenza di alcuni impianti industriali”. Per la pianificazione territoriale vasta, qui siamo in un ambito ben infrastrutturato, potenzialmente complementare al rafforzamento della fascia produttiva meridionale del capoluogo, che di conseguenza “rappresenta un riferimento prioritario per la definizione delle politiche insediative”, nel quadro della “connessione alla realizzazione del corridoio plurimodale autostradale e ferroviario Cremona-Mantova e al sistema tangenziale di Mantova”. Con queste premesse, le indicazioni per la pianificazione generale (il Prg secondo il sito comunale è attualmente in corso di redazione a partire da una bozza già presentata e pubblicamente discussa) sono di svilupparsi per “progetti di riqualificazione organici, mirati alla valorizzazione degli elementi di carattere paesaggistico, di natura ambientale o infrastrutturale presenti”, con un inserimento nel quadro delle reti ecologiche-ambientali così come infrastrutturali.

Resta, ovviamente, il problema di come inserire in pratica, in questo contenitore logico dove tutto in teoria si tiene, le molte decine di migliaia di metri quadri della “nuova meta turistica pensata per il piacere di chi la visita e collegata a parchi tematici, a family entertainment center, multisala cinematografiche, auditorium e grandi alberghi” (citazione dal sito minervagroup.it: “Sbarca in Italia Prime Retail”). Una meta turistico-commerciale che, come tutte le altre sue simili, ha una isocrona media di 60 minuti, di solito calcolata sulle velocità autostradali rese realistiche dalla collocazione a ridosso di svincoli e nodi ad altissima acessibilità. Il che, nonostante tutto, non descrive ancora appieno l’idea secondo cui si tratta di “macro dimensioni di cui attendiamo fiduciosi sviluppi e aperture”. E, come ci informa il Giornale di Brescia del 23 luglio 2002, le decisioni che contano sono già prese: “18 ettari di terreno pertinente, un’area commerciale di 34.000 metri quadrati, 110 negozi che apriranno in due fasi successive e un investimento di 80 milioni di euro” (Alessandro Cheula: Draco a Mantova con un mega-outlet da 80 milioni).

Evidentemente si sono chiariti tutti i dubbi sull’effettiva compatibilità ambientale di un intervento di queste dimensioni, così come risultano anche dal rapporto relativo al Programma Integrato di Sviluppo Locale “Basso Mantovano”, che individua alcuni punti critici della proposta Città della Moda, nella previsione del traffico indotto, localmente e su un contesto più ampio ed articolato, con possibilità di riservarsi in casi simili “esclusione di uno o più progetti, soglie dimensionali, tipologie costruttive” (par. 3.3. Analisi della sostenibilità ambientale). E su quei 18 ettari di terreno pertinente, nelle giornate già corte di fine ottobre 2003, spuntano dalla bruma padana, quasi finiti, i padiglioni freschi di cemento. Si profila visibile lo schema anticipato su mantovaninelmondo.org :“distribuiti a corona su di un’area quadrangolare, saranno caratterizzati in stile architettonico cinquecentesco, tipico dei centri storici della zona”. In attesa del giorno dell’inaugurazione, prevista nella prima settimana di novembre, come annunciato a colori brillanti con immagini esotiche, sulle pagine nazionali di alcuni quotidiani di grande diffusione.

E qui finisce il ragionamento “prevenuto”, ovvero sviluppato seppur superficialmente in base alla documentazione disponibile online, con un solo e rapido sguardo al cantiere, tra quel canale, quell’autostrada, e quei fossi. Fossi piuttosto simili a quelli della vicina Pietole, appena oltre il ponte sulle sei corsie, dove duemila anni fa una contadina, in cammino per i campi, si sgravava del futuro poeta Virgilio.

Fashion District giorno e notte

L’inaugurazione per quanto ne so è stata una faticaccia, a partire dall’ora di cena di giovedì 6 novembre, con un revival dei “mitici” anni Settanta per cui è stata ripescata una vecchia Gloria discotecara, con contorno delle solite ubique starlette televisive, a illuminare le tenebre della città diffusa. Dato che il sottoscritto in quel momento stava in un ingorgo della stessa megalopoli, ma spostato di un centinaio di chilometri verso ovest, per la virtuale cronaca dell’evento dobbiamo fidarci di fashionmagazine.it, che quel pomeriggio anticipava:

“un vero e proprio spettacolo che vedrà la partecipazione di Luisa Corna (nella fotina qui accanto) in qualità di presentatrice e cantante in coppia con Gloria Gaynor, i ragazzi di Amici di Maria De Filippi, Masha del Grande Fratello e l’ex letterina Alessia Fabiani”. Insomma un trionfo, oltre che dello stile architettonico “cinquecentesco” sicuramente apprezzato da tutti, anche dell’indispensabile nazionalpopputismo, che lo valorizza

Ma la vera inaugurazione, per un posto del genere, è quella del primo sabato pomeriggio, quando tutti i Fantozzi delle isocrone di competenza (e anche qualcuno in più, come nel mio caso), si accodano un fanalino dietro l’altro sulla statale ultraintasata, per sperimentare quello che il già citato tale Steve Collins descrive: when you visit you’re made to feel you’re on the guest list. Una lista lunghissima, che si snoda dai due serpentoni della statale e del casello autostradale, per imbottigliarsi nel percorso (si spera provvisorio) a cul-de-sac, che dopo aver zigzagato attraverso la zona industriale scavalca l’unico ponte sul canale ad immettere nel solito, maledetto, sterminato, parcheggio ad anello. Un parcheggio più o meno identico, nel male e nel malissimo, agli squallidi ciambelloni neri che stringono ad anello i vari villaggi della moda in stile: cambiano gli slogan pubblicitari sull’ispirazione storico-culturale del progetto, ma resta identica la prospettiva di osservazione dei lontani scatolini colorati dei padiglioni commerciali, da cui ci separa l’infinita distesa ondosa delle lamiere luccicanti. Non aiutano, nel caso specifico, l’abbondante pioggia e i lavori conclusi a metà, come testimoniano le abbondanti sbrodolate di fango, e le brusche interruzioni delle false prospettive “cinquecentesche”, evidentissime per chiunque (come il curioso sottoscritto) non punti a paraocchi innestati verso uno dei disneyani cancelli di ferro battuto, che immettono in una specie di piazza con fontana.

Una volta all’interno, nonostante qualche ulteriore segno di “non finito”, il panorama migliora di parecchio, e tornano in mente le riflessioni dello storico dei centri commerciali Richard Longstreth: nonostante tutti i voli pindarici, anche in buona fede, di intere generazioni di progettisti sul tema dei valori anche sociali e civici di questi spazi, la logica mercantile alla fine si piglia tutto, ma proprio tutto. Detto in altre parole, chi si aspettava un centro storico, cinquecentesco o altro, vero, verosimile, o finto, se ne può anche tornare a casa, a cercarselo in giardino tra l’oleandro e il baobab, se crede. Le piazze, nonostante l’illuminazione ad effetto, nonostante l’improbabile blasone Fashion District che campeggia similgentilizio su una facciata in stile, sono vuote come un foro boario la notte di Natale: non un paio di pensionati a spettegolare, né una coppietta a pomiciare, né tantomeno un botolo a concimare le aiuole nuove di zecca. La folla, che è tanta, tantissima, non si scosta istintivamente più di un metro o due dal filo delle vetrine, al punto che anche i portici (con i loro colonnati vezzosamente varianti in stile,colore, ed effetto prospettico ogni manciata di metri) sono quasi vuoti, salvo fidanzati o mariti solitari, fumanti, impazienti, o semplicemente preoccupati per lo stato del conto corrente (nessun automatismo maschilista di pre-giudizio: pura osservazione statistica).

L’unico vero effetto concreto della scelta stilistica, o delle balle a uso gonzi sulla scelta stilistica, a piacere, si nota nel punto di interfaccia fra il mondo esterno e l’enclave felice del distretto commerciale dedicato al retailtainment: mancano del tutto i “portali”, tratto comune dei villaggi di Serravalle, Fidenza, Franciacorta, anche se il tema era declinato in vari modi, dall’atrio barocco, al colonnato di Ben Hur, al portico per sgranapannocchie. Qui nelle ex campagne di Bagnolo San Vito è un cancello tipo Cenerentola, a introdurci in quello che ostinatamente, ancora sulle pagine del Il Giorno dello scorso 30 ottobre chiamano “vero e proprio villaggio in stile cinquecentesco, che secondo i progettisti meglio ricorda le atmosfere del territorio virgiliano” (Anna Talò, Qui si vive di sola moda).

Atmosfere del territorio virgiliano che invece sono proprio del tutto diverse, come basta verificare ripassando in senso inverso i cancelli disneyani, la ciambellona nera a lamiere ondulate del parcheggio, e il ponte sul melmoso canale verso la zona industriale. Perché oltre gli orizzonti artificiosi (e del tutto legittimamente tali, visto che di centro commerciale si tratta) della caricatura di centro storico privatizzato, sta il cosiddetto “territorio virgiliano”, con cui il villaggio non ha proprio voluto avere niente a che spartire, salvo citare a pezzi e bocconi qualche cartolina, dopo aver frullato proporzioni e materiali secondo la formula magica del GLA, neologismo da iniziati che sta per Gross Leasable Area. Nulla di più estraneo, solo per fare un esempio, alle strade che oltre il ponte dell’Autobrennero si infilano dall’abitato della frazione di San Biagio verso gli argini del Po, tra canali, poderi e cascine, fino al piccolo cimitero di San Nicolò, proprio sotto l’alta scarpata d’erba che segna il margine esterno del Grande Fiume. Da quella scarpata e dalle stradine lì intorno, il pomeriggio di Ognissanti scendeva una folla varia, a visitare le tombe dei cari. Folla tanto simile, forse identica, a quella che oggi si pigia ad un massimo di novanta centimetri dal filo vetrina, ma se non altro immersa in una “atmosfera virgiliana” un po’ più onesta.

In definitiva e per farla breve: Ok con la nuova frontiera del commercio qualificato, e va bene anche la mega isocrona, purché non si intasi di traffico superfluo pure il lavandino. Passino anche i villaggi in stile che cercano il “legame col territorio”, ma chissà perché sembrano dappertutto tutti uguali, soprattutto per la ciambellona nera e repellente (e probabilmente evitabile) del parcheggio. Passi tutto, se come a quanto pare è possibile si possono fare buoni accordi con le amministrazioni locali, che vadano oltre gli oneri di urbanizzazione, che vadano oltre la promozione dell’immagine tramite ballerinette e cantanti nazionalpopolari (o glamour, forse sempre per via del “territorio”). Solo, e scusate se concludo con una espressione tecnica, vedete di non prenderci per il culo. Grazie.

Il testo riportato precedentemente sul tema, di Lorlene Hoyt, esaminava alcuni aspetti dell'associazionismo privato per la rivitalizzazione dei distretti commerciali "naturali", ovvero non strutturati originariamente secondo i modi dello shopping mall, ma in quelli della "main street" tradizionale, o di quartiere. Qui (ed è importante) è la pubblica amministrazione ad intervenire, per chiarire come, almeno nel caso del Massachusetts, si sia ben lontani da qualunque idea di autogoverno privatistico dello spazio, e anche da una sorta di monocultura della sicurezza ad ogni costo, praticata escludendo e ghettizzando i soggetti e le zone non associate al Distretto. Un esempio interessanto di come, anche oltre la progettazione semplicemente spaziale/morfologica, si possa tentare di contrastare alcuni elementi trainanti dello sprawl (fb)

Titolo originale Business Improvemente Districts. A Guide to Establish a BID in Massachusetts – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Introduzione

Questa guida è stata predisposta dal personale del Department of Housing and Community Development per aiutare le comunità interessate ad organizzare e attuare un Business Improvement District (BID) in Massachusetts.

Secondo la International Downtown Association, un’organizzazione senza scopo di lucro per la rivitalizzazione dei centri città e fonte a livello nazionale per le informazioni sui BIDs, nel 1994 il Massachusetts si è aggiunto a oltre 40 altri Stati quando ha approvato la legge che autorizzava la formazione di BIDs. Al momento attuale, ne sono attivi centinaia in tutti gli Stati Uniti.

Un BID è una strategia di gestione e strumento finanziario per il centro città, che consente ai distretti commerciali di sviluppare, sostenere e amministrare programmi e servizi mirati esclusivamente all’interno di un distretto. La chiave del successo è la partecipazione del settore privato - operatori commerciali e proprietari immobiliari – il quale riconosce i benefici di un apporto privato alla gestione e miglioramento del centro città. I proprietari immobiliari entro un distretto aggiungono valore alla proprietà finanziando servizi aggiuntivi e programmi da essi stessi progettati, e il BID opera per migliorare il clima dell’attività commerciale. La municipalità mette a disposizione il proprio potere di raccogliere fondi per la gestione del BID, rendendolo così effettivamente un’iniziativa a cooperazione pubblico-privata.

I proprietari del centro città attivano un BID per varie ragioni. Spesso la spinta è la chiusura di un grosso operatore commerciale, o la non utilizzazione di parecchi esercizi. Altri elementi catalizzatori comprendono l’arrivo previsto di un grosso esercizio discount nell’area esterna alla città, o una amministrazione locale attiva che cerca di rivitalizzare il centro comunitario, stabilizzare la base fiscale immobiliare e stimolare l’orgoglio civico.

La presente guida descrive un Business Improvement District e delinea gli interventi e servizi che un BID è specificamente demandato a svolgere secondo la legge del Massachusetts. Descrive anche il meccanismo finanziario e l’ambito di strutture a pagamento che un BID può impiegare. Si descrivono i passaggi che un BID deve superare per ottenere l’autorizzazione municipale, e iniziare ad essere operativo. In Appendice, un documento specifica ciascuna fase del processo di approvazione e i tempi richiesti per le azioni da parte dell’amministrazione municipale. Nonostante non si conoscano casi di BIDs sciolti, è incluso anche il processo di eventuale scioglimento.

Cos’è un Business Improvement District (BID)

Un Business Improvement District (BID) è un metodo utilizzato per finanziare e gestire gli interventi in un’area commerciale in determinati distretti, per rispristinare o promuovere l’attività. Il BID è un distretto geograficamente e specificamente definito per fornire servizi supplementari quali mantenimento e promozione di attività al suo interno, gestione professionale, marketing, interventi di manutenzione, miglioramento dell’ordine e sicurezza, e interventi fisici sull’aspetto delle strade del distretto. Il BID è finanziato dai proprietari all’interno della zona che accettano un’addizionale sulle tasse immobiliari, che viene destinata esclusivamente ad azioni di beneficio per l’intero distretto. La municipalità raccoglie questi fondi, e li consegna alla struttura BID, la quale li inoltra verso servizi migliorati o aggiuntivi, rispetto a quelli offerti tradizionalmente dalla municipalità. I fondi connessi a un BID sono utilizzati solo per migliorare servizi municipali, e non è consentito sostituirli a quelli di servizi esistenti.

Ci sono tre vantaggi principali in un BID. Il primo è la capacità di fornire servizi aggiuntivi e ampliati che migliorino l’ambiente commerciale. Il secondo vantaggio è la capacità del management professionale del commercio e dei servizi, molto simile a quella offerta in uno shopping mall, che alza il livello del distretto e rafforza le possibilità economiche municipali. Il terzo importante vantaggio è la fonte di finanziamento certa e prevedibile fornita dal BID. In breve, i BIDs consentono la messa in atto, in modo organizzato e professionale, di pratiche commerciali competitive, e di servizi sviluppati e sostenuti in modo cooperativo a scala locale.

In Massachusetts, un BID può essere formato in qualunque area geografica dove almeno il 75% del suolo è destinato ad attività terziarie, commerciali, produttive o funzioni miste. Il concetto di BID, di partecipazione privata ad interventi comuni, non è diverso da un distretto di miglioramento ( betterment district) dove i proprietari immobiliari pagano per specifici interventi strumentali. È anche stato paragonato alle spese comuni di cui si fanno carico gli affittuari di uno shopping mall e che sono utilizzate per la manutenzione, sicurezza, promozione. Un BID può fornire tutti questi servizi, per competere su un piano di maggiore equità con un centro commerciale.

Quali attività e interventi può intraprendere un BID?

La legislazione che regola la formazione dei BIDs in Massachusetts si trova nella sezione 40 O del Massachusetts General Laws Chapter. In tutto lo stato, le attività BID sono ricomprese in quelle più generali di:

1) Servizi di Gestione del Distretto – Un BID fornisce finanziamenti a, e richiede una struttura di gestione per, lo sviluppo e messa in opera di interventi nell’area commerciale basati sugli specifici bisogni della zona.

2) Manutenzione e Sicurezza – Devono essere servizi supplementari, oltre il livello di quelli forniti dalla municipalità, nei settori della pulizia stradale, spalatura della neve, arredo a verde e sicurezza.

3) Servizi alle Attività – I BIDs abitualmente svolgono pratiche di informazione sugli spazi commerciali, compresa la compilazione di dati sulla disponibilità, le sue specifiche caratteristiche, commissionano analisi di mercato, indagini sui consumatori, forniscono progettazione di fronti commerciali, materiali promozionali e pubblicitari, assistenza allo sviluppo delle attività.

4) Servizi di promozione e marketing- Caratteristica di molti programmi BID è la pubblicità comune, la promozione dell’intero distretto e l’organizzazione di eventi particolari normalmente non offerti dalla municipalità.

5) Interventi Urbani e Gestione Immobiliare – I BIDs talvolta sono formati specificamente per finanziare interventi pubblici sul centro città, e gestire strutture come ad esempio quelle di parcheggio.

Le leggi del Massachusetts definiscono a grandi linee diritti e poteri di un BID approvato dagli organi di governo della municipalità (consiglio, o ufficio delegato), e che comprendono:

1. Mantenimento o inserimento di attività all’interno del BID

2. Amministrazione e gestione di aree commerciali centrali o di quartiere

3. Promozione dello sviluppo economico

4. Gestione dei parcheggi

5. Progettazione, costruzione, manutenzione o gestione di edifici, spazi urbani stradali o infrastrutture, per incrementare lo sviluppo economico e l’uso pubblico

6. Attività di conservazione storica

7. Affitto, proprietà, acquisto o opzioni sul patrimonio immobiliare

8. Attività complementari di manutenzione, sicurezza, pulizia

9. Servizi di progettazione architettonica e urbana

10.Formulazione di una struttura tariffaria

11.Accumulazione di interessi

12.Esposizione finanziaria o indebitamento

13.Partecipazione ad accordi

14.Citare ed essere citati a giudizio

15.Impiego di servizi legali e certificazione bilancio

16.Esecuzione di studi di fattibilità, mercato, pianificazione

17.Sviluppo di attività comuni di marketing e promozione

18.Sostegno ad attività pubbliche, artistiche o di servizi ambientali connesse al miglioramento del distretto commerciale

19.Esecuzione di altre attività o programmi di servizio supplementare che sviluppino gli scopi già citati (MGL Ch. 40 O).

La flessibilità del BID consente a ciascun distretto di sviluppare un proprio piano di intervento sui suoi bisogni. Una comunità può attivare un BID solo per fornire sicurezza e manutenzione supplementari. Un piccolo centro città può decidere che un BID è la giusta sostituzione alle iniziative volontarie di raccogliere fondi per le decorazioni stradali o la sponsorizzazione di eventi promozionali. Un’altra zona può formare un BID per realizzare e gestire una struttura di parcheggio.

Come si finanzia un BID?

A tutti i proprietari entro il BID viene applicata una addizionale sulla tassa per gli immobili, per finanziare servizi e programmi supplementari. L’esattore tesoreria municipale raccoglie i tributi e li mette a disposizione della struttura gestionale designata dal BID. L’ammontare della somma è stabilito da ciascun BID, ma non può superare su base annua lo 0,5% del valore totale accertato della proprietà immobiliare posseduta dai membri partecipanti del distretto. Per esempio, per ogni 5 milioni di dollari di valore accertato della proprietà partecipante, il BID può raccogliere un massimo di 25.000 dollari. Comunque, tramite il proprio piano d’intervento annuale, il BID ha la possibilità di limitare o fissare un tetto a questa addizionale massima sulle singole proprietà, o sulla somma totale raccolta. La municipalità ha il potere di esentare dal prelievo BID: 1) i proprietari-inquilini residenti, 2) le attività agricole, 3) altre proprietà esenti dalle tasse.

La base del prelievo è determinata in base a una formula con contiene uno o una combinazione dei seguenti:

1) valore accertato

2) diversi livelli e classificazioni della proprietà immobiliare

3) zone avvantaggiate

4) superficie

5) affaccio stradale

6) ogni altro elemento connesso agli obiettivi specifici del BID

[...]

Nota: è possibile scaricare direttamente da qui il file PDF (cliccare col lato destro del mouse) col testo originale e integrale, dal sito del Massachusetts Housing Department. Il primo caso di organizzazione di una struttura simile, è quello del BIA di Toronto, che offre QUI materiali scaricabili relativi ad un vero e proprio Manuale di Gestione corrente del Distretto (fb)

Ferilli, bellissima in un abito nero. Bella e simpatica come sempre, ha fatto da madrina al nuovo Outlet Village, sottolineando il gusto dei costruttori nel realizzare una struttura commerciale non invasiva dal punto di vista paesistico”. Così ci rassicura Bresciaoggi di domenica 14 settembre scorso (In quattromila a Rodengo per la Sabrina nazionale), e francamente ce n’era un gran bisogno, di questa versione nazionalpopolare della VIA, perché a prima vista il paesaggio appare piuttosto invaso. Ma una fede nelle icone nazionali, specie se spacciate come di sinistra, mi spinge a capirne di più, di questa non invasiva

piattaforma di cemento con sfondo di dolci colline.

Siamo in comune di Rodengo Saiano, ai margini occidentali dell’insediamento compatto di Brescia, e rispetto ad altri parchi commerciali tematici italiani, il tema sembra sviluppato in una logica più “metropolitana”. Naturalmente, e come d’abitudine in questi casi, l’enfasi comunicativo-pubblicitaria calca molto di più sull’immagine campagnola, ma basta un colpo d’occhio per capire che l’elemento rurale, qui, è stato cotto, mangiato e digerito da un pezzo. Del resto, basta un colpo d’occhio in marcia di avvicinamento a rafforzare l’impressione. Per chi viene dalla direzione di Venezia, il villaggio si presenta solo come l’ultima – anche se decisamente più gradevole – di una lunga serie di skylines che mischiano elementi industriali (come il famoso inceneritore bresciano a sud della tangenziale), e più tipicamente commerciali, come vari ipermercati, l’Ikea, il monolite trasparente del “distributore” di automobiline Smart. Anche per chi si avvicina lungo la strada Padana Superiore, da Milano, il villaggio rappresenta certo la “porta” verso la Franciacorta e la zona turistica del lago d’Iseo, ma la collocazione lungo una superstrada e l’accesso diretto da svincolo danno comunque una forte impressione urbana, che il gigantesco parcheggio ad anello non contribuisce certo ad attenuare. Il modo migliore di “gustarsi” l’accesso al Village è forse quello di imboccare il tracciato secondario verso il lago d’Iseo, che parte da una diramazione a destra della Padana Superiore, poco fuori dal territorio

comunale di Brescia. È così possibile intravedere più da vicino la città industriale che via via si dirada, lasciando spazio a qualche sparuta testimonianza di campagna: campi arati, filari di alberi, fossi, qualche edificio rurale. Poi anche questa impressione finisce, dopo il visibilissimo cartello OUTLET, e l’ingresso nell’ex podere della cascina Moie, ora zona industriale Moie, all’orizzonte del quale spunta, dopo una lunga sequenza di metropolitanissimi precompressi misti a destinazione varia, la miscela di colori caldi (sembra di parlare di un tessuto) del parco commerciale.

Il villaggio, una volta superata la barriera anulare delle migliaia di auto nel parcheggio, ha un aspetto gradevole, con le abituali articolazioni del fronte, portici, aperture, uso abbondante e visibile del legno, e in qualche modo giustifica la dichiarazione ufficiale secondo cui nel progetto ci si è ispirati ai temi della campagna lombarda. Naturalmente qui la campagna lombarda, come a quanto pare tutto nel mondo della moda, è puro simbolo e citazione: per trovare qualcosa di davvero simile alla campagna, bisogna inoltrarsi ancora di parecchio nella Franciacorta, o fare dietro front e scendere di un po’ di chilometri nella pianura del Mella.

Comunque, bisogna accontentarsi, e al centro del villaggio spicca anche la restaurata cascina Moia, che dà il nome a tutta la zona. Non aiuta, un ipotetico storico dell’arte futuro, la presenza, sovrastante la stessa cascina, degli archi dorati di McDonald’s, di cui sembra che i portici riprendano il motivo. Ma tant’è.

Più interessante, per la tutela del territorio (e la sopravvivenza di chi ci sta sopra), sembra essere l’insieme di iniziative concordate fra il piccolo comune di Rodengo Saiano e i promotori (un nuovo gruppo italo-americano: European Fashion Center, Cfr. il sito franciacortaoutlet.it). Si va dalla realizzazione di nuove piazze nel paese, alla concessione gratuita di spazi comunali all’interno del villaggio, all’accordo per la sponsorizzazione di una lunga serie di iniziative comunali e in generale dell’immagine della zona. A questo, e nella logica complessiva “metropolitana” cui ho già accennato, si aggiunge l’idea di collocare in un grosso stabile industriale dismesso ai margini della zona Village, una “Città delle Macchine” inserita nella rete del Museo dell’Industria bresciano. Se si comprendono i 600-1000 posti di lavoro che il villaggio promette di creare direttamente, si ha un senso più completo dell’impatto generale, anche oltre le pur rispettabili opinioni di Sabrina Ferilli.

Anche l’ambiente fisico e sociale, pur superficialmente e ad una osservazione occasionale, suggerisce un’idea più “nazionalpopolare” del centro, che in una domenica pomeriggio di sole dà davvero l’idea del paese in festa, con famiglie accalcate al bar o adolescenti in massa con motorini a ciondolare qui e là. Certo che non aiuta, a scaldare la temperatura relazionale, quell’immenso parcheggio circolare che isola la cascina, e il villaggio finto che le sta attorno, dal resto del mondo. Un mondo che, appena fuori dalla zona Moie (sì: con un po’ di attenzione è anche possibile uscire senza imboccare per forza la superstrada!), inizia a dare un’idea di cosa doveva essere prima il paesaggio, da quelle parti. Ma a quanto pare tutti sono contenti, e in effetti rispetto ai casi “visionati” sinora, il risultato sembra migliore. Sarà l’abitudine? Sarà la Ferilli?

Mah!

Alcune immagini sono raccolte in questa cartella

Titolo originale, The Impact of Chain Stores on Community– Traduzione di Fabrizio Bottini

Lasciate che cominci leggendo qualcosa scritto da Jane Jacobs nel suo La vita e la morte delle grandi città americane, sulle relazioni fra attività a gestione locale e vita comunitaria. “Comunità” è una parola tanto usata, che raramente ci fermiamo a considerarne il significato. Per Jacobs, quello che costituisce la comunità non è nessuna cosa in particolare, piuttosto le molte piccole interazioni che si verificano nella nostra vita quotidiana.

”Essa nasce” scrive “dalla gente che si ferma al bar per una birra, ricevendo informazioni dal droghiere e dandone all’edicolante, confrontando le opinioni con gli altri clienti della panetteria e lanciando un saluto ai due ragazzi che bevono gazzosa sul portico ... sentendo di un lavoro dal ferramenta e prendendo a prestito un dollaro da farmacista ...

”La maggior parte di tutte queste cose è evidentemente banale, ma la loro somma non lo è affatto. La somma di questi contatti sociali casuali, a livello locale ... la maggior parte casuali, la maggior parte legata alle commissioni ... è un senso di identità collettiva per la gente, una rete di rispetto e fiducia generale, e una risorsa in tempi di bisogno personale o di quartiere. La mancanza di questa fiducia è un vero disastro, per una via urbana”.

Quello descritto qui dalla Jacobs potrebbe essere un quartiere urbano, o un piccola città. La caratteristica che lo definisce – a ben vedere lo stesso fondamento di questa comunità così legata – è la fiorente attività commerciale del posto. È uno spazio di piccoli negozi e marciapiedi; un posto dove lo spazio privato e quello pubblico si sovrappongono; un posto dove acquistare beni e servizi da esercizi gestiti dai nostri vicini.

Posti come questo sono sempre più rari. Le strade piccole, a scala di pedone, stanno cedendo il passo ai grossi impersonali shopping centers. La vita di strada ne soffre, e le nostre commissioni quotidiane ruotano sempre più attorno a luoghi accessibili solo in automobile. Gli esercizi di proprietà locale stanno scomparendo, scacciati da catene nazionali che hanno pochi legami e nessun impegno di lungo termine verso la comunità.

La perdita di negozi a proprietà locale e il ritmo della concentrazione commerciale sono vertiginosi. 11.000 farmacie indipendenti hanno chiuso da 1990. Le librerie indipendenti sono crollate dal 58 per cento delle vendite librarie del 1972 al solo 17 per cento di oggi. I commercianti locali di ferramenta e casalinghi sono in declino, e due sole compagnie si sono prese il 30 per cento del mercato. La Blockbuster noleggia uno su tre video a livello nazionale. Cinque imprese controllano un terzo del mercato alimentare, dal 19 per cento di soli cinque anni fa. Un solo marchio, Wal-Mart, conta sul 7 per cento di tutta la spesa dei consumatori. Se continua la tendenza attuale, i commercianti indipendenti potrebbero presto diventare una cosa del passato. Ma, nel mezzo di questa espansione senza precedenti delle grandi imprese commerciali nazionali, si manifesta un’altra tendenza: un crescente numero di comunità respinge le grandi catene commerciali.

La scorsa estate, i residenti di Ashland, Virginia, hanno costruito una ispirata campagna per bloccare la proposta di un Wal-Mart. In ottobre, la locale Planning Commission ha votato all’unanimità contro il progetto. A Chelsea, Michigan, gli abitanti hanno organizzato un pic-nic per protestare contro il progetto di un drugstore Rite Aid. L’evento ha raccolto una folla di 1.100 persone. Rite Aid ha rapidamente fatto marcia indietro. Cose simili stanno succedendo in tutto il paese.

A ben vedere, negli ultimi due anni sono sorti dozzine, forse centinaia, di gruppi di quartiere a proteggere le attività a radicamento locale. A Lake Placid, New York, un gruppo conosciuto come Residents for Responsible Growth sta lavorando con i centri vicini per costruire una risposta a scala regionale all’espansione delle grandi catene. A Flagstaff, Arizona, sono stati l’arrivo di Barnes & Noble e di Home Depot, a spingere i residenti a formare il Friends of Falstaff’s Future. A Northfield, Minnesota, i Citizens for Responsible Development lavorano per difendere la storica Main Street commerciale della città, e i negozi locali.

Consumatori

Il dibattito sulle grandi catene di distribuzione è spesso presentato come una lotta fra i nostri cuori e i nostri portafogli. Possiamo piangere la perdita del droghiere dell’angolo, un’istituzione del quartiere per tre generazioni, o la libreria indipendente della zona, ma alla fin fine crediamo che, come consumatori, stiamo meglio senza. Tendiamo a ritenere scontato quanto detto dalle grandi catene, ovvero che ci portano prezzi più bassi e una più ampia varietà.

Ma nel lungo termine il consumatore è meglio servito quando sono in molti a competere sul mercato. Le grandi corporations del commercio come Home Depot, Toys “R” Us e Best Buy sono conosciute nel settore come “ category killers”. Il nome ha un suo senso. Questo tipo di commercio non ha intenzione di competere con i negozi locali: mira ad essere la sola selvaggina in città.

Normalmente, una grande catena entra nel mercato locale esibendo grossi sconti. Molte catene utilizzano prodotti in perdita per attirare clienti. Si sa che Wal-Mart ha venduto confezioni da cinque litri di latte per 25 centesimi, o etichettato interi settori merceologici con prezzi inferiori a quelli di costo. Questo scatena una battaglia che i commercianti locali non possono vincere. Se non si adeguano ai prezzi delle grandi compagnie rischiano di perdere clienti. Se si adeguano a quei prezzi, perdono denaro su ogni vendita. Se una grande compagnia può permettersi di gestire un nuovo punto vendita in perdita per un tempo indeterminato, è solo questione di tempo prima che un esercizio locale sia costretto a chiudere. Una volta eliminato il concorrente locale la grande catena tende ad alzare i prezzi. In Virginia, una ricerca su parecchi negozi Wal-Mart a livello statale ha rilevato prezzi che variavano fino al 25 per cento. I ricercatori ne hanno concluso che i prezzi salgono nei mercati dove nel commercio ci sono pochi concorrenti. Una conclusione simile è stata ricavata in un’analisi su Home Depot. I prezzi erano fino al 10 per cento più alti a Atlanta, se paragonati ai mercati più competitivi di Greensboro, nel North Carolina.

Per quanto riguarda la scelta più ampia, i consumatori dovrebbero stare particolarmente in guardia riguardo alle dichiarazioni delle grandi compagnie. I commercianti indipendenti di solito sono i primi e mettere in vendita i prodotti delle imprese più piccole. Al contrario, le grandi catene rifiutano di avere rapporti commerciali con le aziende piccole e medie. Preferiscono avere a che fare solo con grossi produttori. Il risultato è che i piccoli produttori – anche quelli che fanno prodotti innovativi, pubblicano grandi libri, o distribuiscono film d’avanguardia – stanno vivendo tempi di crescenti difficoltà a raggiungere i consumatori.

Considerate gli effetti di tutto questo sul mercato librario. Borders Books e Barnes & Noble sicuramente stipano un gran numero di titoli sotto lo stesso tetto, ma si tratta virtualmente degli stessi titoli, che si trovano in ciascuno dei loro 2000 negozi. Nonostante le librerie locali tendano ad essere più piccole, collettivamente mettono a disposizione – e promuovono – molti più titoli di qualunque delle grandi catene. Si prendono il rischio di autori sconosciuti o di piccoli editori. Una quantità di scrittori best-seller, compresi Barbara Kingsolver e Amy Tan, affermano che senza librai indipendenti i loro primi libri sarebbero silenziosamente andati invenduti.

Economie locali

Anche se le grandi catene ci fanno risparmiare qualche dollaro prima o poi, la cosa ci costa cara. Le compagnie contribuiscono molto meno degli esercizi indipendenti all’economia locale.

I costruttori spesso presentano i nuovi insediamenti commerciali come grandi arricchimenti nell’economia locale. Sottolineano la crescita nelle vendite e le opportunità d’acquisto. Elencano le nuove opportunità di lavoro e il nuovo gettito fiscale che i negozi porteranno con sé.

Quello a cui spesso non si fa caso è l’altro lato del documento di bilancio. A differenze delle nuove fabbriche, che creano davvero crescita economica, i nuovi negozi semplicemente spostano la spesa dei consumatori da un’area all’altra della città. Un nuovo negozio big-box può avere successo solo a spese di altri esistenti.

Uno studio condotto in Iowa, ad esempio, ha rilevato che i nuovi punti vendita Wal-Mart traggono una media dell’84 per cento del volume di vendite da esercizi già esistenti in città. Conclusioni simili sono state raggiunte in studi sull’insediamento di big-box in Massachusetts, Maine, Vermont, New York, California e Virginia.

Quello che tutti gli studi mostrano è che molto poco delle vendite generate da un nuovo negozio rappresentano una nuova spesa. Invece, questi insediamenti semplicemente spostano attività economica da una parte di città all’altra. Il risultato finale non è sviluppo economico, piuttosto delocalizzazione economica.

Uno studio su Greenfield, Massachusetts, ha concluso che un proposto Wal-Mart sarebbe costato agli esercizi esistenti 35 milioni di dollari in vendite. I nuovi 177 posti di lavoro guadagnati col Wal-Mart sarebbero stati compensati dalla perdita di 148 posti in altre attività. Uno studio simile su St. Albans, Vermont, ha rilevato che un nuovo Wal-Mart avrebbe derivato il 76 per cento delle proprie vendite da esercizi locali. Molti di questi negozi sarebbero stati obbligati a chiudere, portando a un significativo declino nel totale occupati del commercio, e del gettito fiscale degli immobili.

Il passaggio dalle attività a gestione locale alle grandi catene distributive implica anche la perdita di significativi benefici economici secondari.

I negozi locali inseriscono i propri profitti entro un circuito economico pure locale. Sostengono una serie di altre attività. Creano opportunità per imprese di servizio, come attività contabili o tipografie. Fanno affari con la banca locale. Fanno pubblicità attraverso le radio indipendenti, e altri media a base locale. Acquistano beni da distributori cittadini o regionali. In questo modo, ogni dollaro speso in un negozio locale è un rivolo di beneficio economico che scorre attraverso la comunità.

Al contrario, le grandi catene tipicamente centralizzano tutte queste funzioni nei loro uffici direzionali. Mantengono spese e investimenti locali al minimo. Fanno affari con le grandi banche nazionali. Evitano le radio locali, a favore della pubblicità nazionale. In questo modo, la gran parte di ogni dollaro speso in un negozio delle grandi catene esce immediatamente dalla comunità.

I piccoli negozi indipendenti creano anche differenziazione economica, e stabilità. Dato che sono di proprietà locale, sono saldamente radicati nella comunità. È improbabile che si trasferiscano e faranno del loro meglio per affrontare anche i momenti di crisi peggiore.

Al contrario, le grandi catene tendono ad essere “amici per i tempi buoni”. Sono altamente mobili, e abbandoneranno una localizzazione appena i margini di profitto scendono sotto le aspettative. Lo scenario peggiore è quando un negozio big-box si insedia all’esterno della città, distrugge il tessute commerciale centrale, e poi dopo pochi anni decide di chiudere. La città è lasciata con una Main Street senza vita, e niente che possa sostituirla. A livello nazionale, ci sono più di 300 Wal-Mart vuoti. È molto difficile trovare un affittuario per questi edifici monouso, che spesso rimangono inutilizzati per molti anni.

Una comunità che ha perso il commercio locale a favore delle grandi catene nazionali, rischia anche di perdere altre opportunità di sviluppo economico. Le nuove tecnologie hanno messo molte imprese in grado di operare virtualmente ovunque. Quando queste compagnie esaminano le opportunità di localizzazione, i centri con un nucleo commerciale vitale e caratteristiche definite, spesso sono in cima alla lista.

Comunità

Da un punto di vista economico, ci sono molti argomenti per sostenere che le grandi compagnie non siano la cosa migliore. Ma forse, più significativi di qualunque considerazione economica, sono i benefici qualitativi della proprietà locale. Gli esercizi a gestione locale rendono forti le comunità. Forniscono la base per la rete di relazioni e fiducia che Jane Jacobs riteneva tanto essenziale per una sana vita di quartiere.

Ci sono molti motivi, per questo. Il primo è che i negozi indipendenti tendono a localizzarsi in distretti commerciali a dimensione umana, orientati alla mobilità pedonale, tutto l’opposto dell’esperienza di vuoto e isolamento del parcheggio di una grande catena.

La seconda ragione è che i negozi locali creano un senso del luogo e della identità comunitaria. Riflettono la cultura locale. Danno al quartiere l’atmosfera particolare. Sono spesso fonte di orgoglio collettivo e attraggono visitatori.

Al contrario le grandi catene sfrondano la comunità delle sua caratteristiche individuali. Anche le città americane più famose stanno perdendo il loro fascino unico. Kmart, Costco e Home Depot stanno costruendo a Manhattan. La Quinta Strada è abitata da Starbuck e da The Gap. Potete trovare gli stessi negozi sulla Michigan Avenue a Chicago, a Market Street a San Francisco, e in migliaia di altri posti nel mondo.

L’arrivo delle grandi catene può anche comportare la distruzione di importanti caratteristiche locali. Per esempio a Richmond, Indiana, è stata demolita una Friends Meeting House del 1876 per far posto a un drugstore CVS. A Nashville, gli Jacksonian Apartments, candidati al Registro Nazionale dei Luoghi Storici, sono stati rasi al suolo per un drugstore Walgreen.

Il terzo modo in cui gli esercizi indipendenti rafforzano la comunità, è attraverso il loro contributo alla vita civica e culturale. I commercianti locali sono qualcosa di più che fornitori di beni e servizi. Spesso assumono un ruolo guida nelle cose della comunità. Molti presiedono organizzazioni di quartiere, ospitano eventi culturali, organizzano festival locali. Secondo la Small Business Administration, i piccoli negozi danno più denaro alle organizzazioni caritatevoli, di quanto non facciano i loro concorrenti più grandi. Visto che vivono nei luoghi dove fanno affari, i negozianti locali tendo ad essere molto più impegnati nel benessere della comunità, e nella sua stabilità a lungo termine, di quanto non facciano le distanti corporations. Questo impegno di manifesta in vari modi. A St. Paul, Minnesota, per esempio, la locale cooperativa di consumo ha recentemente aperto un nuovo negozio in un quartiere a basso reddito, su una proprietà che era stata inutilizzata per anni. Come accade in molti progetti edilizi, la cooperativa ha incontrato costi più alti di quanto non ci si fosse aspettati. Allora numerosi commercianti locali, tra cui il libraio, sono entrati nell’affare garantendo un congruo e indispensabile prestito. Nel frattempo Barnes & Noble e Border Books, entrambi con negozi in città, non si trovavano da nessuna parte.

Infine, il passaggio dalla proprietà locale ad una lontana e assente significa che le decisioni d’impresa non sono più prese sul posto, da membri della comunità. Chi decide se chiudere o no un negozio in difficoltà in un quartiere in crisi, mettere in vetrina un libro discusso, vendere prodotti delle campagne locali, pagare un contributo perpetuo, o versare fondi a un’associazione di beneficenza? Nel caso delle grandi catene, queste decisioni vengono prese in lontane stanze riunioni, dove i valori della comunità locale hanno poco o nessun peso.

La perdita di un sistema decisionale locale, e il crescente potere di un piccolo numero di grandi compagnie, ha implicazioni democratiche. Nel 1952 il senatore Hubert Humphrey si chiedeva: “Vogliamo un’America dove il mercato economico sia occupato da pochi Frankenstein e giganti? O vogliamo un’America dove ci siano migliaia e migliaia di piccoli imprenditori, uomini d’affari indipendenti e piccoli proprietari immobiliari, che possono girare a testa alta e parlare al Governo o a chiunque altro?”

Nuove regole

Ci sono enormi vantaggi, nella scelta della seconda strada. La nostra capacità di farlo dipende non solo dalle nostre decisioni in quanto consumatori, ma da quelle che prendiamo in quanto cittadini. Le azioni di chi costruisce politiche, e in particolare degli urbanisti, hanno un ruolo critico nel rivitalizzare l’economia locale, e nell’assicurare che gli esercizi cittadini continuino ad essere parte vitale delle comunità.

Molti, sostengono che il settore pubblico non dovrebbe intervenire nelle forme dell’economia. Questo è, dopotutto, un libero mercato.

Ma le politiche pubbliche non sono mai neutrali, e nei fatti hanno giocato un ruolo centrale nell’espansione delle grandi catene a livello nazionale. In molti modi, le politiche pubbliche hanno indebolito il commercio locale conferendo alle grandi corporations iniqui vantaggi.

Se ne possono trovare esempi a tutti i livelli di governo. Il Congresso, per esempio, ha esentato compagnie come Amazon.com e Barnes & Noble da alcune tasse sulle vendite via internet. Questo di fatto da’ a queste imprese un vantaggio di prezzo dal 6 all’8 per cento sui commercianti locali.

A livello cittadino e statale incentivi fiscali e altri generi di sostegno sono messi continuamente a disposizione delle grandi catene. In Wisconsin qualche anno fa furono mesi a disposizione quasi 20 milioni di dollari per un centro di distribuzione dei negozi Target. La municipalità di Rochester, Minnesota, ha speso 3 milioni per attirare Barnes & Noble. A Long Beach, California, si è rinunciato a 6 milioni di tasse per un insediamento che conteneva Kmart. In Florida, Walgreen ha chiesto una riduzione di 4,5 milioni di tasse statali e locali per la costruzione di un nuovo magazzino generale.

Esempi simili si possono trovare in tutto il paese. Anche se la vostra città non mette a disposizione questi sussidi, le grandi compagnie che si espandono lì sono in grado di farlo grazie a finanziamenti pubblici ricevuti altrove. Raramente esenzioni fiscali e sostegni sono dati agli esercizi a proprietà locale. Invece, essi vedono spesso i propri dollari di tasse usati per sostenere la concorrenza.

In altri casi, i governi cittadini hanno sfrattato esercizi locali per far posto agli insediamenti delle grandi catene. Un progetto attualmente in esame a Pittsburgh, propone di demolire 60 edifici, con rimozione di 125 esercizi, in maggioranza a gestione locale, per fare posto a uno shopping center che ospiterebbe tre dozzine di grandi negozi. I beneficiari di questo piano comprendono The Gap, Borders Book, e FAO Schwartz.

In queste condizioni, anche i più concorrenziali, efficienti e conosciuti commercianti autonomi devono lottare per rimanere a galla.

Quanto questi esempi rendono chiaro, è come la scomparsa di attività indipendenti non sia inevitabile. Anziché indebolire l’economia locale, molte comunità stanno tentando un approccio diverso. Hanno fatto del sostegno alle attività a scala umana, locali, un obiettivo centrale della pianificazione e delle decisioni di sviluppo.

Stanno adottando una serie di regole nell’uso dello spazio che scoraggino le grandi compagnie e sostengano la proprietà locale. In molti casi si è ristretta la dimensione la dimensione fisica dei nuovi negozi. In altri si concede nuova edilizia commerciale solo se risponde a determinati criteri decisi dalla comunità. Alcuni hanno messo al bando l’uniformità, proibendo i negozi realizzati a “formula” standard. Altri hanno sbarrato la strada a qualunque intervento commerciale al di fuori del distretto centrale. Esempi di queste politiche, compresi i testi delle ordinanze locali, si possono reperire al sito web New Rules, creato dall’Institute for Local Reliance).

Progettando politiche che mettano al primo posto la comunità, le attività locali possono ridiventare una componente chiave di una dinamica economia commerciale, e di una comunità locale viva.

Nota: qui il link al sito citato, New Rules. Per un parziale confronto, può valere anche l'insieme di argomentazioni di una sezione locale italiana della Associazione per i Centri Commerciali Naturali (fb)

Retailtainment. Un neologismo a cui ahimè dovremo abituarci, a quanto pare: non solo fare la spesa, ma pure divertirci come matti, ammirando le meraviglie di questo nuovo rapporto sado-maso fra cultura, territorio, modernità e tradizione. Perché l’Italia, come ci spiegano doviziosamente sul sito http://www.just-style.com rappresenta la nuova frontiera dei villaggi commerciali tematici. E per un motivo chiaro ed esplicito: the less restrictive planning laws at present. Questo per fare chiarezza, e

prima di addentrarsi in qualunque altra considerazione sullo sviluppo di questa nuova forma di insediamento, che nel giro di qualche mese ha visto entrare in campo nel nostro paese almeno due elementi di novità: la concorrenza (che a quanto pare non necessariamente migliora l’offerta), e l’esplicitarsi di una “cifra stilistica” che il primo outlet village a Serravalle aveva in parte offuscato con le particolari scelte di progetto.

In attesa di farmi travolgere dal fascino imperiale del nuovo aggeggio di Castel Romano, di cui si dà primo acconto in questa stessa cartella, ho fatto una capatina al più accessibile (per il sottoscritto padano), nuovo fiammante, Fidenza Village, fra la via Emilia e il West. Con un effetto sorprendente, ma non più di tanto a pensarci bene: la forte impressione di stare dentro a una fotocopia, ovvero senza farla così tragica il senso di familiarità che proviamo un po’ tutti andando alla coop o all’esselunga, e dimenticandoci in un secondo se quella coop o esselunga sta in centro a Milano oppure sulla cima di una montagna. Altro che valorizzazione delle specificità territoriali: questo è sciocchezzaio assessorile degno di “Zelig”, o più legittimamente prosa da comunicato stampa del gruppo promotore. Per farla breve, a Fidenza in una manciata di secondi mi è sembrato di essere a Serravalle, perché l’ambiente era lo stesso: nonostante il fatto che qui fossimo in pianura che di più non si può; nonostante il promotore sia l’americana Value Retail, acerrima concorrente della McArthur Glen che ha promosso Serravalle e Castel Romano; nonostante la scelta stilistica assai differente, che sostituisce al mimetismo del “centro storico virtuale” un approccio culturale del tutto diverso. Ovvero, trattandosi di terre verdiane (siamo a un tiro di sasso da Busseto), oltre la solita planimetria generale da borgo felice le architetture citano i temi delle opere liriche del grande musicista. Abbiamo così le vetrine delle solite griffes, affacciate sui soliti artificiosi spazi “urbani” privatizzati e lindi, ma circondate da archi, colonne, pinnacoli, che forse vorrebbero citare l’Aida, ma assomigliano di più a una scena di Asterix e Cleopatra. Resta solo un dubbio: perché non optare, che so, per una bella forma di parmigiano, o un prosciuttone di cemento colorato lungo cento metri? In fondo, se Busseto sta qui vicino, anche Langhirano si raggiunge facile facile, e il legame col territorio – per dirla in linguaggio da assessore o ufficio stampa – è sano e salvo.

Superficialmente, si nota anche qualche passo avanti rispetto al “modello Serravalle”, forse dovuto alle more restrictive planning laws emiliane, o forse ad altro, chissà. Innanzitutto non sembra che il sito abbia subito trasformazioni traumatiche, visto che si tratta di zona piana, fuori città e lontano dall’asse via Emilia, perfettamente raccordata con le rampe di collegamento all’Autostrada. Resta, naturalmente, il brusco cambio di scenario per chi arriva dalle campagne di Soragna, magari dopo aver attraversato la grande distesa di borghi e cascine (quelli sì davvero “verdiani”) che sale fino al Po. Ma per il grosso dei visitatori, che sbucano dal casello Fidenza dell’A1, o hanno scavalcato la ferrovia e il centro provenendo dall’asse SS9 Emilia, l’effetto è sicuramente molto migliore di quello dei soliti scatoloni tristi da centro commerciale. E questa, mi pare di capire, è la parte “... tainment” della faccenda. Il resto ovviamente è retail, ma come vi spiegheranno entusiasti scuotendo il capo: business is business. No?

E l’effetto fotocopia soggettiva rispetto a Serravalle (chissà cosa succede a Castel Romano), si spiega anche leggendo i commenti della stampa, che presenta un processo per molti versi identico anche se ci si scordano i riti del “rapporto col territorio” o altri formalismi da guida gastronomica.

Così come a Serravalle (cfr. lo studio di impatto), anche a Fidenza i promotori e costruttori del Village propongono un approccio integrato e pervasivo, senza ironia stavolta. Approccio che vede interventi diffusi, ad esempio fisici sul centro storico, o organizzativi, con lo spazio dell’outlet inteso potenzialmente come “vetrina delle risorse locali”, oltre che vetrina locale. Il tutto senza contare la questione lavoro. Citando il Corriere della Sera (“A Fidenza nell’outlet all’americana”, 5 maggio 2003), “Il «fashion village» produrrà due tipi di occupazione: quella diretta e l’indotto che si realizza nei 60 negozi ognuno occuperà da 4 a 5 persone e nei servizi centralizzati della struttura come giardinaggio, pulizia, manutenzione e vigilanza circa 400 persone”. Non di altissimo profilo, ma nemmeno pochissimo.

E a proposito di citazioni testuali, vale forse la pena di riportare in conclusione un estratto (trovato per caso con una veloce incursione alla cieca su motore di ricerca) dal sito regionale http://www.regione.emilia-romagna.it riguardo alle risposte ad alcune interpellanze, nella primavera del 2000, proprio mentre nel basso alessandrino si inaugurava l’outlet Serravalle.

Nessuna richiesta è pervenuta alla Regione relativa all’apertura di una struttura commerciale da ubicare nel Comune di Fidenza. È la risposta in Consiglio regionale dell’assessore Duccio Campagnoli relativa all’ipotesi, avanzata da una interrogazione del consigliere di AN Manlio Molinari, di realizzazione di un “Factory Outlet Center” nel Comune di Fidenza. “Al riguardo - precisa Campagnoli - a seguito dell’entrata in vigore del cosiddetto Decreto Bersani, è sospesa la presentazione di domande di rilascio di autorizzazioni per grandi strutture di vendita fino a quando i Comuni non avranno provveduto ad adeguare i propri strumenti urbanistici, generali ed attuativi, alle norme regionali”. Ampiamente soddisfatto si è dichiarato Manlio Molinari.

Ma il progresso, si sa, è inarrestabile, e l’intesa fra il comune di Fidenza e la Value Retail sarà perfezionata da lì a un anno.

Resta da vedere se da qui a un anno, ovvero quando nel 2004 si raddoppieranno i punti vendita dell’outlet e la struttura entrerà davvero a regime dopo un battage pubblicitario internazionale, ci sarà davvero da essere ancora soddisfatti. Oppure, da rimpiangere l’ennesima occasione perduta. Magari occasione perduta, semplicemente, per imporre un parcheggio sotterraneo, anziché quella miserabile spianata d’asfalto che, borgo settecentesco, impero romano, o accozzaglia di citazioni verdiane che si voglia, ispira comunque infinita tristezza. A meno che anche quello sia parte indispensabile del retailtainment.

Alcune immagini dell'Outlet di Fidenza in questa cartella

I centri commerciali e le strutture per il tempo libero generano traffico. Pertanto, la scelta della loro ubicazione pone la politica ambientale di fronte a un dilemma: visto che in prossimità delle città le emissioni di gas di scarico sono molto vicine al limite massimo e possono aumentare ulteriormente, è meglio optare per la campagna dove l’aria è ancora pura? Dal punto di vista della pianificazione del territorio ciò sarebbe sbagliato. Una direttiva dell’UFAFP e dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale ARE presenta possibili soluzioni a tale problema.

Ci sono voluti nove lunghi anni per progettare e costruire il centro Boujean alle porte di Bienne, ma, dimenticate tutte le difficoltà, il 18 aprile 2001, giorno dell’apertura, nel centro commerciale c’erano solo volti soddisfatti. Primi fra tutti quello del sindaco, che poteva vantare 350 nuovi posti di lavoro e un “contribuente” di tutto rispetto. E altrettanto compiaciuti erano gli investitori del gruppo Maus Frères, felici di vedere le casse del ristorante, del centro fai-da-te e della ventina di negozi presenti nel supermercato funzionare a pieno ritmo sin dal primo giorno.



Contenere il traffico

Ha tirato un sospiro di sollievo anche l’Associazione svizzera dei trasporti (AST), che aveva interposto diversi ricorsi per contenere il volume di traffico comportato dalla costruzione del centro commerciale. Anche il Cantone di Berna, inoltre, aveva sollecitato la realizzazione di buoni collegamenti con mezzi pubblici. E tali prese di posizione non sono state vane, visto che il numero dei posteggi è stato ridotto del 20 per cento rispetto ai progetti del gruppo Maus Frères e che il centro Boujean dispone di una propria fermata dell’autobus servita ogni 10 minuti. Un servizio che ai gestori del centro commerciale cittadino costa circa 400 000 franchi l’anno.

È tuttavia importante rilevare che a Bienne è stato per la prima applicato uno strumento molto valido per limitare l’afflusso di traffico. Ai sensi delle prescrizioni in materia di edilizia, il centro Boujean non può generare più di 5.000 movimenti automobilistici al giorno, pena l’imposizione di condizioni supplementari. Tale contingente è stato fissato in modo che il traffico verso il centro commerciale non violi le prescrizioni relative alle emissioni foniche e alla protezione dell’aria e che le strade non vengano intasate.

Il più vicino possibile al centro

Ovunque si progettino strutture a forte affluenza (centri commerciali, parchi di divertimento, mercati specializzati, cinema), si registrano oggi conflitti simili a quelli che hanno accompagnato la costruzione del centro Boujean. Queste strutture, infatti, generano traffico. Il 10 per cento del traffico automobilistico privato è imputabile a loro. E la tendenza è al rialzo. Nelle città e negli agglomerati i valori limite di emissione fissati per gli inquinanti atmosferici vengono sistematicamente superati. Un ulteriore aumento delle concentrazioni sarebbe insostenibile. È pertanto necessario costruire tali strutture in regioni meno inquinate al margine della città, ossia in campagna? Dal punto di vista della pianificazione del territorio sarebbe sbagliato.

Le strutture a forte affluenza comportano un enorme “consumo” di suolo e, inoltre, le località fuori città sono solitamente mal servite dai trasporti pubblici. Sarebbe quindi molto meglio realizzare questi grandi centri negli agglomerati esistenti e nei punti nodali della rete di trasporto pubblico.

Adliswil ZH: collegamenti insufficienti

La ditta Mövenpick intendeva realizzare un megaprogetto in prossimità del raccordo autostradale di Zurigo-Wollishofen, raggruppando sotto lo stesso tetto dieci sale cinematografiche, un cinema all’aperto, cinque ristoranti, diversi negozi e oltre 1.200 posteggi.

Le autorità locali e cantonali hanno approvato un progetto leggermente ridimensionato, ma alcuni ricorsi hanno portato la questione davanti al Tribunale federale. In base alla sentenza del 2001 il centro cinematografico e commerciale non può essere costruito a causa dei collegamenti insufficienti con i mezzi pubblici. Secondo il Tribunale federale due autobus all’ora sono troppo pochi.

Neuchâtel: Coop ospite del FC Xamax

Originariamente Coop intendeva costruire il suo nuovo supercentro alle porte di Neuchâtel. Quali possibili ubicazioni entravano in linea di conto Marin (NE) e Gampelen (BE) nel Seeland. A Marin il progetto è naufragato a causa dell’opposizione popolare, mentre a Gampelen il Cantone di Berna si è rifiutato di autorizzare un contingente per i chilometri percorsi.

Per finire, il grande distributore si insedierà nel complesso previsto attorno al nuovo stadio di La Maladière vicino al centro. Il progetto, realizzato in stretta collaborazione con la Città di Neuchâtel, costa 200 milioni di franchi ed è volto a migliorare la situazione sul fronte del traffico. I 900 parcheggi a pagamento del centro commerciale rendono superflua la costruzione degli altri autosili previsti. Il quartiere vanta già buoni collegamenti pubblici. Il complesso di La Maladière porterà ulteriori collegamenti con autobus e probabilmente un collegamento con la linea ferroviaria urbana Littorail.

Conflitto di obiettivi solo apparente

Un conflitto di obiettivi tra protezione dell’ambiente e pianificazione del territorio? Uno studio condotto per conto dell’UFAFP e dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale ARE giunge ad altre conclusioni: le strutture a forte affluenza vengono costruite lontano dai centri non per il fatto che in campagna l’inquinamento atmosferico non supera ancora i valori limite e, pertanto, le condizioni ambientali sono favorevoli, ma piuttosto perché il terreno costa meno ed è facilmente disponibile.

Le disposizioni contro l’inquinamento atmosferico non obbligano a costruire le strutture a forte affluenza lontano dal centro. Al contrario, se si trovano in località ben servite dai trasporti pubblici, tali impianti esercitano un effetto positivo sulla qualità dell’aria, in quanto si riducono le emissioni totali dovute all’afflusso di traffico. Non esiste pertanto nessuna contraddizione tra gli obiettivi della protezione dell’aria e la pianificazione del territorio. È tuttavia necessario applicare in modo coordinato le prescrizioni vigenti in questi due settori giuridici. Le disposizioni contro l’inquinamento atmosferico stabiliscono il limite massimo di traffico che una struttura a forte affluenza può generare, mentre la pianificazione del territorio indica dove si trovano le ubicazioni migliori. Un aiuto all’esecuzione, che verrà prossimamente pubblicato da UFAFP e ARE, spiega come si possono coordinare passo dopo passo le esigenze della protezione ambientale e quelle della pianificazione del territorio, non da ultimo nell’interesse degli investitori, che possono così valutare con maggiore anticipo le possibilità di riuscita di un progetto.

Migliori ubicazioni grazie al modello dei chilometri percorsi

Il Cantone di Berna applica per esempio un modello relativo ai chilometri percorsi. Prendendo come presupposto una crescita del traffico non superiore all’8 per cento nei prossimi 15 anni, tale modello fissa, a seconda delle ubicazioni, il limite massimo di movimenti e di chilometri percorsi per le future strutture a forte affluenza. La precedenza spetta alle ubicazioni il cui sviluppo è particolarmente utile dal punto di vista della pianificazione del territorio. Per queste ultime viene fissato un contingente di movimenti che le regioni possono consegnare ai gestori delle relative strutture.

Benché il centro Boujean di Bienne sia stato progettato prima dell’adozione di questo modello, il principio è lo stesso: chi vuole costruire ottiene maggiori libertà per l.utilizzazione del fondo, ma, in cambio, deve far sì che il traffico non superi il numero di movimenti quotidiani stabilito. In pratica, tuttavia, il modello non ha ancora pienamente superato il collaudo. Poiché il centro Boujean attira molti più veicoli di quelli autorizzati, sarebbe necessario adottare ulteriori provvedimenti, quali ad esempio l.aumento delle tasse di parcheggio. Le autorità, però, si mostrano reticenti. Dal canto loro, inoltre, coloro che si erano opposti sin dall’inizio al progetto valutano l’opportunità di adire le vie legali al fine di garantire l’effettiva applicazione delle previste disposizioni per la riduzione del traffico.

Nota: Il testo riportato sopra, è firmato da Kaspar Meuli.

Su Eddyburg, dall'amministrazione federale Svizzera, è già riportato un altro testo sullo stesso tema dei Centri Commerciali. Sotto, Link all'Ufficio federale Svizzero Ambiente

9 ottobre: anche il centro-sud ha la sua spaccittadella. Ecco, a Castel Romano, il Designer Factory Outlet di McArthurGlen

Giovedì 9 ottobre è una data significativa nella continua evoluzione socioeconomica del mondo di spacci & dintorni. A mezz’ora da Roma, in quel di Castel Romano lungo la via Pontina, aprirà infatti i battenti alle ore 13 e all’inaugurazione è atteso il gran pubblico outlettaro - la prima spaccittadella del centro-sud, il Designer Factory Outletdella società britannica McArthurGlen, leader europea nel settore www.mcarthurglen.it

La stessa che nel settembre del 2000 ha creato ex novo, genere paradisiaca Disneyland dello shopping, il frequentatissimo e oramai arcinoto villaggio composto di soli spacci aziendali, il piemontese Serravalle Outlet a Serravalle Scrivia AL.

Stesso concetto di agglomerante mega oasi scenografica dell’intrattenimento all’americana, dotata di ogni servizio (parcheggio, bar, ristorante?), dove vivere, al di là delle compere, l’evasione nel tempo libero; identica formula commerciale dell’acquisto intelligente, all’insegna di qualità e risparmio; diversa architettura: come a Serravalle Scrivia è stata ripresa la tipologia della zona ligure e del Monferrato, a Castel Romano è stato interpretato il tema dello stile impero romano.

Archi trionfali e archetti, ampi timpani sorretti da colonne monumentali ospitano scenicamente tra vie e piazze, in circa 20 mila metri quadrati, una cinquantina di spacci aziendali (una cinquantina di store al momento, il progetto prevede una forte crescita per arrivare, tra non troppo, a 95).

Ma già ora la scelta merceologica è ampia e variegata: abbigliamento e accessori per uomo, donna e bambini, capi sportivi e casual, casalinghi, tessile casa, intimo, calzature, cosmetici, pelletteria. Tra fine collezioni di griffe e marche, offerte con risparmio medio dal 30 al 50%, nel nascituro Castel Romano Outlet non mancano nomi di gran richiamo per tutte le età e i gusti, tra cui Samsonite, Dolce & Gabbana, Lagostina, Onyx, Guess, Diesel, Nike, Tommy Hilfiger, Petit Bateau, Clayeux, North Sails, Sutor Mantellassi, Fratelli Rossetti, Marina Yachting, Asics, Etro, Lovable, Playtex, Stefanel, La Perla, Pupa, O’Neill, CK Jeans e CK Kids, Bassetti, Docksteps, Parah, Massimo Rebecchi, Sergio Tacchini, Levi’s, Dockers, Motivi, Elena Mirò, Liu-Jo.

Maryland Department of Planning, “Big-Box” Retail Development, MDP, collana Managing Maryland’s Growth. Models and Guidelines, ottobre 2001 – estratti e traduzione di Fabrizio Bottini (parte III)

SEZIONE 4: STRATEGIE DI REGOLAMENTAZIONE E APPROCCI DI MERCATO

Cosa possono fare, i governi statali e locali? – L’espansione degli insediamenti big-box negli ultimi due decenni ha posto alle città e ai centri minori numerosi problemi, in tutti gli Stati Uniti e all’estero. Queste sfide, comunque, hanno incoraggiato molte comunità a cercare soluzioni creative a molti dei problemi generati dai big-boxes, così come descritti nelle sezioni precedenti. Questa parte del rapporto si concentra sulle strategie utilizzate in varie città e stati, e su quelle usate in un singolo progetto big-box, a Gaithersburg, Maryland. In questa sezione si presentano le soluzioni per il commercio di piccola dimensione che gli consentano di competere con più efficacia con quello su larga scala.

Città di Mequon, Wisconsin

A Mequon, Wisconsin, l’ordinanza di zoning municipale è utilizzata come mezzo per limitare e porre particolari condizioni allo sviluppo di big-box. Le strategie comprendono elementi di progetto e contenimento delle dimensioni.


B-2 Distretto Commerciale Urbano

a) Il Distretto B-2 è destinato ad accogliere i bisogni commerciali e di servizio dell’area urbana nel suo insieme

b) Requisiti Generali – 1- Gli edifici saranno progettati singolarmente o in piccoli gruppi, generalmente senza superare i 2.000 metri quadrati per ciascuna struttura. L’insediamento commerciale sarà progettato e dimensionato in modo architettonicamente, esteticamente e funzionalmente armonico con il resto del quartiere circostante.

(fonte: City of Mequon, Wisconsin, Ordinanza di Zoning)

Città di St. Petersburg, Florida

Gli uffici di St. Petersburg, Florida, hanno modificato il comprehensive plan per inserire nuove politiche che siano di aiuto a controllare la quantità di sviluppo edilizio commerciale. Basandosi su un’analisi della quantità di popolazione per spazio commerciale, gli uffici urbanistici hanno osservato una “sovraofferta” di tale spazio. Esiste “sovraofferta” quando c’è più di un ettaro di terreno commerciale per ogni trecento residenti. Questa consapevolezza ha sostenuto la municipalità di St. Petersburg nel respingere la domanda per un supercenter Wal-Mart di 22.000 metri quadrati (Jonathan Walters, “Anti-box rebellion”, Governing, luglio 2000).


Sommario delle politiche applicabili a St. Petersburg

Politiche nell’uso del suolo

1.4 – La Città può consentire usi intensivi, al di fuori dei centri di attività esistenti, solo dove siano disponibili infrastrutture e gli usi circostanti siano compatibili.

2.4 – La base fiscale sarà mantenuta e allargata incoraggiando un uso appropriato degli immobili, basato sulle loro caratteristiche di localizzazione e i loro rapporti con gli scopi, obiettivi e politiche del presente Comprehensive Plan.

2.17 – La Città possiede un’adeguata offerta di terreni ad uso commerciale per rispondere ai bisogni esistenti e futuri. Le espansioni future degli usi di tipo commerciale saranno limitate al completamento di zone esistenti e di centri di attività, eccetto dove se ne identifichi chiaramente un bisogno.

2.18 – Tutte le attività commerciali e terziarie saranno localizzate, progettate e regolamentate in modo da beneficiare dell’accesso dalle strade principali, senza ostacolare l’efficienza funzionale di tali strade o abbassare il LOS ( level of service) al di sotto degli standards adottati, e con adeguate strutture per la comodità e sicurezza dei pedoni.

20.2 – Si eviteranno schemi insediativi che ostacolino l’efficiente funzionamento dei trasporti, attraverso:

(2) Respingimento di tutte le varianti al piano che comportano aumento di dimensione al fronte commerciale stradale.

(fonte: City of St. Petersburg, Comprehensive Plan adottato)

Città di Gaithersburg, Maryland

Il Washingtonian Center di Gaithersburg può servire come esempio locale di particolari restrizioni ai big-boxes su arterie commerciali. Il Center, collocato fra Washingtonian Boulevard e la Interstate 270, è costruito su un appezzamento di circa 50 ettari. Il piano regolatore conteneva indicazioni secondo le quali l’area avrebbe dovuto essere edificata come centro ad uso misto. I criteri di attuazione prevedevano edifici affacciati sulla strada, parcheggi localizzati sul retro degli edifici e limitazioni alla dimensione dei fabbricati.


Sommario delle Raccomandazioni di uso del suolo, dal Vicinity Master Plan di Gaithersburg, Maryland, 1985

Il Piano raccomanda che la zona denominata Shady Grove West continui ad essere destinata ad un importante centro di occupazione e residenza, per la sua collocazione strategica entro il Corridoio della strada Interstate 270.

Specificamente, il piano raccomanda che:

- la proprietà Washingtonian, adiacente alla I-270 e parte del R&D Village, sia destinata nel Land Use Plan come Zona MXPD, e edificata come “insediamento di attività varie” con uffici, una piccola quantità di commercio, e residenza.

Sommario delle Raccomandazioni, dallo Shady Grove Study Area: parte III della Variante al Vicinity Master Plan di Gaithersburg

Il presente piano conferma le raccomandazioni del Vicinity Master Plan, che hanno guidato la revisione e approvazione dei criteri di zona MXPD ( Mixed Use Planned Development) per il Washingtonian Center:

- mitigare gli effetti dei rumori dalla I-270 attraverso le modalità di progetto e le tecniche costruttive.

- Incoraggiare i parcheggi multipiano o sotterranei.

- Aumentare gli spazi a verde e specchi d’acqua.

- Rispettare l’esistente insediamento di Washington Tower e gli altri circostanti, attraverso un’adeguata progettazione, e realizzare schermi a verde sul confine occidentale della proprietà Washington Tower.

Nota: nel 1991 sono stati annessi alla municipalità di Gaithersburg quattro appezzamenti di terreno come parte dello Washingtonian Center. La destinazione di zona è rimasta MXPD, mentre la denominazione d’uso adottata è stata Commerciale/industriale-ricerca-uffici.


Ex edificio Echinger (abbandonato) nello shopping center Reisterstown Plaza a nord ovest di Baltimora, Maryland

Città di Portland, Oregon

Nel 1990 il Portland City Council ha adottato un’ordinanza riguardo ai criteri di approvazione dei progetti, inclusa una procedura e alcune linee guida di base. L’ordinanza, in parte, è stata concepita per aiutare a conseguire gli obiettivi del Portland Center City Plan. Ad ogni modo, non si tratta di criteri del tutto rigidi.


Sommario delle linee guida di progetto a Portland, Oregon

Conservazione delle caratteristiche architettoniche

- Le modifiche esterne di una struttura esistente devono rispettare il carattere originario dell’edificio. Si consiglia che le addizioni ad edifici esistenti siano compatibili per dimensioni, rapporti, colori, materiali, e caratteristiche generali all’edificio originale.

- Si realizzi una compatibilità di progetto fra edifici esistenti e nuovi, utilizzando una gamma di elementi che arricchiscano identità e carattere alla zona.

- Si deve differenziare l’aspetto delle facciate degli edifici, fra il livello strada e i piani superiori.

- Si devono utilizzare materiali da costruzione ed elementi durevoli, di alta qualità, di gradevole aspetto.

La personalità di Portland

- Devono essere, quando necessario, inseriti nel progetto temi connessi a Portland.

- Deve essere sottolineata l’identità dei Distretti Speciali inserendo elementi di piccola dimensione che aggiungano tipicità all’ambiente. Si devono usare ornamenti che contribuiscano al carattere del distretto e ne rispettino le tradizioni.

- Dove possibile, si devono riusare, ristrutturare e restaurare edifici ed elementi di edifici.

- I passaggi e percorsi pubblici devono essere definiti in modo da creare a mantenere un senso di definizione degli spazi urbani.

La centralità del pedone

- Si devono rendere distinte e riconoscibili le diverse parti di un marciapiede: margine stradale, area dell’arredo urbano, area del passaggio, area delle vetrine.

- Dove necessario, si sviluppino percorsi pedonali attraverso spazi ed edifici per affiancare gli altri percorsi pubblici. Si forniscano gli edifici di gradevoli e comodi accessi pedonali.

- Si integrino in sistema la segnaletica di luoghi e direzioni, l’illuminazione, in modo da offrire interesse, sicurezza, vivacità e diversità al pedone.

- Si protegga il traffico pedonale da quello veicolare.

- Dove possibile, si fornisca riparo dalla pioggia per i pedoni a livello terreno.

(fonte: Linee Guida fondamentali di progetto, Portland City Central Plan)

[...]

Kohl’s è uno dei numerosi negozi big-box collocati nello Washingtonian Center, dove sono progettati come ambiente da strada commerciale

Esempi di governi statali

Il Vermont e il New Jersey possono servire come modelli di riferimento per la regolamentazione nello sviluppo di big-box a livello statale. Anche se il commercio big-box non è esplicitamente nominato nei Vermont Statutes o nel New Jersey State Plan, entrambi gli stati possiedono politiche guida mirate a molti degli impatti dell’insediamento commerciale di grandi dimensioni.


Sommario dei Vermont Statutes

Scopi; Finalità

Incoraggiare l’uso delle risorse e i risultati della crescita e dello sviluppo, sia per la regione e lo stato, sia per la comunità in cui hanno luogo.

Incoraggiare e assistere le municipalità al lavoro creativo comune di predisposizione e attuazione di piani.

Si deve incoraggiare lo sviluppo residenziale intensivo principalmente nelle aree connesse ai centri della comunità, e scoraggiare l’edificazione a nastro lungo le strade extraurbane.

Si deve incoraggiare la crescita economica nelle zone localmente designate a questo scopo, e/o impiegarla per rivitalizzare villaggi e centri urbani esistenti.

Condizioni per l’uso

Questi criteri generali richiedono che l’uso che ne viene fatto non condizioni negativamente:

- L’efficienza delle strutture comunitarie esistenti o previste.

- Le caratteristiche dell’area interessata.

- Il traffico sulle strade e arterie della zona.

Questi criteri specifici possono comprendere requisiti riguardo a:

- Dimensioni minime del lotto.

- Standards di efficienza.

- Dimensioni minime dei parcheggi e delle aree carico/scarico non collocati sulla strada.

- Attrezzatura a verde e recinzioni.

- Progetto e localizzazione di strutture e aree di servizio.

- Dimensione, localizzazione, progetto della segnaletica.


Sommario delle New Jersey State Plan Policies

Sviluppo Economico

- Coordinare le attività di sviluppo economico sia in senso orizzontale entro ciascun livello di governo, sia in senso verticale fra i vari livelli di governo.

- Mettere a disposizione adeguate risorse di capitale, pubblico o privato, per conseguire gli obiettivi di sviluppo in un’area di piano.

- Localizzare strategicamente strutture e servizi statali per fissare e sostenere le principali attività di sviluppo e rilancio economico, in zone edificate a usi misti o Centri, dotate di adeguate infrastrutture.

- Fornire assistenza tecnica e finanziaria per l’adattamento al riuso di strutture obsolete o sottoutilizzate di proprietà pubblica o privata per scopi di appropriato sviluppo economico.

Comprehensive Planning

- Coordinare la revisione di piani, ordinanze, programmi che potenzialmente hanno un impatto “sovralocale”, allo scopo di minimizzare gli effetti negativi a scala regionale e locale.

- Partecipare attivamente a programmi di pianificazione multi-giurisdizionali, che aiutino ad una maggiore efficienza fiscale nell’erogazione di servizi pubblici e assicurino compatibilità coi piani delle circoscrizioni confinanti.

- Sviluppare piani che si integrino e coordinino con altri piani a tutti i livelli di governo, con particolare attenzione agli effetti dei piani funzionali statali sull’uso del territorio, e con una maggiore partecipazione dei Dipartimenti della Sanità, Servizi alla persona, Sicurezza pubblica, Uffici dell’istruzione, e altre agenzie tradizionalmente non coinvolte nei processi di pianificazione complessa.

fonte: New Jersey State Development and Redevelopment Plan - Online

[...]


Riconversione di un ex negozio Hechinger in un Super Fresh Grocery Store. Questo esempio di riuso adattivo è stato realizzato nei pressi del Security Square Mall nella Baltimore County, Maryland

Sommario delle strategie di regolamentazione

In questa sezione sono state presentate una miriade di strategie utilizzate per regolamentare lo sviluppo dei big-box. È comunque importante sottolineare che la partecipazione dei cittadini gioca un ruolo chiave nello sviluppo di tutte le strategie degli stati, città e piccoli centri. La prima lezione che ci viene da ciascuno degli esempi citati, è che si deve usare un approccio preventivo, anziché uno reattivo, rapportandosi ai big-box. Di seguito si riporta un sommario degli “ attrezzi” di regolamentazione e delle strategie discusse in questa sezione.

Comprehensive Plan municipale

Ordinanza di Zoning municipale

Analisi di mercato

Valutazioni di impatto e Oneri di urbanizzazione

Coordinamento e Accordo inter-giurisdizionale

Esame dei progetti e linee guida per la progettazione

Standards e valutazioni funzionali

[...]

SEZIONE 6: SOMMARI E RACCOMANDAZIONI

Questo Rapporto ha affrontato numerosi e sfaccettati aspetti connessi allo sviluppo dei negozi big-box. La prima sezione ha offerto un retroterra informativo riguardo alle tendenze di questo settore. La seconda sezione si è concentrata sulla storia e le tendenze attuali del commercio in Maryland. [...] La terza sezione ha proposto i risultati di studi condotti sullo sviluppo dei big-box, in particolare sui negozi Wal-Mart. Questa sezione indica che si sono verificati molti impatti di tipo ambientale, economico, sociale a causa dello sviluppo dei big-box.

La quarta sezione si è concentrata sulle strategie rivolte agli effetti dello sviluppo big-box in stati come il New Jersey o il Vermont.. Si sono discusse anche le strategie utilizzate in città come Mequon, Wisconsin; Fort Collins, Colorado; Portland, Oregon; e Gaithersburg, Maryland. Gli esempi delle varie strategie e metodi di regolamentazione comprendevano: ordinanze e linee guida per il progetto e la sua revisione; il piano regolatore municipale e le ordinanze locali di zoning; le valutazioni di impatto; il coordinamento e l’accordo inter-giurisdizionale; lo zoning a base funzionale. In più, questa sezione sottolineava come le amministrazioni debbano avere un approccio preventivo alla realizzazione di big-box, preferibilmente prima che sia annunciata la costruzione o il potenziale cambio di destinazione d’uso. Per ultimo, si sono discussi gli approcci di mercato. Questi metodi forniscono ai commercianti su piccola scala modi per competere più efficacemente con i grandi operatori.

L’ultima sezione offriva una breve rassegna della legislazione Smart Growth. Discuteva anche le limitazioni specifiche poste nella logica Smart Growth a regolamentare lo sviluppo commerciale big-box. In questa sezione si notava che l’articolo 66B dello Annotated Code of Maryland dà alle amministrazioni locali l’autorità per applicare ordinanze innovative e flessibili per orientare lo sviluppo dei big-box. Si citavano i seguenti esempi: strategie di riuso adattivo; incentivi per alcune destinazioni di zona; tecniche di realizzazione di usi misti; ordinanze orientate sui servizi pubblici.

Questo Rapporto ha esposto una serie di strategie che possono essere messe in pratica sia dallo Stato che dalle amministrazioni locali. Di seguito si riportano alcune raccomandazioni aggiuntive.

Raccomandazioni: Governo Statale

·Lo stato può modificare la legislazione Smart Growth e il testo dell’articolo 66B per offrire maggior coordinamento nella revisione dei piani, programmi, ordinanze e progetti che hanno un impatto potenzialmente “sovralocale”.

·Lo stato può aumentare il coordinamento fra il Maryland Department of Business and Economic Development, e il Department of Housing and Community Development, per quanto riguarda gli insediamenti commerciali. È possibile anche offrire assistenza tecnica ai piccoli operatori commerciali locali.

·È possibile mettere a disposizione incentivi per le amministrazioni locali e i proprietari di terreni, perché mantengano liberi e inedificati gli appezzamenti per cui si è richiesto un insediamento big-box.

·Lo Inter-Jurisdictional Coordination Subcommittee statale può essere utilizzato come veicolo di assistenza alle amministrazioni locali, per valutazione di progetti o accordi inter-amministrativi riguardanti le proposte di big-box.

·Lo Stato dovrebbe proseguire nello studio degli impatti del commercio via internet.

Raccomandazioni: Governi locali

·Chiedere agli operatori immobiliari big-box di presentare una valutazione di impatto (per esempio sul traffico, il rumore, il bacino commerciale, la capacità del sistema idrico e fognario) contestualmente alla presentazione del progetto.

·Destinare fondi per lo svolgimento di studi di mercato indipendenti sugli insediamenti commerciali proposti di grande dimensione.

·Trovare occasioni per bandire concorsi di progetto per il riuso adattivo paralleli a quelli proposti di sviluppo commerciale. È possibile collegare incentivi al tipo di progetti approvati.

·Aumentare il coordinamento fra piani economici e piani urbanistici locali.

·Cercare tutte le occasioni in cui gli operatori di big-box possano contribuire a miglioramenti “fuori dal sito”, riguardanti la comunità interessata dall'insediamento.

Torna alla prima parte

Nota: anche se questo documento del Maryland Department of Planning ha esaminato la questione big-box in modo approfondito, forse può aggiungere qualcosa anche il testo a cura del Municipal Lawyer già riportato su Eddyburg.

Naturalmente la versione originale e integrale (ho omesso per motivi di spazio il capitolo sul Maryland e alcuni "casi") si trova al sito del Dipartimento, raggiungibile al link qui sotto. (fb)

Preludio: miraggi padani

I “localisti”, come Luciano Bianciardi chiamava i crociati un po’ miopi del decoro urbano, saranno sicuramente entusiasti. Non manca proprio niente: luce, grandi spazi, colori pastello, la tradizione che ti casca addosso da tutte le parti, comodità e comfort. In più, il che non guasta, si è parcheggiato senza problemi nell’enorme (quello, sì, sembra un po’ fuori scala) spianata d’asfalto chiusa tra i primi contrafforti delle colline

e un lungo skyline fatto di torri, abbaini, tetti spioventi. Siamo ai piedi dell’Appennino ligure, in un posto dove la Storia con la S maiuscola è di casa, sin da quando gli antichi romani fecero passare da qui la strada Postumia, lungo “corridoio” (per usare un termine di oggi) che collegava Genova, zigzagando attraverso la valle del Po, fino all’alto Adriatico. Ora il corridoio si chiama tecnicamente Voltri-Sempione, ma il ruolo di nodo strategico dei grandi flussi interregionali, qui fra Serravalle e Novi Ligure, è rimasto identico, come hanno ben capito gli ideatori dello skyline di torri, abbaini eccetera, che si profila all’orizzonte del parcheggio: il Serravalle Outlet Center. Perché non di centro o borgo storico si tratta, ma di una incredibile ricostruzione assai verosimile di tutti (e più di tutti), gli elementi visivi che “fanno” centro storico. E dentro, fra porticati e loggette rigorosamente ed elegantemente finti (ma meglio di quelli veri per chi non va troppo per il sottile), non abita nessuno, ma si allineano senza soluzione di

continuità le vetrine di Bulgari, Prada, Dolce & Gabbana, via via cento altri marchi più o meno noti. Aperto nell’autunno del 2000, e primo in Italia di una nuova generazione di “parchi commerciali” a vasto bacino di riferimento, l’Outlet si autodescrive così nel pieghevole pubblicitario: “Oltre 130 negozi delle firme più prestigiose di abbigliamento uomo-donna, sport, casa, accessori e giocattoli, si sviluppano lungo le piazze e le vie di una città davvero unica”. In un pur abbondantemente ironico articolo pubblicato poco dopo l’inaugurazione dell’Outlet sul periodico Architetti, dal titolo esplicito “Troppo bello per essere vero”, Roberto Almagioni non poteva fare a meno di apprezzare la cura con cui si mescolavano materiali, viste, comfort, per un ambiente che all’occhio poco allenato di un turista internazionale faceva molto Old Italy. Ma non si tratta solo di un problema di gusto, né di cosa da polemiche per architetti, ed è forse meglio a questo punto fare un passo indietro.

Nel frattempo: la globalizzazione colpisce ancora

Il Factory Outlet, di cui l’esempio di Serravalle rappresenta per l’Italia solo un avamposto, è l’ennesima idea che re-importiamo (dopo i jeans e la pizza) dagli USA, completamente trasformata. Il concetto base è quello dello spaccio aziendale, ovvero della vendita diretta al pubblico da parte del produttore, senza passaggi intermedi, a cui si mescolano vari altri elementi, primo fra tutti lo schema ormai consolidato del centro commerciale territoriale di grandi dimensioni, pensato per un vasto bacino di riferimento, e che come i suoi “cugini poveri” che già ben conosciamo rompe gli equilibri fra centro e periferia, fra valori immobiliari, fra le gerarchie dei sistemi infrastrutturali. Del grande centro commerciale, il Factory Outlet eredita anche alcune brutte abitudini, che certo non bastano a cancellare l’intonaco pastello delle finte facciate settecentesche, o le merlature sognanti delle torri di guardia griffate di Serravalle. Queste brutte abitudini, sono piuttosto note a chiunque, residenti, amministratori locali o comitati, abbia avuto a che fare con l’atterraggio sul territorio di queste astronavi della grande distribuzione.

Nel caso specifico, è piuttosto illuminante una intervista che il promotore dell’iniziativa di Serravalle rilascia un paio d’anni fa al sito ICSC.org (Barbara Hogan Galvin, “Outlet Center Challenge”, giugno 2001), e che si inquadra in uno scenario europeo di crescita del settore, il cui luminoso futuro incontra però gli ostacoli, ahimè, della pianificazione territoriale e della decisione amministrativa ( the mantra is “zoning-zoning”, or “politics-politics”). Ostacoli comunque superabili, come appunto ci racconta il promotore. La zona, just south of Milan, appare sottosviluppata, sottoccupata, depressa, ma ci vuole del bello e del buono per convincere gli indigeni sulla bontà dell’iniziativa. Del resto, si tratta di “un gruppo di vecchi italiani che non parlavano inglese e non uscivano molto spesso dai confini della regione”, e la cosa richiede “molti, molti incontri”.

E forse non è un caso se, in altra parte dell’articolo, si accenna a una comparazione fra gli ostacoli allo sviluppo di questa nuova attività, e quelli che nel XIX secolo avevano accompagnato il sorgere delle prime ciminiere fra i campi di patate e di granturco. Probabilmente, da punto di vista degli operatori, la situazione è proprio questa: la società locale non capisce il proprio vantaggio, e diffida delle novità in quanto tali, rischiando di perdere il treno dello sviluppo, del rilancio economico nel segno del commercio e del turismo, e - perché no - anche del recupero ambientale e dei centri storici, scaricati dal surplus di aspettative economiche che, invece, possono riversarsi nei nuovi spazi, al tempo stesso funzionalmente moderni e tradizionali nell’aspetto. E se avessero ragione loro?

Non a caso l’ironico commento sulle pagine di Architetti, già citato, metteva in ridicolo soprattutto gli aspetti di finzione del “borgo settecentesco”, ma non mancava di sottolineare come attorno a quel giocattolino si iniziassero ad aggrappare, lungo l’asta della Statale 35bis che corre dal nodo di Serravalle fino a Spinetta Marengo, alle porte di Alessandria, tutte le paccottiglie transterziario-commerciali del caso: dai soliti scatoloni tristi delle esposizioni, alle discoteche, ad altre cose più o meno definibili o improvvisate, fino ai chioschi semipermanenti su ghiaiosi piazzali improvvisati, fra rotonde, svincoli, e accessi poderali segnati da un pioppo sopravvissuto. E se visivamente la cosa non va oltre quelle che siamo più o meno abituati ad accettare come “contraddizioni dello sviluppo”, destinate prima o poi a riassorbirsi o almeno a renderci un pochino blasé, basta dare un’altra occhiata ai pieghevoli pubblicitari, o a qualcuna delle mappe che spiegano il senso commerciale del Factory Outlet, per capire che il “punto di vista dell’impresa”, quello che gli old italian men who didn’t speak English hanno fatto tanta fatica a condividere, si applica a dimensioni che con la pianificazione territoriale e la decisione amministrativa, almeno come è possibile pensarle ora, hanno poco a che spartire.

Isocrone

La prima informazione che in qualche modo mi ha colpito, su uno dei pieghevoli pubblicitari disponibili all’interno dell’Outlet, è una pubblicità dell’Acquario di Genova, che rivolta ai bambini recita Disegna gli amici di Splaffy (la mascotte dell’Acquario): un concorso in collaborazione Outlet/Acquario. Sulla pagina interna, tra foto di delfini e moduli di

partecipazione da imbucare, una sorta di mappa/ideogramma racconta in rapidissimo flash l’idea territoriale di questo rapporto. Un pallino immerso nell’azzurro del Tirreno è l’Acquario; dal pallino nasce uno stelo verde che si chiama A7, e che sale dritto, via Outlet-Serravalle, fino a Milano; all’altezza di Tortona (poco sopra Serravalle) lo stelo si apre in un fiore di due petali denominati A21, che con curva regolare zampillano fino a Piacenza sulla sinistra, e Torino sulla destra. È uno scarabocchio di dieci centimetri quadri, ma la dice lunga sul bacino di riferimento di quel finto borgo antico, e trova conferma in un’altra mappa poco più ricca, che si articola però su tre fasce di distanza: l’isocrona dell’ora, delle due e delle tre. La più interna, con un raggio indicativo di una cinquantina di chilometri (siamo già ben oltre qualunque idea di centro commerciale), tocca appunto Genova e territori liguri limitrofi, e sul versante padano l’alessandrino e altre parti del Piemonte. La fascia intermedia, delle due ore indicative di percorrenza, include Milano, e in un colpo solo ingloba (esagerando, ma non troppo), anche la catchment area dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa, i cui rapporti attuali e potenziali con la zona di Serravalle sono già ben saldi sul versante della logistica e dell’intermodalità nel trasporto merci. Ma c’è un’altra fascia, più esterna e pur realistica, che dopo aver sfiorato anche la Riviera francese tocca da un lato Torino, sul limite nord il confine svizzero, e a est il veronese e la gardesana (con il suo bacino di turismo europeo).

Del resto, non si fa nessuna fatica a pensare, che so, a un turista tedesco con base a Gardone, che dopo aver passato un pomeriggio al Vittoriale fra cimeli dannunziani, decide di fare una puntata a Serravalle per fare scorta di capi firmati con sconti fino al 50% rispetto ai prezzi dei negozi downtown di Milano o Francoforte. E l’enorme parcheggio fra le

fortificazioni griffate e le colline è già attrezzato per accogliere intere gite organizzate del genere, con ampi spazi per pullman climatizzati, e tanto di ufficio turistico all’interno. Meglio di Pompei, da un certo punto di vista. Come ci conferma uno studio della Bocconi (“Evoluzione della distribuzione commerciale: il factory outlet”, Dedalo 2-2003), “la possibilità di attirare clienti fino ad elevate distanze deriva dal fatto che la visita ad un factory outlet è anche percepita come un modo per trascorrere una giornata, che spesso si conclude con acquisti non programmati”. Nessuno ovviamente vuole impedire a Herr Müller e famiglia di andare dove gli pare e vestirsi all’ultimo grido, ma chi anche solo per un attimo ragiona sulla quantità di territorio percorsa, e per così dire “erosa” dai flussi direttamente e indirettamente generati dai viaggi di piacere e shopping, inizia ad avere un quadro meno generico sul senso concreto di quelle fasce isocrone. Aria, suolo, infrastrutture, servizi: tutti quei milioni di ettari a “servizio” di quell’elegante puntino al centro della catchment area.

Non è un caso se un comitato sorto all’altro capo della Megalopoli, lungo l’asta stradale che unisce l’ultimo tratto della Padana Inferiore alla Laguna di Venezia, chiede che prima di qualunque decisione su un possibile Factory Outlet da costruirsi nel territorio comunale di Conselve (PD), di raccogliere ogni possibile informazione sul caso di Serravalle, che si è scoperto essere una “fotocopia” del processo in corso nella pianura padovana. Le isocrone valgono anche per l’opposizione, fortunatamente, e così appare chiaro che quei segni sulla mappa non sono fantasticherie per attirare una pullmanata di mocciosi col miraggio di diventare Amici di Slappy, ma serissime proiezioni sulla base delle quali serissime banche erogano corposi finanziamenti ai promotori, lasciando poi agli old Italian men who don’t speak English e ai loro rappresentati il carico del traffico, degli squilibri, dei costi di adeguamento infrastrutturale e desertificazione della rete locale. Visione apocalittica? Sicuramente no. Solo realistica, almeno fermo restando l’attuale rapporto fra scala degli interventi e ambito decisionale politico-amministrativo.

Ed è il caso di iniziare a pensarci, se è vero come è vero che all’avamposto Serravalle – come precisa il citato studio dello SDA Bocconi – si aggiungerà “nei prossimi anni la realizzazione di nuovi insediamenti in diverse province tra cui Bologna, Roma, Mantova, Arezzo e Bari”. E in una intervista de La Nazione agli stilisti fiorentini sui vari modi per uscire dalla crisi che la “guerra infinita” di Bush fatalmente indurrà sui consumi voluttuari (Ilaria Ciuti, “Grandi griffes in trincea”), si indica proprio la strada del Factory Outlet, e una precisa ubicazione: Barberino del Mugello. Si accenna già alla forma architettonica possibile del nuovo borgo commerciale, che “sarà in perfetto stile toscano, anzi del Mugello”. Il tutto, nell’abituale scenario che “salta” dal negozio della Fifth Avenue a quello nel duty free di uno scalo giapponese, insomma a mille miglia fisiche e mentali dall’ambito decisionale di chiunque possa esercitare controllo pubblico sul territorio. Insomma, prossima fermata Barberino, e staremo a vedere.

E, magari, a ragionare, o fare.

Introduzione allo studio di impatto socio-territoriale dell'Outlel Serravalle

Credo che per introdurre efficacemente e brevemente questo documento sui “big-box” , sia utile riprendere un’osservazione marginale, poco più di una battuta, da uno degli articoli più brevi già proposti sul tema: questi insediamenti commerciali sono “razzisti”, discriminano, impediscono una pari opportunità di accesso al medesimo servizio. Sembra, appunto, poco più di una battuta, ma di fatto riassume tutto lo squilibrio di relazioni sociali, territoriali e ambientali indotto in brevissimo tempo dallo sviluppo della grande distribuzione, e della tipologia big-box in particolare. E basta scorrere anche brevemente questo rapporto (e in parte anche guardarsi attorno e fare le debite proporzioni) per scoprire che salvo interventi di mitigazione e regolamentazione, la tendenza è quella ad un vero e proprio “apartheid”, individuale e sociale, di chi non si identifica nella tipologia del consumatore automobilista suburbano, e non ne segue rigidamente i codici comportamentali. Il risultato è quello descritto puntualmente, ad ogni occasione: un territorio vasto ridotto a corsia per gli spostamenti di merci e consumatori da un punto di “vita introversa” all’altro, in un ambiente semplificato che prevede solo tre possibilità, ovvero l’abitazione, il viaggio in automobile, il consumo socializzato dentro gli scatoloni o nelle immediatissime vicinanze. Non a caso un altro critico invitava i cittadini a provare, una volta tanto, il brivido di farsi un giro del parcheggio scendendo dall’automobile, a guardare le siepi, le pareti sul retro dello scatolone commerciale, magari l’affaccio dell’ingresso merci sullo svincolo della superstrada. È un’esperienza rara, che suona anche come vagamente trasgressiva, di una regola non scritta ma che sta diventando via via la norma.

Da qui, la grande enfasi sugli aspetti di qualità spaziale, di uso, di “prestazionalità sociale” che queste linee guida del Maryland Department of Planning ribadiscono ad ogni passaggio. Anche e più, forse, dei pur ampiamente citati aspetti economici, di effetti negativi sul commercio tradizionale, di desertificazione dei centri, di ripercussioni fiscali anche sui servizi generali delle municipalità. Nel corso di un’assemblea pubblica per discutere un nuovo centro Wal-Mart, un consigliere comunale ha buttato lì un “Se di notte non riuscite a dormire perché sentite un risucchio, sappiate che sono i nostri soldi, che se ne vanno”. Un’immagine efficace, per quanto folkloristica, ma che a ben vedere non va oltre una parte del problema, e ripropone il solo tema dell’opposizione del commercio tradizionale a quello innovativo. Ma, questa “innovazione”, può avere benefici sociali? E se sì, quali? Alcune risposte, si possono trovare nella breve rassegna (riportata in questi estratti nella seconda parte) delle esperienze locali americane. Altre rimangono necessariamente aperte. (fb)

Maryland Department of Planning, “Big-Box” Retail Development, MDP, collana Managing Maryland’s Growth. Models and Guidelines, ottobre 2001 – estratti e traduzione di Fabrizio Bottini (parte I)

Introduzione

Città, piccoli centri e aree rurali sono profondamente cambiate nell’ultimo decennio. La proliferazione di negozi discount che offrono merci varie, come Target, Wal-Mart e Kmart ha avuto effetti significativi sui nostri paesaggi urbani e rurali, modificando il nostro modo di vivere, fare acquisti, lavorare e trascorrere il tempo libero. Se i mutamenti nelle abitudini di consumo sono spesso connessi a quelli dell’organizzazione commerciale, anche le comunità stanno diventando sempre più consapevoli sia degli aspetti positivi che di quelli negativi delle strutture commerciali di grande dimensione, spesso chiamate “ big-boxes”, “ megastores” o “ superstores”. In questo Rapporto, verrà usato il termine big-box(es).

Cos’è un insediamento commerciale big-box? - Le strutture commerciali big-box sono grossi edifici di tipo industriale, o negozi con superfici coperte che generalmente oscillano fra i 2.000 e i 20.000 metri quadrati. Se la maggior parte dei big-box opera su un solo piano, la massa è però tipicamente quella di un edificio di tre piani, con un’altezza anche superiore ai 10 metri. La definizione, o meglio la descrizione di un negozio big-box si può capire meglio dalla categoria di prodotti offerti. Per esempio, la catena di librerie Barnes & Noble in genere occupa da 2.500 a 5.000 metri quadrati, mentre nella categoria prodotti generali i big-box come Wal-Mart vanno da 8.000 a 13.000 metri quadri.

Quali sono i diversi tipi di big-box? – Ci sono quattro principali sottogruppi utilizzati come categorie per i vari formati del commercio big-box: grandi magazzini discount, category killers, outlet stores, e wharehouse clubs.

Grandi magazzini discount – I grandi magazzini discount, con superfici che oscillano da 8.000 a 13.000 metri quadri (una nuova generazione di “supercentri” di questa categoria occupa da 10.000 a 21.000 metri quadrati), offrono un’ampia scelta di prodotti, compresi ricambi di automobili e servizi, casalinghi, mobili, abbigliamento, cosmetici. Questo gruppo include catene come Target, Wal-Mart e Kmart.

Category Killers – I category killers vanno da 2.000 a 12.000 metri quadrati, offrono una vasta scelta di prodotti e prezzi bassi in una particolare categoria. Questo gruppo comprende catene quali Circuit City, Office Depot, Sports Authority, Lowe’s, Home Depot e Toys “R” Us.

Outlet Stores – Gli outlet stores, da 2.000 a 8.000 metri quadri, sono tipicamente la branca discount delle principali catene di grandi magazzini, come Nordstrom Rack o J.C. Penney Outlet. In più, anche produttori come Nike, Bass Shoes o Burlington Coat Factory possiedono punti vendita di questo tipo.

Warehouse Clubs – Gli warehouse clubs, da 10.000 a 17.000 metri quadrati, offrono una varietà di prodotti, in grosse quantità e confezioni, a prezzi all’ingrosso. Comunque gli warehouse clubs hanno un numero limitato di prodotti (5.000 o meno). Questo gruppo comprende catene come Costco Wholesale, Pace, Sam’s Club e BJ’s Wholesale Club.

Altra terminologia commerciale utile – Il termine power center è spesso usato per descrivere raggruppamenti di varie forme di commercio big-box. I power centers generalmente contengono da 25.000 a 100.000 metri quadrati di spazio commerciale. Gli operatori che si collocano in questi centri possono occupare edifici indipendenti, strutturalmente connessi ad altri negozi, o essere una combinazione di entrambi i tipi. Il bacino commerciale da cui questi power centers attirano consumatori varia da 8 a 16 chilometri.

Il termine “centro regionale” si usa spesso per descrivere un piccolo raggruppamento di punti big-box, insediamenti che contano di solito su due o più negozi anchors. I centri regionali variano da 40.000 a 80.000 metri quadrati. Sono generalmente “introversi” ( enclosed), con un’organizzazione interna basata su un percorso pedonale che connette i vari negozi. Il bacino commerciale da cui attirano clienti va da otto a ventitre chilometri.

Il termine shopping center descrive un gruppo di negozi e altre strutture commerciali pianificato, costruito e a volte anche gestito come un unico intervento. Orientamento e dimensioni del centro sono sempre determinati dalla localizzazione e dalle caratteristiche di mercato del bacino di riferimento. Gli shopping centers sono generalmente organizzati come malls “introversi” o strip, allineati lungo la strada.


Un nuovo negozio Walgreens all’angolo tra le strade Liberty e Milford Mills nella Baltimore County, Maryland

Scopo di questa Relazione, dei Modelli e delle Linee-guida

Lo scopo di questo scritto è triplice. Primo, si esaminano le tendenze e gli impatti dell’insediamento commerciale big-box; secondo, si esplorano le strategie utilizzate per regolamentare queste operazioni; terzo, si considerano le implicazioni dello sviluppo dei big-box rispetto alla legislazione Smart Growth.

Come è strutturata questa Relazione

La relazione è organizzata secondo le seguenti sei sezioni:

Tendenze di sviluppo dei big-boxes – Questa sezione presenta un breve panorama sullo sviluppo storico di operatori big-box come Woolworth e Toys “R” Us. In questa sezione si espongono anche le tendenze recenti nello sviluppo del settore, compresa l’espansione internazionale e lo spostamento verso le aree urbane e i distretti terziari centrali.

Lo sviluppo dei Big-Boxes in Maryland – In questa sezione, si propone una breve rassegna storica sulle tendenze commerciali in Maryland, con particolare attenzione ai big-box. In più, questo capitolo si esaminano le tendenze attuali e le recenti opposizioni alla crescita dei big-box nello Stato.

Impatti dello sviluppo dei big-box – Questa parte comprende i risultati di ricerche condotte sullo sviluppo del settore. In più, si espongono le implicazioni in materia di uso del suolo dello sviluppo big-box.

Strategie di regolamentazione e approcci di mercato – Questa sezione contiene esempi di strategie di regolamentazione utilizzate in stati quali Vermont e New Jersey. Si esaminano anche le strategie di città e contee come: Mequon, Wisconsin; Fort Collins, Colorado; Somerset County, New Jersey; Portland, Oregon; Gaithersburg, Maryland.

Rapporti con la Legislazione Smart Growth – Questa parte offre una breve rassegna della legislazione Smart Growth e sull’uso dei poteri di regolamentazione nell’uso del suolo così come previsti dall’Art. 66B dello Annotated Code of Maryland. In questa parte si discute anche la legislazione Smart Growth specificamente in rapporto alla regolamentazione dei big-box.

Sommari e Raccomandazioni – Questa sezione del rapporto contiene un breve riassunto dei capitoli presentati sopra. Offre anche raccomandazioni ed esempi di modelli e linee-guida che possono essere utilizzati dall’amministrazione statale e da quelle locali.

SEZIONE 1: TENDENZE NELLO SVILUPPO DEI BIG-BOX

Rassegna storica

L’evoluzione del commercio big-box è spesso legata al discount, all’offerta di prodotti di largo consumo e ai grandi magazzini come Woolworth, Sears, Roebuck & Co. Le origini di Woolworth ad esempio risalgono al 1879. Fondata da Frank Winfield Woolworth, apre il primo negozio a Lancaster, Pennsylvania. Al 1995 la Woolworth Corporation operava su 8.000 negozi negli Stati Uniti, Canada, Messico, Germania, Asia e Australia. La dimensione tipo di un punto vendita Woolworth è di circa 10.000 metri quadrati. Oggi la Woolworth Corporation è nota come Venator Group Inc. Venator si è spostata dal commercio di prodotti vari agli articoli sportivi. Gestisce i marchi Foot Locker, Champs Sports e Eastbay.


Il retro di una farmacia drive-throurgh al Walgreens sull’angolo tra le strade Liberty e Milford Mills

Toys “R” Us, può essere un altro esempio dell’epoca pre- discount. Charles Lazarus aprì il primo negozio nel 1957. Spesso descritta come il category killer originale, Toys “R” Us è stata rivoluzionaria nella capacità di offrire una vasta selezione di giocattoli a basso prezzo in un solo negozio. Oggi opera direttamente su oltre 700 punti negli USA, e su 450 negozi a livello internazionale in franchising (esclusi Kids “R” Us e Babies “R” Us).

Nell’ultima parte del ventesimo secolo, catene come Woolworth erano presenti nelle aree centrali urbane e lungo le strade principali. Fin dal 1950, comunque, grandi magazzini e discount iniziarono a gestire filiali nelle aree esterne, per servire i consumatori che si erano spostati dalle città alle zone suburbane.

La American Society of Planning Officials notava, in un rapporto del 1963 sui negozi discount:

“Il negozio di tipo discount ha riempito un vuoto commerciale in due modi. In primo luogo questi negozi stanno migliorando una situazione di sotto-servizio nei suburbi. Il commercio tradizionale non ha tenuto il passo con la crescita della popolazione suburbana e la domanda di consumo. In secondo luogo, il potere d’acquisto dei consumatori si è mantenuto stabile negli ultimi anni. Di conseguenza il consumatore ha cercato di trovare modi per avere di più dal denaro che può spendere. I discounters , riconoscendo questo aspetto, hanno introdotto innovazioni in grado di catturare l’attenzione e i dollari del consumatore, e aumentare la sua capacità di acquisto. Di conseguenza, il negozio discount è diventato una forza formidabile sulla scena commerciale”.

Alcuni esperti prevedono che, entro il 1965, i discounters avranno captato più del 20 per cento del totale di crescita di mercato relativa ad abbigliamento, articoli per la casa, prodotti di consumo generale ... il totale delle vendite di prodotti alimentari attraverso questo canale potrà superare il 30 per cento del mercato, il che sarebbe una quota più ampia di quella coperta ora dai grandi magazzini”.(American Society of Planning Officials, Discount Stores, Planning Advisory Service, Chicago marzo 1963)

Tabella 1: schema delle dimensioni big-box


Categoria o Marca

Dimensioni comparative

Superstores 3 volte un tradizionale supermercato
Home Depot 18 volte il tradizionale ferramenta
Chapters 12 volte la tradizionale libreria
Business Depot 5 volte il tradizionale forniture per uffici
Sports Authority 6 volte il tradizionale articoli sportivi

Oggi

C’è stata una crescita significativa nelle attività commerciali. Secondo lo International Council of Shopping Centers, le vendite negli shopping centers degli Stati Uniti si valutano in 1.160 miliardi di dollari al 1999, contro i 1.070 del 1998. Nel 1999 gli shopping centers hanno generato 47,5 miliardi di dollari di gettito fiscale statale, con un incremento dell’8,4% rispetto ai 43,8 miliardi del 1998.

Al momento, il commercio al dettaglio è la seconda maggiore attività in termini di numero di occupati e di unità locali. È un fatto interessante da sottolineare, dato che Kmart, Target e Wal-Mart sono state create tutte nel 1962. Comunque, Wal-Mart resta il leader per numero di negozi posseduti. Ora ha oltre 1.782 punti vendita, 765 “ Supercenters” (da 15.000 a 18.000 metri quadri), e possiede 466 negozi Sam’s Club.

Mentre continuavano ad espandersi nelle aree suburbane e rurali degli Stati Uniti, i commercianti big-box si sono spostati anche sui mercati internazionali. Per esempio, Wal-Mart è entrato nel commercio dell’area metropolitana di Toronto, Canada, nel 1994, e oggi possiede 17 negozi nella zona.

Quali sono le nuove tendenze nello sviluppo del commercio big-box? – Esempi di nuove tendenze sono le farmacie drive-through, i value malls e i de-malls.

Farmacie – Negli ultimi tre anni c’è stata una enorme crescita di catene di farmacie come Rite Aid e Ecker, che offrono prodotti su ricetta con accesso in auto drive-through. Rite Aid, per esempio, ha più di 3.800 punti negli Stati Uniti. Le farmacie tipo hanno una superficie da 800 a 1.200 metri quadrati e lavorano su un unico piano; comunque hanno una massa da edificio di due piani, che sporge dal terreno più di sette metri.

Value Malls – Un’altra nuova tendenza nel settore commerciale è il value mall. Combina in un solo insediamento integrato vari tipi commerciali orientati ai prodotti di qualità, come factory outlet, category killers e grandi catene specializzate. Due esempi di value mall nella regione del medio Atlantico sono il Potomac Mills nell’area suburbana di Washington, D.C., e Arundel Mills nella Anne Arundel County, maryland. Arundel Mills, che ha aperto nell’autunno 2000, ha approssimativamente 130.000 metri quadrati di spazio commerciale disponibile.

De-Malls – Il concetto di “ de-mall” è una tendenza relativamente recente dello sviluppo commerciale. È descritto come un insediamento dove il fronte dei negozi è ribaltato, o rivoltato, verso i piazzali dei parcheggi (The Knolls Company, “Turning a Retail Center Inside Out”, Urban Land aprile 1995). Il de-mall tipo si localizza vicino ai malls esistenti, ma non necessariamente entra in competizione con essi, a causa della diversa offerta di prodotti. Un esempio locale di de-mall è Towson Place a Towson, Maryland. Consiste di negozi come Sports Authority e Toys “R” Us. Dista meno di cinque chilometri da un altro mall, il Towsontown Center.


Towson Place a Towson, Maryland: un esempio di De-Mall

Quali sono gli aspetti positivi, e quali quelli negativi, dello sviluppo commerciale big-box? – Anche se i negozi big-box hanno continuato a collocarsi nelle aree suburbane e rurali, c’è una tendenza crescente verso un maggiore sviluppo commerciale nelle aree urbane esistenti. Le zone urbane diventano più attrattive a causa della crescente saturazione o sovra-crescita dell’offerta commerciale nel mercato suburbano. Sorprendentemente, gli analisti avevano previsto che ci sarebbe stato un problema di saturazione commerciale, già nel 1963:

“La sovra-espansione sarà un problema in quasi tutte le principali aree metropolitane. In alcuni mercati chiave, i costruttori hanno realizzato troppi negozi perché tutti possano partecipare alla crescita commerciale. Alcuni discounters hanno sopravvalutato gli incrementi potenziali delle vendite, il che li ha condotti a costruire negozi troppo grandi per essere redditizi, o talvolta ad acquistare una quantità eccessiva di merci. Fra i 200 discounters monitorati da Dunn & Bradstreet, il 25 per cento nel 1961 ha contratto debiti per una media di tre volte e mezzo il proprio valore netto” (American Society of Planning Officials, ... 1963, cit.).

Il commercio big-box nelle zone urbane centrali – Le aree urbane stanno diventando più attrattive per il commercio, a causa del crescente potenziale di molte comunità residenti, a cui mancano strutture commerciali adeguate. Lo U.S. Department of Housing and Urban Development (HUD) ha sottolineato i seguenti risultati di uno studio di mercato:

La ristrutturazione urbanistica dell’edificio storico Sears, Roebuck & Co. nel quartiere di Fenway a Boston, Massachusetts, è un esempio di commercio big-box che si localizza in un’area urbana. L’impresa costruttrice, Abbey Group, ha trasformato la struttura storica in complessivi 56.000 metri quadrati commerciali, con una dimensione media di negozio di 4.000 metri quadri.

Un altro esempio è il rifacimento del negozio Lechmere a East Cambridge, Massachusetts. L’impresa, New England Development, ha partecipato insieme alla Lechmere Company e agli urbanisti municipali ad una serie di incontri per attivare il progetto secondo una procedura“ win-win” [ovvero in cui tutte le parti in causa ottengono risultati positivi]. Le questioni risolte negli incontri nell’ambito del community planning hanno incluso il progetto interno ed esterno della struttura, i parcheggi, il problema della criminalità, i rapporti del nuovo insediamento con gli spazi pubblici circostanti.

A Baltimora, Maryland, ci sono programmi in corso per trasformare un’area chiamata Port Covington. Questo ex sito industriale, vicino allo svincolo di Hanover Street con la Exit 55 della Interstate n. 95, è oggetto di intervento da parte della Starwood Ceruzzi, LLC. Port Covington comprenderà circa 41.000 metri quadrati di spazio commerciale, dove potranno trovar posto esercizi di superficie dai 100 ai 14.000 metri quadrati.

Gli esempi riportati sopra sono una rassegna di alcune delle ultime tendenze nella costruzione dei big-box. Se ci sono alcuni aspetti positivi, come la capacità di beneficiare aree di mercato non coperte, questi esempi suggeriscono anche che il settore sta diventando sempre più omogeneo. L’espansione di operatori di grande dimensione come Wal-Mart, Home Depot e Circuit City ha progressivamente ridotto il numero dei concorrenti/gestori (per esempio commercianti sia piccoli che grandi) negli shopping centers di tutti gli Stati Uniti. Di conseguenza, l’espansione dei big-box presenta aspetti sia positivi che negativi, che giustificano una attenta considerazione da parte delle comunità.

Nota: continua nella seconda parte (fb)

Il testo che segue, nonostante il titolo e gli argomenti con cui esordisce, è lontanissimo da un approccio teorico-accademico, o anche semplicemente giornalistico-descrittivo. L’autore è infatti direttamente interessato al problema, in quanto architetto progettista di strutture commerciali, della cui genesi e problemi attuali restituisce quindi un quadro per niente esaustivo, ma che ha la rara qualità di essere allo stesso tempo ampio e “sporcarsi le mani” con temi molto pratici ed operativi. Ne emerge un quadro comunque sconcertante, e rafforzata - proprio dall’angolazione del progettista, per quanto intelligente e critico – l’impressione di un ciclo di sviluppo comunque in declino. La “dismissione commerciale” che interessa l’ambiente suburbano/autostradale non sembra, come la sua più nota cugina industriale, avere motivazioni concrete, almeno diverse da quelle di un inseguimento di tendenze di mercato e concorrenza transeunti, che riproducono in eterno lo stesso schema: crescita, spostamento, dismissione, nuova crescita e via dicendo. Il problema è che questo processo si lascia alle spalle un territorio desertificato, contenitori vuoti e inutili, infrastrutture non o sotto utilizzate, traiettorie sociali (fisiche e non) continuamente cangianti. Alcune delle soluzioni indicate dall’autore nell’ultima parte sono di interpretazione piuttosto difficile per il lettore non addentro al dibattito specializzato, ma resta comunque una impressione di “crisi” non passeggera, a cui appare ormai ridicolo rispondere con provvedimenti di facciata, quali secondo l’autore stesso si nascondono anche dietro l’accattivante sigla del New Urbanism .

E forse non è un caso se, in questo contesto culturale che sembra coinvolgere la quasi totalità degli operatori e dei progettisti, si manifestano tendenze sempre più forti a riprodurre all’estero il modello, in ambienti ancora poco consapevoli dei costi di lungo termine, e dei paralleli anticorpi, normativi, professionali, sociali. (fb)

Premesse

A partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, lo schema tradizionale di sviluppo regionale, con le città ad accrescersi per aggiunte successive, secondo una forma urbana riconoscibile, lascia il posto ad una modalità più diffusa, dove piccole porzioni di territorio sono edificate in modo a sé stante, non connesso, che più tardi sarà denominato sprawl. Inizialmente questo modello si basa in modo quasi esclusivo sulla rete stradale esistente delle vie e strade di campagna, per servire gli spostamenti fra casa e lavoro, e per accedere a beni e servizi. Se è accessibile in auto, una località può essere edificata, e rapidamente di sviluppa un mercato per insediamenti residenziali suburbani.

Crescendo rapidamente in popolarità, con l’aiuto della disponibilità a basso prezzo di terreni e carburante per le automobili, lo sprawl scavalca in fretta i confini municipali, e la pianificazione regionale sembra assumere un atteggiamento quasi di laissez faire, con un’urbanistica tradizionale per le città che non appare più necessaria o applicabile, e la convinzione che si possano facilmente moltiplicare le infrastrutture stradali, ove necessario, per affrontare questa domanda man mano si presenta.

Per la prima volta nella storia della civiltà, un gran numero di persone viveva in un luogo e lavorava in un altro, con la necessità di spostamenti quotidiani su notevoli distanze, che si allungavano sempre più, e un numero sempre maggiore di queste persone potevano contare solo sulla rete esistente delle strade ex rurali per muoversi. Nonostante queste vie fossero rapidamente migliorate in qualità e nella sicurezza, con aggiunta di corsie per aumentarne la capacità, non si fece molto per anticipare i bisogni futuri e, molto spesso, prima che si pensasse ai potenziali vantaggi dell’istituzione di fasce di rispetto, gli stessi schemi di sviluppo dell’edificato le resero impossibili o proibitivamente costose.

Il risultato di tutto ciò, fu che un numero senza precedenti di persone ora si spostava regolarmente e quotidianamente su distanze ancora più lunghe, su un numero sempre minore di strade sempre più larghe.

Gli effetti sul commercio

Lo scambio di beni e servizi è vecchio come la civiltà stessa, e comprende virtualmente, in un modo o nell’altro, chiunque sul pianeta. Il modo tradizionale di facilitare l’accesso a beni e servizi era storicamente quello di localizzare le strutture commerciali in zone urbanizzate, come le città o i villaggi, che rappresentavano la più alta concentrazione di potenziali clienti. In questo modo, ai potenziali consumatori si assicurava un buon accesso per i bisogni quotidiano, e ai commercianti una quantità costante di clienti entro un mercato localmente disponibile.

In un modo o nell’altro il suburbio, col suo schema organizzativo diffuso e frammentato a bassa densità, rese quasi impossibile per i commercianti raggiungere un livello tradizionale di prossimità ad una base di clientela sufficientemente estesa per sostenere un ragionevole bacino commerciale, e rapidamente si rese chiaro come fosse necessario un diverso modello di commercio per rispondere a questa nuova domanda, nel nuovo ambiente. Ironicamente, lo schema stradale ramificato che era contemporaneamente simbolo delle origini del suburbio, e simbolo dei suoi futuri problemi, fornì una soluzione immediata, a portata di mano per il problema, e creò nello stesso tempo nuovi problemi.

Se i commercianti erano sinora andati là dove stavano i clienti – nel cuore delle città e cittadine – ora per la prima volta potevano posizionarsi strategicamente nel panorama suburbano e, quasi letteralmente, solo aspettare che i consumatori guidassero fin lì. E visto che un numero crescente di residenti suburbani faceva proprio questo, su strade sempre più rade ma sempre più larghe, crebbero insieme proporzionatamente le fortune e le dimensioni dei punti vendita suburbani. Suburbio e automobile creavano, in effetti, una nazione di consumatori liberi di andare dove volessero, come il mondo non aveva mai visto prima.

La Legge di Reilly

Nei primi giorni della suburbanizzazione, l’ancora implume industria dei centri commerciali si sforzava di definire i potenziali “bacini commerciali” rappresentati dai nuovi modi di organizzazione e uso del territorio. Il risultato, fu la Legge di Reilly sulla Gravitazione Commerciale, enunciata per la prima volta alla fine degli anni Trenta da William J. Reilly dell’Università del Texas di Austin, e spiegata così nel Manuale per la Progettazione dei Centri Commerciali dello Urban Land Institute: “Quando due città competono per il bacino commerciale dell’immediata zona rurale (suburbana), il punto di discontinuità nell’attrazione commerciale è più o meno direttamente proporzionale alla popolazione delle due città, e inversamente proporzionale al quadrato della distanza dell’area urbana di ciascun centro”.

Pur formulata nei primissimi tempi della suburbanizzazione (centrata sul trasporto ferroviario e in autobus, ma con crescente ruolo dell’automobile) e con riferimento al modello prevalente urbanocentrico del commercio regionale, si tratta di un’affermazione sorprendentemente valida a tutt’oggi, se adattata all’ambiente suburbano e alle dinamiche di mercato. Essenzialmente, questa “legge” afferma che, in un teorico e generico contesto di mercato (quello rurale in origine, quello suburbano oggi), e con tutte le altre variabili costanti, la maggiore concentrazione di offerta commerciale, sia totale che per categoria merceologica, tenderà sempre a spingere o trascinare fuori mercato una concentrazione simile, ma più piccola, inversamente proporzionale al quadrato della distanza.

È un fatto sorprendente, e spesso sottovalutato. Il manuale dell’ULI lo riassume così: “a ben vedere, quello che afferma questa legge è che le persone si spostano verso la concentrazione più grande e più facile da raggiungere”, e nel suburbio, almeno in teoria, tutte le località sono facili da raggiungere (specialmente se, tanto per cominciare, siete già in macchina e vi spostate su lunghe distanze).

Se siete un commerciante, la conclusione è ovvia e immediata: costruite la scatola più grossa possibile che possa mantenersi, e “vincerete” sempre in qualunque contesto di concorrenza. Questa singola intuizione è la forza propulsiva che sta alle spalle dell’apparentemente infinita escalation nelle dimensioni commerciali degli ultimi trent’anni, ed è stata indirettamente aiutata e coltivata dai sistemi stradali regionali, e dalla crescente dipendenza da una rete rigida di strade sempre più capaci ma rade.

Per la prima volta nella storia commerciale di questo paese – o di qualunque altro – la dimensione del contenitore non era dettata dalla densità o dal tipo dell’insediamento circostante, ma quasi esclusivamente dalla dimensione della strada che consentiva l’accesso.

Perché le dimensioni contano

Ci si potrebbe fare una domanda: “Bene, e allora? Perché contano, le dimensioni?” Beh, ci sono parecchie ragioni molto importanti, perché la dimensione conta, e le due principali si legano direttamente alla Legge di Reilly: l’effetto del commercio sovradimensionato su quello pre-suburbano o (nuovo) urbano, e la continuamente crescente dimensione dei bacini commerciali suburbani.

Con l’aumentare dell’importanza delle dimensioni stradali e del volume di traffico, nel determinare la scala del contenitore commerciale, altri formati e categorie merceologiche che prima avevano una dimensione calibrata sul quartiere, crescono a proporzioni regionali, e centri e contenitori regionali che prima si vedevano solo nei centri urbani improvvisamente spuntano negli ex incroci di vie rurali, diventati ora nodi di primaria importanza, ma popolati in gran parte con densità residenziali che solo poco tempo fa avrebbero fatto pensare a zone di campagna (Dadeland Mall a Miami, Florida, e Tyson’s Corner Mall a Tyson Corner, Virginia, entrambi centri commerciali di successo enormi e conosciuti a livello nazionale, hanno cominciato così, e vanno ancora benissimo).

dato che questi nuovi formati commerciali hanno la dimensione come principale strumento di primato competitivo, si localizzano dove possono trarre il massimo vantaggio anche dai sobborghi più esterni, ovvero il più lontano possibile lungo la ramificata corrente stradale, a catturare la maggior quantità di traffico prodotto dall’insediamento, e anche “prendere a prestito” notevoli quote di mercato dai più piccoli esercizi di generazione precedente, collocati verso l’interno dell’agglomerato, senza per questo essere esposti a future minacce di concorrenza “a monte” dei flussi di traffico.

Ma sfortunatamente “grosso” è un concetto relativo, qualunque dimensione non è “grossa abbastanza” per mettere al sicuro da minacce del genere. Gli insediamenti residenziali suburbani continuavano a crescere in dimensione e a diventare sempre più “introversi” e chiusi, e il sistema di connessione e permeabilità regionale era costantemente messo in crisi, con la necessità di arterie di capacità e dimensione senza precedenti, rafforzando e consolidando le dinamiche di mercato che avevano contribuito in prima istanza all’aumento di dimensioni dei contenitori commerciali.

Come risultato, scatole che sembravano enormi solo qualche anno prima ora subivano gravi svantaggi competitivi al crescere delle strade che avevano di fronte: e i commercianti e le loro scatole si affannavano a tenere il passo prima che nuovi concorrenti riuscissero a dare una risposta alla illimitata domanda di spesa rappresentata dal crescente flusso di traffico. Divenne presto usuale vedere generazioni successive dello stesso tipo di negozio, abbandonate in stretta successione in una corsa senza fine, come un cane che si morde la coda, per mantenere una supremazia di mercato, senza che si scorgesse un limite concepibile.

Questo era già abbastanza traumatico dal solo punto di vista fisico, ed economico (dopo tutto, che ve ne fate di un guscio vuoto che il precedente inquilino ha già provveduto a rendere obsoleto per sempre?), ma quello che è più preoccupante è l’impatto di questi contenitori sempre più grossi a scala regionale. Memori della Legge di Reilly, del diminuire dell’effetto attrattivo della dimensione commerciale in modo inversamente proporzionale al quadrato della distanza, e consapevoli delle ridottissime densità residenziali dei sobborghi più esterni, i commercianti di queste aree sono diventati ora per necessità negozi “ destination”, e la dimensione un fattore “nuota o annega”, dove o si domina la vasta zona suburbana, oppure si cessa di esistere.

Il risultato finale? Un facile e gradevole spostamento in auto di due minuti sulle strade locali per mezzo litro di latte in un insediamento di quartiere tradizionale, è diventato ora un’ardua faccenda di una ventina di minuti almeno su un’affollata superstrada multicorsie (insieme a tutti gli altri pigiati nella stessa barca) per la maggior parte dei residenti suburbani. Per ridurre al minimo la frequenza di questo trauma, i commercianti dei big-box hanno forzatamente aggiunto molte alte categorie commerciali alla loro già ampia offerta, per assicurarti che, anche se il tuo viaggio settimanale sembra ora una impegnativa spedizione, almeno potrai comprarti, contemporaneamente, anche cose di cui non avresti mai sognato di aver bisogno.

E certo, naturalmente, come risultato anche i contenitori diventano più grossi ...

Nella lotta infinita per proteggere il loro territorio, il già enorme grande magazzino a basso prezzo aggiunge un negozio di alimentari e una stazione di servizio, il già enorme negozio “locale” aggiunge una farmacia, una sezione di prodotti vari, un reparto video, la filiale di una banca, il chiosco di frittelle e il lavasecco, la farmacia “locale” aggiunge prodotti freschi, ricambi per automobili e ferramenta, prodotti in scatola ed elettronica di consumo. Fatevi un’idea.

Quadro regionale

Anche se è giusto pensare che esperienza sgradevole sia diventata la spesa, è più importante pensare cosa significa in una prospettiva regionale. Sempre più automobili si muovono verso destinazioni sempre più lontane, lungo sempre meno strade, solo per soddisfare banali bisogni quotidiani. I chilometri che percorriamo in automobile sono saliti alle stelle. Quello che un tempo era uno spostamento di un chilometro su strade locali, per fare la spesa della settimana, ora è di dieci o venti o più chilometri, a seconda della personale resistenza al dolore e a quanto si spera di “risparmiare” con una spedizione del genere.

E visto che tutti stanno facendo essenzialmente lo stesso viaggio sulle stesse strade, i nostri bisogni infrastrutturali sono cresciuti incommensurabilmente. Ora usiamo più carburante, produciamo più gas serra, asfaltiamo molta più terra agricola e spazi naturali, per soddisfare gli stessi bisogni elementari che soddisfacevamo un tempo con una frazione delle stesse risorse e fatica, in un contesto urbano.

Un fatto piuttosto curioso, è che non solo le grosse strade attirano e mantengono le grosse scatole commerciali, ma il traffico che queste generano spesso induce “miglioramenti e aumenti” nella capacità stradale, che spesso attirano scatole ancora più grandi (o incoraggia quelle che già ci sono ad aumentare di dimensione ovunque sia possibile). Questo circolo di auto-alimentazione tende a concentrare l’attività commerciale nelle localizzazioni suburbane attuali al punto che qualunque tentativo di attenuare i problemi di traffico o aggiungere usi diversi dello spazio, o aumentare la densità residenziale, o d’altra parte ridurre le dimensioni del bacino commerciale e le distanze di viaggio, diventa quasi inutile, e ogni introduzione di modelli comunitari più equilibrati e tradizionali (urbani) quasi impossibile da realizzare.

Come affermato nel Manuale dei Centri Commerciali dello Urban Land Institute: “Un centro commerciale non può generare un nuovo volume d’affari o creare nuovo potere d’acquisto ... invece essi attraggono clienti da distretti (commerciali) esistenti o catturano porzioni di nuovo potere d’acquisto da un’area in crescita. ... Possono causare una redistribuzione dei punti vendita e delle abitudini dei consumatori, ma non possono creare nuovi consumatori”. In altre parole, e nonostante la diffusa convinzione del contrario, nessun contenitore commerciale, indipendentemente dalla sua dimensione, è in gradi di creare concretamente un potenziale di spesa, semplicemente in virtù della sua grandezza. Ad ogni modo, essi sono certamente in grado di influenzare e redistribuire gli schemi di spesa del potere d’acquisto che già esiste all’interno di una determinata comunità, e con questi molto grandi contenitori questa influenza è sempre più avvertita a scala regionale.

Mentre le dimensioni delle scatole commerciali e i loro corrispondenti bacini (entro mercati di simile densità e reddito familiare, la dimensione del contenitore generalmente detta a grandi linee anche la dimensione del bacino) diventano sempre più grandi, i mercati di consumo che essi attirano trascendono i limiti municipali e di contea, e i loro corrispondenti ambiti fiscali. Qualunque contenitore o concentrazione commerciale che sia sovradimensionato rispetto alla capacità di spesa del proprio contesto immediato, dovrà necessariamente drenare da un mercato regionale più ampio, per mantenersi.

Il vasto e crescente sistema della rete stradale su cui è costruito lo sviluppo a sprawl aiuta e facilita questa concentrazione del commercio, così come descritta sopra, spesso di molto superiore alle capacità locali di sostenerla, e questa situazione può creare molte e pericolose dinamiche a scala regionale. Non è raro al giorno d’oggi trovare piccole cittadine o distretti rurali con superfici commerciali di molto superiori a quelle necessarie alle necessità dei propri cittadini, di solito sotto forma di contenitori delle maggiori catene distributive nazionali, con il resto della clientela risucchiato dalle comunità vicine, a spese dei rispettivi distretti commerciali.

Questo produce la “guerra commerciale” attualmente in corso, con schermaglie di confine dove ciascuna comunità lotta per acquisire le scatole più grosse, in una battaglia mortale dove “chi vince piglia tutto”, con la differenza che poi nessuno vince davvero, eccetto naturalmente le big-box corporations e i loro azionisti; i quali normalmente vivono a migliaia di chilometri dalle linee del fronte. Anche quartieri e città che farebbero anche a meno degli scatoloni, si sentono obbligate a cercarseli, se non altro per motivi di autodifesa.

Conclusioni

L’urbanizzazione tradizionale, in virtù della sua forma compatta, dell’uso misto dello spazio, della gerarchia di strade e densità residenziali, tende ad autoregolarsi in termini di formati e tipologie commerciali. I servizi di vicinato che si rivolgono a bisogni quotidiani stanno tradizionalmente a breve distanza dal quartiere e per altre spese, più rare e impegnative, che si fanno meno di frequente e richiedono una base di consumatori più vasta per mantenersi, ci si rivolge al centro città, dove risiede la più alta concentrazione di clienti, e dove è anche disponibile il servizio del trasporto pubblico. In questo contesto, il commercio per grandi contenitori sarebbe appropriato e benvenuto, e utilizzerebbe al massimo gli investimenti in infrastrutture della città.

In un contesto suburbano, dove la dimensione delle strutture commerciali non è determinata dalle densità e dalle caratteristiche del circondario immediato, ma in misura maggiore dal volume del traffico di passaggio, questa correlazione è stata del tutto eliminata. Il commercio place-based è stato sostituito (e nei casi migliori) da una attività place-making, dove sostanzialmente i centri commerciali suburbani sono concepiti per sembrare di essere ciò che non sono. Dunque diventa sempre più importante ricordare: in una prospettiva regionale, è la prima parte del viaggio commesso alla spesa, che conta di più, non gli ultimi venti metri, non importa quanto essi possano essere gradevoli.

Se il novantacinque per cento dei clienti ha guidato per 10 o 20 chilometri su larghe strade a molte corsie, attraverso quartieri monofunzionali a bassa densità, per farci la spesa, non importa gran che quale aspetto abbia, quando ci arrivi, è un centro commerciale suburbano!

Questo non significa che non si debbano disporre gli edifici secondo l’allineamento, o tentare di costruire un ambiente pedonale, che non si debba badare al tipo di edificio, alla dimensione, ai modi d’uso: solo, da molti punti di vista, si tratta di questioni marginali rispetto alle dinamiche più vaste che stanno alla base dell’insediamento suburbano odierno.

È anche molto difficile resistere alla tentazione di partecipare alla rissa, e arbitrariamente “ribaltare” i formati commerciali sia nei quartieri urbani, sia all’interno di altre “nuove” comunità urbane, interne ad un contesto altrimenti suburbano, anche solo come reazione difensiva ad una percepita sfida competitiva: una specie di “se non puoi batterli, unisciti a loro”. Ma sarebbe uno sbaglio. Non c’è attività commerciale in un vuoto di concorrenza, e ad un certo punto il contesto di mercato in cui sta il contenitore avvertirà l’onda di effetto di questa azione, e si sarà creata una dinamica suburbana con cui dovrà confrontarsi qualcun altro, in qualche posto più in giù lungo la strada (senza scherzi).

Un approccio più appropriato sarebbe quello di adottare un modello regionale di insediamento che comprenda un sistema integrato di trasporti, e un uso del suolo focalizzato su una crescita per quartieri strutturata sul lungo termine. Questo approccio aumenterebbe l’accesso locale, contro il bisogno di lunghi spostamenti, attraverso alcune tipologia stradali, i trasporti pubblici, e una struttura urbana che incoraggi formati commerciali di dimensione appropriata, collocati idealmente e compatibilmente rispetto al bacino di consumo.

Adeguare l’ambiente suburbano esistente è una sfida molto più impegnativa, e rappresenta una tentazione anche più forte di arrendersi allo status quo, sovradimensionando le capacità commerciali in previsione delle sfide competitive implicite in quel contesto (la mancanza di consapevolezza rispetto a questi problemi ha contribuito al fallimento di molti insediamenti commerciali New Urban Greenfield, producendo l’attuale frustrazione). Comunque, ancora, agire così, se può apparire un ragionevole e comprensibile espediente di breve termine, semplicemente allontana il giorno in cui si dovrà affrontare il problema in modo integrale, e soprattutto fa sembrare i New Urbanists degli ipocriti.

In realtà, la stessa natura generica dell’ambiente commerciale stradale suburbano, che ha reso possibile la rapida estensione nazionale dell’impresa di questo tipo, può rivelarsi causa del suo disfacimento, visto che qualunque commerciante là fuori vale solo quanto il suo ultimo “affare”. Quello che oggi è “evidenza di sviluppo economico” è spesso lo highway slum di domani, e questa tendenza è un cruccio sia per l’industria commerciale nazionale nel suo insieme che per le comunità i cui centri urbani sono stati desertificati da questi scatoloni, ora obsoleti. Questa comprensione, è quanto sta certamente dietro molta parte degli sforzi odierni per realizzare nuove zone commerciali con “base comunitaria”, ma questa strategia fornisce poca sicurezza sul lungo termine, se non si traduce in fatti, oltre che in parole. Ad ogni modo, un sovradimensionamento nei nuovi insediamenti commerciali urbani può essere appropriato, almeno nel breve termine, se è fatto nel contesto di una strategia più ampia per consolidare e razionalizzare lo sviluppo commerciale secondo efficaci schemi urbani e regionali. Un esempio di tentativo per iniziare un processo di questo tipo è lo SmartCode, ma si tratta solo di uno dei molti potenziali strumenti in grado di fornire un sostegno a questo sforzo. Comunque, è qualcosa che esiste, oggi. In ogni caso la prima cosa di cui preoccuparsi è di “non fare danni”. E questo significa: non creiamo altri problemi per risolvere quelli che abbiamo già.

Note: Il sito da cui è ripreso il testo è qui: http://user.gru.net/domz.

L’opinione che uno sviluppo suburbano e autostradale incontrollato avesse il degrado del road slum come unico sbocco finale possibile, non è certo nuova. Illuminante a questo proposito un testo del 1930 dell’ambientalista Benton MacKaye dal suggestivo titolo, The Townless Highway(fb)

Uno Stato in Scatola

Tra gli abeti puntuti del lontano nord

Lassù nel nord c’è un posto bellissimo, tutto costruito di legno: perché il legno è forte, duttile, naturale, serve sia per le strutture che per tutte le altre parti della grande casa, si fonde con l’ambiente naturale e si può persino riciclare, aiutando anche l’ambiente in senso lato. Oltre al legno, nel grande edificio si usano anche tutti i sistemi possibili per il risparmio energetico, la massima illuminazione naturale, la minima dispersione termica, l’uso dell’energia solare per produrre elettricità, il riciclaggio del sistema delle acque bianche e nere.

Dato che in qualche modo bisogna pur arrivarci, lassù nel nord, e di solito ci si può arrivare solo in macchina, anche i parcheggi sono fatti di asfalto riciclato, garantiscono la minima impermeabilizzazione del terreno, e sono circondati e schermati da scarpate a verde, strisce a parco, aiuole. Anche i segnali stradali e tutta la cartellonistica è in materiale riciclato. Anche (incredibile) il chiosco di MacDonald offre contenitori e arredi in tutto o in parte di materiali naturali o riciclabili.

E se proprio siete degli sporcaccioni e vi siete portati robaccia dalla sporca città, dentro l’edificio c’è anche un posto dove potete lasciare le vostre schifezze perché siano riciclate, un centro di informazione e educazione ambientale, e un vicedirettore specializzato (con titolo di studio apposito) incaricato di mantenere rapporti con la comunità locale sui temi ambientali, e i loro rapporti con la società e lo sviluppo.

Ma fuori dalla grande casa, sempre da qualche parte lassù nel nord, sta acquattato tra gli aghi di pino un gruppetto di individui sospettosi e mai contenti. Si sono proclamati, addirittura, “Guardiani delle risorse naturali”, e ce l’hanno a morte con quelli della grande casa e tutto il loro legno riciclato. Ma che diavolo vogliono, ‘sti guardiani? Basta leggere. Acque pulite, da bere, nei fiumi, nei laghi, per pescare, acque nelle zone umide, acque “legali”, in regola con le norme dello stato. Foreste vive e sane, da cui ricavare legname, dove possa vivere la fauna selvatica, che possano ricambiare l’aria e su cui non deve cadere la pioggia acida e velenosa. Comportamenti sociali e stili di vita rispettosi dell’ambiente, nei modi di costruire e abitare, muoversi, nei rapporti con il paesaggio e la storia. Promuovere l’uso di energie rinnovabili, diminuire il consumo di petrolio, risparmiare e riciclare ... Beh: e perché mai ce l’hanno tanto con quelli della grande casa? Non vogliono forse, più o meno, le stesse cose, questi sedicenti “guardiani”?

Il fatto è che hanno ragione loro, e da vendere. Perché quelli della grande casa sono la mega-multinazionale big-box del commercio, Wal-Mart, e quei poveracci dei “guardiani” solo il Vermont Natural Resources Council. Ma, soprattutto, perché i guardiani parlano di qualcosa che esiste, ha una storia, è unico, e Wal-Mart va poco più in là delle dichiarazioni di principio. In effetti ha realizzato un intervento modello a Lawrence, Kansas, negli anni Novanta, e altri due simili, ma basta vedere la lista delle cause aperte contro il gigante big-box mangiatutto, per capire al volo che anche il suo dichiarato ambientalismo deriva ampiamente da spinte esterne.

Quando ti inscatolano la patria

Non è qui il caso di tornare a spiegare cos’è, Wal-Mart. Anche per il lettore italiano ci ha pensato, ad esempio e di recente, “Il Manifesto”, con un servizio a puntate che non a caso si focalizzava proprio sui conflitti che questo gigante induce: col sindacato, con l’ambiente, con le comunità locali. Per gli impatti direttamente fisici, basta ricordare che si tratta di un big-box (molto big) ovvero di singolo grande negozio, insediativamente diverso dal Mall o centro commerciale, di cui può anche far parte, un po’ come altri big-box tipo Ikea, Brico ecc. che nel territorio nostrano si inseriscono dentro o vicino agli insiemi più complessi e artificialmente “urbani”. Altra caratteristica Wal-Mart è la politica dei prezzi bassi, bassissimi, stracciati, che si può permettere sia lavorando in perdita per lunghi periodi al solo scopo di distruggere la concorrenza, sia (ed è il caso generale) facendo pagare i propri costi ad altri: l’ambiente, la comunità locale, ecc.

Nel caso specifico del Vermont, questo piccolo Stato era risparmiato da una presenza Wal-Mart ancora a metà anni Novanta, ma poi il gigante dopo trent’anni di espansione (esplosione) continua nello sprawl suburbano USA, piantò la sua ingombrante bandierina anche qui, più o meno quando iniziava la sua tentennante avventura multinazionale, dopo la scomparsa dei soci fondatori e l’avvento della seconda generazione. Il caso ora si ripresenta enormemente gonfiato, visto che il gigante dall’Arkansas, dopo aver aperto con più o meno conflitti e guai quattro big-box nel Vermont, ora ne vuole piazzare un’altra mezza dozzina, sparpagliati fra le città di Bennington (dove ce n’è già uno), St. Albans, St. Johnsbury, Newport, Morrisville, Middlebury e Rutland. E si tratta di scatoloni veramente piuttosto grossi. Il progetto per Bennington, dove dalla metà anni Novanta c’è un Wal-Mart di 5.000 metri quadrati, è per un nuovo negozio “Superstore” da 17.000 mq. In società con un operatore locale, si intende (e si è già cominciato a) cambiare destinazione d’uso ad un appezzamento di circa 12 ettari, che poi sarà destinato a vari scopi, primi fra tutti gli spazi di accesso e servizio al big-box.

Non è un caso se l’opposizione si raccoglie attorno alle parole d’ordine della smart growth, che dà anche l’illuminante titolo ad un convegno contro Wal-Mart: “ Smart Growth and Big Box Development: What are they and can we have both?”. Illumimante perché la dice lunga sull’atteggiamento sostanzialmente non-nimby di queste opposizioni “integrate”. La domanda che ci si pone e si mette di fronte alle autorità è: il commercio ci va benissimo, anche e meglio ancora quello discount, ma vediamo prima quali sono i prezzi veri, e chi li paga nel lungo termine. Ecco, da dove viene esattamente il “negozio modello” e tutta la comunicazione pubblicitaria che si trascina appresso. Perché una cosa è certa: lo scatolone stanti i rapporti di forza rischia davvero di ingoiarsi tutto lo Stato, inteso come storia, paesaggio, valori sociali condivisi, e anche cantati dal National Geographic Magazine. Come osserva in un articolo di fine maggio 2004 anche il New York Times, è certo che l’approccio brutalmente standardizzato (“globalizzato”, diremmo noi provinciali) all’insediamento commerciale sta da tempo mostrando la corda, in termini di vera e propria desertificazione prima delle attività economicamente più deboli e potenzialmente concorrenti, poi di tutta la complessità socio-ambientale di una regione. Il risultato è un mondo, anche se locale (ma per quanto?) del tutto conformato alla logica di impresa/produzione/consumo, e che perde o indebolisce tendenzialmente i suoi valori anche civili e di democrazia.

Riassumendo, quindi, tutto quello che la società locale (l'intero Stato, in un modo o nell'altro) desidera è una forma di convivenza regolata con questo gigante della grande distribuzione. Ambiente, urbanistica, mercato del lavoro, attività economiche, tutti questi aspetti della vita devono in qualche modo crescere insieme, con il contributo di vari soggetti, costruire e riprodurre la stessa complessità che ci ha lasciato sinora la storia. Non appiattirsi sulle strategie locali di un gigante cieco, che vede solo i propri bilanci e le strategie globali. Altro che "fondamentalismo ecologista"!

Estremi rimedi e scenari futuri

Il caso è tanto grave che, per la prima volta, il National Trust for Historic Preservation ha inserito uno Stato – il Vermont, appunto – nella propria lista 2004 degli oggetti e luoghi insostituibili da tutelare ad ogni costo. Avete letto bene: un intero Stato, perché tutto si tiene, in un ambiente socio-territoriale, paesistico, economico, civile a “dimensione conforme”. E dunque di fianco alla stazione ottocentesca del grande architetto minacciata di demolizione, di fianco agli alberi monumentali che rischiano l’attacco di ruspe e dinamite, si sistema anche come bene culturale l’intero Vermont, che Wal-Mart vuole, dietro le sue lusinghe di legno ecologico e plastiche riciclate, ingoiarsi in un solo boccone dentro il big-box.

E naturalmente il problema non riguarda solo questo particolarissimo, eccezionale caso, ma tutta l’infinita serie di conflitti che, più o meno con la stessa tiritera (anche se con risultati diversissimi) Wal-Mart provoca: prima nello sprawl suburbano USA, poi in varie tonalità in tutto il mondo.

Perché come già accennato la seconda generazione - che ha sostituito a metà anni Novanta i fondatori Sam e “Bud” Walton - si è da quasi subito proiettata nel mondo, alla ricerca di nuovi mercati e di nuove comunità locali da inscatolare. Con vari livelli di successo, visto che in Europa il mercato sia britannico che tedesco non sembrano dare molte soddisfazioni, mentre in Asia le economie delle varie tigri neoliberiste sembrano molto aperte all’innovazione, ma troppo sofisticate per accettare una proposta che è anche un big-box concettuale: prodotti americani, proposti in modo americano e con strategie americane. Risultato: flop, o quasi. Per ora, naturalmente. E questo ci racconta solo la parte strettamente economica della faccenda, tutto tacendo sugli impatti ambientali, che probabilmente saranno anche molto peggiori di quelli paventati nel Vermont o subiti altrove.

E l’Italia? Un anonimo intervento in un gruppo di discussione a questo proposito sembra perentorio: As for Italy, Walmart will “Never” have a store there. Ma la stampa economica non sembra pensarla esattamente così, anche solo ad una rapida occhiata online.

L’ambiente italiano torna ciclicamente nelle analisi delle strategie internazionali del gruppo, e sempre accoppiato allo stesso partner, di cui si mormora (si citano rumors) talvolta una idea di joint venture, altre volte l’acquisizione dell’intero pacchetto, in un caso addirittura un preciso luogo: Piacenza. Il misterioso partner, come conferma di recente pure la prestigiosa Forbes, altri non è che la Esselunga, nota per il sostegno alla Casa delle Libertà e per la presenza puntuale di un suo small-box (anche se si chiama Superstore) nei grandi quartieri di iniziativa privata che stanno trasformando radicalmente la periferia di Milano, e non solo.

Dovremo rivolgerci anche noi al National Trust for Historic Preservation, sperando che faccia un’altra eccezione, e inserisca pure la padania nella sua lista delle specie minacciate? Speriamo di no. Ma speriamo anche di non finire inscatolati senza accorgercene, dentro un complesso pacchetto azionario.

Sono forse altre, le azioni da intraprendere.

Nota: credo basti, qui, il link al sito del Vermont Natural Resources Council, che da una serie di informazioni anche quantitative sui progetti Wal-Mart. Quanto alla catena big-box , come noto basta inserire il nome dentro a un motore di ricerca per essere letteralmente sommersi sia dalle informazioni di impresa, sia dai siti di chi si oppone agli scatoloni. Ho anche tradotto per chi fosse interessato il documento con cui il National Trust dichiara minacciato l’intero Vermont. È scaricabile da qui il file PDF, insieme a quello tratto dal "Manifesto" che racconta una delle lotte locali contro Wal-Mart. (fb)

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Un documento dall’Ufficio Federale Svizzero per lo Sviluppo Territoriale

Centri commerciali, mercati specializzati e impianti a forte affluenza più vicini agli agglomerati

Se i centri commerciali, i mercati specializzati e gli impianti del tempo libero vengono progettati e costruiti lontano dagli agglomerati, la causa non va ricercata nella legislazione sulla protezione dell’aria, come presumono due mozioni trasmesse dal Parlamento. Questa la conclusione dell’Ufficio federale dell’ambiente, delle foreste e del paesaggio (UFAFP) e dell’Ufficio federale della pianificazione del territorio (ARE). Affinché in futuro queste strutture a forte affluenza possano essere realizzate in modo ottimale nei pressi degli agglomerati e nelle vicinanze dei nodi del traffico, è necessario migliorare il coordinamento: gli strumenti della protezione dell’aria e della pianificazione del territorio devono essere meglio armonizzati.

Negli ultimi anni parecchi grandi centri commerciali e mercati specializzati sono stati costruiti lontano dagli agglomerati urbani. Di conseguenza aumentano il traffico individuale e l’inquinamento atmosferico. Il 10 per cento del traffico motorizzato individuale va addebitato alle strutture a forte affluenza. Nel contempo queste strutture accentuano la frammentazione del territorio e richiedono la costruzione di nuove strade. Dal punto di vista della protezione dell’ambiente e della pianificazione del territorio un’ubicazione lontana dai centri densamente popolati è pertanto problematica. Simili strutture a forte affluenza di pubblico dovrebbero essere ubicate nelle vicinanze dei centri e dei nodi del traffico.

Gli autori delle due mozioni trasmesse dal Parlamento presumono che il motivo della tendenza a privilegiare siti periferici vada ricercata soprattutto nella legislazione sulla protezione dell’aria. I provvedimenti di igiene dell’aria volti a limitare il traffico motorizzato (ad esempio riducendo il numero di posteggi) indurrebbero inoltre gli investitori a realizzare i loro progetti lontano dai centri. Qualora fosse appurata una contraddizione tra gli obiettivi della pianificazione del territorio e quelli della protezione dell’aria, le relative prescrizioni andrebbero modificate.



La legislazione sulla protezione dell’aria non deve essere modificata

Nella pratica il presunto conflitto si verifica solo di rado. È quanto emerge dal rapporto di Rudolf Muggli, direttore dell’Associazione svizzera per la pianificazione ASPAN, elaborato a seguito delle due mozioni («Publikumsintensive Einrichtungen – Verbesserte Koordination zwischen Luftreinhaltung und Raumplanung»). Lo studio è stato commissionato dall’Ufficio federale dell’ambiente, delle foreste e del paesaggio (UFAFP) e dall’Ufficio federale dello sviluppo territoriale (ARE). Dalla pubblicazione emerge che le prescrizioni in materia di protezione dell’aria sono abbastanza duttili e consentono ai Cantoni di coordinare la loro politica di igiene dell’aria con l’auspicato sviluppo del territorio. Per questo motivo e poiché altri quattro motivi determinanti hanno portato all’abbandono di progetti, non è necessaria una modifica della legislazione sulla protezione dell’aria.



Un migliore coordinamento garantisce siti idonei

È per contro indispensabile un migliore coordinamento degli strumenti della protezione dell’aria e della pianificazione del territorio. E questo tanto più che il problema delle limitate capacità del traffico stradale nei grandi agglomerati urbani di Basilea, Berna, Ginevra, Losanna, Lucerna, San Gallo e Zurigo sta diventando l’ostacolo principale all’autorizzazione di centri commerciali, mercati specializzati e impianti del tempo libero. In futuro si rafforzerà pertanto la tendenza a costruire grandi centri in luoghi con un buon collegamento con la rete dei trasporti pubblici.

Un esempio di coordinamento riuscito è il previsto complesso di Berna-Brünnen. Il modello del Canton Berna relativo al numero di movimenti e ai chilometri percorsi dai veicoli, che sfrutta il margine di manovra consentito dall’attuale legge sulla protezione dell’ambiente, consente in questo caso la costruzione di un impianto commerciale e per il tempo libero alle porte di Berna. Il Canton San Gallo prevede un altro modello nell’ambito del piano direttore 2002, che contribuisce al migliore coordinamento tra gli obiettivi della protezione dell’aria e quelli della pianificazione del territorio mediante precise basi pianificatorie.



Prossimo passo: aiuto all’esecuzione per i Cantoni

Tali modelli non garantiscono in futuro l’approvazione di tutte le domande di autorizzazione di strutture a forte affluenza. Essi rafforzano però la certezza del diritto per tutte le cerchie interessate, dal momento che sarà possibile fare affermazioni più vincolanti sui requisiti che i siti devono adempiere. Si riduce così la probabilità che vengano inoltrati reclami e ricorsi che ritardano la realizzazione dei progetti. Il prossimo passo dell’UFAFP e dell’ARE consisterà nell’elaborazione di un aiuto all’esecuzione per i Cantoni, utile ai fini di un migliore coordinamento tra protezione dell’aria e pianificazione del territorio.

Berna, 07.11.2002

Nota: il link al sito dell’Ufficio Federale Svizzero per lo Sviluppo Territoriale, con numerosi documenti disponibili

Consumati dallo shopping [recensione a The Call of the Mall, di Paco Underhill, Simon & Schuster 2004], traduzione di Fabrizio Bottini

”Le città stanno diventando, sempre di più, una lontana provincia abitata dai ricchi, da chi è senza figli, o dai poveri. Io amo le città. Ma l’America non ci ha abitato per molto tempo ... Se vuoi vedere davvero le famiglie a varie generazioni del ceto medio americano, devi andare al centro commerciale”.

Ma, potremmo chiedere all’autodefinito “secchione della ricerca” Paco Underhill, che sostiene questa tesi ne Il Richiamo del Centro Commerciale ( The Call of the Mall): vogliamo davvero vederle? La più recente incursione di Underhill nel ricco, variegato, speziato campo dell’antropologia commerciale (la prima è stata Perché compriamo: la scienza dello Shopping, del 1999), ci pone alcune questioni: siamo davvero interessati a passare un intero libro dentro al centro commerciale? Perché hanno un’architettura tanto brutta? E cos’è, esattamente, un Aqua Massage? Le risposte di Underhill si rivelano affascinanti (la maggior parte), e quando non lo sono, sono comunque noiosamente e squisitamente spoglie, noiosamente esistenziali, proprio come il centro commerciale.

Per chi sostiene che un pasticcino Cinnabon è solo un Cinnabon, Underhill apre il suo viaggio nel mall invocando lo spirito dello storico francese Daniel Roche, autore della Storia delle cose banali “Studiare le persone mentre si radunano a comprare e vendere cose non è proprio una cosa totalmente frivola o leggera”. Scrive:

Pensate alla storia della nostra specie, una gran parte della quale è stata stimolata da mercanti o loro emissari che viaggiavano fino ai confini del pianeta, qualche volta con grandi rischi, per riportare indietro cosette da vendere agli altri. Come può testimoniare qualunque scolaro, l’avventura nei tempi antichi c’entrava sempre con la via delle spezie, e i traffici di seta, metalli preziosi, incenso, mirra, polvere da sparo e pellicce.

Secondo Underhill, la storia del commercio è una grande avventura, che entra in una nuova fase con gli scintillanti empori delle città americane in crescita.

I principi mercanti erano uomini del diciannovesimo secolo, spinti dall’ambizione, dalla forza, dalla voglia di affermarsi secondo il codice materiale, in pietra e mattoni, dell’epoca. I loro negozi erano i loro alter-ego, e questi titani del commercio avevano tutti grossi complessi psico-edilizi. I grandi magazzini dell’epoca portano i nomi del proprietario: Gimbel, Macy, Wanamaker, Neiman Marcus, Marshall Field.

A prima vista sembrava che la cultura suburbana dell’automobile potesse innescare un’altra eccitante fase di questo lungo viaggio. Dopo tutto, fin dai primi passi a Edina, Minnesota, nel 1956, il mall si è dimostrato una meravigliosa invenzione per il commercio. Negli anni del boom, i ’70 e ’80, si apriva un centro commerciale da qualche parte degli Stati Uniti ogni tre o quattro giorni. Alcuni studi ipotizzano che il 30 per cento degli adulti che vivono in una zona con il tipo di centro commerciale descritto da Uphill nel suo libro, ci sono stati almeno una volta ogni tre mesi. I malls attualmente coprono il 14 per cento del commercio totale degli Stati Uniti (esclusi auto e benzina): circa 308 miliardi di dollari di vendite annuali.

Più significativo di queste cifre e dati, è il modo in cui il centro commerciale è entrato nelle viscere, nella psiche della famiglia americana. Cos’è dopotutto una famiglia, se non un insieme di persone non proprio totalmente indipendenti, non proprio totalmente mobili? E quale ancoraggio più sicuro, per le famiglie, di una grossa anonima scatola a temperatura controllata? E non si tratta solo degli adolescenti “topi da centro commerciale”, naufraghi al multisala i venerdì sera perché non possono guidare. Sono i branchi di anziani che hanno iniziato programmi di “passeggio da mall” su consiglio del medico che temeva potessero scivolare sulla neve o sul ghiaccio. Sono le mamme di bambini piccoli che tentano di ammazzare il tempo (perché i clienti del centro commerciale letteralmente fanno una spesa più lenta dei loro corrispondenti urbani, e sono più pazienti in fila, al punto che spingere un passeggino e un paio di pupi a comprare un nuovo mestolo da Lechter’s può riempire un intero, sereno pomeriggio).

Il problema, sostiene Uphill, è che c’è del marcio, sin nel DNA del centro commerciale. I proprietari sono ben lontani dal voler venire incontro creativamente ai nostri bisogni di acquisto: sono semplicemente operatori immobiliari, che tentano di massimizzare ogni dollaro di rendita, in gran parte minimizzando sulle spese. Il che non è una bella cosa. Per cominciare, l’architettura che ne risulta è un orrore (“Un grosso muro con un piccolo buco da topo”, è il modo in cui viene descritto da un progettista di grido del settore). E ora questi esterni spogli e senza vita stanno via via decadendo, con inquietanti stranezze quasi alla Michael Jackson. Ad esempio:

Mall of America, il più grande degli Stati Uniti e la più importante attrazione turistica di tutto il Minnesota, può anche essere sembrato bello sul tavolo da disegno. Ma è invecchiato male sin dal giorno dell’inaugurazione nell’agosto 1992. Si vedono macchie sull’esterno dell’edificio, e l’erba ha cominciato a spuntare attraverso l’asfalto nei parcheggi. È enorme e sgraziato. Non puoi immaginare che si lascino Disney World, o la Statua della Libertà, a degradarsi in questo modo. E questo centro commerciale ha più visitatori di Disney World, Graceland, e il Grand Canyon messi insieme.

E ancora:

La prossima volta che andate in un centro commerciale, invece di entrarci direttamente, provate a fare una passeggiata lungo il perimetro dei fabbricati. Sarete piuttosto soli in quel posto, su una stretta striscia di marciapiede – sempre che ce ne sia uno, di marciapiede: in molti centri non c’è – magari con una guardia della vigilanza a tenervi compagnia ... Ci saranno quasi di sicuro dei cespugli, accuratamente potati, ma è verde del tipo più banale. Nessuno ha mai pensato che ci avresti fatto caso troppo da vicino. L’unica cosa che conta è che sia di colore verde.

E questo disorientamento, questa sconnessione dalla forma dello spazio, raggiunge il massimo all’interno del centro commerciale, che Underhill descrive essere, come la televisione, un “ambiente totalmente artificioso, che cerca di proporsi come vero riflesso di quello che siamo, e di cosa vogliamo”. C’è una galleria video, una parete da roccia, un cortile per la ristorazione, e “un chiosco Cinnabon, quattro chioschi di dolciumi, tre chioschi di biscotti, tre di gelati, e nemmeno un posto, da nessuna parte, per comprarsi una mela”. È una piazza di città dai colori pastello – o almeno vuole assomigliare a una piazza di città – che a dire il vero respinge qualunque onesto senso civico. (molti Stati hanno dovuto proibire per legge alcune forme di libertà di parola che non favorivano il commercio, negli anni questi disturbi hanno incluso: candidati alle elezioni, il Ku Klux Klan, gli attivisti anti-guerra che distribuivano volantini). Underhill si sforza di stabilire un rapporto fra centri commerciali e razzismo, visto che pochissimi sono vicini a mezzi di trasporto pubblico.

Ma per il lettore, il vero contributo innovativo di Call of the Mall al tema – anche se non proprio la cosa più piacevole – non è l’analisi sociologica, quanto lo choc dell’identificazione personale che Underhill provoca quando seziona al laser alcuni inesplorati momenti della vita moderna. Solo uno specialista del commercio può sintonizzarsi in questo modo alla condizione umana in tutta la sua squallida, informe noia. Ancora evocando lo spirito di Daniel Roche, Uphill traccia le violente trasformazioni nel nostro panorama emozionale, quando cerchiamo un parcheggio e troviamo qualcosa di meglio (più vicino al lato di Sears) o qualcosa di peggio (più vicino a quello di Bloomingdale) di quello che ci aspettavamo. Una volta all’interno, si infuria:

Puzzano, le mappe? Nel corso dei miei studi sulla gente al centro commerciale, ho cronometrato quanto tempo le persone passano guardando quelle grossi cartelli illuminati con le indicazioni. In uno di questi casi, la media era di ventidue secondi. È un tempo molto lungo, per studiare una mappa ... Le piantine nella maggior parte dei centri commerciali sembra siano state disegnate per gli elettricisti: come guide all’allacciamento.

Solo Underhill poteva impiegare tempo ad osservare come:

Gli scippi, per quanti ne succedano al centro commerciale, avvengono nei bagni, che sono di solito nascosti giù in fondo a corridoi solitari lontani dai passaggi principali. Di fatto, quello è il miglior modo di trovare il bagno in un centro commerciale sconosciuto: guardatevi attorno a cercare l’angolo meno invitante, quello più angusto, dove l’illuminazione è più fioca. Visto? C’è proprio un passaggio del genere che si stacca dal corridoio centrale. È un po’ buio e inospitale: se il centro commerciale fosse una città, questo sarebbe un vicolo sul retro. Su, entriamo!

E infine:

C’è qualcosa di felliniano nella sezione cosmetici di un grande magazzino. Te ne stai lì un sabato mattina, vestito col solito guardaroba standard casual suburbano, a guardare una stanza che brilla di candelieri, popolata da commesse truccate e acconciate in modo sicuramente adatto ad una prima della Scala. Le loro facce sono maschere di pelle pallida, senza pori, le labbra rosso rubino, occhi bistrati degni di un teatro kabuki. L’acquisto di cosmetici è una forma d’arte pubblica, e privata. Non è come il massaggio, ma è un gesto quasi altrettanto intimo fra adulti consenzienti.

E qui, forse, sta l’indizio più rivelatore dell’assurdità commerciale. Sopra la cassa, ci indica Uphill, tipicamente troverete una gigantografia di Elizabeth Hurley, da una pubblicità che avete visto su Vanity Fair, ora ingrandita e inanellata da luci splendenti. Giù in basso, il resto della specie femminile ciabatta attorno, appena in grado di trovarsi uno specchio decente, con una illuminazione decente, per provarsi il rossetto.

Uphill cita un altro esperto di commercio:

“Le compagnie non progettano questi grandi magazzini per metterci al centro il cliente. Per loro, la star al centro del banco di vendita è la supermodella della campagna pubblicitaria. Poi, all’ultimo posto, sta il cliente. È del tutto sbagliato”.

Ah, l’eterno gap fra Madison Avenue e, se non esattamente il Minnesota, almeno quel Minnesota che si annida nelle nostre anime. E parlando di gap, sono ancora perseguitata da quella pubblicità televisiva di parecchi anni fa, delle ballerine di Gap. Era la promessa di Gap, in trenta secondi: mettiti addosso questi magici pantaloni kaki, e conoscerai la libertà da tutte le preoccupazioni della vita: il tuo spirito galleggerà, sari libera dalla forza di gravità, leggera come una fata! Considerate ora l’esperienza Gap: armeggiare con pantaloni troppo stretti in un camerino di prova troppo stretto, nel bel mezzo di tre ore di viaggio verso un centro commerciale opaco, invecchiato, coi bagni spogli e foschi, e un parcheggio orribile.

Dire che Uphill è lo Shakespeare del suburbio non significa che la Città – o almeno la sua immagine – sia assente da Call of the Mall. A ben vedere, i paesaggi dei centri commerciali riflettono e rifrangono in modo obliquo quelle che sembrano essere le effimere, romantiche impossibilmente distanti memorie collettive della Città. Ne è testimone il negozio degli animali domestici, una piccola zona dedicata alle forme di vita inferiori – e ai loro escrementi – ben familiari a chi fa compere in città, ma totalmente assenti dal centro commerciale. E mentre gli adolescenti lanciano un frisbee in un ambiente simil-naturale da gioco all’ultimo piano, una ragazza medita nostalgica: “Non so se siete mai stati a Washington Square a New York ... ma ecco c’è questo parco, e hanno questi tavoli con, tipo, delle scacchiere disegnate sul piano..”.

Poi c’è la vetrina di Tiffany, piccola e cubica, che mostra solo una cosa: una magnifica foto in bianco e nero del Central Park in un giorno di pioggia, un diorama in miniatura che coglie parte della nostra – almeno di qualcuno – vita passata. Uphill dice “Vende il fascino di Central Park sotto la pioggia, e del vicino Tiffany, alla gente che passeggia per il centro commerciale”. (“Hey”, fa il suo compagno di spese, “c’è una macchia di sporco sul vetro”).

E per il futuro, del centro commerciale?

Oggi, con la maggioranza dei malls americani con più di vent’anni, il problema di cosa fare dei complessi che invecchiano si presenterà presto. Se gli edifici in sé avessero qualche tipo di valore, potremmo probabilmente restaurarli o tutelare quelli che lo meritano. Restauriamo e dedichiamo ad usi diversi molte strutture collettive, come ex uffici postali, alberghi, biblioteche, o anche chiese. Ma la maggior parte dei centri commerciali sono troppo brutti e banali per meritare uno sforzo simile. Sono stati progettati per funzionare, niente di più, e quando non servono più allo scopo devono essere abbattuti e sostituiti con ... non saprei con cosa. Magari qualcosa di anche peggiore.

Penso ai fantasmi commerciali del passato e del futuro nella mia Los Angeles. Penso alla nostra Sherman Oaks Galleria – giusto: quella Galleria resa famosa in “Valley Girl” – che non c’è più. Mi torna in mente la mia vita da adolescente, negli anni Settanta in Sud California. Sento ancora pulsare eccitante l’età adulta incipiente, mentre con la mia migliore amica, Mary Robertson, schizzavamo sulle freeways nella sua piccola Chevrolet Chevette. Posso ancora visualizzare tutti i cartelli bianchi e verdi delle rampe di uscita, tutte le palme stentate, i centri commerciali che si allargavano poco più in là come grosse scatole rosa piene di promesse. Come il trucco finto di Barbie, anche il centro commerciale offriva una visione di affascinante, cosmopolita esistenza adulta, che ora stava lì, tanto più a portata di mano. Invece che ad una vera Città del Peccato, io e Mary facevamo visite impulsive e audaci alla Cheesecake Factory, dove l’inero mondo dei sensi stava lì davanti a noi in più di ventuno sapori: Amaretto, Grand Marnier, piña colada.

Oggi il mio mondo commerciale sud californiano è una griglia di Target (classico), Tarjhay (verso il centro) e naturalmente Targhetto (con il piazzale del parcheggio malmesso, dove ti trovi a pensare, Dunque è qui dove gli appartenenti alle bande criminali comprano i loro contenitori di vetro Tupper: i miglior per metter via le loro importanti cose da banda criminale). È una miscela colorata di centri lungo la strada che annunciano pulizia a secco in cinque lingue diverse, e quasi sempre espongono un “USA #1 DONUTS”. Penso alla prima visita della mia sessantaduenne matrigna mongola da Van Nuys Costco: come i suoi occhi si spalancavano allarmati, ed eccitati, alla vista di una torre di tovagliolini Bounty alta quindici metri, e come le sue scarpe bianche da tennis brillavano e sbattevano mentre correva.

Nota: il confronto, come ovvio per chi ha già letto il pezzo, è quello con l'articolo economico proposto da Eddyburg sulla prossima invasione, in Italia, proprio di quei grandi centri commerciali super-regionali di cui qui si dice peste e corna, da International Council of Shopping Centers (fb)

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