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Le biografie degli autori degli attentati terroristici di Parigi, in cui diciassette persone hanno perso la vita, rimandano alla banlieue, e a parole come ghetto, segregazione o apartheid utilizzate dal premier Manuel Valls per indicare la natura di un problema non risolto. Precedentemente all’incarico di primo ministro del governo francese, Valls era stato sindaco di Evry, una delle ville nouvelle costruite a partire dagli anni sessanta per decongestionare la capitale francese, di fatto assimilabili alle periferie che la circondano. In occasione della rivolta delle banlieue, quando guidava l’amministrazione di questo centro di 50.000 abitanti che dista 25 chilometri da Parigi, Valls aveva già avuto modo di usare quelle parole che di nuovo ha speso per sottolineare quanto i mali che affliggono le periferie dalle quali provenivano gli attentatori siano ancora tutti da affrontare.

«La fratture, le tensioni che covano da troppo tempo e delle quali si parla ad intermittenza sono ancora presenti. Chi si ricorda dei disordini del 2005? Eppure le cicatrici sono ancora lì» ha ricordato Valls, insistendo sul concetto di ghetto insito nell’essere relegati nei contesti periurbani, ai quali non sfugge la città dell’Ile de France della quale è stato sindaco. «Si deve parlare di cittadinanza, non di integrazione – dimentichiamo le parole che non vogliono più dire nulla - ed essa ha bisogno di essere rifondata, rinforzata, rilegittimata. (…) Il problema non è il rinnovamento urbano. Molto è già stato fatto con l'Agenzia nazionale per la riqualificazione urbana, ma dobbiamo anche porre la questione della diversità urbana. Se non si cambia la popolazione si rischia di creare dei ghetti».

Per Manuel Valls il termine “ghetto” ha un’accezione diversa da quella attribuitagli da Nicolas Sarkozy, ministro dell'Interno e poi presidente della Repubblica, che l’ha utilizzato più volte tra il 2007 e il 2012 per indicare zone dove il diritto è assente, fortemente caratterizzate dalla delinquenza. L’uso del termine è stato spesso criticato in Francia, specie a confronto con la situazione delle città statunitensi, contraddistinte da un livello di segregazione etnica significativamente superiore. Tuttavia, la pubblicazione nel 2008 di Ghetto urbain di Didier Lapeyronnie ha sconvolto le convinzioni della sociologia francese, mostrando la natura di “contro-società” delle banlieue e l’esistenza di frontiere invisibili in seno alle città francesi.

Scriveva Louis Wirth, uno dei sociologi della scuola di Chicago, nel 1928: «Se conosciamo l’intera biografia di un individuo collocato nel suo contesto sociale, probabilmente conosceremo la maggior parte di ciò che val la pena di essere conosciuto sulla vita sociale e sulla natura umana. Se conoscessimo l’intera storia del ghetto, il sociologo disporrebbe di un esemplare da laboratorio che incarna tutti i concetti e i processi del suo vocabolario professionale». Per Wirth studiare il ghetto significa comprendere gli effetti dell’isolamento, e più precisamente del «tipo di isolamento prodotto dalla mancanza di inter-comunicazione che deriva dalla differenza di lingua, di costumi, di tradizioni e di forme sociali. Il ghetto, come lo abbiamo considerato, non è tanto un fatto fisico, quanto una forma mentis».

Per la Francia la questione banlieue sembra ormai coincidere con «l’apartheid territoriale, sociale ed etnica» di cui parla Valls. Il termine apartheid indica apertamente il concetto di segregazione ed evoca il fallimento delle politiche urbane degli ultimi decenni. Non è stata solo la crisi ad aver segnato un indebolimento dell’azione pubblica, in particolare nei settori degli alloggi, dell'istruzione e del lavoro: utilizzandolo, si sottolinea quanto ci sia stato di deliberato nell’aver segregato i poveri ai margini della città e nell’averli esclusi da un concetto di cittadinanza che si applica solo entro i suoi confini storici, quelli che a Parigi, ad esempio, sono ancora segnati dall’antico sedime delle mura sulle quali è sorto il Boulevard Périphérique.

Questo anello stradale di scorrimento del traffico veicolare, costruito a partire dal 1956 sul tracciato dell’ultima cerchia di fortificazioni a ridosso della quale il Barone Haussmann aveva portato i confini comunali, è ancora il confine tra città e banlieue. Anche se la costruzione del raccordo anulare era inserita in una visione più complessa della Grande Parigi, nella quale l’integrazione del verde urbano, del sistema di trasporto pubblico e degli insediamenti residenziali pianificati doveva servire a contrastare la crescita suburbana disordinata, al di là del Périph’ la banlieue parigina dei grandi complessi di edilizia popolare e delle ville nouvelle non ha saputo integrarsi con la città in un conseguente disegno metropolitano.

La storia del ghetto come dispositivo dell’isolamento, che secondo Wirth rappresenta «uno specifico ordine sociale», ha quindi ancora molto da raccontare a proposito delle periferie, indipendentemente dalle loro caratteristiche spaziali. Queste ultime - Valls fa bene a ricordarlo - per troppo tempo sono state l’unico oggetto delle politiche d’intervento. Le parole del primo ministro francese dovrebbero dire qualcosa anche a noi in Italia, dove sulla questione periferie sembra abbia voce in capitolo solo qualche archistar.

D’altra parte la tendenza a ridurre il problema della marginalità sociale ad un uso più o meno sapiente dell’architettura a servizio delle politiche urbane sembra accomunare i due paesi divisi dalle Alpi. Ne è una dimostrazione la recente costruzione della Philharmonie di Parigi, la sala da concerti progettata da Jean Nouvel ai margini del Parc de la Villette sul confine nord-orientali della città, in quello stesso 19° Arrondissement dove sono cresciuti i due fratelli attentatori di Charlie Hebdo. Presentare l’opera dell’archistar di turno come un ponte per l’integrazione culturale e sociale della banlieue, che sta dall’altro lato dell’autostrada urbana, vuol dire ancora una volta ignorare le responsabilità che anche gli architetti hanno avuto nella costruzione di un’idea antropologica di periferia come concentrato – ci ricorda Valls - della «miseria sociale, alla quale si aggiunge quotidianamente la discriminazione per non avere il cognome o il colore della pelle giusti o perché si è donna».

Riferimenti

Si veda su eddyburg di Antonietta Mazzette La violenza nelle periferie, di Enzo Scandurra Cosa accade nelle nostre periferie malate?, di Goffredo Buccini «Nelle periferie non luoghi la politica dimentica la gente»,
Le Monde, Manuel Valls évoque « un apartheid territorial, social, ethnique » en France, 20 gennaio 2015. L. Bronner, L’«apartheid» en France? Pourquoi les mots de Manuel Valls marquent une rupture, Le Monde, 21 gennaio 2015, L. Wirth, Il ghetto. Il funzionamento sociale della segregazione, Milano, Res Gestae, 2014. Sulla vicenda della Philharmonie di Parigi si veda, M. Barzi, Musica, architettura e periferia, Millennio Urbano, 17 gennaio 2015.

Scopo di questo intervento è quello di offrire a quanti si occupano di città da diversi punti di vista – quello dell’architettura e dell’urbanistica, delle scienze geografiche e del territorio, delle scienze umane e sociali – un’ulteriore prospettiva da integrare nello studio della città: quella della sua dimensione politica.[1]

1.La dimensione politica della città: da recuperare.

Quando parliamo di “politica delle città” vogliamo mettere l’accento su un contenuto diverso da quello incorporato in espressioni apparentemente sinonime, quali “politica della città” (quella che i francesi chiamano la politique de la ville), o “politiche urbane”. Nella prima espressione la città si configura come oggetto di politiche pubbliche; nella seconda espressione tali politiche si intendono prevalentemente limitate alle questioni di “assetto del territorio”. “Politica delle città” è invece da intendersi come l’agire di un soggetto, anzi di una pluralità di soggetti politici quali sono oggi (nuovamente) le città.

Al soggetto politico per eccellenza della modernità – lo stato – vengono attribuite tre dimensioni costitutive: quella del territorio, quella della popolazione e quella della sovranità. Ebbene, possiamo oggi riconoscere alla città tre dimensioni analoghe: esse incorporano un territorio, da una popolazione di cittadini (la civitas), e – se non la sovranità – la capacità di configurarsi come attore politico unitario nelle relazioni orizzontali e verticali con altre istituzioni e altri soggetti politici.

La teoria politica individua poi, accanto alla dimensione strutturale del politico, una dimensione dell’agire politico identificato, nell’ottica prevalente come esercizio del potere ma più anticamente, cioè da Aristotile, inteso come capacità di agire collettivo per il bene comune (Arendt 1958). Ebbene, anche questi due aspetti appartengono oggi all’agire delle città.

Pensare e studiare la città, oggi, significa quindi recuperare la consapevolezza, ed insieme il lessico, i concetti e i contenuti che possano dar conto di questa intrinseca politicità delle città. E’ quanto si cerca di fare qui, attraverso una serie di parole-chiave.

2.Il rapporto tra “urbs” e “civitas”: da integrare.

Dai Romani abbiamo ereditato la distinzione tra urbs (termine di origine presumibilmente etrusca) e civitas. Il primo termine designa la forma fisica, materiale e anche culturale della città: quegli aspetti a cui rinvia non solo la nozione di “urbanistica” ma anche quella di “urbano” nell’accezione già presente nel latino urbanus, “della città”, da cui “fine, raffinato” (Benveniste 1969). Il secondo il secondo designa l’insieme dei cittadini (civis) come associazione costitutiva della civitas communis, la cittadinanza in quanto comunità costituita su base associativa. In un certo senso sono i cittadini che costituiscono la città.

Se riduciamo urbs e civitas a “territorio” e “abitanti” riduciamo la città a unità amministrativa. In un certo senso, è naturalmente proprio questo che è avvenuto con i processi di formazione dei moderni stati-nazione in Europa. Ma in modi diversi, con tempi diversi da stato a stato, e soprattutto fino a un certo punto..In Europa (continentale) le città hanno sempre mantenuto in qualche misura, nella forma fisica, nei riconoscimenti giuridici e in quell’insime di tradizioni culturali e pratiche condivise che vanno sotto il nome di “capitale sociale” la memoria e le tracce di quella “tradizione civica” propria dei liberi comuni medievali (Putnam 1993). Hanno mantenuto una dimensione politica il cui fulcro è costituito dal “comune” che ritroviamo in tutta Europa come istituzione politica che si governa con organi eletti a suffragio universale e “cellula base della democrazia”. Nello scenario disegnato dai processi di globalizzazione e di unificazione europea il tenore di politicità delle città si trova rafforzato e insieme sottoposto ad una serie di tensioni tra la dimensione politica e quella amministrativa.

Il primo elemento di tensione sta nel rapporto tra l’idea di “città” – un concetto privo di riconoscimenti giuridici formali e istituzionali – e la realtà odierna del “comune” come entità amministrativa. Tale tensione si manifesta intorno al concetto squisitamente politico di “confine”. I confini dello stato sono certi (e “sacri”), difendibili con l’uso della “violenza legittima”. I confini della città sono mobili, incerti, transeunti. Le architetture istituzionali e amministrative nella migliore delle ipotesi si affannano a rincorrere lo sviluppo delle città e a riflettere, nella città “legale”, l’esperienza urbana della città “reale”; nella peggiore delle ipotesi seguono logiche razionalizzatrici o logiche di interessi del tutto avulsi da tale esperienza. Ciò avviene in quanto la città non è solo urbs, ovvero sviluppo di edifici e infrastrutture, ma anche civitas, tessuto formato dalle pratiche e dalle rappresentazioni dei suoi abitanti.

Il secondo elemento di tensione si dà nella relazione tra l’appartenenza territoriale come fonte di diritti (entitlements) politici e sociali mediati dal concetto amministrativo di “residenza” e la concreta esperienza dell’urbano di gruppi e popolazioni fatti di nativi e migranti, stabili e provvisori, che praticano lo spazio urbano secondo diverse modalità di intenti e sono portatori di diverse rappresentazioni di esso (luogo di abitazione, di lavoro, di divertimento, di conoscenza, di espereinze culturali, sociali ed estetiche), ed i cui entitlements si combianano variamente con altri derivanti da altre appartenenze (nazionali, europee, extracomunitarie) e da una varietà di stati giuridici che nella nostra civiltà sono certificati da documenti amministrativi lungo un continuum che va da un massimo di diritti (“cittadinanza” – nazionale, europea) a diritti più deboli e precari (“permessi” – di soggiorno, lavoro, ecc.) fino alla loro assenza totale nel caso in cui un individuo non abbia nemmeno uno straccio di documento (il “sans papiers”, appunto). Le città si confrontano oggi con il compito squisitamente politico di definire e concedere una vastissima gamma di concreti diritti (alla casa, l’incolumità personale e dei beni, le cure mediche, l’istruzione di base, l’accesso allo spazio pubblico, la libertà religiosa) ad una molteplicità di popolazioni portatrici di entitlements diversificati. Si misurano cioè con il compito quotidiano di definire legalmente la civitas nella cornice dell’urbs che status legale non possiede.

Il terzo elemento di tensione sta nella rappresentazione della città come “territorio” e la sua rappresentazione come “spazio”. Il concetto politico di “territorio” mutuato dalla definizione dello stato è concetto bidimensionale: la superficie e i confini che la delimitano sono condizioni necessarie e sufficenti a configurare uno degli elementi definitori dello stato. Il territorio che definisce la città (l’urbs) incorpora invece anche un terza dimensione, quella dei volumi, dei pieni e dei vuoti, degli usi pubblici e privati e della loro definizione istituzionale: esso è, propriamente, “spazio”. Il diritto delle città non è solo diritto del territorio ma diritto dello spazio, nella sua dimensione, estetica, relazionale, di patrimonio collettivo e simbolico. O meglio, dovrebbe essere “diritto dello spazio” – diritto dell’ordine visuale, diritto dell’ordine simbolico, diritto dell’ordine delle relazioni sociali – ma di fatto il territorio urbano viene trattato perlopiù come una sequenza di diritti di superficie, ignorando largamente il carattere costitutivo che assume per la città lo spazio in quanto concetto tridimensionale.

3. La teoria politica della città: da ricostruire.

L’integrazione di queste dimensioni richiede il misurarsi con la ricostruzione di una teoria politica della città. Mentre infatti “città” è parola chiave del pensiero politico occidentale nell’antichità e nel Medio Evo, il concetto è successivamentre pressoché scomparso dalla teoria politica. Nel pensiero del Novecento una vera e propria teoria politica della città si trova soltanto nel saggio di Max Weber sulla città occidentale (1920), incentrato sul comune medievale come “Tipologia del potere non legittimo” e in quello di Hannah Arendt centrato sull’esperienza della polis greca e del suo modo di intendere l’agire politico come paradigma della vita activa e della costituzione di senso della condizione umana. Se per Weber il carattere politico della città occidentale è radicato nell’origine del libero comune in un atto di “usurpazione” del potere signorile che inzia con il “giuramento di affratellamento dei cittadini in armi” (la coniuratio) – e quindi in una nascita del potere “dal basso” diremmo oggi – per la Arendt l’atto politico per eccellenza come lo intendevano i Greci era il raduno dei cittadini la cui cerchia costituisce quello spazio pubblico a cui la polis si limita a dare stabilità nel tempo con la sua forma fisica: le mura che la circondano e l’agorà al centro.

Al di fuori di questi due autori, l’oggetto città si è venuto frantumando in una serie di discipline accademiche che ne hanno esplorato aspetti parziali: la sociologia ha esplorato la stratificazione, il potere e il conflitto sociale, le scienze del territorio si sono occupate della forma urbis, più tardi le scienze politiche, staccatesi dalla matrice sociologica e affrancatesi dalla tradizione giuridica ne hanno messo a fuoco le architetture istituzionali e le modalità di governo e di produzione delle politiche pubbliche, mentre la tradizione giuridico-amministrativa continua ad esercitare la sua influenza sullo studio del governo locale nonché su quello dell’urbanistica che non dispone in Italia di una vera e propria tradizione di town planning. Vanno inoltre ricordati gli studi storici i quali, avendo per oggetto la città dei tempi della sua autonomia politica, presentano un carattere di sorprendente attualità per comprendere la città di oggi, ed hanno ispirato studi come quello di Pichierri (1997) sulle Lega anseatica, mentre il filone di studi sulle città nella globalizzazione si concentra essenzialmente sulla dimensione economica e sociale (Sassen). .

Solo recentemente, e in connessione con i processi di globalizzazione, di integrazione europea e di decentramento che tutti hanno contribuito all’indebolimento dello stato-nazione come soggetto politico per eccellenza, una serie di studi si sono orientati ad integrare le dimensioni dell’urbs e della civitas con elementi più specificamente politici. Il richiamo più esplicito alla dimensione politica della città è collegato allo studio delle relazioni esterne, “intergovernative” e interistituzionali: si è incominciato a teorizzare l’esistenza di una “politica estera delle città” e di una “paradiplomazia” o “diplomazia dal basso”. Per quanto riguarda le relazioni interne alla città, invece, la dimensione politica emerge dagli studi dedicati alla questione della “democrazia urbana”, ovvero dei nuovi termini in cui si configura la partecipazione dei cittadini al governo della città attraverso forme di “pubblica deliberazione” e di “democrazia diretta”

In questo contesto.si sono avuti – a livello empirico piuttosto che a livello di riflessione teorica – degli sviluppi in direzione di una integrazione dei contenuti dei due grandi settori che tradizionalmente caratterizzano l’autogoverno urbano, ovvero quello dell’assetto del territorio e quello delle politiche sociali. Mentre infatti le scienze urbanistiche e quelle politiche faticano ancora alquanto a dialogare tra di loro, ciascuna arroccata nei propri linguaggi e rinunciando a confrontarsi con quello che viene percepito rispettivamente come un incomunicabile prevalere di contenuti tecnici o di astrazioni formali, parallellamente si sono andate sviluppando forme di partecipazione dei cittadini diverse da quelle tradizionali che si reggevano sui due pilastri dell’esercizio del voto e della vita partitica. Ambedue questi sviluppi, peraltro, per quanto nuovi nel contesto dell’Europa continentale, riflettono istituzioni e pratiche da tempo e storicamente radicate nei paesi a tradizione anglo-sassone e la loro importazione nel contesto continentale è stata largamente il prodotto dei processi di integrazione europea. Questo processo di importazione ha portato ad una rapida diffusione non solo di pratiche ma di concetti e lessici radicati in quella tradizione ma la mancata costituzione di una teoria politica della città – e quindi di un’analisi della “politica delle città” – ha finito per ingenerare insieme una confusione concettuale e un’adesione acritica a determinati modelli la cui efficacia si dispiega al meglio in un ben diverso contesto istituzionale e culturale.

Due punti in particolare evidenziano queste carenze: da un lato il dialogo ancora difficile tra scienze politiche e discipline urbanistiche, dall’altro una teoria del potere e dell’agire politico riferite alla città come soggetto politico. Da qui scaturiscono alcuni nodi il cui chiarimento può dar conto dei modi concreti di funzionamento della città come polis e di alcuni suoi aspetti problematici.

4. La città come polis: i modi di esercizio del potere.

Agire politico, secondo le definizioni correnti, significa esercizio del potere (o lotta per la conquista del potere). Tre modalità caratterizzano l’esercizio del potere politico da parte delle città, differenziandolo da quello dello stato.

In primo luogo, le città esercitano al contempo funzioni politiche proprie e funzioni amministrative delegate. Per quanto nelle modalità di esercizio concreto della funzione di governo attività politica e amministrativa siano così strettamente intrecciate da renbdere illusoria la distinzione delle funzioni (come purtroppo pretende di fare il nostro ordinamento riformato del governo locale con esiti che vanno più in direzione dell’ambiguità che della trasparenza e dell’efficienza) è tuttavia fondamentale ricordare che alla base dell’agire politico si dà la legittimità che in democrazia deriva dalla rappresentanza elettiva. Un ampio decentramento di compiti amministrativi – come è avvenuto negli ultimi anni, in particolare in materia di welfare – non va confuso con il decentramento politico, per esempio con la capacità di scegliere i contenuti minimi e irrinunciabili dei diritti di cittadinanza locale. A fronte del crescente processo di “iperlocalizzazione del sociale” – vale a dire del compito di cui si sono trovate investite le città di fronteggiare la vasta gamma di disuguaglianze, disagi e conflitti sociali a cui lo stato non riesce più a far fronte – le città hanno risposto con molteplici forme di bricolage istituzionale, ovvero dando risposte differenziate e frammentarie per via amministrativa e pattizia (inn particoloare con il terzo settore). Caratteristica è la grande gamma di modalità con cui viene data risposta al nuovo quadro sociale che si configura con i processi migratori, mentre i tentativi di dare un risposta politica attraverso la concessione del voto agli immigrati si sono infranti contro i pareri negativi del Consiglio di stato.

In secondo luogo, mentre lo stato si avvale, per l’esercizio del potere, dello strumento principe della legge, questo non vale per le città. Dalla legge esse ricevono da un lato riconoscimenti giuridici formali, a cominciare da quelli iscritti, in alcuni paesi come l’Italia ma non in tutti, nella Costituzione. La legge rappresenta in questo caso il fondamento e la tutela delle prerogative politiche delle città. ma la legge rappresenta anche la cornice entro la quale le città debbono esercitare la loro azione di governo: in questo senso essa costituisce altresì un sistema di vincoli formali. E’ tuttavia un errore ridurre l’agire politico delle città al quadro delineato dalle tutele e dai vincoli legali. Innanzitutto la capacità di influenza politica delle città dipende anche da altri fattori: le relazioni che intrattiene con altri livelli di governo, i caratteri delle elites urbane, la capacità di creare reti a livello nazionale e transnazionale, le opportunità di reperire risorse extra-fiscali. In altri termini, status legale e status politico delle città non vanno necessariamente di pari passo (Bobbio 2002). Inoltre l’agire politico non si limita al rispetto delle prescrizioni e dei vincoli di legge: le città sono venute scoprendo che, in molti casi, esse possono fare altresì tutto ciò che la legge non vieta.

Le città sono venute così esplicitando, portando alla luce, e proponendo come modalità di esercizio del potere, cioè di governo, tutti quei processi di consultazione, mobilitazione, facilitazione, incentivazione e negoziazione tra attori sociali e istituzionali che da sempre sono insiti nel processo di produzione di politiche pubbliche. Tali processi sono stati potenziati e talvolta istituzionalizzati (si pensi alla cosiddetta “pianificazione strategica”). Insomma il processo di “governance”, da concetto descrittivo delle modalità concrete di esercizio del potere, è venuto acquisendo man mano un significato più normativo, ovvero quello di modalità “buona” di governo, contrapposta a modalità rigidamente limitate alle prescrizioni e ai vincoli formali e istituzionali. L’entusiasmo per la “governance” ha tuttavia finito per lasciare in ombra gli aspetti più problematici di questa forma di governo: l’inevitabile privilegiamento delgli attori più forti, l’indebolimento della funzione inclusiva della rappresentanza democratica, le distorisioni equamente attribuibili alla carenza dei processi comunicativi e all’influenza di quelli mediatici.

Particolarmente problematica si configura, in questo contesto, la questione della “partecipazione” dei cittadini alla produzione di politiche pubbliche. Teoricamente, le nuove forme di partecipazione alla produzione di politiche pubbliche e ai processi decsionali, non iscritte nelle procedure formali (quali il voto o il referendum) andrebbero iscritte nel concetto di governance sopra definito, cioè in un sistema di mobilitazione, ascolto, accordi basati su libere pattuizioni secondo procedure che si richiamano a quelle antiche della democrazia “diretta” e “deliberativa”. Di fatto, vediamo come, a livello empirico, il concetto di “partecipazione” si sia venuto divaricando da quello di “governance”. Possiamo dire che la metafora del primo è quella del “percorso” messo a punto dalle istituzioni per sollecitare un contributo “dal basso” al processo decisionale, entro limiti, vincoli e procedure stabiliti “dall’alto”, mentre la metafora del secondo è quella del “tavolo” a cui si partecipa per inviti, tanto più pressanti quanto più gli attori dispongano di risorse in cui primeggiano quelle economiche. Nel primo caso si partecipa prevalentemente come individui mentre nel secondo siedono soprattutto attori collettivi – e se non vi è dubbio che in base al moderno concetto di democrazia la prima forma di partecipazione dovrebbe essere quella più importanter, nei fatti avviene spesso l’inverso. Ma soprattutto è significativo – come sa chiunque abbia seguito “tavoli” e “percorsi” – che i partecipanti ai primi raramente si vedano ai secondi, e viceversa.

Elemento non secondario di queste ambiguità è la nuova designazione invalsa, per i soggetti singoli o associati coinvolti nei processi decisionali e nella produzione di politiche pubbliche, di “società civile”. Se in passato era considerato “agire politico” non solo quello dei militanti di partito ma altresì quello dei “simpatizzanti”, dei gruppi e movimenti spontanei quali i “comitati”, e financo dei lettori e fruitori attivi di informazione politica fino ai semplici elettori, oggi questi attori sono stati espropriati dell’attributo di “politici” e classificati come “società civile” in contrapposizione a quella politica.

Infine, più autori hanno evidenziato come queste nuove modalità dell’esercizio del potere presuppongano una nozione tutt’altro che pacifica delle città come attore collettivo (Le Galès 1993). Parlare di “politica delle città” significa pensare alle città, in analogia agli stati, come soggetti che esprimono una rappresentanza unitaria a base democratica, caratterizzati da una autorappresentazione collettiva di interessi comuni e da un sistema di decisione collettiva e capacio di interagire in questa veste con altri soggetti politici. Questa concezione della città non può essere assunta come dato, senzza espungere i conflitti di interesse e le relazioni di potere che attraversano la città stessa. Per giungere a configurare una “politica delle città” che non si configuri semplicemente come sistema di potere, occorre riferirsi ad un’altra nozione di politica, quella di agire per la definizione collettiva del bene comune.

5. La città come polis: la definizione del bene comune.

Questa nozione di politica si richiama a quella che, secondo la Arendt, era quella nella quale si identificava la polis greca. Alla base di una politica delle città, e dentro a questa nozione, vanno dunque incluse quelle modalità di agire collettivo, radicate nella sfera pubblica - la Oeffentlichkeit di Habermas (1962), attraverso i quali una collettività definisce i propri interessi comuni, le proprie relazioni interne, e una visione condivisa del proprio patrimonio e delle proprie direzioni di sviluppo.

La definizione del “bene comune”- come presupposto indispensabile per una coerente produzione di politiche pubbliche – è chiamata oggi a misurarsi con almeno tra grandi temi. Il primo è quello di una visione condivisa del territorio in termini di confini e dimensioni, rapporto città-campagna, relazioni tra centro e periferia, mono- o policentrismo, nozione di quartiere e di habitat, nozione di pubblico e privato, quadri e capacità del muoversi, ordine visuale e fruizione estetica e culturale - vale a dire il territorio come luogo concreto del vivere e luogo di autorealizzazione e di “vita buona”. Una definizione siffatta del territorio è ancora troppo lontana dai linguaggi dominanti della pianificazione come da quelli dell’analisi politica. Essa presuppone unn riferimento alla città come “cornice di senso” dell’esistenza.

Il secondo tema è quello della definizione della cittadinanza. Oltre ai contenuti più propriamente politici di cui si è già detto, esso richiede una nuova sensibilità al concetto di “tessuto urbano”, concetto su cui convergono le azioni della pianficazione urbana, dell’analisi e dell’intervento sociale e dell’idea politica di città. Attenzione al tessuto urbano come bene comune richiederebbe, tra l’altro, un ripensamento dell’organizzazione politico-amministrativa del governo delle città ancora largamente strutturata sulla separazione (derivante dall’organizzazione dello stato) tra “gente” e “luoghi”, sistematicamente oggetto di sfere di “competenza” diverse e non integrate.

Il terzo tema è quello della definizione di una “visione” della città in cui iscrivere progetti di sviluppo. Una “visione” non va confusa con la retorica e nemmeno con il buon senso (le due modalità con le quali si costruiscono di solito i programmi elettorali). Una visione della città è una costruzione collettiva di cui va esplicitata tanto la dimensione dell’agire collettivo quanto l’ineludibile dimensione del conflitto. Essa non può che essere il prodotto della sfera pubblica e la sfera pubblica non può nascere dall’alto: compito delle istituzioni è caso mai quello di produrre quelle infrastrutture che ne sono l’indipensabile supporto, vale a dire lo spazio pubblico.

Riferimenti bibliografici

Arendt, H. [1958], The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press; trad. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964.

Benveniste, E. [1969], Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, Les Editions de Minuit, trad. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, Torino, Einaudi, 1976.

Bobbio, L., [2002], I governi locali nelle democrazie contemporanee, Roma, Laterza.

Habermas, J. [1962], Strukturwandel der Oeffentlichkeit, Neuwied, Hermann Luchterhand Verlag; trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza, 1988.

Le Galès, P., [2003], Le retour des villes européennes, Paris, Presses de Sciences Po.

Picchierri A., [1997], Città stato. Economia e politica del modello anseatico, Marsilio, Venezia.

Putnam, R. [1993], Making Democracy Work, Princeton University Press; trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993.

Sassen S., [1994], Cities in a World Economy, trad it. Le città nell’economia globale, Bologna, Il Mulino, 1997.

Weber M. [1920], Die Stadt, in Archiv fuer Sozialwissenschaft und Sozialpolitik XLVII, 621-772; trad. it. in Economia e società, 2 voll., Milano, Comunità, 1961, vol. II, cap. 9, sez. VII, pp. 530-669.

[1] Riprendo qui una serie di temi che ho sviluppato nel volume La politica delle città (Il Mulino, 2007).

C’è stato un momento nella storia politica e culturale milanese del Novecento nel quale è sembrato possibile pianificare un assetto urbanistico per la Milano del nuovo millennio che avrebbe dato vita a una città molto diversa da quella che oggi conosciamo. Sono gli anni di ascesa del regime, soprattutto quelli che coincidono con l’arrivo a palazzo Marino di «un giovane tecnico - scrive Paolo Mezzanotte a metà degli anni venti - di ammirevole attività e di intelligenza fuori dal comune». Stiamo parlando di Cesare Chiodi, assessore all’edilizia tra il 1922 e il 1925, e del sogno tenacemente perseguito di una città policentrica.

Conclusa l’esperienza amministrativa, l’ingegnere liberale nato e vissuto a Milano tra il 1885 e il 1969 partecipa con Giuseppe Merlo e Giovanni Brazzola al Concorso nazionale per lo studio di un progetto di piano regolatore e d’ampliamento per la città di Milano del 1926-27: «il più importante [...] che si sia stato bandito» in Italia afferma orgogliosamente Ernesto Belloni che dell’intera operazione è il timoniere prima come commissario prefettizio, poi come podestà di Milano. In questa occasione le diverse anime dell’architettura e dell’urbanistica milanesi si trovano a confronto: quella di Piero Portaluppi e Marco Semenza, quella di un nutrito gruppo di architetti riuniti nel Club degli urbanisti (Alberto Alpago Novello, Tomaso Buzzi, Ottavio Cabiati, Giuseppe de Finetti, Guido Ferrazza, Ambrogio Gadola, Emilio Lancia, Michele Marelli, Alessandro Minali, Giovanni Muzio, Pietro Palumbo, Gio Ponti e Ferdinando Reggiori) e quella di Chiodi, Merlo e Brazzola che tramutano in disegno urbano la speranza di una Milano policentrica con un progetto - contrassegnato con il motto Nihil sine studio 2000 - che appare come la sintesi di una vicenda complessa: quella della genesi di un’idea di città e di progetto urbano nati in un momento di profonda inadeguatezza degli strumenti operativi e concettuali di pianificazione rispetto ai gravosi compiti a cui erano chiamati.

Il progetto, che risulterà terzo classificato, è composto da ventisette tavole [1] e una relazione. Se si escludono gli studi e le tavole preparatorie conservate dall’Archivio Cesare Chiodi del Politecnico di Milano, degli elaborati grafici presentati al concorso non sembra esservi più traccia negli archivi milanesi. L’Archivio Storico Civico del Comune di Milano conserva invece la relazione in più copie e in due versioni, identiche nei contenuti, ma diverse nell’impaginato. La prima è un dattiloscritto, con alcuni titoli e correzioni manoscritti, fascicolato, con copertina, di 123 pagine. La seconda è un dattiloscritto ciclostilato, fascicolato, di 93 pagine, realizzato probabilmente sia per uso dei singoli commissari, sia per l’esposizione al pubblico del progetto alla Fiera di Milano nel 1927.

Oltre a una lunga premessa - che riporta dati statistici demografici e i «limiti di studio del nuovo piano di ampliamento nei riguardi dell’accrescimento della popolazione» - la relazione, datata «aprile 1927», si articola in tre parti che da un lato ripropongono la dicotomia, anticipata dal bando di concorso, fra città storica e nuova espansione, dall’altro collocano il progetto urbano in una dimensione che comprende la gestione dei processi di costruzione della città segnando il momento di passaggio tra piano figurato ottocentesco e moderno strumento di amministrazione territoriale. Le dimensioni e i contenuti del testo consentono di ipotizzare che non si tratta semplicemente di un elaborato progettuale. Questo scritto, infatti, non contiene solo la descrizione e le motivazioni delle scelte adottate dagli autori nel piano per Milano, ma si configura come una sintesi delle migliori pratiche urbanistiche conosciute fino a quel momento, una sorta di anticipazione di quella tecnica urbanistica che Chiodi metterà a punto compiutamente, meno di dieci anni dopo, nel manuale La città moderna edito da Hoepli nel 1935. Il concorso per il piano regolatore di Milano, per la sua prevedibile visibilità sia tra gli addetti ai lavori sia tra il grande pubblico, sembra cioè essere utilizzato strumentalmente dai progettisti per diffondere una nuova « coscienza urbanistica che - afferma Chiodi nel 1926 - faccia più ardito il legislatore, più agguerrito il tecnico, più preveggente e sorretto l’amministratore, più illuminato lo speculatore nella ricerca dell’ ubi consistam comune per il maggior decoro delle [...] città e per il maggior benessere dei [...] concittadini».

Renzo Riboldazzi (rielaborazione dai paragrafi introduttivi a Una Città Policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo, Polipress, 2008)

[1] 1. Milano nel 1801; 2. Milano nel 1859; 3. Milano nel 1900; 4. Milano nel 1926; 5. Milano nel 2000; 6. Diagrammi dell’incremento della fabbricazione e della popolazione cittadina; 7. Studio generale del piano di ampliamento; 8. Densità della popolazione nelle zone della città futura; 9. Schema delle zone edificatorie nei nuovi nuclei suburbani; 10. Zone industriali e impianti ferroviari; 11. Sistema dei parchi e delle zone a fabbricazione estensiva; 12. Sistemazione della zona di Gorla-Precotto-Crescenzago; 13. Sistemazione della zona di Affori-Niguarda; 14. Schema delle radiali di grande comunicazione col contado; 15. Grandi radiali extraurbane ed anello esterno; 16. Futuro centro di Milano e rete di collegamento coi nuclei periferici; 17. Statistica del traffico tranviario; 18. Statistica del carreggio; 19. Rete dei mezzi di trasporto; 20. Rete dei mezzi di trasporto nella zona centrale; 21. Sistemazione stradale interna; 22. Rete stradale della zona interna; 23. Varianti al piano regolatore della zona interna; 24. Problemi edilizi particolari; 25. Problemi edilizi della zona interna; 26. Sezioni stradali del centro; 27. Sezioni stradali della periferia.

Nihil Sine Studio 2000

[…] Criteri generali di estensione del piano urbano

Opportunamente fu già acquisito alle direttive della amministrazione cittadina e viene riconfermato dallo stesso bando di concorso che l’accrescimento cittadino non debba effettuarsi con legge monocentrica, ma debba al contrario seguire un indirizzo policentrico, nel senso di limitare volutamente lo sviluppo dell’aggregato principale cittadino per dar vita a villaggi, o sobborghi, o città satellite, cioè ad enti compiutamente organizzati in ogni loro servizio e capaci di vita relativamente autonoma, opportunamente distribuiti all’intorno della zona di influenza della città originaria, cinti da spazi liberi e convenientemente collegati da poche buone arterie col centro principale e fra di loro. I margini del piano di ampliamento del 1912 dovrebbero a nostro avviso costituire gli estremi limiti non oltrepassabili della espansione monocentrica della città. Entro questi limiti, che approssimativamente coincidono con quelli della linea daziaria del 1921, sono oggi ospitati circa 680.000 abitanti (censimento 1921). La densità di sfruttamento assegnata alla parte tuttora fabbricabile coi criteri precedentemente indicati permette di prevedere un incremento di popolazione per questa zona di circa 375.000 [unità] portando a poco più di un milione gli abitanti del nucleo urbano principale, cifra già notevolmente elevata. Fuori di questi limiti si tratta di disporre col nuovo piano di ampliamento lo spazio necessario per circa un altro milione di abitanti ed è appunto a questa parte della città che possono applicarsi quelle nuove direttive di sviluppo urbano che valgono ad arginare lo sviluppo monocentrico della città. Da qui crediamo utile iniziare il nostro studio perché dal diverso gravitare dei nuovi nuclei satellite intorno al nucleo principale ne risultano notevolmente influenzate anche le condizioni di questo. A base del nostro studio sta il concetto che l’ulteriore sviluppo della città non avvenga per espansione isotropa ed uniforme del consueto schema a scacchiere o ragnatela, ma dia invece luogo ad un processo di differenziazione per generazione intorno al nucleo centrale di minori unità satellite che, pur nel quadro generale di una comune organizzazione, conservino spiccate caratteristiche proprie. La città non dovrà espandersi a caso ed uniformemente intorno alla periferia bensì mediante l’aggregazione di nuclei ben disegnati, definiti e delimitati (che saranno secondo i casi sobborghi industriali o residenziali, città giardino, quartieri operai) ognuno dei quali dovrà avere dimensioni appropriate, essere provvisto di quanto occorre alla vita giornaliera per il lavoro, la ricreazione, la coltura, contare su adeguati spazi liberi, elemento essenziale della città moderna non meno che le case e le strade.

I rilievi demografici riportati dimostrano come enormemente irregolare, per importanza e per posizione, sia la distribuzione attuale degli aggregati suburbani intorno alla città. Lo sviluppo edilizio e demografico suburbano è infatti prevalente ed ormai a contatto della città del quadrante settentrionale (Musocco, Affori, Niguarda, Greco, Gorla, Precotto, Crescenzago), è più scarso e lontano a ponente (Baggio e Corsico) ed a levante (Lambrate e Rogoredo), quasi nullo a mezzodì (Vigentino e Chiaravalle). Questa situazione di fatto attuale, che risponde anche a naturali condizioni di ambiente, non può essere senza influenza sullo sviluppo futuro. Sarebbe contrario alla logica di tracciare un piano di ampliamento che, a somiglianza dei precedenti, si estendesse con uniforme scacchiera in ogni direzione. Più opportunamente e con sicura economia di mezzi deve concentrarsi in determinati punti intorno ai più importanti nuclei suburbani e lungo le direttrici delle grandi radiali esterne lo sviluppo della rete stradale e dei servizi pubblici ed ordinarsi la fabbricazione. Una soluzione di questo genere ha anche un suo attraente lato morale in quanto permette di conservare meglio intorno alla città il ricordo e le caratteristiche storiche, artistiche od ambientali dei vecchi villaggi suburbani invece di affogarli nell’uniforme assorbimento entro le maglie della grande città. […] Nelle tavole è accuratamente riportato lo stato attuale della fabbricazione. Fu cura costante nello studio del nuovo piano esterno di rispettare in pieno tutto ciò che esiste, di raccordare la nuova rete di strade alla vecchia, di fare degli edifici o artistici o storici, o comunque di qualche pregio, i punti di riferimento per particolari adattamenti o sistemazioni.

Prima di passare ad un rapido cenno descrittivo dei singoli nuovi gruppi creati crediamo opportuno indicarne le caratteristiche comuni. In generale si è mirato a dare veramente l’impronta di unità autonoma a ciascuno di questi gruppi, creando per ognuno un proprio centro intorno al quale potessero raccogliersi i principali uffici pubblici ed il quartiere commerciale, di disporre intorno a questo i quartieri residenziali a fabbricazione gradatamente sempre più estensiva e di assegnare alle zone marginali in opportuno contatto, o in facile comunicazione colle grandi vie di traffico stradale, ferroviario o per vie d’acqua, i quartieri industriali; il tutto circondato da zone agricole e intramezzato da spazi verdi. Rispetto al centro di ognuna di queste unità satellite si orienta la propria rete stradale: sia quella della grande viabilità, destinata ai collegamenti colla vecchia città, col contado e colle unità satelliti prossime, sia quella della viabilità minore interna. Una disposizione così teoricamente perfetta dal punto di vista edilizio e stradale, non è stata ovunque raggiungibile; ad ogni modo ad essa si è cercato di tendere colla maggiore approssimazione. I gruppi principali creati all’infuori dei limiti del vecchio piano di ampliamento del 1912 sono i seguenti: il quartiere di Lambrate è costituito da due parti quasi distinte, separate fra di loro dal corso del nuovo canale navigabile e dalla zona verde prevista sulle sponde del Lambro. La prima (che racchiude il vecchio abitato del paese) compresa fra il canale navigabile e la nuova stazione ferroviaria ha destinazione prevalentemente industriale, perfettamente rispondente al suo indirizzo attuale ed alla sua vicinanza a così importanti arterie di traffico. La seconda, più orientale e completamente di nuova creazione, ha invece destinazione residenziale, come villaggio operaio in parte a fabbricazione intensiva, in parte a fabbricazione estensiva, destinato a raccogliere la popolazione operaia della vicina zona industriale. Il quartiere di Linate è costituito da un unico agglomerato disposto a cavaliere della grande radiale suburbana dell’est e da questa direttamente collegato alla città, pur essendone materialmente separato dall’ampia zona verde lasciata sui margini del Lambro. Ha destinazione prevalentemente residenziale per la popolazione operaia che gravita intorno ai centri industriali dell’Ortica e della zona del porto. Il quartiere portuale occupa tutto il settore di sud-est della nuova città con caratteristiche nettamente industriali, rete stradale a grandi maglie regolari orientate secondo l’andamento degli impianti portuali e delle tre principali arterie di collegamento colla città: la via Marco Bruto, la nuova sede della strada Paullese ed il corso XXVIII Ottobre. L’abitato di Rogoredo costituisce la zona residenziale, prevalentemente operaia, di questo quartiere. Il quartiere di Vigentino è l’unica prevista espansione della città verso il sud. Le condizioni igieniche meno felici di questo settore della città non consigliano di dare maggior sviluppo alla fabbricazione in questo senso. Il nuovo nucleo principale si estende dalla provinciale Pavese alla Vigentina. Il quartiere di S. Cristoforo ha caratteristiche industriali nella zona che si estende radialmente lungo il Naviglio Grande e la linea ferroviaria ed è invece previsto come grande villaggio operaio nella parte fra la stazione di S. Cristoforo e la piazza d’Armi di Baggio. Le linee del piano regolatore vigente (già in corso di attuazione) limitano notevolmente in questo punto le possibilità di sviluppo di nuove soluzioni. Si è perciò studiato di adattare a quelle la organizzazione generale del quartiere, pure assegnando una impronta più precisa e definita alle sue singole parti. Il grande rettifilo dalla stazione di S. Cristoforo alla piazza d’Armi può costituire il progettato viale delle Milizie, asse del quartiere di caserme e di stabilimenti militari. Il quartiere di Baggio, notevolmente lontano dalla città, ha più caratteristico e spiccato aspetto di unità autonoma. La nuova zona di espansione si stende a ventaglio intorno al vecchio paese che è completamente rispettato nella sua struttura. Il suo nuovo centro viene creato verso la città allo sbocco della grande radiale di congiunzione ed all’incrocio coi collegamenti trasversali con Corsico e Trenno. Intorno al grande piazzale centrale alberato sono previste le zone residenziali; al sud in direzione di Cesano Boscone e Corsico, le zone industriali facilmente raccordabili alla ferrovia di S. Cristoforo. Il quartiere di Trenno costituisce pure una piccola unità autonoma fra il parco dell’Olona e la zona degli ippodromi di destinazione quasi esclusivamente residenziale. Il quartiere di Boldinasco situato allo sbocco in città delle autostrade, percorso da arterie in diretta comunicazione colla Fiera campionaria ed il corso Sempione ed in gran parte costituito da terreni di proprietà comunali, è suscettibile di rapido sviluppo con fabbricazione parte intensiva e parte estensiva. Il quartiere Affori-Niguarda compreso fra la linea delle Ferrovie Nord ed il corso del Seveso presenta qualche difficoltà di sviluppo in parte per la esistenza di importanti nuclei fabbricati, in parte per la progettata costruzione del nuovo ospedale che occuperà una notevole porzione centrale di questa zona. […] Le difficoltà di studio di questo quartiere hanno consigliato di svilupparne la planimetria in scala maggiore. Una nuova arteria radiale parallela alla strada provinciale per Como percorre in direzione da nord-ovest a sud-est il nuovo quartiere tagliandolo in due parti. Quella di ponente, raccordabile alle linee della Ferrovia Nord, si presta ad uno sviluppo industriale; per quella di levante è prevista invece una utilizzazione prevalentemente residenziale. Il quartiere di Greco ha un grande sviluppo longitudinale avendo come direttrice il nuovo vialone per Monza. Sui due margini di questo sorgerano i nuovi quartieri di abitazione; fra questi e la ferrovia si ha invece un’ampia zona che si presta a scopi industriali anche per la vicinanza della nuova stazione di Greco. Il Milanino, colla sua struttura attuale suscettibile di futuri ampliamenti, entra definitivamente coll’estensione del piano di ampliamento a far parte del sistema urbano collegandosi alla città con un ampio viale assiale che si innesta nei pressi della Bicocca al nuovo viale per Monza. Il quartiere Gorla Crescenzago occupa la parte nord-est della città fra la ferrovia per Monza ed il Lambro. Le arterie esistenti del viale Monza e di via Padova costituiscono due situazioni di fatto non suscettibili di ritocchi. Nella zona libera fra le due arterie si è previsto lo sviluppo del nuovo quartiere che ha fra le sue caratteristiche anche il corso della Martesana che si è voluto conservare immutato fiancheggiandolo con zone a verde ed a fabbricazione rada.

Rete stradale

La tendenza decongestionatrice e decentratrice del nucleo urbano, che tende a dar vita ai margini della città ad unità demografiche capaci di un notevole grado di autonomia funzionale, rende necessaria la impostazione del problema stradale con criteri affatto differenti da quelli seguiti nel vecchio piano regolatore. Gli schemi tipici di espansione a scacchiere od a ragnatela orientati rispetto ad un unico centro urbano ed uniformemente distesi tutt’intorno alla città in ogni direzione non hanno più ragione di essere. La rete stradale e dei pubblici servizi inerenti deve disporsi in relazione alle necessità particolari e relative delle zone già designate per il preordinato sviluppo della città. La rivoluzione compiutasi nell’ultimo ventennio nei mezzi di trasporto concorre a modificare le concezioni delle necessità stradali. È notevole, ad esempio, la caratteristica del piano regolatore vigente (1909-12) che, concepito in un’epoca nella quale i mezzi di trasporto erano quasi unicamente monopolizzati dalle ferrovie, si arresta ai margini della città senza preoccuparsi di creare i necessari collegamenti della città col contado, colle fiorenti città e borgate delle provincia – quali Monza, Sesto, Saronno – colle zone industriali del Gallaratese, con quelle agricole della “Bassa”, tutte unicamente congiunte alla città dalle anguste strade provinciali esistenti assolutamente inadeguate ad ospitare il sempre crescente traffico dei mezzi di trasporto automobilistici o le sedi di linee tramviarie foresi.

Al contrario oggi si impone la necessità di considerare, come elemento essenziale nell’ordinato sviluppo della città, i suoi rapporti colla regione che la circonda e di studiare i mezzi più adatti per le comunicazioni extraurbane che hanno influenza grandissima sulla vita demografica ed economica della città. Nel nostro studio noi ci siamo proposti una esatta distinzione fra le arterie di grande traffico e le strade secondarie di puro disimpegno. Alle prime corrispondono tre funzioni essenziali di collegamento: a) quello radiale fra il nucleo centrale e le unità satelliti sia del suburbio, sia della regione, corrispondente alla funzione delle nostre vecchie provinciali; b) quello periferico fra i nuclei satellite fra loro; c) quello interno fra i diversi quartieri di uno stesso nucleo. Le strade secondarie soddisfano invece alle necessità della circolazione locale, al disimpegno delle zone edificatorie, al movimento di cabotaggio entro i ristretti limiti di ciascun quartiere. A funzioni così distinte corrispondono necessità di dimensioni e di sistemazioni affatto diverse. Premettiamo subito che nello studio di un piano così vasto per la cui attuazione si richiederà la vita di alcune generazioni è soprattutto alle arterie di grande traffico che occorre dare ordinamento e disposizione definitiva. Quanto alle arterie secondarie, se pure esse risultano nelle nostre tavole indicate con qualche ricchezza di particolari per quelle zone della città delle quali per le loro più difficili – ed in parte già pregiudicate condizioni edificatorie – abbiamo creduto opportuno sviluppare i piani in iscala più evidente, non è possibile dare a questo nostro studio portata superiore di quella alla quale può onestamente pretendere. Esso va preso quindi come esemplificazione di un indirizzo al quale l’amministrazione può ispirarsi, pur senza escludere che all’atto pratico la rete minuta di lottizzazione abbia a subire qualche ritocco.

Lo scarso assegnamento che si può fare sulle antiche strade provinciali per i collegamenti radiali fra il centro urbano ed i nuclei satellite ed il contado, per essere quelle quasi tutte troppo anguste e già vincolate dalla fabbricazione che si è lasciata sorgere troppo prossima ai loro cigli senza sufficienti zone di rispetto, ha consigliato di iniziare lo studio della rete stradale da quello delle future grandi arterie radiali esterne destinate a sostituirsi alle vecchie provinciali almeno nel tratto più prossimo alla città. Le nuove radiali previste sono le seguenti, iniziando dal settore di nord-est: 1) la radiale Veneta destinata a sostituire la provinciale Veneta nel suo ultimo tratto (attraversamento di Crescenzago e viale Padova). Essa se ne distacca a monte di Vimodrone, si dirige in rettifilo su Lambrate (al Dosso), raccogliendo il traffico di questo nuovo nucleo cittadino, e sottopassa l’argine ferroviario nel punto ove già esiste il cavalcavia, che dovrà essere convenientemente ampliato. Di qui può penetrare in città per due distinte strade, l’una per la via Porpora ed il corso Buenos Ayres, atte a smistare il traffico verso il centro e l’ovest, l’altra per via Pacini e il viale Lombardia, destinate agli allacciamenti col sud. 2) La radiale dell’Est sul prolungamento del corso XXII Marzo, predisposta per ricevere in futuro gli allacciamenti di una eventuale autostrada da Venezia e per collegare colla città il nuovo parco del Lambro, il quartiere di Linate e le provenienze della strada Paullese. Essa sottopasserà il rilevato ferroviario col manufatto già costruito della luce netta di 30 metri e potrà penetrare in città fino a poche centinaia di metri dal Duomo attraverso l'ampio rettifilo del corso XXII Marzo e di porta Vittoria che, in tutto il suo sviluppo di 3 km, ha larghezza sempre prossima ai 30 metri. 3) La radiale Piacentina ha già un buon imbocco in città nel corso XXVIII Ottobre largo, nelle parti sistemate, 50 metri. Più fuori, la copertura del Redefossi assicura alla provinciale Piacentina una larghezza quasi costante di 40 metri ed il cavalcavia di Rogoredo permette di evitare lo sbarramento ferroviario e la strozzatura di Rogoredo. 4) La radiale Vigentina si distacca dalla provinciale attuale a Brandezzate deviando verso ponente fino a raggiungere i pressi della cascina Trebbia. Da qui ripiega a nord e lungo la strada di Morivione, opportunamente allargata a 40 metri, colla copertura del Ticinello, raggiunge i Bastioni e penetra più addentro nella città colla spaziosa via Calatafimi ed il piazzale della Vetra. 5) La radiale Pavese si distacca a Gratosoglio dalla provinciale attuale e piega in rettifilo verso levante, alla cascina Trebbia si congiunge alla radiale Vigentina e con questa penetra in città. 6) La radiale Vigevanese si distacca a Gaggiano sulla sponda sinistra del Naviglio Grande dalla attuale provinciale, passa poco a tramontana di Corsico costituendo l’arteria fondamentale di tutto l’importante quartiere industriale di S. Cristoforo e può penetrare in città attraverso le due vie parallele Solari e Foppa (entrambe di 30 metri di larghezza) e le vie Filangeri ed Olona che a quelle seguono e che sono suscettibili di rettifiche di tracciato. 7) La radiale dell’Ovest si stacca dalla provinciale Vercellese alle Bettole di Figino, ove può ricevere anche l’imbocco dell’autostrada di Torino, passa al mezzodì dei nuovi quartieri di Trenno, costeggia al nord l’ippodromo di San Siro e di qui può penetrare in città attraverso le tre vie parallele Monterosa, Monte Bianco ed Albani e le loro continuazioni Alberto da Giussano, Mascheroni e Giotto. 8) La radiale del Sempione segue il tracciato della provinciale attuale suscettibile di allargamento fino all’altezza di Boldinasco, qui se ne distacca in direzione di sud-est e raggiunge la Fiera campionaria penetrando in città per le vie V. Monti e Abbondo Sangiorgio. 9) Le autostrade pei laghi e per Bergamo, riunitesi al nord di Musocco e sboccate alla Certosa di Garegnano, possono di qui proseguire allacciandosi alla precedente per penetrare in città. 10) La radiale Varesina si distacca a monte di Roserio dalla provinciale attuale, passa a levante dell’abitato di Musocco raggiunge con curva più dolce il cavalcavia attuale sopra la ferrovia, ne scende e si biforca nella via Espinasse e nella via Mac Mahon, raggiungendo la città da un lato per il corso Sempione dall’altro per via Cenisio e porta Volta. 11) La radiale Comacina si distacca alla Mal Cacciata dalla provinciale attuale, passa a levante degli abitati di Dergano e di Affori, sbocca nel piazzale Macciachini, e prosegue verso la città o attraverso la via Valtellina ed il corso Como, o allacciandosi per un breve tratto del viale Marche. 12) La radiale del Nord (attuale viale Zara dei quartieri nord Milano) destinata ad essere prolungata, già in progetto fino al rondò dei Pini a Monza, costituirà la nuova strada di comunicazione con quelle città, col parco, con Sesto, con Milanino. Essa riceve sulla sua destra la deviazione dell’attuale strada Valassina che costituisce l’asse mediano del Milanino, attraversa la zona fra Niguarda, Prato Centenaro e Greco e potrà essere messa in condizione di buona penetrazione del centro di Milano non appena, colla soppressione degli impianti ferroviari, sarà dato sbocco al sud alle vie Volturno e colla copertura che si propone di un tratto della Martesana e del tombone di S. Marco, ne potrà essere prolungato il tracciato fino al contatto dell’anello dei Navigli e del Foro Bonaparte. Le dodici grandi radiali proposte – con sezioni quasi sempre superiore ai 40 metri e talora raggiungenti i 60 metri – costituiranno i nuovi accessi alla città degni dei migliori esempi lasciatici nel passato nel corso Sempione e nel corso Lodi, soprattutto se si curerà di disciplinare rigorosamente le costruzioni sorgenti sui loro lati. Ma soprattutto, esse permetteranno di risolvere in modo veramente efficace il problema delle comunicazioni meccaniche (automobilistiche o tramviarie) extraurbane oggi penosamente incanalate nelle sedi delle strade provinciali.

Per gli allacciamenti trasversali fra queste arterie radiali il piano vigente ha già due buoni anelli continui nella cerchia dei vecchi Bastioni e nella cerchia più esterna dei viali marginali al piano regolatore del 1889 (viale Abruzzi, Piceno, Umbria, Isonzo, Toscana, Tibaldi, Liguria, Troya, Bezzi, Ranzoni, Monte Ceneri, Bodio, Jenner, Marche, Brianza). Questo doppio anello, intimamente collegato alla tipica forma di sviluppo passato della nostra città, può tuttavia egregiamente servire allo smistamento fra i diversi quartieri periferici della vecchia città del traffico proveniente dall’esterno. L’anellodei Bastioni, costituito dal doppio sistema stradale dei vecchi Bastioni propriamente detti e della laterale circonvallazione, offre infatti nei suoi punti sistemati una sezione stradale veramente cospicua. Vedansi ad esempio, nel tratto presso porta Venezia, il viale Luigi Maino e il parallelo viale Piave l'uno di metri 35, l’altro di metri 27 che offrono completamente una sezione stradale di oltre 60 metri paragonabile cioè a quella del Ring viennese e quasi doppia di quella dei boulevards interieurs parigini che hanno la medesima posizione relativa e le medesime funzioni rispetto alla città. L’altro anello di viali, più esterno, ha la larghezza costante di 40 metri ed è quindi pure in grado di assolvere bene il suo compito. Trascuriamo gli altri parziali collegamenti esterni anulari del piano del 1912, alcuni dei quali costituiscono forse dal punto di vista della viabilità degli inutili doppioni, e passiamo senz’altro a considerare la zona che forma oggetto di studio per il nuovo piano proposto. Avendo abbandonato per questa parte del nuovo piano l’antico organismo della ragnatela stradale, non sarebbe stato logico costringere ad una forma di troppo geometrica precisione la rete delle congiungenti esterne dei nuclei satellite fra di loro e delle trasversali di smistamento fra le radiali principali. Piuttosto che sacrificare la realtà alla geometria, abbiamo preferito adattare la geometria alla realtà, ricordandoci volentieri – fra tanto imparaticcio di urbanistica straniera – dell’aureo ammonimento di Carlo Cattaneo che «una città che ha già vissuto ventiquattro secoli… non può essere condannata ad affondarsi tutta sotterra per risorgere quadrettata come un panno scozzese». Ciò che egli predicava ottan’anni fa per la città possiamo ben ricordarlo oggi per il suo suburbio. Il nuovo anello esterno marginale proposto si orienta quindi senza nessun preconcetto geometrico secondo la distribuzione dei quartieri satellite predisposti. Esso assume una forma naturalmente regolare nel settore di ponente dove collega i nuovi nuclei urbani disposti in regolare collana da Corsico, a Baggio, a Trenno, a Boldinasco. Qui lo sbarramento del cimitero ed il punto di passaggio obbligato al cavalcavia sopra la stazione di Musocco consigliano una diflessione del tracciato che poi riprende nuovamente regolare da Musocco, passando al centro del nuovo nucleo Affori – Bruzzano – Niguarda ed accostandosi alle zone industriali di Sesto per poi spingersi a monte di Crescenzago presso l’importante bivio della cascina Gobba dove può utilmente raccogliere il traffico della provinciale Veneta ed incanalarlo verso il nord e l’ovest della città evitando i percorsi di puro transito attraverso l’abitato. Nella parte orientale, fra Crescenzago, Lambrate e la zona portuale, le stesse due strade laterali al canale navigabile possono costituire le necessarie arterie di collegamento. Lo sbarramento creato dalla futura stazione di smistamento e dal triangolo di raccordi ferroviari dell’Ortica non consente d’altra parte molta varietà di soluzioni. Non è presumibile in queste difficili condizioni naturali un traffico trasversale molto attivo. Migliori vie di arroccamento si hanno più all’interno negli spaziosi e rettilinei viali Lomellina e Lombardia. La zona portuale del resto, che è la più importante di questo quadrante, naturalmente gravita per la sua stessa configurazione verso queste ultime arterie attraverso i tre importanti allacciamenti della via Marco Bruto, della nuova allargata sede della strada Paullese (già prevista nel piano regolatore vigente di 60 metri di larghezza) e del corso XXVIII Ottobre. Nella zona sud della città le due arterie previste sulla sponda del canale navigabile di congiunzione fra il Naviglio Grande e il porto possono servire ai collegamenti trasversali, tanto più che già esiste nel piano regolatore ed è in parte sistemato (viale Giovanni da Cermenate) l’ampio viale di arroccamento che doveva servire anche come sede al progettato canale di giunzione quando i bacini portuali erano previsti in posizione più a tramontana di quella scelta col progetto definitivo. Per quanto riguarda la rete secondaria di viabilità non crediamo necessaria una maggiore illustrazione di quanto è segnato nelle tavole richiamando solo il concetto informatore al quale abbiamo voluto ispirarci di una netta separazione fra le grandi arterie di traffico e le minori arterie di semplice disimpegno. Le strade di lottizzazione indicate rappresentano di massima solo le maglie principali di suddivisione entro le quali potrà inserirsi, in sede di attuazione del piano, la rete minore di frazionamento oggi neppur prevedibile. Le dimensioni dei lotti maggiori sono state scelte in modo da prestarsi al miglior frazionamento a seconda del tipo di fabbricazione assegnato alla zona (fabbricati in serie chiusa, villini, edifici industriali). […Circa le piazze] abbiamo curato che in ogni nucleo satellite esse avessero funzioni ben definite: le une di centro di riferimento della vita locale, le altre di disimpegno e di incrocio delle principali arterie, […] altre [ancora] infine di luogo di riposo e di sosta. Le sezioni trasversali assegnate alle strade variano a seconda delle loro specifiche funzioni. Alle grandi arterie radiali si sono attribuite larghezze variabili dai 40 ai 60 metri. La ripartizione della carreggiata secondo la diversa natura dei veicoli e la diversa velocità del traffico è fatta in modo da portare verso il centro della strada i mezzi di trasporto più rapidi, verso i fianchi il traffico locale. Le tramvie si sono di preferenza disposte in sede propria. Le alberate, se possibile in numero di quattro, si sono spostate verso il centro della strada in modo da non soffrire danno dalla vicinanza dei fabbricati. Dove si prevede di lasciare una zona di arretramento sistemata a giardini privati, fra il ciglio della strada e la linea dei fabbricati, potrà essere disposta anche un'alberata sui marciapiedi laterali. In ogni caso si è prevista la posizione delle alberate in modo da potersi adottare indifferentemente disposizioni diverse per la carreggiata senza compromettere l'esistenza degli alberi. Per le radiali maggiori si è prevista la possibilità di collocare in trincea le linee tramviarie e la carreggiata del traffico diretto per evitare gli attraversamenti. In taluni casi sarà possibile utilizzare lo spazio fra le alberate per galoppatoi. Questo ci sembra che possa particolarmente farsi nei due tronchi di strada radiale e trasversale che corrono a mezzodì ed a ponente degli ippodromi del trotter e di S. Siro che non sono percorse da un notevole traffico né spezzate da importanti attraversamenti e che, appunto per la loro vicinanza al quartiere degli sports, si prestano meglio alle esercitazioni ippiche. Per il nuovo anello esterno di collegamento fra i diversi nuclei non si è voluto esagerare le dimensioni, trattandosi di una strada non destinata ad incanalare notevoli correnti di traffico e che si svolge con una certa scioltezza di tracciato con frequenti sovrappassi agli impianti ferroviari ecc. e sussidiata, oltreché dall'anello dei viali marginali al piano regolatore del 1889, anche da parecchie altre strade di collegamento fra i diversi quartieri cittadini. Si reputa sufficiente la larghezza di 30 metri divisa in due carreggiate laterali ed un'allea alberata centrale che può tanto servire come passeggio, quanto come sede di tram. Nell'assegnare in ciascuna arteria il frazionamento delle carreggiate si è avuto cura di stabilire le dimensioni trasversali di questa in ragione di un multiplo della sagoma di ingombro dei veicoli che si è ritenuto di poter assegnare in metri 2,50. Si è dato perciò alle carreggiate di transito locale larghezza da metri 5 a metri 5,50; a quelle per il transito rapido larghezza da 7,50 a10 metri. I tram vennero collocati in sede propria (marciatram) e preferibilmente disposti sui lati della carreggiata principale lungo i viali pedonali laterali sui quali può effettuarsi in piena sicurezza la sosta, la discesa e la salita dei viaggiatori. […] Il concetto informatore della regolazione degli incroci è quello di ridurre al minimo gli attraversamenti diretti dell'arteria principale. A questo scopo gli sbocchi delle strade secondarie nella principale si sono di proposito sbarrati coi passeggi alberati in modo da costringere il traffico di quelle ad incanalarsi nelle carreggiate laterali del transito locale prima di confluire nella corrente equiversa del traffico diretto o per raggiungere il più prossimo punto di attraversamento che gli consenta di innestarsi nella corrente controversa sull'altro lato della via. I punti di attraversamento diretto vengono con ciò a concentrarsi in corrispondenza degli incroci delle arterie principali. Qui occorre provvedere un conveniente sgombro del campo visivo colla soppressione delle alberate e con un eventuale arretramento o smusso dei fabbricati. Certamente, dal punto di vista estetico, la soluzione a smusso non è delle migliori ma essa ha indubbi vantaggi pratici. Lo smusso deve però in ogni caso servire solo per la visuale e non per allargamento in raccordo della sede stradale che, anzi, da taluno si consiglia un certo restringimento della carreggiata della strada tributaria in corrispondenza dello sbocco nella principale per meglio inarginare il traffico prima di versarvelo […].

Nota: il documento integrale della relazione Nihil Sine Studio 2000 è scaricabile in formato pdf stampabile di seguito. Per maggiore chiarezza è stata inserita anche la riproduzione in piccolo formato di una delle tavole, che mostra l’organizzazione generale del piano coi quartieri giardino autonomi. Su questo sito sono anche disponibili diversi articoli teorici di Cesare Chiodi (f.b.)

La selezione dal saggio originale e la presentazione che segue in corsivo sono tratti da Urbanistica informazioni , n 94, luglio-agosto 1987

Carlo Cattaneo (1801 - 1869) era ciò che oggi chiameremmo un "politico". Dai suoi scritti dedicati alla città e al territorio emerge con evidenza come la sua passione politica traeva la linfa dalle radici di un'indagine appassionata e lucida della storia della civiltà italiana, e come di quest'ultima egli soprattutto analizzasse, quasi svelandole, le ragioni, il "principio" leggibili nella città: che egli appunto considerava come «l'unico principio per cui possano i trenta secoli della istoria italiana ridursi a esposizione evidente e continua».

Il magistrale saggio, di cui pubblichiamo di seguito ampi stralci, fu pubblicato per la prima volta nel 1858. Esso può esser letto alla luce degli avvenimenti, e della speranza, di quegli anni: un contributo alla lotta per la traduzione in termini statuali dell'identità nazionale, un messaggio alla borghesia che di quella era protagonista. Ed è singolare, e oggi significativa, l'attenzione che Cattaneo poneva al rapporto tra città e territorio: è in questo rapporto, nella sua organicità e ricchezza, la ragione del porsi delle città italiane come nuclei fondativi della civiltà. È facile affermare oggi che, anche su questo punto, la borghesia nazionale perse la scommessa con la storia, e ridusse a utopia l'incitamento politico e pratico del Cattaneo: parallelamente alla disgregazione dell'agricoltura e al degrado del territorio, riusciamo difficilmente, oggi, a distinguere le città italiane da quelle «pompose Babilonie», città «senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità», che nelle pagine che seguono sono presentate come l'antitesi della città.

£ facile affermarlo, ma non è facile individuare oggi le strade da percorrere (e soprattutto le forze da mobilitare) per tradurre in atto l'utopia di Cattaneo. L'indagine di questo figlio, e protagonista, del Risorgimento ci aiuta comunque a comprendere meglio in quale direzione occorra muoversi. E vogliamo invitare il lettore a non limitare agli stralci che qui pubblichiamo la conoscenza dell'Autore che proponiamo. La sua attualità emerge anche in altri scritti. Ad esempio, in quelli raccolti nella succinta antologia curata da Manlio Brusatin per l'Editore Marsilio.

La città considerata come principio ideale

delle istorie italiane

In un paragone tra l'economia rurale delle Isole Britanniche e dell'Insubria inserto in questi fogli sul cadere dello scorso anno, abbiamo dimostrato come l'alta cultura (high farming), essendo una precipua forma della moderna industria, una delle più grandi applicazioni del capitale, del calcolo, della scienza, ed effetto in gran parte d'un consumo artificialmente provocato dall'incremento delle popolazioni urbane, non si può spiegare se non per l'azione delle città sulle campagne.

Ed ora, per quanto l'angustia dello spazio il consente, vorremmo ampliare questo vero fino al punto di dire che la città sia l'unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell'assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtú e corruttela, di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, d'opulenza e desolazione; e l'animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d'una tetra fatalità.

Fin dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch'ella è nell'oriente o nel settentrione. L'imperio romano comincia entro una città; è il governo d'una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. [...].

La prisca Europa fu dapprima un'immensa colonia dell'oriente, come in questi tre secoli l'America fu colonia dell'Europa. Ma per due vie, e con due ben diversi gradi di civiltà, qui pervennero le genti orientali. Le une peregrinarono lentamente per terra, tragittando al più l'uno o l'altro Bosforo, e traendo seco dall'Asia, coi frammenti delle lingue e religioni indoperse, la pastorizia e una vaga agricoltura annua, senza fermi possessi privati, quasi senza città. [...].

Vaganti per lo squallido settentrione in sempiterna guerra, e mescolate qua e là colle tribù aborigene dell'Europa selvaggia, esse apparirono poi barbare a quegli altri popoli che, oriundi pur dall'Asia, erano approdati navigando alle isole e penisole della Grecia, dell'Italia e dell'Iberia.

Questi, uscendo dalle città dell'Egitto, della Fenicia, della Libia, della Frigia, della Colchide, non pensavano di poter vivere nella nuova patria se anzi tutto non consacravano a stabile domicilio uno spazio, urbs; e lo chiudevano con cerchio di valide mura, che il corso dei secoli non ha dovunque distrutte. Prima essi facevano le mura; e poi le case. E così fermati per sempre ad un lembo di terra, erano costretti ad assegnarlo con sacri termini ai cittadini, affinché questi avessero animo di fecondarlo con perseveranza e con arte. L'agricoltura era provvida e riflessiva, perché la dimora era immobile e il possesso era certo. [...].

In Italia il recinto murato fu in antico la sede comune delle famiglie che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d'altro popolo che prende nome d'altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro popolo, nell'uso domestico e spontaneo, mai non diede a sé medesimo il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti municipali. [...].

Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato d'ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell'attrazione o compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l'antica vitalità. Talora il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane. [...].

Le colonie greche in Italia sono interamente libere e regine; non hanno vincolo fra loro né colle città madri, benché abbiano l'amicizia di queste e talvolta il soccorso. Le città dette propriamente italiche sono libere in sé; ma il supremo diritto di guerra e di pace è limitato da patti federali più o meno larghi colle altre della medesima lingua, o da trattati colle rivali, o dall'autorità delle più potenti. Le colonie partecipano alle guerre, alle paci, alle alleanze delle città madri, e sorgono o cadono colla fortuna di queste. Ma ogni città si governa da sé, dentro i termini della sua terra. E anche quando è costretta a guerre non sue, milita sotto le sue proprie insegne e i suoi capitani. L'indole armigera e magnanima è comune a tutte. Tale è la prima éra delle città italiane.

Roma, sorta al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l'etrusca, pare costituirsi dalla vicinanza e dalla graduale coesione di tre colonie, poste forse a vigilar reciprocamente all'estremo confine, sui colli che sorgevano come isole in mezzo alle paludi, presso il confluente di due fiumi arcifinii, il Tevere e l'Aniene. Le tre castella nel corso degli anni divennero tribù d'una città comune, in cui per l'opportunità del luogo poté accasarsi maggior numero di Latini e la loro lingua prevalse. Pel connubio delle tre stirpi le loro tradizioni religiose, civili e militari nei posteri si vennero confondendo. Roma fin da origine ebbe ad unificare in sé tre sistemi; ebbe a darsi una civiltà triplice, ad esercitare un triplice ordine d'idee. Colla combinazione di queste, ella si pose a capo delle tre nazioni, e quindi mano mano di tutta la penisola, assimilando, appropriando, assorbendo, mentre ognuna delle altre genti rimase confitta nelle sue idee prime; epperò predestinata a soccombere ad una volontà retta da più vasto e potente pensiero.

Nel seguito delle guerre, in molte città vennero poste come colonie, cioè come presidii perpetui, centinaia anzi migliaia di famiglie romane; fra le quali furono divise le terre confiscate alle famiglie più avverse o a tutto il comune. Ma restò sempre alle sole città italiche l'onore e il profitto della milizia romana. Uomo d'altra nazione non venne mai scritto nelle legioni della repubblica. Anzi l'antica coorte si componeva d'un manipolo romano e d'uno latino; e il centurione latino si alternava nel comando col romano. La milizia italica durò finché durò la milizia romana. Da Roma usci l'esercito; dall'esercito romano usci la nazione. [...].

Così mentre il romano propagava per tutti i municipii la sua milizia, il suo commercio, l'usura, i possedimenti, i connubii e i varii gradi della sua cittadinanza, le singole città, quanto più si congiungevano a Roma, tanto più si disgiungevano dalle città consanguinee. Ma nella dispersione delle leghe, nell'oblio delle lingue e delle religioni, nell'esterminio delle minime città, il cui territorio colle immani confische delle guerre sociali e civili era inghiottito forse in un solo latifondio, quei municipii ch'erano largamente radicati nelle campagne, sopravvivevano; anzi si chiudevano più saldamente in sé, per la maggior distanza del centro comune. Tutto ciò che non si fece romano, ebbe a farsi più strettamente municipale.

Né le sole famiglie più oscure si saranno attenute all'antico nido; ma forse quelle appunto ch'erano state in altro tempo più illustri. Sdegnose, e contenute nell'odio, esse avranno anteposto alle ambizioni romane la tacita riverenza dei cittadini. Questo è nell'indole costante della nazione; e più volte si avverò. A questa stoica accettazione d'una dignitosa oscurità si deve la tenace e continua vita dei municipii nelle età più infauste e desolatrici. [...].

Dopo le guerre civili e le proscrizioni e la conquista della Liguria e della Rezia, al limitare dell'éra nostra, v'è in Italia una sola nazione, unificata e rappresentata in una sola città. Le altre non hanno autorità sovrana se non in quanto sono ascritte alle tribù di questa; schierate sotto le sue insegne, hanno parte alle spoglie del mondo. Ma quell'unica sovranità è già in nome del popolo afferrata dai Cesari. I Cesari sono l'ultima conseguenza e l'ultima espressione dell'unità.

Le legioni vengono relegate alle frontiere. Roma è data in guardia ai pretoriani. L'Italia è armata; e tiene colle armi un immenso imperio. Ma le sue città sono tutte inermi. Così si compie l'éra seconda. [...].

In seno alla pace, l'Italia, meta comune di tutte le nuove vie che collegavano le provincie, porto d'un mare tutto suo, dimora delle famiglie che avevano conquistato i regni, versò i tesori del mondo nella decorazione delle sue città e de' suoi campi. Il Tevere, diceva Plinio, e ornato e vagheggiato da più ville che non tutti gli altri fiumi della terra.

A misura che si estinguevano le famiglie educate nell'eredità degli onori e delle conquiste, e che il senato si faceva ossequioso e il popolo si disusava dalle armi, la truce ragione di stato dei Tiberii e dei Seiani poteva placarsi. I capitani che la fortuna inalzava al comando delle legioni e al nome di Cesari, non furono più spinti a incrudelire contro i privati per propria salvezza. Interrotta dal solo Domiziano, potè continuarsi nell'imperio una serie d'uomini come Vespasiano, Tino, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio. Ma con tutta la loro saviezza, pur non potevano non obbedire alla logica del potere che li traeva ad emanciparsi sempre più dall'aura popolare, dalle armi cittadine, dalle repubbliche municipali, dal predominio dell'Italia, la quale irradiava le native sue istituzioni su tutto l'occidente. Cominciarono essi a coscrivere nelle estreme provincie le legioni che dovevano presidiarle. E siccome è nella natura delle cose che gli armati non restino inferiori di condizione agli imbelli, infine, sotto Caracalla (a. 212), la cittadinanza romana fu accomunata a tutti i sudditi dell'imperio. Il che vale quanto dire che fu abolita. [...].

Così nella terza éra le città italiche, opulente, ornate d'arti e di lettere, penetrate da un alto senso di ragione e d'umanità, erano vicine a perdere insieme alla cittadinanza romana ogni distintivo di nazionalità. Era un decadimento velato dall'apparenza della prosperità della cultura e del dominio. Ciò che i Cesari avevano rispettato e adulato nelle città italiche, era il soldato romano. Abolito il soldato e il cittadino, l'Italia, sebben sede del1'imperio, non era altro ormai che una provincia.

Dopo Caracalla, per tutto il secolo III, i capitani d'un esercito sempre più straniero si contesero colle armi l'imperio e la vita. Ma tutti, per orgoglio militare e per illimitato arbitrio, dovevano aborrire ogni rappresentanza municipale; e più di tutto quella che pareva una continuazione della repubblica romana. [...].

Con Diocleziano ebbero principio sette secoli di barbarie, fino al risorgimento dei municipii, verso l'anno mille.

E per verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d'un modo di squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani sentiamo in mezzo a tuttociò un'aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe a infondere nell'India decrepita un principio di nuova vita

Adeguata alle provincie dell'Asia, l'Italia cadde al pari di esse sotto il flagello della fiscalità. In breve si vide desolata la campagna, disgregato dagli esattori il retaggio avito della città.

Intanto le false legioni, coscritte fra quei medesimi barbari ch'esse dovevano combattere, e prive di quell'arte militare ch'è il frutto e il compendio d'un'alta civiltà, erano di tanto infida e vana difesa che poco dopo Caracalla già le orde nomadi poterono penetrare nel mezzo dell'Italia, che non perciò dai Cesari venne armata; pensarono essi ch'era meglio vederla desolata che vederla forte. I popoli, non potendo più distinguere in quel diluvio straniero gli eserciti amici dai nemici, disfacevano i ponti e le strade per disviare le invasioni. Le città isolate in mezzo a squallide solitudini caddero in rapida miseria e ruina. Poco dopo Costantino, S. Ambrogio le chiamava: semirutarum urbium cadavera.

Ciò si sa perché Costantino avesse abbandonato l'Italia. Finché l'Italia era la sede dei regnanti, sempre la memoria del suo primato suonava nell'animo delle nazioni come la voce del diritto. E le nuove pompe asiatiche, delle quali divenivano solenni legislatori e antistiti gli eunuchi, non potevano senza amaro disdegno esser mirate dal popolo romano sempre ricordevole dell'antica potenza e maestà. Quindi irresistibile nei Cesari il pensiero di trasferire sul limitare dell'Asia la sede dell'imperio, volgendo a tal uopo la stessa poetica tradizione che poneva in quei luoghi la madrepatria di Roma. Quindi l'Italia tramutata in frontiera, spogliata di quelle difese e di quei privilegi che si riservano alla sede dei regni.

Nella quarta éra le città d'Italia sono adunque sottomesse al regime asiatico, subordinate ad una capitale quasi asiatica, civilmente e moralmente associate all'Asia. Anzi in tal condizione rimasero molte città marittime per tutto quasi il medio evo; fu questa la forma della loro barbarie. [...].

Ma la rimanente Italia soggiacque ad altra più profonda sovversione dell'ordine municipale e a più intenso grado di barbarie, quand'ebbe a stabili abitatori suoi gli stessi barbari.

Per volgo degli scrittori, l'invasione gotica e longobarda è l'ultimo esito d'un'inveterata guerra tra Roma dominatrice e le nazioni vergini e libere del settentrione. Non è cosi. Goti e Longobardi non avevano mai avuto a difendere i patrii deserti dalla conquista romana; non combattevano pei loro diritti; ma erano in uno od altro modo mercenari o vassalli o profugi nelle terre bizantine; e fattisi ribelli, venivano riversati per ripiego dei governanti verso l'Italia, ch'era divenuta per questi una frontiera al di là dai mari e dai monti. [...].

Intanto erano isolate nel secolo quinto e sesto le città, perché vi si era introdotto di recente l'uso rituale della lingua latina, o conservato forse in alcune il primiero uso della greca, ma nelle campagne, presso la casta militare, dominava la fede ariana e la lingua gotica, e presso le genti rustiche il culto degli antichi Dei.

Ebbene, in tanta confusione, la forza dei municipii comunque prostrati e conculcati, fu tanta, che il rituale latino poté uscirne ad occupare insensibilmente tutta la superficie dell'Italia. E a misura che il paganesimo spariva dalle campagne, i confini tra l'una e l'altra diocesi vennero a coincidere all'incirca con quelli delle antiche giurisdizioni municipali, che rappresentavano altri più vetusti termini di popoli e religioni. Era come una selva atterrata che ripullula da sepolte radici. La stessa casta longobarda, opponendo un vescovo ariano ad ogni vescovo latino, accettò e sancí quelle prische circoscrizioni. Il municipio fu più forte della conquista. [...].

Il dominio dei Longobardi fu men vasto di quello dei Visigoti, degli Eruli, degli Ostrogoti e molto più lontano dal raggiungere l'unità, ed ebbe più poderosi nemici dentro e fuori; eppure durò due secoli, quando quello degli Ostrogoti che abbracciò tutta l'Italia durò solo sessant'anni; e quelli degli Eruli e dei Visigoti assai meno.

Tutti questi regni, ed altri, caddero non perché fosse loro troppo angusta la terra e poca la gente, sicché non potessero affrontarsi con qualsiasi altra potenza dei tempi loro; ma perché non avevano radice nei popoli, perché si erano grettamente appresi alle glebe dei feudi e alle chiuse delle Alpi, e non all'antica forza municipale, al comizio, al tribunato, al foro; non si erano assimilate le città come i Romani; non le avevano fraternamente ascritte alle tribù e alle legioni. Avevano bensí i loro malli e arringhi, i loro parlamenti armati, ma in disparte dei popoli. E non erano più che i consigli di guerra di una casta militare; non erano più che lo stato maggiore d'un esercito disseminato per una terra, sulla quale da più generazioni esso nacque e rinacque come pianta parassita, senza prendere innesto sul tronco nativo, né appropriarsi la legge della sua vita.[...].

Nei quattro secoli incirca del dominio gotico e longobardo, la barbarie andò crescendo; poiché nessuno poteva inalzarsi se non seguendo ed imitando i barbari. Le città non erano apprezzate se non come fortezze; i cittadini, come tali, non avevano parte nelle cose del regno; né avevano potere alcuno sulle proprie sorti; il municipio era quasi disciolto e abolito. Le buone tradizioni si andavano sempre più spegnendo di generazione in generazione. II male non è il bene; barbarie, ruina, distruzione non è progresso. Milizia, agricoltura, commercio, scienze, lettere, l'alfabeto stesso, andavano in oblio. La gente più non aveva valore né virtù. I barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano desolate. [...].

Non più favorevole alle città italiche fu l'éra settima, o vogliam dire la dominazione di Carlomagno e de' suoi posteri e pretendenti, per l'indole sua feudale e rusticana. Ma giovò ad esse l'odio suo contro i Longobardi, e più ancora la debolezza e caducità delle sue istituzioni.

Già si sa che Carlo medesimo non sapeva scrivere; né alcuno darà colpa a lui dell'ignoranza del secolo in cui crebbe. Ma gli scrittori sinceri non possono negare che le sue istituzioni fecero le città d'Italia più barbare che non le avessero lasciate i Goti. Da Carlomagno il secolo del ferro. [...].

Al tramonto di quella abbagliante meteora di Carlomagno, l'imperio suo, accerchiato da cinque nazioni nemiche, non aveva già più difensori. [...].

Il flusso e riflusso della conquista nell'inerme retaggio di Carlomagno si sarebbe ripetuto senza fine con altri barbari, come da tempo immemorabile nella imbelle Mesopotamia. [...].

Da quel tempo non fu più fatto ostacolo a qualsiasi signore di provvedere a sé ed a' suoi. In poche generazioni, sull'intera superficie dell'imperio si venne tessendo con nuovi elementi una feudalità locale, che ridusse a torri e castella le case, murò i villaggi, armò i servi più gagliardi; ospitò profughi, tollerò asili, e anziché far traffico della propria gente da' Greci e Musulmani, come al tempo di Carlomagno, ne comperò dalle terre germaniche, e più dalle slave, per ripopolare i deserti. [...].

Disperse per entro alla selva delle castella, le città non ebbero nemmeno più il privilegio d'essere il rifugio dei potenti fra le incursioni dei barbari; rimasero tanto più disarmante e avvilite. [...].

E così mentre oltralpe i feudi sopraffacevano le deboli città, in Italia si poterono alzare, una a fronte dell'altra, due milizie. L'una urbana composta di liberi artefici, mercanti, scribi e altri superstiti delle famiglie degli antichi giureconsulti e sacerdoti, divisa per arti o per porte, pronta ad accorrere sulle mura, ricordava le tribù civiche della prisca Italia; celava in sé il principio d'un risorgimento integrale. L'altra sparsa per le foreste del contado, composta di castellani e torrigiani e di loro bastardi e bravi, si attruppava intorno alle romite muraglie di Biandrate, di Castel Seprio, di Castel Marte, ove una gotica strategia aveva posto il ricapito delle cavalcate feudali. La diversità delle giurisdizioni e delle leggi, ch'erano romane nella città e confidate a giudici elettivi, mentre nelle campagne erano più sovente longobarde o saliche, e confuse colla disciplina militare e coll'arbitrio feudale, fecero si, che il servo della gleba potesse anch'egli farsi franco, purché solo riuscisse a fuggire e a lucrarsi colle braccia il pane nella prossima città o nella sua giurisdizione. Quindi crescente ogni giorno il popolo urbano; e per forza di ciò, maggiore ogni anno nel contado la necessità d'armare altri gagliardi, e interessarli con franchigie e feudi e livelli alla difesa delle castella.

Le città, non appena riscosse dal letargo dei secoli gotici, espandevano dunque in circuito un'influenza avvivatrice che rigenerava anche il patto feudale; ed era più possente, ov'esse erano mercati e officine di più largo contado, mentre le città piccole e povere della montagna o delle terre basse e impaludate, e quelle che avevano più patito per le ultime invasioni, dovevano rimaner più ligie alla feudalità. Pertanto esse dovettero recare fino a più tarda età, non l'impronta longobarda, ma l'impronta dell'età dei Longobardi, non perché fossero in origine più barbare, ma perché trovarono intorno a sé minori sussidi a uscir dalla barbarie.

Il fatto supremo si è che per tutte le dominazioni gotiche, longobarde e franche si era trasmesso nella ierarchia episcopale quell'ordine di preminenza in cui le città stavano fra loro nei tempi in cui quella erasi instituita. Sempre Roma era stata nell'ordine sacro la prima città d'Italia; sempre Milano era stata la seconda Roma; il primato ambrosiano comprendeva Torino e Genova, si dilatava oltremonti fino a Coira e Ratisbona. Le città non emergevano dunque come dal fiume dell'oblio, ma come da lungo sonno, con tutti gli orgogli dell'antico stato. [...].

Nel primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l'éra ottava delle città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la chiesa ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica a cagione delle investiture; e infine la prima crociata, ebbero tutte un'indole teocratica. [...].

Ma già nel principio del secolo seguente, ossia nell'éra nona delle città, le guerre si fecero secolari e mondane, benché fossero in parte effetto e continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima le città contesero in cerchio colle città finitime, come già l'antica Roma con Sabini e Latini. Esse dovevano ristabilire le giurisdizioni e i confini che la geografia militare dei barbari aveva trasandati e manomessi. Poscia in cospetto del possente Barbarossa le inimicizie vicinali si atteggiarono in due grandi leghe. E finalmente, dopo trent'anni di guerra, la pace di Costanza introdusse nella legge imperiale le città libere. [...].

Ebbene, qui vediamo fin da quei remoti tempi le nostre città dare il primo esempio di quella grande innovazione sociale che ora soltanto vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale imperiosa necessità di tardo secolo. Tra i molti fatti che Giuseppe Ferrari trasse dalle tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne' suoi studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno d'essere ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch'ei raccolse in una cronica bolognese: "Nel 1236 furono liberati tutti i contadini; e il popolo di Bologna li comperò a denari contanti; e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a tener più alcuno per fedele (cioè schiavo); e il comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni" (V. II, 231). Chi faccia ragione di sei secoli d'intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche quel glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò cinquecento milioni di franchi a redimere tutti i Negri delle sue colonie.

Liberato a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono con ciò risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono rese all'aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come già nella lontana éra celtica. I servi affrancati, coscritti dalla città in cerne, riebbero anche il virile diritto di portare le armi private che la legge feudale aveva loro interdetto sotto pena di mutilazione o di morte. Tutte le popolazioni vennero unificate sotto il nome della loro città, la cui legge si stese su tutta l'antica sua terra.[...].

Nel tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si svolse il nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve un'esenzione e un privilegio concesso ai mercanti, e ch'era la più pura formula dell'eguaglianza, tra gli individui non solo, ma tra le nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi. E così usciva dalle città un nuovo diritto delle genti.[...].

La terra sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non più stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie la cui custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni stesse dei mercanti, venduta, comprata, divisa, suddivisa per progressivo influsso del diritto romano in liberi patrimoni, vide diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi, ristaurarsi le grandi arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime città etrusche.

Ma il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle generose irrigazioni ch'esse con pensiero provvido e con braccio possente e irresistibile condussero, ad onta di tutte le barbare immunità, per vasti territori intorno a Milano, a Novara, a Pavia, a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente stupore, che siffatte imprese potessero aver principio e compimento in quegli anni medesimi in cui le travagliate città combattevano fra le stragi e le ruine. Perocché il canale del Ticino si crede intrapreso (1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime ove fu combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali irrigatorii, fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i suoi Arabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il diritto di libero passo, diritto che alcune delle più civili nazioni non sanno ancora oggidi conciliare colla nuda idea d'un'assoluta proprietà. Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò con frase del suo paese la Magna Charta dell'irrigazione (Baird Smith, Italian irrigation, V. I.).

Con altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le acque con tale proposito, da servire anche alla navigazione (1257). E così si poterono tanto più facilmente diradar le selve su le pianure, in quanto si poté allora supplire con quelle di lontane alpi ai bisogni delle città; e si ebbe dovizia di materie a riedificarle.

Il cronista di Bologna scrisse: "Il Comune riscattò i servi e le serve del contado e i signori conservarono i loro beni". Ma egli non s'avvide, e non s'avvidero allora i popoli, che i signori, oltre al conservare i loro beni, li avevano, per quel riscatto dei servi e delle serve, immensamente accresciuti. Quando la foresta feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi schiavi e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da livellaria e mezzadri, che potevano alimentare l'agricoltura coi frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le vie libere e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alle città; e queste crebbero per nuove industrie a cui la rude Europa pagava allora tributo, è chiaro che un feudatario, il quale, sullo spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di schiavi, poté dar lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue derrate a prezzo inudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato a favolosa opulenza. [...].

URBANISTICA - L’urbanistica è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e

l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale. In questo senso il significato del termine urbanistica è profondamente diverso da altri, di analoga radice, con i quali è talvolta confuso: urbanesimo, che indica la concentrazione e condensazione dei fattori demografici, sociali, culturali ed economici costituenti la città; urbanizzazione, che indica il processo di formazione e disseminazione delle città in una determinata area; e infine inurbanamento, che è il processo di afflusso di popolazioni per lo più rurali nei centri urbani.

Come disciplina autonoma, l’urbanistica è nata dal secolo scorso, quale risposta (e difesa) ai problemi suscitati nell’esistenza e nella cultura urbana dal progressivo affermarsi dell’industrializzazione e dal rapido incremento della popolazione e del traffico (specialmente, nel nostro secolo, del traffico motorizzato). Solo retrospettivamente e per analogia, perciò, si chiamano urbanistici i modi di strutturazione, organizzazione, configurazione dello spazio urbano nel passato, siano essi spontanei o diretti da norme giuridiche o iniziative di governo o da teorie e princìpi formulati da politici, filosofi, architetti. E solo in quanto si ammette la costanza di una certa disciplina nella crescita delle città si chiama comunemente storia dell’urbanistica la storia del fatto urbano. Come attività specificamente intenzionata alla progettazione degli sviluppi urbani, l’urbanistica è interessata a tutte le componenti geografiche, storiche, ideologiche, culturali, economiche ecc. del fatto urbano, nonché a tutte le esigenze tecnologiche, igieniche, educative, assistenziali ecc. ad esso connesse. Sotto l’aspetto estetico, l’urbanistica è particolarmente in rapporto con la progettazione (v.), con l’architettura (v.), e le sue tipologie (v. STRUTTURE, ELEMENTI E TIPI EDILIZI), nonché con la funzione ideologica e rappresentativa degli edifici (v. MONUMENTO) e con la concezione della natura e specialmente della società e della vita rurale, come contrapposte, almeno in certe civiltà, alla vita cittadina.

Sommario.

L’idea di città - Nomenclatura essenziale - Definizione di urbanistica - Definizione di città: Verso una scienza urbana - Definizione geografico-urbanistica della città - Definizioni storico-sociologiche della città - Lo “spazio urbano”: Mondo arcaico - Antiche civiltà urbane - La città medievale - La città rinascimentale - La città barocca - Disintegrazione dello spazio urbano - Riscoperta, analisi e ricomposizione dello spazio urbano - Utopisti moderni - La pianificazione urbanistica: L’esperienza razionalista e il piano di Amsterdam - Verso una nuova concezione - Dall’urbanistica tecnica alla pianificazione continua - Aspetti giuridici ed economici della pianificazione urbanistica - Problemi e prospettive: Dati di base per una contabilità urbanistica - Problemi specifici: a) Quartieri residenziali - b) Centri storici e rinnovamento urbano - c) Il traffico veicolare - d) Zone industriali attrezzate - e) Attrezzature per il tempo libero - Piani per il futuro.

L’IDEA DI CITTÀ

Quando, in un primo approccio al fenomeno urbano, in qualsiasi tempo e luogo, anche remoti, si constati la sua indissociabile, attiva compartecipazione, come struttura portante, alle molteplici manifestazioni di civiltà, o se ne osservino le impetuose esplosioni in atto, o quando si tenti, avventurandosi nel futuro, qualche prima sommaria interpretazione della sua dinamica o qualche incerta anticipazione morfologica, mentre da un lato il fascino della straordinaria ampiezza e varietà del fenomeno allarga l’orizzonte dell’esplorazione, dall’altro non ci si può sottrarre al corrispettivo sgomento per la palese inadeguatezza degli strumenti conoscitivi.

Il fatto è che, dopo non meno di cinque millenni di civiltà urbana e di un’assai più antica cultura di villaggio, entrambe sviluppate in ambiti territoriali strutturati, ed in cui si sono avvicendati miliardi di esseri umani, dopo eventi così determinanti per la civiltà come la concentrazione insediativa e dopo varie ripetute vicende di impianto e formazione di città, di espansione e fioritura, di trapianto o di declino fino alla morte, con o senza risurrezione, o ancora di persistente plurimillenario rinnovamento in sito e di ristrutturazione territoriale, bisogna giungere fino a tempi estremamente ravvicinati perché l’idea stessa della città sia rappresentata in tutta la sua evidenza e le funzioni degli insediamenti umani sul territorio appaiano in tutta la loro dinamica complessità: in sintesi, per comprendere, come insegnò Patrick Geddes verso la fine del secolo scorso, che un villaggio, una città, una regione non sono solo un «luogo nello spazio», ma un «dramma nel tempo», inseriti dunque in un processo di sviluppo dinamico.

Essenzialmente statica e spazialmente delimitata è invece l’idea informatrice della città nel mondo antico, dagli insediamenti palaziali alla “polis”, quale traspare dai frammenti descrittivi di storici, geografi e viaggiatori, dalle regolamentazioni urbanistiche e dalle testimonianze archeologiche, come pure dalle stesse ipotesi platoniche ed aristoteliche di ideale formazione e di reggimento politico: comune, pur nella varietà di impianti, l’aspirazione ad una stabilità dimensionale, economica e sociale, sia dell’insediamento urbano principale, cittadella o città sacra o capitale o città commerciale, sia della sua area agricola, lenticolarmente concepita.

Verso questo obiettivo appare in sostanza indirizzata la stessa organizzazione territoriale romana, formatasi per aggregazioni successive di territori che venivano omogeneamente strutturati mediante impianto di città, creazione di relative aree economiche, dotazione di infrastrutture urbane e territoriali e di istituzioni civiche, il tutto tipizzato secondo una costante, monotona, e quindi universale, precettistica, che è riuscita per un arco di tempo non lungo, ma decisivo per la storia urbana, a garantire su estesa superficie l’equilibrio economico e sociale delle unità territoriali di base integrate in un sistema politico centrale.

Ancor più evidente è l’idea di microcosmo immobile implicita nella organizzazione della città medievale murata, che forma con il contado un sistema economico chiuso ed autosufficiente (salvo casi eccezionali, come, per es., le repubbliche marinare) e dove statuti, istituzioni, dialetti ed architettura, unitamente alle riaffiorate culture locali preromane, concorrono a caratterizzarne l’individualità nel rispetto dei princìpi universalmente accettati dell’equilibrio interno economico e sociale e della pariteticità di diritto degli insediamenti statutariamente riconosciuti.

Signorie e principati, tra il Cinque e il Settecento, non solo confermano l’idea del microcosmo urbano accentratore, ma lo isolano con un sempre più complesso sistema stabile difensivo, ed accentuano, su più vasta scala, la gerarchizzazione degli insediamenti sul territorio.

Si sviluppa in quei secoli l’arte urbana, che arricchisce le città principesche di nuovi episodi architettonici di rilievo; al tempo stesso si incomincia a teorizzare sulla “forma urbis” fino a dar vita ad una fioritura di nuove idee urbanistiche che sotto la veste di “città ideali”, si pongono, nei confronti delle esistenti, come altrettante possibili alternative globali; molto spesso le innovazioni vagheggiate sono soltanto formali, geometriche e difensive, ma in questa ricerca inventiva nuove idee prorompono sia nel campo tecnico sia nel campo dell’ordinamento sociale, aprendo la strada alle utopie. L’idea della città entra finalmente in movimento: basterebbero le intuizioni leonardesche per la irrigazione della Val di Chiana o per la ristrutturazione di Milano in dieci città da 30.000 abitanti a confermarlo.

Allo sviluppo di questi fermenti ideali non ha certo giovato l’ordine barocco e neoclassico congeniale al dispotismo politico, che dell’arte urbana ha fatto ampio uso e strumento, e tanto meno la grande ventata del suo opposto e successore, il liberistico “laisser faire”, applicato alla città; essi rivivranno e riprenderanno corpo solo nelle utopie dei primi riformatori sociali ottocenteschi.

Ma intanto l’orizzonte urbano si andava rapidamente allargando: protestantesimo, mercantilismo, accumulazione capitalistica, centralizzazione del potere, colonizzazione, scoperte e sistemi scientifici, rivoluzione industriale e demografica, teorizzazione economica, lotta politica, mentre danno vita ai tempi nuovi, spezzando, con il limitato orizzonte di idee, anche i chiusi circuiti dell’economia medievale e gli statici gruppi demografici, contribuiscono a rompere definitivamente l’ordine urbano e la statica gerarchia territoriale.

Dopo secoli di relativa stabilità demografica la popolazione europea nuovamente in fase di incremento, tanto da passare dai 180 milioni dell’anno 1800 ai 400 milioni nell’anno 1900, si pone ora in movimento, ridistribuendosi sul territorio e creando problemi nuovi che trovano impreparata l’antica strutturazione, urbana e territoriale.

All’abbandonato monocentrismo arcaico, nessuna nuova idea urbanistica si contrappone per lungo tempo: le caotiche strutture cittadine e territoriali sono, verso la metà dell’Ottocento aggredite dalle forze nuove e adattate a viva forza o distrutte come avviene con il significativo abbattimento delle mura, o confinate nella stagnazione e nell’abbandono; nuovi impianti produttivi e nuovi insediamenti sorgono senza far più ricorso all’arte urbana; nuove infrastrutture tecniche si sovrappongono indifferenti a quelle arcaiche: tutto il mondo storico rapida mente si dissolve e si trasforma.

La sensazione tuttavia che prospettive e possibilità si siano all’improvviso immensamente dilatate è confermata dal lungi mirante monito saint-simoniano (1825): « maintenant que la dimension de notre planète est connue, faites faire par les savants, par les artistes et les industriels un plan général de travaux à exécuter pour rendre la possession territoriale de l’espèce humaine la plus productive possible et la plus agréable à habiter sous tous les rapports».

Intanto il groviglio di problemi, sorti e non risolti per assenza di visione generale, ritardava purtroppo, ampliandosi e complicandosi, l’indispensabile ed urgente processo di razionalizzazione.

Né era facile scoprire una strada nuova che consentisse di uscire dalle imperanti degenerazioni dell’arte urbana tradizionale, ormai ridotta al disegno accademico di quinte a margine ed a decoro di grandi operazioni immobiliari speculative di sventramento o di rinnovamento urbano, che raggiungono il loro apice nell’attuazione del piano napoleonico-haussmanniano di Parigi degli anni ’50.

Due vie diametralmente opposte sono, in tutto il secolo, continuamente tentate: quella dei riformatori utopistici, alla ricerca di “modelli” ideali e generalizzabili come soluzioni alternative alla società in atto, e quella degli ingegneri urbani, che, allargando sempre più il loro campo d’azione dai ponti e strade agli impianti igienico-sanitari ed ai mezzi di trasporto collettivo, riscoprono il piano d’insieme. La prima ha prodotto, in concreto, qualche isolato prototipo e qualche quartiere operaio modello, costruito da industriali illuminati, sulla scia, peraltro, della tradizione settecentesca dei paesi nordici, ma non poteva pretendere, con modelli astratti, di ristrutturare una società in rapida evoluzione e le sue negative manifestazioni urbane. La seconda ha potuto produrre, oltre alle grandi opere come le reti di ferrovie metropolitane sotterranee ed aeree a Londra, Parigi e Berlino, eccezionalmente anche alcuni piani al larga concezione come la sistemazione del Ring di Vienna (1856) ed il piano di Barcellona di Ildefonso Cerdà (1859), dimostrandosi tuttavia impari al compito.

In ossequio all’incontrastato interesse privato ed ai princìpi liberistici, i piani tecnici di ampliamento e di sistemazione degli insediamenti in rapida espansione sono stati concepiti o sono stati attuati come puri e semplici piani di “allineamento” e cioè di discriminazione tra il sempre più limitato suolo pubblico, ormai ridotto alla sola viabilità ed ai parchi, ed il sempre più esteso dominio della proprietà privata, reale protagonista della città crescente, eludendo in tal modo i problemi economici e sociali e la visione generale dell’intero sistema urbano.

L’avvicinamento ad una soluzione integrata, sociale oltre che tecnica, pratica ma senza rinunce idealistiche, si ha solo verso la fine del secolo scorso: ad essa contribuiscono vari apporti scientifici e culturali di igienisti, geografi, sociologi e demografi. Dall’incontro di queste nuove discipline con l’ingegneria urbana e con una rinnovata, antiaccademica arte urbana nasce, alla fine del secolo scorso, la disciplina specifica ed autonoma dell’urbanistica; la prima edizione di Der Städtebau di Stubben, esce nel 1880; Der Städtebau nach seinen kunstlerischen Grundsatzen, di Camillo Sitte, nel 1889; Tomorrow, di Ebenezer Howard, nel 1898; la Regional Survey, di Patrick Geddes, nel 1899; Une Cité industrielle, di Tony Garnier, è del 1901-1904.

Con queste opere i fondamenti tecnici, estetici, sociologici ed innovatori dell’urbanistica moderna erano posti. Da esse e dagli studi teorici e sperimentali, che ne sono scaturiti nei decenni successivi, è sorta una nuova e più composita idea della città e del territorio urbanizzato, non più associata a forme astratte e statiche, ma tendente ad una sintesi di fattori complessi ed eterogenei.

Il fenomeno urbano è scomposto, analizzato e ricomposto scientificamente in tutti i suoi elementi costitutivi; anche l’uomo comune avverte ora la presenza, il peso, i problemi e la dinamica dell’urbanizzazione.

La scienza urbanistica ha camminato e la stessa tecnica dell’insediamento che nei primi decenni del secolo, soppiantando arte urbana ed ingegneria urbanistica, poteva apparire come conquista necessaria e sufficiente per la sistemazione razionale degli insediamenti e del territorio, sta ora cedendo il passo ad un processo che si profila globale, continuo e irreversibile: la pianificazione urbanistica.

Illustrare gli indirizzi teorici e pratici di questa tecnica in fase di evoluzione e di sistematizzazione e le sue più significative applicazioni concrete è compito della presente trattazione.

NOMENCLATURA ESSENZIALE

Con il passaggio avvenuto negli ultimi decenni del secolo scorso dall’arte urbana ( art urbain, civic art), intesa fino allora come architettura in grande, alla nascente tecnica dell’insediamento urbano, si modifica anche il linguaggio che si arricchisce rapidamente di nuovi vocaboli. Dove e quando e da quali occasioni questi siano sorti è problema filologico tuttora da esplorare: ci atterremo pertanto a pochi dati certi. Nel 1855 appare la parola “d emographie” nel trattato statistico di Guillard; non è quindi senza significato il fatto che nello studio delle componenti dei fenomeni demografici (natalità, mortalità, emigrazione ed immigrazione), quella particolare immigrazione che proprio allora stava dando corpo alle concentrazioni urbane fosse chiamata dagli statistici francesi con la parola “urbanisation” (ingl. urbanisation, amer. urban growth, ital. prima urbanismo poi urbanesimo) per designare la tendenza dei centri urbani a crescere, per inurbamento di immigrati, più rapidamente dei nuclei demografici circostanti.

Non è un caso che sia proprio Ildefonso Cerdà, che per primo impiega in modo sistematico l’analisi statistica negli studi preparatori al piano di Barcellona, a far precedere l’illustrazione a stampa del piano (1867) con un saggio intitolato Teoría general de la Urbanización, dove la stessa parola è impiegata nel duplice significato di concentrazione di popolazione urbana e di ampliamento fisico della città.

Questo duplice significato è attualmente di uso comune nelle spagnola e francese, mentre nella lingua italiana ed in quella inglese i due significati sono espressi con due distinte parole: il significato demografico-sociale rispettivamente con le parole “urbanesimo” ed “urbanisation”, quello fisico con “espansione urbana” e con “city development” (così è intitolato il libro di Geddes e Mawson, del 1903), dove “development” è usato in senso lato di “sviluppo”, o con “phisical growth of towns”. In italiano, la parola “urbanizzazione” è di uso assai recente ed è impiegata esclusivamente per indicare il processo di trasformazione d’uso da suolo agricolo a suolo urbano mediante la progettazione e l’attuazione di opere, impianti, servizi ed edifici a varia destinazione; ed ha il suo corrispondente inglese nel significato tecnico e legale di “development” (dal 1947), con l’avvertenza che questa parola ha un significato ancor più estensivo, comprendendo anche le semplici trasformazioni nell’uso degli immobili, cosicché la sua traduzione in italiano può essere, a seconda dei casi, “urbanizzazione” o “trasformazione d’uso”; anche il vocabolo francese “urbanisation” e quello spagnolo “urbanización” impiegati nel significato fisico sono recentemente usati anche nel senso più specifico di “urbanizzazione” e di “development”.

Esaminati i legami semantici tra fenomeno demografico e città costruita, si può ora ricercare con maggior sicurezza origine e significato dei vocaboli pertinenti all’urbanistica, intesa come scienza ed arte dell’organizzazione e dello sviluppo degli insediamenti.

Nella lingua tedesca non si sono posti particolari problemi linguistici, essendo chiaramente distinguibili le fasi di studio e di realizzazione della città con i due vocaboli composti di “Stadtplan” e di “Stadtbau”, che, usato con il plurale di città “Städtebau”, raggruppa in sintesi tutte le operazioni attinenti alla progettazione e costruzione della città ed assume quindi il significato generale di urbanistica: colui che se ne occupa è lo “Städtebauer”, cioè l’urbanista. L’uso di questi vocaboli risale agli ultimi decenni del secolo scorso e da allora si è mantenuto a lungo inalterato; ad essi, soltanto da pochi anni si sono aggiunti nuovi vocaboli rispondenti a nuove esigenze di espressione: così la fase analitica e scientifica dello studio, “Forschung”, è ora indicata con “Stadtforschung” per le città e “Raumforschung” per i territori, e l’organizzazione territoriale, che non può esser compresa nel concetto di “bauen”, è indicata con “Raumordnung”. Infine, di recente, si sta sviluppando l’uso della parola “Planung”, pianificazione territoriale, impiegata in “Landesplanung” ed in “regionale Planung”; nel campo degli studi economici è stato introdotto il termine di “Raumwirtschaft”, economia spaziale, così come l’aspetto politico della pianificazione urbanistica è designato con “Raumpolitik”.

Più complesso, variato e sfumato è il corredo linguistico anglosassone, per l’uso contemporaneo di tre differenti matrici “urban”, “city”, “town”, e con derivazioni del tutto particolari. Così in Inghilterra mentre il verbo “to urbanize” indica l’atto del rendere urbano un sito, con operazioni di trasformazione, queste sono designate, come già si è detto, con “development”, mentre il sostantivo “urbanisation” è usato esclusivamente nel significato statistico di urbanesimo; in America “urbanisation” è usato solo nel significato di estensione delle strutture urbane, ed è anche usata, sia pure non frequentemente, la parola “urbanism”per indicare il “modo di vita” conseguente all’inurbanamento. Per esprimere il concetto di “studio di appropriato sviluppo, pianificazione ed uso della città”, e cioè l’equivalente di urbanistica, l’Enciclopedia Britannica riporta la parola “urbiculture”, che non risulta adoperata nell’uso corrente.

Amplissima è la gamma di combinazioni con “plan”, pianta e progetto, e soprattutto con “planning”, che contiene in sé non solo le operazioni del progettare, ma anche quelle del programmare. Prima e fondamentale combinazione è il “town planning”, vocabolo che in Inghilterra all’inizio del secolo prende il sopravvento su “citv design” ed è consacrato nella prima legge urbanistica inglese, il Town Planning Act del 1909, nel titolo della prima rivista specifica, The Town Planning Review, sorta a Liverpool pure nel 1909, e nel primo congresso inglese, la Town Planning Conference, tenuto a Londra nel 1910: con questo duplice riconoscimento culturale e legale il “town planning” diventa, in Inghilterra, a partire dal secondo decennio del secolo, il termine ufficiale dell’urbanistica, come disciplina autonoma, concernente un campo che, nell’editoriale di apertura della Town Planning Review, è definito «alquanto nuovo ed inesplorato». Negli stessi anni, e precisamente nel 1909, Si aveva in U.S.A., a Washington (D.C.), il primo congresso nazionale di urbanistica, con la denominazione di City Planning. L’uso di questo vocabolo è rimasto in U.S.A. quello prevalente, tanto che anche l’Enciclopedia Britannica ospita la trattazione sull’urbanistica sotto la voce City Planning, scritta da John T. Howard, professore al Massachusetts Institute of Technology; in entrambi i paesi l’urbanista è indicato generalmente con “planner”, mentre in Inghilterra il primitivo “townplanner” è ancora in uso. Il “town planning”in Inghilterra ed il “city planning” in America non esauriscono tuttavia tutte le esigenze operative e culturali dell’urbanistica, che estende ben presto il suo campo di studio e d’azione al territorio ed alla regione. Si passa così in Inghilterra al “town and country planning”, dove “country” sta nel doppio significato di territorio e di insediamenti minori, ed al “regional planning termini questi entrati nell’uso corrente dopo il 1945; in U.S.A. al “city and regional planning” ed all’“urban planning”, dove, secondo Frederik Adams, con il primo si mettono in luce gli aspetti strumentali ed operativi dell’urbanistica al livello territoriale, con il secondo si evidenziano le interrelazioni fra gli aspetti sociali, economici e fisici, contenuti nella pianificazione. In italiano, la traduzione lessicale e concettuale di “town and country planning” e di “city and regional planning” è “pianificazione territoriale”, mentre “urban planning”corrisponde a pianificazione urbanistica, nell’accezione più estensiva. È da notare, tuttavia, che dagli anni ’50 in poi si sta diffondendo sempre più, sia in Inghilterra che in America, l’uso del puro e semplice “planning”, come termine comprensivo di tutti gli aspetti della pianificazione urbanistica: in questo senso la International Federation for Housing and Town Planning, le cui origini risalgono al 1913, ha cambiato denominazione, nel 1956, in International Federation for Housing and Planning (I.F.H.P.).

Anche nell’insegnamento universitario dell’urbanistica, che ha inizio in Inghilterra nel 1919 all’Università di Liverpool ed in America nel 1923 presso la Harvard University, varia è la denominazione delle Facoltà: in Inghilterra è generalizzata la denominazione di “town planning” e di “town and country planning”, mentre sopravvive l’antica denominazione di “civic design”all’Università di Liverpool, adottata peraltro anche in quella di Londra nel ’47, dove “civic design” è considerato l’equivalente di “town planning” ed è usato didatticamente per marcare la contrapposizione con “architectural design”; in U.S.A. le denominazioni prevalenti sono quelle di “city planning” e di “city and regional planning”.

Più ridotto di quello anglosassone, ma non così schematico come quello tedesco, è il lessico francese. Le prime derivazioni da “urbain” sono già state esaminate: “art urbain” e “urbanisation” da cui il suo opposto “désurbanisation”, decentramento urbano. Con gli inizi del secolo, fin dal 1903, prendono l’avvio gli studi storici ed i corsi di storia urbana, “études urbaines”, ad opera di Marcel Poëte, prima su Parigi e quindi sulle città in generale, e da essi, oltre che sull’onda dell’esplosiva attività culturale inglese del primo decennio del secolo, prende inizialmente le mosse 1’“urbanisme” inteso come scienza dell’evoluzione delle città.

Con notevole tempestività, nel 1911, viene fondata la Société Francaise des Urbanistes. Un’intensa attività culturale, nel secondo e terzo decennio del secolo, sviluppa in Francia un’ampia messe di pubblicazioni nel campo dell’urbanistica, incrementata anche dalle traduzioni dei “classici” tedeschi ed inglesi, dal Sitte ad Unwin. Per effetto di tali influssi la parola “urbanisme”, mentre continua ad essere impiegata per gli studi storici o per le anticipazioni del futuro, cede spesso, in quel periodo, alla “science des plans des villes”, che pare più aderente al “town planning”. Dopo gli anni ’30 quest’uso scompare e la parola “urbanisme”riassume in sé tutti i più ampi significati storici, teorici e pratici dell’urbanistica. Nella nomenclatura dei vari tipi di piano appare, fin dai primi anni del secolo, il il “plan d’aménagement”, come piano generale, soppiantato successivamente dal “plan directeur “(1952), mentre 1’“aménagement” è usato sol più nel senso di organizzazione territoriale in “aménagement des territoires” (1949) con le due specificazioni di “aménagement régional” e di “aménagement du territoire” quando l’oggetto è l’intero territorio nazionale. Solo recentemente, a partire dal 1960, e dopo l’avviamento dei piani economici nazionali pluriennali, l’“aménagement des territoires” è sostituito dalla “planification territoriale”, in coerenza con la “planification économique”.

In campo scientifico va ricordato il tentativo di inquadrare 1’“urbanisme” nel più vasto ambito dell’organizzazione dello spazio, per il quale M. F. Rouge ha proposto, nel 1947, la denominazione di “géonomie”, come equivalente del termine tedesco “Raumordnung”.

Attardati rispetto alla cultura internazionale, gli urbanisti italiani fanno le prime prove negli anni ’20, avendo alle loro spalle unicamente gli studi statistico-demografici, che avevano definito scientificamente l’urbanesimo (Mortara, 1908). Il primo congresso italiano è del 1926 (Torino) ed è intitolato all’Urbanesimo, dove questo termine è impiegato sia nel significato demografico, sia come adattamento di “urbanisme”; in questo senso ancora nel 1927, in una pubblicazione di Armando Melis su Torino, è impiegata la parola “urbanesimo”, ma nelle ultime pagine fa la sua apparizione la parola “urbanistica” usata sia come aggettivo, di dottrina, sia come sostantivo; e con urbanistica, anche “urbanista”.

A sprovincializzare l’ambiente culturale italiano concorre il XII Congresso della Intemational Federation for Housing and Town Planning, tenuto a Roma nel 1929, da cui prendono le mosse la costituzione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, avvenuta nel 1931 e l’inizio della pubblicazione della rivista Urbanistica nel 1932.

Questa posizione di retroguardia dell’Italia nella cultura europea contrasta stranamente con l’attività legislativa sviluppatasi ai primordi dell’unità nazionale, che aveva prodotto, in notevole anticipo rispetto alla Francia ed alla stessa Inghilterra, la legge del 1865 sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica, con cui erano stati istituiti, sia pure in forma facoltativa, i “piani regolatori edilizi” ed i “piani di ampliamento”, caratterizzati da una visione sufficientemente allargata del fenomeno urbano.

Bisogna giungere però fino al secondo dopoguerra, perché in Italia si sviluppi una nuova cultura urbanistica, orientata a trasformare i piani urbanistici episodici in un processo di pianificazione continua, che con l’allargamento dell’orizzonte concettuale comporterà anche l’introduzione di un nuovo linguaggio.

DEFINIZIONE DI URBANISTICA

Se sono occorsi oltre cento anni per liberare la concezione dell’urbanistica dalla identificazione dapprima con l’arte urbana e quindi con la normativa edilizia e con l’ingegneria stradale, fino a configurarla come disciplina autonoma, con proprio irriducibile oggetto e specifica metodologia conoscitiva ed operativa, è ben comprensibile che le definizioni formulate in così lungo arco di tempo divergano su di un ampio ventaglio; in questo processo l’atteggiamento acritico di molti urbanisti pratici non ha certamente agevolato il chiarimento scientifico e la stessa operatività degli interventi.

La definizione di arte e tecnica della costruzione delle città, per lungo tempo accettata come semplice parafrasi dello Städtebau, suonava come simmetrica della definizione accademica dell’arte e tecnica della costruzione di edifici (v. ARCHITETTURA) e denunciava, con tale parallelismo, una posizione concettuale che riteneva l’urbanistica coincidente sostanzialmente con la stessa architettura, salvo, se mai, le differenze di scala, come se si trattasse di una particolare categoria di architettura in grande, ricadendo così nell’ormai inattuale definizione di arte urbana; al tempo stesso tale definizione, assegnando all’urbanistica una ibrida natura di arte e di tecnica, apriva una lunga serie di equivoci e di dispute sulla priorità dell’arte sulla tecnica o della tecnica sull’arte o del modo di accompagnare e adattare l’una all’altra.

Per lo Stubben (1889), infatti, scopo dell’urbanistica è ancora il «rivestire la tecnica soddisfazione delle esigenze con piacevoli forme» quasi che si trattasse poco più di un addobbo scenico; definizione questa che, rifacendosi agli epigoni dell’accademia architettonica, ripropone le distinzioni tra forma e struttura, tra pianta funzionale e prospetto artistico di un edificio, e quindi fra trama urbana e decoro architettonico dei vari edifici.

Anche il Larousse du XXème siècle (1933) definiva l’urbanistica come “aménagement et embellissement” delle città e dei villaggi e proponeva di condensare il suo programma nelle tre parole: “assainir, agrandir, embellir”, come sintesi di igiene, comfort ed estetica, nuova versione della triade vitruviana. Ancora nel 1934 Pierre Remaury su uno dei primi numeri della rivista Urbanisme sosteneva che l’urbanistica «coincide con l’architettura, di cui non è altro che un’estensione su di un piano generale»; affermazione questa che di tempo in tempo riaffiora specialmente fra quei critici che dell’urbanistica rilevano come elemento caratterizzante il solo aspetto spaziale e formale del vaso urbano, architettonicamente definito (ad es. Argan, 1938).

Una diversa angolazione è data da chi, pur senza sostanzialmente scostarsi dalla definizione tradizionale, considera come elemento caratterizzante dell’urbanistica la “pianta” della città: l’urbanistica diventa allora l’“arte di progettare” i piani delle città (Art of designing Cities, in Town Planning in Practice, di Raymond Unwin, 1909) e più tardi La Science des plans des villes, di Rey, Pidoux e Barde (1930). Attraverso lo studio della pianta della città (il “piano” coincide in quel periodo con la “pianta in progetto”) si raggiunge così una visione necessariamente d’insieme, sia pure geometricamente raffigurata sul piano, e quindi ancora bidimensionale e staticamente definita, con tutte le limitazioni che ne derivano, ma che rappresenta un primo affrancamento dalla identificazione dell’urbanistica con l’architettura, o dall’ingenuo connubio di arte e tecnica.

È ben vero che lo studio delle piante delle città può condurre, come ha in effetti condotto, a sopravvalutare l’aspetto “geometrico “della pianta stessa, ed a metterne in evidenza le caratterizzazioni morfologiche, e tutta la pur rilevante produzione scientifica del Lavedan, dall’Histoirede l’Urbanisme (1926-1938) alla Géographie des villes (1936), risente di questa accentuazione, ma è anche immediatamente evidente che la rappresentazione planimetrica altro non è che uno strumento simbolico e sintetico nel quale sono condensate le soluzioni di molti problemi di varia natura ed a mezzo del quale si esprime il carattere del prodotto finale: la città. Ed è proprio nella ricerca di una definizione scientifica e pratica dei “problemi” e della “città” che si affina il concetto di urbanistica.

«Urbi et orbi, dentro e fuori la città, nulla senza la città», esclama Le Corbusier nel 1922, presentando il suo progetto di una moderna città ideale, e prosegue: «infatti l’urbanistica è l’espressivo prodotto del patto di associazione che ha sempre condizionato la possibile esistenza degli uomini»; la visione globale della città nuova quale sgorga dall’empito creativo presuppone ed anticipa per Le Corbusier anche una nuova, ma non ben identificata, struttura sociale, basata su di un novello “patto di associazione”; il riferimento alla “conjuratio”, da Max Weber studiata proprio in quegli anni (Die Stadt, 1921) come fondamento sociologico della formazione della città occidentale intorno al mille, parrebbe non casuale.

Ma una definizione dell’urbanistica non può considerare soltanto il caso più propizio ed emozionante, quello delia creazione ex novo di una città, e soprattutto di una grande città, che resta pur sempre un evento eccezionale, ma deve considerare anche le operazioni relative alla trasformazione delle città esistenti, che rappresentano ovviamente il caso più diffuso, comprendendo tutte le possibili trasformazioni dalla creazione all’espansione, alle modificazioni ed alterazioni di qualsiasi entità.

È ciò che era stao espresso in termini assai generali fin dal 1920, da Géo Ford in Urbanisme en pratique: «l’urbanistica è la scienzae l’arte di applicare la pratica previsionealla elaborazione ed al controllo di tutto ciò che entra nell’organizzazione materiale di un’agglomerazione umana e di ciò che l’attornia»: Géo Ford preconizzava fin d’allora che il lavoro di analisi e di sintesi risultasse dallo sforzo combinato di competenze specializzate ed affermava con ampiezza di vedute che il campo d’azione dell’urbanistica è illimitato: non solo villaggi e città, ma anche il territorio circostante, le regioni, una intera nazione sono campo d’azione dell’urbanistica.

È questa una posizione concettuale del tutto nuova, che andrà ad informare l’atività pratica senza immediati sviluppi in sede teorica. Durante gli anni ’30 l’attenzione degli urbanisti teorizzanti è infatti attratta ed assorbita più dallo sperimentalismo del periodo razionalista, limitatoal campo dell’abitazione, dalla casa al quartiere, che dalla sommessa ma seria preparazione dei primi piani scientificamente studiti, che pure vengono approntati in quegli anni. Questi offrono tuttavia la prima vera occasione di scoprire e di afferrare formalmente la complessa realtà urbana attraverso l’analisi sistematica dei fenomeni e l’applicazione dei metodi statistici: esemplare sopra tutti, per metodologia e risultati, lo studio del piano di Amsterdam, durato dal 1928 al ’35. Si può con tutta tranquillità affermare che è su questa esperienza che viene edificata la nuova urbanisitca del secolo XX.

Alla luce di questa esperienza, risultano invece ancora estremamente deboli ed imprecise le definizioni date in quegli anni sull’urbanistica.

Scienza d’osservazione, arte di composizione e filosofia sociale, la definisce Alfred Agache nel 1932; ma poi spiega che «l’urbanista deve tradurre in proporzioni, volumi, prospettive e profili le diverse proposte suggerite da ingegneri, economisti, igienisti e finanzieri» riducendo quindi l’urbanistica ad una sorta di interpretazione e di traduzione simultanea di idee altrui, con evidente negazione di qualsiasi autonomia di metodo e di giudizio. L’equivoco dell’“urbanista-interprete” durerà a lungo, configurando l’urbanistica come una pura e semplice tecnica neutrale e passiva, sottomessa ad altre discipline ed a decisioni del tutto esterne.

Contro questo atteggiamento remissivo e contro il suo opposto, l’atteggiamento demiurgico dell’alternativa globale proposta dall’“urbanista-riformatore sociale”, tipico dell’urbanistica utopistica, vien presa posizione in vari modi ed in varia misura.

L’atteggiamento più prudente, di fronte alla complessità dei problemi posti dalla realtà presente degli insediamenti urbani ed alla vastità delle analisi che essi reclamano, è quello di definire l’urbanistica come “punto di convergenza” di arti e scienze assai diverse (Joyant, 1934) o come “scienza che abbraccia molteplici branche” (Elgoetz, 1935): troppo poco, ma quanto meno, il punto focale è riportato al centro della realtà che si vuole esaminare e modificare e non al di fuori di essa.

Ma se si riconosce che la realtà su cui si vuol operare, ed operare “da dentro”, è complessa ed eterogenea, dovrebbe anche essere possibile individuare un principio di coesione interna specifico per la realtà urbanistica, da cui far discendere una scala di valori, che possa guidare nei giudizi di merito. A questo problema sono state date varie risposte.

Gli architetti ed urbanisti razionalisti degli anni ’30 hanno individuato questo pricipio nel funzionalismo di tutti gli elementi costitutivi della città. Per essi così si esprime Piero Bottoni nel 1938, definendo l’urbanistica «la dottrina che si occupa della organizzazione dei luoghi o centri destinati all’abitazione, alla produzione, alla distribuzione, alla vita collettiva, allo svago e riposo dell’uomo, con le comunicazioni ed i trasporti relativi, nel modo più conforme alla intrinseca funzionalità di quelli ed alle superiori necessità sociali collettive», ma non precisa il principio di funzionalità delle singole parti, né affronta il problema del passaggio dalla funzionalità delle parti a quella dell’insieme.

Il richiamo alla funzionalità, peraltro, non è nuovo nelle teorie architettoniche, ed in urbanistica esso si riallaccia alla penetrante intuizione di Ildefonso Cerdà (1859), che ricercava il principio di coesione interna della struttura urbana nelle ~ relazioni reciproche tra contenuto e contenente, che sono espressione del funzionamento della popolazione nella città», con la differenza che secondo gli urbanisti razionalisti il principio di funzionalità sembra discendere essenzialmente da relazioni intrinseche fra gli oggetti fisici (per es. soleggiamento, e quindi distanze fra gli edifici), mentre per Ildefonso Cerdà il termine di paragone e di misura è la popolazione nel suo rapporto con la struttura fisica urbana: città e popolazione diventano nell’impostazione di Cerdà due termini insopprimibili che vanno costantemente esaminati nella reciprocità delle loro relazioni. Si apre in tal modo il discorso a quella visione generale ed organica che viene ampiamente sviluppata da Patrick Geddes, nei suoi studi sulla evoluzione delle città: per Geddes (1923), l’urbanistica è anzitutto scienza civica, basata sulla “civic survey”, ed ha per obiettivo la riorganizzazione delle città e delle regioni, perché la scienza non può non mirare all’azione, la diagnosi alla cura.

«La città è un organismo, vivente di vita propria», aveva affermato Marcel Poëte fin dal 1908. La concezione organica, che sviluppa le idee di Cerdà, Geddes, Poëte, è chiaramente definita da Luigi Piccinato nell’Enciclopediaitaliana (1938): «l’urbanistica in generale guarda all’evoluzione della città nella sua totalità, poiché la città si può considerare come un essere vivente in continua trasformazione»: inquadrata in questa prospettiva l’urbanistica si propone lo studio generale delle condizioni, delle manifestazioni e delle necessità di vita e di sviluppo delle città.

Ma anche il principio della visione organica, pur costituendo un superamento della posizione tecnicistica dei funzionalisti, appare ancora insufficiente a risolvere tutti i problemi posti dalla pianificazione urbanistica, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, come pure si rivela insufficiente a precisare il metro rispetto al quale possano essere ragionevolmente operate le scelte. Ancor più si complica il problema se nella realtà urbanistica si tien conto anche della struttura sociale e politica.

«Parlare di urbanistica fuori di una determinata concezione etico-politica non ha senso. L’urbanistica non è semplicemente una tecnica», ammoniva nel 1941 Carlo Ludovico Ragghianti.

In un orizzonte così dilatato è ancora possibile ritrovare un principio di coesione, di unificazione e di guida?

Sir William Holford, nel Town and Country Planning Textbook, del 1950, ha individuato tale principio nel «processo di coordinamento e di combinazione di operazioni su vari fronti», che sarebbe comune alle tre fasi fondamentali della pianificazione: l’indagine, il piano di sviluppo ed il programma di attuazione; nel Text-book è praticamente illustrato quanto l’urbanistica possa attingere per le sue analisi dalle varie discipline geografiche, sociologiche, economiche e giuridiche e di quale attrezzatura tecnica specifica ormai essa disponga dopo parecchi decenni di attività sperimentale. Il processo di sintesi occorrente per la formazione del piano è stato chiaramente definito da Lewis Keeble nei Principles and Practice of Town and Country Planning (1952), come risultato di «raccolta, confronto e valutazione di tutte le correlazioni, possibilità e conflitti, posti in luce dalle indagini». Il principio di coesione è dunque, nelle differenti fasi di analisi e di sintesi, anzitutto un principio di metodo. Ma se l’analisi può essere scientificamente condotta, la sintesi resta ancora, nella esposizione del Keeble, frutto soggettivo di una mente.

La ricerca della oggettivazione scientifica di un sempre maggior numero di scelte e la sperimentazione “ex ante” dei risultati di sintesi costituiscono i nuovi temi metodologici degli anni ’60: ed anche se finora i risultati pratici in tale direzione sono del tutto esigui, è tuttavia significativo che il problema sia ormai concettualmente impostato e che costituisca il campo di esplorazione della pattuglia più avanzata negli studi scientifici della pianificazione urbanistica.

Giunti a questo punto dell’esame delle varie definizioni di urbanistica, viste nel loro sviluppo storico e collocate nella loro concatenazione concettuale, riteniamo necessario, per procedere verso una ipotesi di definizione aggiornata, approfondire prima la natura dell’oggetto stesso della ricerca e degli interventi, l’insediamento umano sul territorio, nella sua più civile espressione, la città.

DEFINIZIONE DI CITTÀ

Vastissima è la letteratura sull’argomento, accumulatasi in poco più di mezzo secolo di studi ad opera di geografi, storici e sociologhi; ad essa va aggiunta una ancor più copiosa produzione di monografie locali, compilate a premessa di piani urbanistici, delle quali solo una esigua aliquota ha visto le stampe, mentre la maggior parte di esse, redatte in limitatissimo numero di copie, sono andate disperse. Manca per queste ultime una aggiornata e sistematica bibliografia per paesi, iniziata per ora soltanto in Inghilterra, Francia e Polonia; manca soprattutto, in questo campo, un centro internazionale di documentazione, che garantisca la conservazione e la consultazione dell’immenso materiale prodotto.

Verso una scienza urbana. - L’interesse per lo studio scientifico del fenomeno urbano da parte delle discipline geografiche e sociologiche ha inizio nell’ultimo decennio del secolo scorso, con notevole ritardo rispetto alle manifestazioni di interessamento e di esplosione urbanistica ormai in atto negli Stati Uniti ed in Europa a partire dalla metà del secolo. È infatti di quegli anni (1845) la drammatica denuncia di Engels sulla situazione delle abitazioni della classe operaia in Inghilterra, con la minuta descrizione della situazione urbanistica di Manchester. Ma bisogna giungere fin verso la fine del secolo perché prenda avvio lo studio scientifico degli insediamenti umani, che si sviluppa quasi contemporaneamente secondo vari filoni separati, e spesso contrastanti, facenti capo alle dottrine geografiche sociologiche ed economiche che in quegli anni si formano; sia pure nella molteplicità degli angoli visuali alcuni principi comuni vengono tuttavia riconosciuti e costituiranno il quadro di riferimento concettuale delle ricerche specifiche nel campo urbanistico.

Con l’Antropogeografia di Ratzel (1891) Si enuclea il principio della “unitarietà ambientale” e quindi della concatenazione di tutti i fenomeni di geografia fisica ed umana; l’Ecologia di Haeckel (1884) apre lo studio delle «mutue relazioni di tutti gli organlsmi viventi in un solo ed unico luogo e del loro adattamento all’ambiente che li attornia»; entrambe aprono la strada all insegnamento di Vidal de la Blache ed alla sua Geografia umana (uscita postuma nel 1922), Cui riconoscono di far capo le modeme scuole di geografia urbana che annoverano studiosi della statura di Max Sorre, Pierre George e Chabot.

Nello stesso periodo di tempo si sviluppa la moderna sociologia, che prende le mosse dalla prima opera di Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893); in essa, partendo dalla distinzione tra divisione di lavoro tecnico e divisione del lavoro sociale, Durkheim dimostra che lo sviluppo di quest’ultima conduce alla preponderanza della “solidarietà organica” (per dissomiglianza) sulla “solidarietà meccanica” (per assomiglianza) il che si manifesta con la crescente moltiplicazione di raggruppamenti particolari, la limitazione progressiva del diritto “repressivo” ,1’interiorizzazione della coscienza collettiva e la “fortificazione” della personalità umana. Con Durkheim viene affermata la «specificità della realtà sociale e la sua irreducibilità di fronte a qualsiasi altra realtà»; oggetto e metodo della sociologia, nel pensiero durkheimiano, sono così definiti dal Gurvitch: «La sociologia è una scienza che studia, con vedute d’insieme, in modo tipologico ed esplicativo, i differenti gradi di cristallizzazione della vita sociale, la cui base si trova negli stati di coscienza collettiva, irriducibili ed opachi alle coscienze individuali; questi stati si manifestano nelle costruzioni, istituzioni, pressioni e simboli esteriormente osservabili, si materializzano nella trasfigurazione della superficie geografico-demografica ed impregnano al tempo stesso tutti questi elementi con le idee, va!ori ed ideali cui tende la coscienza collettiva nel suo aspetto di libera corrente di pensiero e di aspirazione». La scuola durkheimiana, continuata da Marcel Mauss e da Maurice Halbwachs autore della Morphologie sociale (1935), è oggi rappresentata da Georges Gurvitch, che definisce la sociologia (1958) come «scienza che studia nel loro insieme ed ai vari livelli di profondità i fenomeni sociali totali astrutturali, strutturabili e strutturati, al fine di seguire-e spiegare, in collaborazione con la storia, i loro movimenti di strutturazione, destrutturazione, ristrutturazione e sprigionamento». Secondo questo indirizzo sociologico la prima tappa nello studio di un fenomeno sociale totale è data dalla ricognizione della superficie morfologica ed ecologica, che studia le esteriorizzazioni materiali della realtà sociale (densità, movimento e distribuzione spaziale della popolazione, insediamenti urbani, vie di comunicazione, utensili etc.) che si possono considerare sociali in quanto penetrate e trasformate continuamente dall’azione umana collettiva.

In questo quadro si collocano le più recenti ricerche di sociologia urbana di Chevalier, e di Chombart de Lauwe, che si riallacciano agli studi di ecologia urbana della scuola nordamericana, iniziati da Robert Ezra Park (1919), sviluppati in collaborazione con Burgess e McKenzie (1925), e proseguiti soprattutto dalla scuola di Chicago.

Lo scopo comune degli studi di sociologia e di ecologia urbana è stato definito da Denis Szabo (1933) come «lo studio dei gruppi sociali e della loro interazione in quanto influenzati da quell’ambiente fisico-psico-socio-culturale che è l’agglomerazione urbana».

Questo rapido schizzo, necessariamente sommario ed incompleto, della nascita degli studi urbani sarebbe ancora fortemente mutilo se non si facesse almeno un fugace cenno ad altri avvenimenti scientifici non meno importanti, quale il sostanziale rinnovamento di antiche discipline, come l’economia e la statistica, avvenuto sullo scorcio del secolo.

Per quanto riguarda la statistica, l’epoca moderna degli studi è collocata alla fine del secolo, con Karl Pearson, da cui hanno origine le modeme scuole di statistica, mentre, per quanto riguarda le scienze economiche, sarà qui sufficiente ricordare, in sintesi, che un decisivo sviluppo del pensiero economico ha inizio, negli ultimi decenni del secolo, per opera di due scuole entrambe astratte (quella austriaca, sull’utilità marginale applicata al campo della microeconomia, e quella di Losanna, sull’equilibrio generale esteso quindi ad una macroeconomia astratta per merito della scuola londinese di Alfred Marshall, che espone la teoria dell’equilibrio parziale basata sull analisi temporale dei periodi lunghi e brevi, e della scuola economica di Stoccolma) e inoltre che gli ulteriori sviluppi passano attraverso alla Teoria generale dell’impiego dell’interesse e della moneta di Keynes (1936), come tentativo di una teoria centrale esplicativa del funzionamento delle fluttuazioni di tutti i settori. Negli anni più recenti si assiste allo sforzo di far convergere le varie scuole moderne di pensiero economico verso una nuova metodologia, basata sulla unificazione dei metodi statistici e matematici e delle teorie economiche, che apre un nuovo campo di osservazione e di congettura; ricerche econometriche, modelli teorici e loro applicazione al mondo reale schemi globali di bilancio nazionale, modelli previsionali e decisionali sono i principali capitoli e le fondamentali tappe di questa nuova scienza economica, che sfocia nella teoria della pianificazione, intesa, secondo la definizione di Gilles-Gaston Granger (1955), come «organizzazione o riorganizzazione sistematica di una struttura e del suo funzionamento».

Il richiamo alle scienze economiche nel corso della presente trattazione potrebbe apparire, a prima vista, quasi senza nesso pratico, se, proprio nelle fasi finali dell’evoluzione del pensiero economico, non fossero stati ritrovati strumenti di osservazione e di previsione di un’economia globale territorialmente definita, che si possono applicare e si incomincia ad applicare anche a regioni, ad agglomerazioni urbane ed a città.

Coordinare ed integrare quelle parti della geografia, della sociologia, ed ora anche dell’economia, che si interessano dei fenomeni urbani in un’unica coerente scienza urbana è un passo ancora da compiere sul piano teorico e metodologico, ma esso appare allo stato attuale dello sviluppo di tali scienze, non solo possibile, ma opportuno ed auspicabile; il tentativo e effettivamente in corso, sia pure in forma ancora grezzamente sperimentale, nei più avanzati studi urbanistici.

Definizione geografico-urbanistica della città. - Una rapida rassegna delle principali fra le numerose defìnizioni di città enunciate da geografi, storici e sociologi moderni, pone in luce la estrema varietà degli aspetti rilevati e dei punti di vista e la difficoltà di contenerli in un’unica proposizione, che risulti valida al di fuori delle differenze temporali e spaziali. Così la definizione di città come «stabile concentrazione di uomini e di residenze che coprono considerevole parte di terreno, con strade commerciali al centro», data da Ratzel (1891), evoca piuttosto i caratteri della città preindustriale che non quelli delle città in esplosione verso la fine del secolo, e non può essere certamente assunta, per incompletezza, come enunciazione generale. Definire la città, distinguendola dal villaggio, per mezzo dell’attività dei suoi abitanti è impresa quasi senza sbocco, perché se si procede per esclusione, come propone von Richthofen (1908), secondo cui la città è «concentrazione di attività non agricole», si ottiene una indicazione non solo vaga, ma anche unilaterale, perché non riconosce carattere urbano alle città agricole che non abbiano carattere di villaggio; se si tenta di elencare tutte le possibili attività non si ottiene altro che una interminabile lista, ed infine, se si cerca di coglierne il carattere predominante, come nella definizione sintetica di Max Weber (1921) della città come «sede di mercato» (con le variazioni di città dei mestieri, dei mercanti o dei consumatori), si individuano solo alcuni degli aspetti economici tipici della città medievale del mondo occidentale, non estensibili ad altri periodi storici, o li si stempera nella genericità, come nella formula di H. Wagner (1923) per il quale le città sono «punti di concentrazione del commercio umano». Sempre in questa direzione sono ancora da segnalare la definizione di Bruhnes e Deffontaines (1920), secondo i quali «vi è città ogni qual volta gli abitanti impiegano la maggior parte del loro tempo all’interno dell’agglomerazione», che è evidentemente inapplicabile alle città-dormitorio ed alle città agricole, inentre lo potrebbe essere anche ad annucleamenti non strutturati; fra le più recenti quella di Pierre George (1952) che individua la città nel «punto di contatto tra economia industriale ed economia commerciale», anche questa tuttavia suscettibile di riserve. Utile ai fini orientativi e descrittivi, ma scientificamente sterile, è la classificazione tipologica degli insediamenti umani catalogati secondo i più svariati caratteri, dagli aspetti fisici del sito a varie ed arbitrarie classi di ampiezza, alle funzioni prevalenti (commerciali, militari, portuali, industriali, amministrative, politiche, religiose, turistiche, ecc.), ognuno dei quali, come ad esempio quello amministrativo, può generare numerose sottoclassi, e così via.

L’unico tentativo di trar partito da queste numerose classificazioni per una annotazione di sintesi dei dati segnaletici relativi ad un insediamento è stato realizzato da Griffith Taylor, che in Urban Geographie (1947) propone una “equazione di città", composta di due membri: il primo, a sinistra, formato dalla cifra della popolazione (in migliaia) moltiplicata per lo stadio di sviluppo (per il quale propone una curiosa divisione in cinque classi d’età: infantile, giovanile, adolescente matura e senile) più i caratteri del sito (espressi secondo una data classificazione); il secondo, a destra, formato da una somma di tanti addendi quante sono le zone funzionali della città, ciascuna delle quali contrassegnata da un’espressione composta dalla sigla di destinazione d’uso, dalla distanza chilometrica della zona dal nucleo centrale e dalla posizione della zona stessa rispetto ai punti cardinali, sempre riferita al nucleo centrale. Il metodo, per quanto perfezionabile ed utilizzabile ai fini classificatori, non risulta praticamente applicato.

Più fecondo di risultati è stato invece il metodo della lettura morfologica dell’insediamento, proposto dal Lavedan (1936), che individua come elementi generatori della pianta: l’asse stradale generatore, le direttrici naturali, il rilievo, l’eventuale cinta muraria, i monumenti (che determinano nel tessuto edilizio movimenti di avvolgimento, di attrazione o di prospettiva) ed infine i sistemi geometrici razionali di urbanizzazione (a scacchiera, radiocentrici, lineari, a fuso, ecc.).

Il metodo, se criticamente utilizzato, può fomire lo spunto per la interpretazione dei caratteri urbani, come hanno dimostrato gli studi di Luigi Piccinato sulle città medievali; «nell’organismo urbano», dice sinteticamente Umberto Toschi (1947) «funzioni e forme differenziano elementi costitutivi numerosi e diversi che bisogna cercare di individuare nei loro caratteri interiori ed esteriori».

L’analisi morfologica dell’impianto, del tracciato e del tessuto di un insediamento e dei caratteri del sito determinanti per la struttura urbana può quindi esser utilmcnte eseguita come uno dei primi passi verso la conoscenza della realtà del fenomeno urbano, ma può anche condurre a risultati del tutto sterili ed astratti, se l’esame vien limitato all’aspetto puramente geometrico e fisico degli elementi generatori della pianta, perché allo studio dell’organismo urbano, che pur si dichiara di non poter conoscere se non nella globalità di organismo, si sostituisce la descrizione schematica e statica del suo scheletro o, se si vuole, del suo guscio, correndo lo stesso rischio, denunciato da Marcel Mauss, di chi «trascura l’elemento vulcanico, novatore, effervescente, rivoluzionario della vita sociale, considerandola sotto l’aspetto istituzionale, visto di preferenza nella sua espressione cristallizzata e cadaverica».

Quest’esigenza era già stata profondamente capita da Patrick Geddes (1854-1932), che, superando l’esame delle semplici interazioni fra luogo-lavoro-popolo, proposte da Le Play e da lui attivizzate nei rapporti fra organismo-funzione-ambiente, ha insegnato a considerare le città nel loro stato di evoluzione e ad analizzare la condizione attuale in tutti i suoi aspetti dinamici, anche negativi. A lui si deve non solo la definizione della “città paleotecnica”, frutto della rivoluzione industriale incontrollata (che ha prodotto Kakotopia), cui contrappone la fase “neotecnica” (Eutopia), secondo una schematizzazione tipologica ed una terminologia che saranno ampiamente sviluppate da Lewis Mumford, ma anche una serrata critica della dispersione e disseminazione urbana in atto sul territorio inglese nei primi anni del secolo, con le patologiche manifestazioni dei nastri continui e delle fungaie di case o di quelle particolari proliferazioni di tessuto astrutturato che si sviluppano irregolarmente e con discontinuità attorno e fra i centri industriali fino a dar luogo, nel loro complesso, ad un nuovo tipo di insediamento e ad una nuova forma di aggregazione urbana, dal Geddes battezzata “conurbazione” (1915).

Il processo di urbanizzazione spontanea, sollecitata dai singoli interessi privati dell’economia capitalista in espansione, era infatti, in Inghilterra, in stadio di avanzata degenerazione fin dai primi anni del secolo con manifestazioni che si sarebbero prodotte solo più tardi in altri paesi, con la puntuale ripetizione ed accumulazione di identici aberranti effetti. Si sono così avuti differenti aspetti morfologici di espansione incontrollata, con casi di avvolgimento a nubi attomo a città accentrate tradizionali, con infiltrazioni a spora e a grappolo germogliate fra città principale e corona di città minori, oppure con inserimenti di tessuto sfilacciato ed informe fra città e città di pari importanza o, ancora, con la formazione di un amorfo tessuto indefinitamente dilatabile: ovunque si siano manifestati, questi nuovi insediamenti hanno rapidamente rotto l’antica separazione fra città e campagna, sconvolgendo antiche e recenti equilibrate strutture di quei sistemi solari urbani già studiati da Walter Christaller (1933) e che ora vengono trasformati da costellazioni in galassie, o dissolvendo ogni sistema in un’unica nebulosa urbana, formata da un “continuum urbano-rurale”, variamente diluito o condensato (A. Smailes, 1953).

I moderni geografi (T. W. Fawcett, Chabot e Pierre George) continuano ancora a denominare tali fenomeni “conurbazione “quando le città d’origine, fra le quali si sono insinuate le proliferazioni, restano distinte pur essendo inglobate in un unico insieme, ma li battezzano “agglomerazioni” quando tra città e proliferazioni si stabilisce uno stretto grado di interrelazioni e di dipendenza. Nel recente linguaggio urbanistico inglese, il termine “city region”, già adoperato dal Geddes in senso geografico di regione urbana, è ora spesso usato per indicare quelle conurbazioni che siano soggette ad un processo di ristrutturazione urbanistico-amministrativa, per la loro trasformazione da aggregati informi in aggregazioni strutturate. In questo senso “city region” è da tradurre con “regione urbanizzata” più che con “città-regione”, come spesso è stato impropriamente ed affrettatamente fatto in Italia in tempi recentissimi, dando luogo ad equivoci ed abusi nominalistici; il termine città-regione, infatti, non esprime con evidenza il senso di ricupero di una situazione negativa in atto, ma induce piuttosto all’illusoria scoperta di una nuova categoria di supercittà quasi che l’estensione del concetto di città ad un ampio territorio comportasse anche la risoluzione o l’assoluzione di tutti i suoi problemi.

Per alcuni geografi inglesi, tra cui il Dickinson (City, Region and Regionalism, 1947-1960), il termine di “city-region” è invece usato per indicare l’area tributaria funzionalmente dipendente, o servita, da una città, nel senso quindi geografico-economico di area di influenza.

"URBANISTICA", NEI TESTI LEGISLATIVI NAZIONALI

Legge 17 agosto 1942, n. 1150, articolo 1

Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi

L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno sono disciplinati dalla presente legge.

Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo.

Decreto Presidente Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, articolo 80 (ora abrogato)

Le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”

Si osservi il profondo cambiamento tra la formulazione del 1942, limitata ai centri abitati e al loro ampliamento edilizio, e la formulazione del 1977, che estende l’urbanistica all’interi territorio e “a tutti gli aspetti” del suo governo

"GOVERNO DEL TERRITORIO", NEI TESTI LEGISLATIVI NAZIONALI

Norme per il governo del territorio, testo unificato licenziato dalla Commissione parlamentare, XII legislatura, l’11 gennaio 2001 (“legge Lorenzetti”)

Governo del territorio: le disposizioni e i provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono.

Disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005, in un testo risultante dall’unificazione dei disegni di legge presentati nel corso della XIII legislatura (“Legge Lupi”)

Il governo del territorio consiste nell’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie.

Si osservi l’analogia del primo testo (Lorenzetti) con la definizione di “Urbanistica” del 1977, e il ritorno, nel secondo testo (Lupi) di elementi della definizione del 1942 (“obiettivi di sviluppo del territorio”)

"GOVERNO DEL TERRITORIO", NELLE INTERPRETAZIONI REGIONALI

Regione Emilia-Romagna (dal sito della Regione)

Per governo del territorio si intende l’insieme delle attività finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alla trasformazione del territorio. Il governo del territorio comprende quindi tutto ciò che attiene alla regolazione dell’uso del suolo e alla localizzazione di opere, interventi o attività Rientrano nella materia del governo del territorio le seguenti discipline:

- l’urbanistica e la pianificazione d’area vasta;

- l’edilizia privata;

- l’edilizia residenziale pubblica;

- la programmazione, localizzazione e realizzazione delle opere e lavori pubblici;

- le espropriazioni per pubblica utilità;

- gli interventi di riqualificazione e la disciplina dei centri storici;

- la pianificazione paesaggistica.

La Regione, nell’ambito delle proprie competenze legislative, definite dall’art. 117 della Costituzione, emana leggi e altri atti normativi in materia di governo del territorio per promuovere lo sviluppo economico, sociale e civile della popolazione regionale, assicurando un uso appropriato delle risorse ambientali, naturali, paesaggistiche, territoriali e culturali.

Regione Toscana (dal sito della Regione)

Il governo del territorio è l'insieme delle attività che riguardano l'uso del territorio: le conoscenze, le norme e la gestione finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alle trasformazioni delle risorse che lo costituiscono. L'obiettivo è quello di tener conto delle esigenze legate alla migliori qualità della vita delle generazioni presenti e di quelle future.

Estratti da: Regional Plan for New York and its Environs, Volume I: The Graphic Regional Plan, 1929 (Ristampa Arno Press, New York, 1974) – Cap. III: Land Uses

Titolo originale Regional Zoning – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli obiettivi e le tecniche dello zoning sono descritti nel Volume IV dello Stato di Fatto Regionale. Com’è noto, si tratta di una classificazione che stabilisce i diversi aspetti normativi dei terreni edificabili. Le sue applicazioni locali devono essere gestite da quegli organi amministrativi autorizzati direttamente dagli stati a redigere piani di zonizzazione.

In pratica, nella regione di New York lo zoning è stato gestito dalle municipalità, dai distretti e dai paesi, sia come elemento di un piano completo sia come singolo intervento, composto solo da un’ordinanza e da una cartografia che ne illustrasse le previsioni. Lo zoning ha permesso di delimitare le aree ad uso industriale, terziario e residenziale. Allo stato delle cose, non è mai andato oltre la delimitazione e la regolamentazione di usi che non fossero connessi direttamente con nuove edificazioni. La questione di una possibile applicazione per preservare dall’edificazione specifiche aree, oltre a quelle già destinate a pertinenze degli edifici, richiede di essere presa seriamente in considerazione. Questo problema verrà discusso più tardi insieme alle proposte di riservare spazi aperti, soprattutto per grandi residenze di campagna, campi da golf e aziende agricole.

Oltre alle restrizioni relative agli usi dei suoli, lo zoning prescrive le altezze massime, l’area di sedime, l’allineamento e la quantità di spazi pertinenziali, tutti elementi che determinano il volume o la densità di strutture private. Trattandosi di misure di controllo della proprietà privata, è necessario che vengano rispettate le procedure, con metodi che non possano essere contestati sul piano dell’accuratezza, dell’equità e della ragionevolezza. Per questo, la zonizzazione deve essere applicata, entro il perimetro dei confini amministrativi, da quegli uffici locali che vengono delegati direttamente dallo Stato.

In una regione vasta, che comprenda molte amministrazioni locali, non è possibile che uno schema di zoning possa essere predisposto per adattarsi a più applicazioni specifiche; e in una regione come quella di New York, che si estende in tre stati, è impossibile avanzare proposte unitarie adatte alle differenti leggi e alle diverse procedure di questi tre stati. Ad una certa scala, quindi, le proposte per uno zoning regionale devono essere limitate ad un ampio disegno che misuri l’idoneità dei suoli ai diversi usi edilizi. E’ evidente che c’è bisogno di uno schema del genere che fornisca un valido aiuto alle singole municipalità, anche nel relazionare il proprio territorio con quelli limitrofi.

Di queste proposte che si riferiscono alle altezze, alle densità e ai volumi degli edifici, non si può rappresentare nulla nella Cartografia del Piano Regionale. Sono questioni che riguardano la trattazione dei principi nel Volume II del Piano, ad integrazione della descrizione della normativa e delle procedure che appaiono nel Volume VI dello Stato di Fatto.

Oltre all'impraticabilità di rappresentare in dettaglio le diverse destinazioni d'uso di ogni zona, non si trarrebbe alcun vantaggio da un procedimento del genere. Come ha sottolineato Mr. Frederick Law Olmsted, la zonizzazione regionale dovrebbe limitarsi essenzialmente a delimitare poche grandi aree, in modo da servire come guida, oppure, sotto forma di vincolo normativo, come strumento di controllo, per un successivo e dettegliato zoning locale, per dare più efficacemente possibile un contributo finale ad uno sviluppo della regione equilibrato e unitario.


Meglio le zone omogenee a forma di “cuneo”

Una caratteristica importante della mappa degli usi mostrata dal Piano è che si adegua ad un sistema radiale o ad una rete di corridoi piuttosto che ad un sistema a fasce circolari. Lì dove il termine “zoning” indica la perimetrazione di una serie di fasce concentriche intorno alla città, ognuna delle quali con una funzione prevalente – per esempio, una fascia prevalentemente residenziale o una prevalentemente industriale – viene proposto un modello di crescita urbana insolito e poco desiderabile. Solitamente, la città cresce in modo radiale lungo le linee del trasporto pubblico e le aree intermedie si saturano lentamente man a mano che nuovi mezzi di trasporto avvicinano l’un l’altro le strisce o i settori radiali.

Ci sono casi, naturalmente, in cui linee di trasporto circolari definiscono fasce urbane più o meno continue, ma si tratta di casi eccezionali. E anche se la città tendesse a crescere per fasce concentriche uniformi rispetto ad un centro, sarebbe comunque importante per la residenza e le industrie garantire una continuità radiale piuttosto che circolare.

Un esempio della necessità di definire zone omogenee a forma di “cuneo” ci è stato offerto dal rapporto preliminare per la Commissione del Piano Regionale di Long Island, redatto da Mr. Frederick Law Olmsted. Egli notò come fosse molto meglio preservare lungo le colline che si estendono dal Forest Park nel Queens fino alle montagne della contea di Nassau una zona a forma di cuneo destinata a residenze ad alta densità che mantenesse intatte le sue bellezze naturali. Dimostrò che la continuità di questo cuneo poteva essere seriamente compromessa dallo sviluppo industriale presso le paludi di Flushing e di un’area che si estendeva dalle paludi fino a Jamaica Bay. Il risultato sarebbe stato di avere un’area industriale a tagliare trasversalmente una zona che per buona parte poteva essere più adatta alla residenza.

Facciamo un altro esempio. Dal momento che vaste aree delle praterie di Hackensack sono state occupate dall’industria, sarebbe auspicabile proteggere dai confini con queste praterie alcuni corridoi altrettanto estesi, destinati a residenze ad alta densità, attraverso il Passaic River fino alle colline del New Jersey. Ma c’è pericolo che prenda piede uno sviluppo industriale pressoché continuo lungo entrambi i lati del Passaic River tra Newark e Paterson. Se questo accadesse, si creerebbe una barriera industriale in mezzo ad un corridoio residenziale che dovrebbe estendersi attraverso il Passaic River vicino a Belleville.

Provate a pensare all’effetto che potrebbe avere sulla crescita residenziale lungo la parkway della contea una fascia a destinazione industriale che si estende attraverso la Contea di Westchester, dal Sound fino al fiume Hudson. Invece, un “cuneo” radiale a uso industriale che penetra nella contea non provocherebbe alcun danno sul quello residenziale.

Lo stato di fatto per quanto riguarda la topografia, il trasporto pubblico e la domanda di servizi, mostra che una ampia classificazione dei distretti in zone omogeneee dovrebbe avvenire per “cunei”, al cui interno possono esserci adeguate variazioni in punti specifici e che siano coordinati con gli schemi di zoning che sono stati redatti per il piano di sviluppo delle fasce concentriche, come il Metropolitan Loop mostrato nella Cartografia del Piano.

Disponibilità di terreni inedificati

Prima di illustrare la descrizione degli usi del suolo, è bene porre attenzione all’ampia quantità di terreno destinato dal Piano alle aree estensive. Queste aree, che rappresentano almeno i tre quarti di una regione di 3.537.249 acri, sono, nelle idee di molti, aree più o meno edificabili. Ai più sembra inconcepibile che, in una regione urbana, un terreno possa essere proficuamente conservato o distinguersi per un uso che non comporti edificazione. Anche l’Atlante mostra vaste aree per la crescita urbana per una popolazione che è due volte quella attuale nella Regione e a questo scopo utilizza solo un quarto dell’area.

Nella Regione, si pone ormai il problema di come evitare l’edificazione lì dove non conviene e promuoverla lì dove conviene. Tutto dipende da quanto rendono i terreni edificabili e dall’uso che si fa degli spazi aperti. Si pongono anche i problemi di come lasciare libere vaste aree, che servono per residenze di campagna e istituti, e di come riservare terreni per l’agricoltura e il rimboschimento a vantaggio sia della comunità che dei proprietari terrieri.

Il problema dell’attrito tra gli spazi della residenza e i luoghi di lavoro è legato in particolar modo anche al problema dell’uso del suolo. Uno studio di questi problemi, tra loro correlati, rivela alcuni aspetti che forniscono raccomandazioni e suggerimenti per la disposizione e la distribuzione future di queste destinazioni d’uso.

Aree intensive e aree estensive

E’ sembrato utile descrivere gli usi del suolo secondo due grandi categorie: aree intensive e aree estensive. Le aree intensive sono quelle aree in cui una considerevole percentuale della superficie è coperta da edifici. Non è stata adottata alcuna percentuale specifica come parametro per distinguere le aree intensive. La difficoltà di definire un valore che permettesse una stima accurata sarebbe stata eccessiva e, comunque, un’informazione del genere sarebbe stata di dubbio valore, data la differenza dei livelli di densità delle diverse parti di un’area. Una differenza considerevole sia all’interno delle singole aree della Regione sia tra le zone centrali e quelle periferiche. All’interno delle zone centrali, comprendenti New York City, Hudson County e Newark, la crescita edilizia è più fitta e gli spazi aperti sono meno che nelle zone suburbane che si estendono dal confine della zona centrale per un raggio di 20 miglia. Allo stesso tempo, ci sono differenze considerevoli all’interno di ciascuna zona, così come esemplificato nella densità dei quartieri ad appartamenti del Bronx e del quartiere di villette del Queens. La zona periferica, comprendente tutti i terreni oltre il raggio di 20 miglia, differisce in parte per i caratteri e gli usi delle zone suburbane, ma nelle sue aree urbane raggiunge praticamente la stessa densità. La sua caratteristica più riconoscibile è la grande estensione di spazi aperti. Il massimo della varietà appare tra Manhattan Island e Mountain Lakes. Le aree estensive della prima verranno considerate come aree intensive nella seconda.

Generalmente, le aree intensive indicano un uso relativamente intenso del suolo rispetto ai comuni standard di concentrazione di edifici delle diverse parti della regione. Nelle aree ad alta densità, piccoli parchi urbani, campi da gioco, autostrade e altri tipi di spazi aperti che costituiscono il tessuto urbano di un quartiere, sono considerati come parte integrante del carattere di alta densità dei terreni vicini. Sono quindi considerati con la stessa destinazione d’uso dei terreni edificabili, cioè come una parte di un’area di crescita ad alta densità.

Nello studio degli usi, lo staff del Piano Regionale ha ricavato una grande quantità di informazioni dal rilievo regionale e da studi specifici sul campo condotti dai suoi membri durante le estati tra il 1924 e il 1927. Un aiuto prezioso è arrivato dallo studio delle carte aeree e delle mappe catastali e topografiche delle varie aree urbane. Ai fini del Piano Regionale, le aree intensive sono state classificate secondo le destinazioni d’uso terziaria, industriale e residenziale. Il termine “uso” è da riferirsi alla destinazione prevista per il terreno edificabile piuttosto che allo stato di fatto. Quindi, i terreni che sono già frazionati o stanno passando da agricoli a edificabili fanno parte di un’area intensiva. Nel caso in cui le aree vengono effettivamente indicate come edificabili, il Piano prevede a grandi linee che i nuovi volumi serviranno a soddisfare il fabbisogno per la popolazione stimata nella Regione al 1965.

Le aree estensive comprendono tutti i terreni della Regione che non fanno parte di quelle intensive. La sotto-classificazione degli usi per gli spazi aperti sono:

a) parchi pubblici;

b) le riserve d’acqua;

c) piste per cavalli e sentieri per escursioni;

d) spazi aperti semi-pubblici, come campi da golf e circoli sportivi, tenute di grandi istituti e cimiteri;

e) piste di atterraggio per aerei, pubbliche e private;

f) campi militari;

g) tenute private e poderi, comprese le aree estensive per le imprese agricole

h) spazi pubblici in prossimità dei corsi d’acqua e dei laghi

Nota: il Piano Regionale di New York del 1929 pone una questione essenziale: per risolvere i problemi dell'area metropolitana è necessario intervenire a scala più vasta. Per una migliore comprensione dei suoi contenuti, alleghiamo due file pdf scaricabili, realizzati da Fabrizio Bottini: nel primo, una breve presentazione delle strategie per il trasporto, il sistema insediativo e l'ambiente, nel secondo alcune immagini che illustrano un possibile futuro per New York (g.b.)

here English version

Tratto da: Proceedings of the Eighth National Conference on City Planning, Cleveland, June 5-7, 1916 (New York: National Conference on City Planning, 1916)

Titolo originale: Districting by Municipal Regulation – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli urbanisti devono proprio ammettere che ce n’è abbastanza per dar ragione alle frequenti critiche al movimento per la pianificazione comunale in questo paese, con il risultato che di questo movimento si è tanto discusso ma che poca concreta pianificazione è stata fatta, e i risultati raggiunti sono stati ignorati.

Sono convinto che il motivo per cui si è fatto così poco è perché non siamo mai stati in grado di attuare un piano regolatore e questo è successo perché non abbiamo mai adottato un piano che suddividesse correttamente in zone le nostre città.

Abbiamo sentito questa mattina, e chi studia urbanistica questo lo sa, che se la parola pianificazione significa qualche cosa, significa principalmente diversificare – diversificare, ad esempio, l’uso delle strade, diversificare i viali e le strade locali, diversificare la larghezza delle strade.

Ma in che modo possiamo creare delle differenze nel resto del mondo se non riusciamo nemmeno a capire come farlo a casa nostra?

Questo è il problema con cui si confronta chi pianifica una città in anticipo rispetto al suo sviluppo. Quanti urbanisti possono dire con certezza quando redigono un piano: “quest’area sarà una zona residenziale e rimarrà tale. E questa parte della città sarà una zona produttiva e rimarrà tale. E quest’altra parte della città sarà una zona destinata a quartieri operai”. Sarebbe bello se potessimo fare affermazioni del genere. Parole magiche per chi si è confrontato sul campo con le difficoltà di ordine pratico.

Pianificare significa diversificare anche sotto altri aspetti. Ad esempio, differenziare la dimensione dei lotti. Il lotto per la casa di un milionario, come quelli da trecento metri che abbiamo visto oggi, sarà totalmente diverso da quello necessario per costruire la casa di un meccanico.

O ancora, avremo bisogno di un lotto dalle dimensioni differenti a seconda che si tratti di un lavoratore non specializzato, che guadagna al massimo 15 $ a settimana o di un artigiano specializzato che guadagna da 25 a 40 $ a settimana.

Ovviamente il lotto di una fabbrica sarà diverso per dimensione e forma da quello di una residenza.

Come urbanisti, ci è stato richiesto di progettare le nostre città, anche se ogni volta era impossibile sapere in anticipo quale parte della città sarebbe diventata una zona produttiva e quale una zona residenziale e se sarebbero rimaste tali per un lasso di tempo ragionevolmente lungo rispetto alla vita di quei centri.

In queste circostanze, non è così strano che, mancando quegli elementi essenziali per un corretto sviluppo dei piani, non siano stati fatti passi avanti verso una pianificazione comunale attuabile.

Con l’espressione “suddivisione in zone” intendiamo, a quanto ho capito, il dividere la città per grandi linee in quartieri o in comparti e il definirne le caratteristiche attraverso leggi e ordinanze che prescriveranno gli usi e le altezze degli edifici con criteri diversi da zona a zona, così come la quantità di spazi aperti necessaria per garantire aria e luce.

Potremo anche veder crescere un meraviglioso centro civico come è successo qui a Cleveland; potremo anche avere un meraviglioso sistema di parchi come ce l’hanno Boston e Philadelphia; o un meraviglioso sistema di edifici ricreativi come quelli di Chicago – ma tutto questo, anche se è importante, non è pianificazione. E’ solo una fase del processo pianificazione.

Non ci può essere un piano urbanistico se gli usi delle varie parti di una città non possono essere definiti con un certo grado di precisione.

Non è strano, quindi, che prima d’ora gli urbanisti non abbiano fatto molta pianificazione reale. Non è stata colpa loro. Sanno bene cosa vogliono fare, ma non hanno ancora capito cosa possono fare nelle condizioni di governo più comuni nel paese.

A causa di questi limiti, i costruttori e gli operatori immobiliari in passato hanno provato come potevano, mediante vincoli di tipo privato, a conseguire i risultati prefissati. Sappiamo tutti che questi vincoli privati, di solito, sono anche meritevoli.

Stamattina, in uno dei dibattiti, qualcuno ha domandato quando dovrebbero scadere i vincoli privati. Non si pone proprio il problema, perché sappiamo tutti che dopo 25, 50 o 75 anni di continua crescita, le condizioni cambiano e i tribunali vanno avanti, e, morto chi per primo pose quei vincoli, le corti di solito sentenziano: “non manterremo oltre questi vincoli”. Con questo non voglio dire che non ci siano molti aspetti che possono essere tranquillamente regolamentati mediante accordi privati, ma, ad esempio, per mantenere l’uso residenziale di un quartiere l’esperienza generale sembra suggerire che non possiamo contare su quello che è semplicemente un contratto privato o un accordo tra due parti. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che quando due parti vogliono sciogliere il contratto non c’è ragione perché questo non debba avvenire. La questione dell’interesse pubblico normalmente non viene proprio considerata.

Alcune delle difficoltà incontrate nel tentativo di definire il carattere di un quartiere imponendo dei vincoli privati sono deliziosamente illustrate da un rapporto elaborato recentemente da una commissione del Consiglio di Consulenza per le Rendite Immobiliari di New York City. Se posso, vorrei leggervi brevemente cosa ha scoperto la Commissione, che è solo la punta dell’iceberg.

Oggetto dell’indagine era quello di mettere a punto una base di lavoro ragionevole, grazie alla quale potessero essere superate le difficoltà delle convenzioni vincolanti, ma la Commissione ne ha quasi ammesso l’impossibilità, dicendo apertamente “al momento non siamo in grado di redigere una legge guida per i consorzi immobiliari, e quindi il problema delle convenzioni vincolanti in questa città diventa contraddittorio, un problema senza una soluzione”.

”Un riassunto del rapporto della commissione è un elenco di situazioni che dimostrano chiaramente le molte incongruenze delle decisioni giuridiche.

E così, i palazzi ad appartamenti sono autorizzati, nonostante i vincoli per le abitazioni nel tratto di Murray Hill, sulla Ventesima strada, a Manhattan, e sulla Settantottesima Ovest tra Broadway e Amsterdam Avenue, sulla Centoquarantesima Strada e su St. Nicholas Avenue, ma una trifamiliare non potrebbe esistere su Sedgwick Avenue e Undercliff Avenue nel Bronx; un’abitazione non può essere usata come sanatorio a Brooklyn nè un garage può essere costruito sullo stesso lotto a White Plains. Una casa popolare può essere costruita nonostante le convenzioni per abitazioni a Brooklyn ma non sulla Tenth Avenue o sulla Sessantaquattresima, a Manhattan. Un’abitazione può essere trasformata nella sede di un’impresa su Madison Avenue e sulla Quarantunesima; in una sartoria sulla Ventiquattresima Ovest; ma non in un palazzo per uffici sulla Quarantesima Ovest, né uno stilista può mettere un’insegna sulla Cinquantaduesima Ovest.

Un’infermeria può essere costruita sulla Settantunesima e su Madison Avenue, una scuderia di cavalli può rimanere tra gli appartamenti sulla Centottantanovesima Strada; una casa-albergo è autorizzata sulla Quarantatreesima e sulla Fifth Avenue, ma per acquistare pane e torte da un fornaio è meglio il Southern Boulevard. La raffineria di resine nel quartiere Erie Basin di Brooklyn non piace a nessuno, ma la sopraelevata nel Bronx è permessa. Una palazzo di uffici di venti piani può essere costruito lungo un fronte edilizio in violazione di una norma esistente sulla Ventiseiesima, maguai a chi osa tirare su un rifugio a un piano nel retro di Brooklyn. Una stazione di servizio a Broadway e sull’Ottantunesima non è conforme, ma un garage vicino alle abitazioni va bene a Flatbush.

”Sono amare considerazioni, che scoraggiano chi opera nel mercato immobiliare e chi si sente in dovere di consigliare proprietari e progettisti” dice la Commissione.

Il concetto è espresso molto più sinteticamente di come lo avrei espresso io, e vi dà un’immagine chiara dei risultati sconfortanti che emergono dalle varie interpretazioni giuridiche dei diversi contratti tra proprietari che hanno venduto per mantenere il carattere residenziale del quartiere in cui stavano costruendo e per preservarlo da ciò che ritenevano essere un danno.

Comunque, anche se l’insuccesso nel mantenimento di un uso è un problema serio, ancora più serio è che in questo sistema un vincolo privato è più che altro un’ombra sul relativo titolo di proprietà e così contribuisce a distruggere i valori immobiliari. Poche persone sono disposte a investire i loro capitali nel mercato immobiliare in circostanze come queste, in cui l’unica garanzia della stabilità del carattere residenziale di un quartiere deve essere ricercata in un accordo privato, che come già detto, è materia di controverse decisioni giuridiche.

Per dare fiducia agli investitori, una restrizione di questo tipo non deve solo essere favorevole, deve anche sembrare favorevole. E’ come un uomo che è onesto di questi tempi. Non deve solo essere onesto, deve anche sembrare onesto.

Dunque, siamo costretti ad accettare le conclusioni che Mr. Taylor ha formulato, che, per certi aspetti essenziali, possiamo controllare il carattere del nostro quartiere solo attraverso normative nazionali o comunali.

Se io suggerissi a quest’uditorio di cercare di controllare la qualità del latte venduto a Shaker Heights mediante un atto di convenzione (sic), pensereste giustamente che è una proposta ridicola.

Allo stesso modo, se si proponesse di garantire la sicurezza dei pedoni sulle nostre strade e sulle superstrade mediante accordi privati tra proprietari, messi agli atti, chiunque penserebbe che è una cosa assurda.

I tempi sono ormai maturi per chiamare gli Stati all’uso del grande potere che è nelle loro mani, affinché proibiscano ciò che sappiamo essere sicuramente dannoso per la comunità.

Sette anni fa, lo stato più a ovest, la California, progressista come sempre, ha aperto la strada ai piani per zonizzare le città. Non voglio annoiare la platea spiegando in dettaglio i piani elaborati per la zonizzazione. Si è già detto tutto più di due anni fa all’incontro di Toronto. Lasciatemi però ricordare brevemente qual era il piano per Los Angeles.

Fu approvato un’ordinanza municipale, in base alla quale la città venne divisa in tre zone principali – zona industriale, zona residenziale e quella che fu chiamata “eccezione alla residenza” una sorta di zona ibrida dove alcune industrie non dannose erano consentite.

In una delle zone che l’ordinanza definiva residenziali c’era una fabbrica di mattoni, proprietà di un certo Hadacheck, un nome destinato a rimanere celebre.

Non so se Hadacheck fosse un tipo eccessivamente litigioso, ma, ad ogni modo, era determinato a scoprire se lo Stato avesse il diritto di privarlo della sua fabbrica.

L’ordinanza in questione era retroattiva e non solo proibiva la localizzazione futura di qualsiasi fabbrica di mattoni in una zona residenziale, ma dichiarava illegittima qualsiasi fabbrica già esistente e imponeva che venissero smantellate.

Il caso fu portato all’attenzione della Suprema Corte della California e nonostante il fatto che Hadacheck riuscì a dimostrare alla Corte che la fabbrica era stata costruita lì in un’epoca in cui il quartiere non era entro i limiti del centro abitato, che esisteva da molto prima che si sviluppasse il carattere residenziale del quartiere, che il sito era molto più idoneo alla produzione di mattoni che alla residenza, che il suo investimento di 50.000 dollari sarebbe stato completamente inutile se gli fosse stato imposto di abbandonare la fabbrica – nonostante tutti questi elementi, la Suprema Corte della California stabilì che l’ordinanza era costituzionale e ad Hadacheck fu imposto di dismettere la produzione di mattoni in quel luogo.

Sull’esempio della California, ma apparentemente ignare di ciò, diverse altre città hanno emanato simili ordinanze e alcuni Stati hanno approvato leggi in materia.

Quelli di noi che credevano nel principio della zonizzazione aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto la massima autorità del Paese, la Suprema Corte degli Stati Uniti, quando avrebbe esaminato il caso, sperando che venisse confermata la decisione della California.

A dire il vero, molti di noi non credevano che sarebbe stata confermata, anche se ci speravamo fermamente. Gli avvocati che avevamo consultato sulla costa orientale ci dissero “Si, certo, è una decisione della California, ma i tribunali qui non tengono in grande considerazione le decisioni della California”.

Eravamo ormai arrivati ad un punto in cui avremmo voluto sapere con chiarezza cosa potevamo e cosa non potevamo fare e alcuni di noi erano dell’idea che sarebbe stato saggio prendere un caso tipo e portarlo fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, in modo da chiarire una volta per tutte se fosse possibile controllare il carattere residenziale di una zona usando i poteri di polizia. Come già detto, era ora che la massima autorità del paese ci dicesse se questo era possibile e, se si, come avremmo dovuto farlo.

Ce l’hanno detto a Gennaio, quando la Suprema Corte degli Stati Uniti prese una decisione nel caso Hadacheck. Non solo confermarono la costituzionalità dell’ordinanza e che fosse legittimo l’uso dei poteri di polizia, ma scrissero una sentenza che è una pietra miliare della storia della giurisprudenza Americana, una sentenza a cui aveva lavorato l’intera Corte. Si tratta della sentenza più radicale che ho mai avuto il piacere di leggere. A mio giudizio, rivoluzionerà le condizioni di vita delle città americane e la vita quotidiana di tutti noi.

Voglio richiamare la vostra attenzione su due punti di questa sentenza che sono di particolare importanza.

Per la prima volta nella giurisprudenza americana abbiamo una legge di questo tipo sostenuta non sulla base della salute pubblica o della pubblica sicurezza ma da un principio nuovo, più generale e radicale, “il benessere generale”.

Si apre uno spiraglio, che potrebbe allargarsi molto di più. Fino a che punto, pochi di noi possono dirlo. Sappiamo tutti che i poteri di polizia sono piuttosto vaghi e non ben definiti. Le corti li hanno saggiamente mantenuti tali e all’epoca a molti sembrava che si fossero tenuti abbastanza larghi. [...].

Naturalmente, non dobbiamo fare tutto mediante regolamenti comunali. Non possiamo, ad esempio, definire lo stile architettonico nello sviluppo di Shaker Heights; non possiamo nemmeno fare in modo che le abitazioni in quella zona costino non meno di 10.000 $ o 15.000 $. Non possiamo stabilire che tutti i tetti di una certa zona debbano essere rosa, come sono in Forest Hills. Qualcuno sarà contento che non possiamo farlo.

Ci sono ancora molti altri aspetti che saranno affidati ad atti di convenzione privati. Senza dubbio molti vincoli di questo tipo avranno effetti per molti anni, e il mio consiglio a chi lottizza è di restare nei paraggi, non importa quanti siano i regolamenti comunali.

Prima di chiudere, due parole sulla mia New York. E’ stato fatto un lavoro colossale per suddividere in zone quella enorme comunità cosmopolita di oltre 5 milioni di persone e i cittadini di New York e dell’intero paese devono molto agli uomini che hanno fatto questo lavoro. Mi riferisco in particolare a uomini come Ed. Bassett, il Presidente della Commissione per la Zonizzazione di New York, che vi ha dedicato gran parte del suo tempo e non è solo bravo ma sembra anche uno bravo! Non è solo un uomo imparziale, ma sembra assolutamente imparziale; almeno a tutte le audizioni pubbliche.

Perchè, signori e signore, uno può sottoporre un caso a Bassett, tornare a Flatbush e ritornare a Manhattan per la prima udienza e Bassett ha già preso una decisione definitiva.

Uno degli aspetti interessanti del lavoro di New York è stato l’atteggiamento del pubblico. Con grande sorpresa dei membri della Commissione e dei loro amici, le maggiori critiche sono arrivate non dagli riformisti e dagli urbanisti, ma dagli operatori immobiliari e dai proprietari, e non perché le sue raccomandazioni erano troppo radicali ma perché non erano abbastanza severe.

Praticamente tutti i quotidiani di New York hanno scritto editoriali in merito quasi ogni settimana, lodando il lavoro della Commissione e sottolineando la grande importanza di vedere le sue raccomandazioni trasformate in legge.

Questo atteggiamento della stampa è dovuto in larga parte al modo intelligente in cui la Commissione si è occupata della cosa.

Così come è stata la Commissione di Bassett, è stata anche la commissione di Ford – ma non nel modo in cui pensate voi - perchè Ford, come molti di voi sanno, è stato una delle tre guide del lavoro. L’altro è stato Whitten, il segretario della Commissione. Whitten, comunque, è talmente impegnato da non poter essere qui. Non voglio dire che Ford non faccia nulla, ma qualcuno deve pur lavorare e dato che Ford è il più mondano dei due, Whitten è rimasto a casa.

Mentre organizzavo questa sessione della conferenza, ho chiesto a Ford se volesse darci qualche suggerimento su cosa dovessimo discutere in questa sessione.

Mi ha spedito cinquantasette temi, ognuno dei quali diceva essere fondamentale, per poi scoprire che ognuno di essi avrebbe impegnato in una discussione praticamente tutto il pomeriggio.

Appena seduto, lascerò a Ford qualche istante per discutere di quei 57 temi, se il Presidente gliene concederà facoltà.

Scherzi a parte, il problema a New York è di una certa dimensione e il lavoro fatto è di portata epocale. Naturalmente la Commissione è riuscita a fare la metà di quello che avrebbe dovuto fare. Gli standard che hanno stabilito non sono molti, ma non avrebbero potuto stabilirne quanto avrebbero voluto e riuscire allo stesso tempo a mantenere il consenso dell’intera comunità – gli interessi immobiliari, quelli finanziari, quelli degli edifici, praticamente di tutti. Con i loro regolamenti, non hanno fatto tutto quelle cose che qualcuno di noi avrebbe voluto facessero e che loro stessi avrebbero voluto fare, ma è un buon inizio.

Nè il merito del loro lavoro è limitato alla sola New York City. Come tante altre cose fatte in questo grande centro abitato, ciò che è fatto qui ha valore per l’intero paese. Con l’adozione di regolamenti di questo tipo a New York City, un’ondata si propagherà per tutto il paese, anche nei paesi più piccoli, un’ondata di sensibilità pubblica che porterà all’adozione di regolamenti di questo tipo.

In molte città del paese si sente dire sempre più spesso “Se lo fa New York, perché noi non possiamo?” e loro cominceranno a zonizzare le loro città.

Quella che vedo è la situazione più favorevole che il gruppo degli urbanisti abbia mai fronteggiato. Lo ripeto, siamo sul punto di assistere a un grande cambiamento nelle condizioni di vita in America. Stiamo per rivoluzionare la situazione nell’arco di una sola generazione, al punto tale che la generazione che verrà dopo di noi dirà: “Non è quella un’interessante dimostrazione della timidezza e della mancanza di coraggio degli uomini che sono venuti prima di noi? Perché mai hanno perso tempo a decidere quando avrebbero potuto iniziare a zonizzare una città?

Nota. Vale la pena evidenziare due questioni cruciali poste dalle parole di Veiller, ben sintetizzate nel titolo originale “Districting by Municipal Regulation”. La prima è di ordine semantico: il termine “districting” definisce l’azione di suddividere la città in distretti omogenei. Oggi viene spontaneo pensare alla “zonizzazione” e alle “zone territoriali omogenee”, ma il fatto che il termine “zoning” non venga mai adoperato dimostra il carattere fondativo e “pionieristico” del dibattito che si sviluppa intorno al Piano di New York in quegli anni.

La seconda questione è più sostanziale. I “vincoli privati” e le “convenzioni vincolanti” di cui si parla traducono rispettivamente “restrictions” e “restrictive covenant”. Ci si riferisce a particolari accordi privati, con i quali i primi proprietari e lottizzatori dei terreni pongono delle limitazioni che vanno dalle destinazioni d’uso fino alla manutenzione degli spazi aperti e che valevano anche in caso di vendita dei terreni e degli edifici.

Vincoli di questo genere costituivano un limite per lo zoning, che non poteva definire con sufficiente precisione gli usi delle diverse parti della città, limitando, di fatto, l’efficacia dell’intero piano. Da qui l’esigenza che alcuni aspetti essenziali venissero regolamentati solo attraverso regolamenti comunali.

Infine, vale la pena ricordare la figura di Lawrence Veiller (1872–1959), che fu uno dei maggiori esperti americani di politiche abitative. Fu segretario della Commissione per le Case Popolari dello Stato di New York e tra i promotori della prima Legge per l’Edilizia Popolare. E vale la pena ricordare che questo documento fa parte della ricca antologia curata da John Reps, liberamente accessibile on-line all’indirizzo www.library.cornell.edu/Reps/DOCS/homepage.htm. (g.b.)

Here english version

Titolo originale Beneficial effects of zoning plan - Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Il programma delineato dalla Commissione per le altezze degli edifici e lo zoning ha ricevuto il consenso di chiunque vedesse i propri interessi toccati dalla zonizzazione e l’approvazione è stata data proprio a causa di un interesse personale.

Vorrei fare alcune considerazioni positive sul piano, sotto più punti di vista, perché credo ne trarranno largo beneficio non solo quei quartieri in cui vengono impedite le cosiddette “attività indesiderate” ma anche quelle zone in cui tali usi saranno consentiti. La Commissione per lo zoning ha fatto anche un ottimo lavoro delimitando quei quartieri in cui la manifattura può essere consentita o meno.

Un grave danno è stato arrecato in passato non tanto dalla costruzione di fabbriche in certi quartieri quanto dai continui cambi di localizzazione di tutti i tipi di attività commerciali. E infatti il piano di zonizzazione dice che “ sarà consentita l’espansione commerciale nei quartieri in cui quest’uso è già presente, ma dovrà rimanere entro questi quartieri e dovrà cessare la sua costante delocalizzazione”. Il piano per “ salvare la Fifth Avenue” è un semplice aspetto, anche se interessante, di un’idea più complessa.

A questo punto, quale sarà l’effetto sul mercato immobiliare di Manhattan? La mia personale opinione, basata su venticinque anni di esperienza, è che alla fine gli affitti e i valori di mercato si ri-stabilizzeranno in tutte le zone commerciali.

Credo che nei vecchi quartieri, dalla Trentatreesima Strada fino a Chambers Street, i valori aumenteranno gradualmente fino a riallinearsi a quelli vigenti prima che le attività commerciali si trasferissero verso nord. I quartieri di più recente costruzione, dalla Trentatreesima strada fino alla Cinquantanovesima, aumenteranno il loro valore più rapidamente di quanto sia avvenuto in passato e, una volta stabilizzati, i valori immobiliari di entrambi i quartieri si manterranno costanti nel tempo.

Il piano di zonizzazione è la soluzione di uno dei più grossi problemi che New York abbia mai affrontato in molti anni. Tutti sanno che i valori immobiliari si abbassano da Chambers Street verso la Trentatreesima strada, con l’eccezione della Fourth Avenue, proprio a causa del continuo spostamento dei centri di attività commerciale. Nella zona di Broadway, da Chambers Street fino alla Quarantesima strada, i valori sono crollati dappertutto, con percentuali che variano tra il 40 e il 70 per cento.

L’area tra la Quattordicesima e la Trentesima Strada, anche se non nelle stessa misura, ha perso abbastanza valore da bloccare qualsiasi investimento e da provocare un mancato introito per la città di milioni di dollari.

”Salviamo New York”, lo slogan dei commercianti della Fifth Avenue, non viene vale soltanto per quell’area. Il piano di zonizzazione salverà l’intera New York, perché recupererà tutte quelle grandi aree a sud della Trentatreesima Strada, oggi a rischio per il costante spostamento dei centri di attività commerciale.

Il piano di zonizzazione prevede, logicamente, per questi vecchi quartieri una destinazione d’uso commerciale, dato che già oggi gli scambi e la produzione tendono a concentrarsi qui.

Il ritorno dei commerciati in quei quartieri che sono stati migliorati apposta per loro, tra la Quattordicesima e la Ventitreesima strada, significa che gli spazi oggi sfitti verranno presto riutilizzati. Gli affitti, così, aumenteranno e i valori immobiliari di conseguenza ricominceranno a salire.

Con l’aumento della domanda, si costruiranno nuovi edifici e ci saranno strutture progettate appositamente per l’uso previsto, dalle quali si trarrà il maggior guadagno possibile. In questi quartieri è previsto di limitare la manifattura in certe zone lungo Broadway, Fifth Avenue e Madison Avenue e lungo tutta la Fourth Avenue.

Credo che la zona tra la Quattordicesima e la Trentatreesima strada, lì dove la manifattura sarà consentita dal piano di zonizzazione, diventerà zona di rifornimento per la grande area di commercio al dettaglio subito a nord e sarà il mercato di riferimento per la vendita al dettaglio in tutto il paese. Sarà, consentitemi l’espressione, il quartiere manifatturiero di classe di New York.

Ci sarà competizione per accaparrarsi gli edifici meglio posizionati e, poichè l’area è decisamente limitata, non ci sono dubbi sul fatto che i valori aumenteranno con regolarità.

La riqualificazione del quartiere a sud della quattordicesima strada è già nei fatti. Le cronache delle ultime settimane hanno registrato l’intenzione di molti grossi proprietari di valorizzare i loro terreni con edifici dotati di moderne strutture antincendio per destinarli alla manifattura leggera.

La parte bassa della zona commerciale deve praticamente essere ricostruita, dato che gli edifici esistenti sono completamente inadeguati e non rispondono ai severi requisiti richiesti per la sicurezza richiesti dai vari dipartimenti. E dato che i valori dei terreni in questa zona sono più bassi che altrove i margini di guadagno per costruire sono sicuramente più alti.

Oltre al piano di zonizzazione, la nuova metropolitana di Broadway riuscirà senza dubbio a riportare la produzione in quest’area. Dichiarazioni ufficiali del Dipartimento delle Finanze dicono che l’anno scorso i valori di questa zona hanno raggiunto il livello più basso ma che la tendenza al rialzo è già evidente.

Sono completamente d’accordo, e credo che, anche se non si ritornerà ai valori del passato con la stessa rapidità con cui sono scesi, credo che il ripopolamento dei vecchi quartieri commerciali porterà ad un costante aumento di valore.

Chi investe con i valori di oggi trarrà grandi soddisfazioni dai propri investimenti.

here English version

Sempre sull’introduzione dei principi di zoning nel piano di New York trovate qui un altro articolo pubblicato sul New York Times. E qui un brano tratto dal libro di Franco Mancuso “Le vicende dello zoning” (g.b.)

Titolo originale: "A city of homes" Aim of zoning plan - Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Una vita domestica decorosa e confortevole la chiave di lettura del rapporto della Commissione - Le fabbriche danneggiano la residenza - L’insalubrità e la mancanza di igiene sono causate dalla mancanza di aria e luce nei quartieri sovraffollati.

La Commissione per la suddivisione in distretti e le restrizioni alle costruzioni consegnerà domani la bozza del suo rapporto alla Commissione Bilancio, contenente le raccomandazioni riguardanti i regolamenti per contenere le costruzioni in alcune zone, limitando le altezze degli edifici, e più in generale per mantenere stabili i valori immobiliari e promuovere l’igiene e la bellezza dell’ambiente urbano.

Il rapporto rileva come nel costruire la città anche una pianificazione insufficiente sia meglio di niente e come nella crescita di New York non sia stato seguito alcun piano. La città ha ormai raggiunto un punto oltre il quale la crescita non pianificata non può non portare al disastro economico e sociale. Già oggi, a causa di una crescita edilizia casuale e del diffondersi di usi inappropriati – rileva la commissione – il valore capitale di intere aree si è fortemente svalutato.

“Mentre a New York le forze economiche spingono a concentrare le grosse fabbriche lungo i corsi d’acqua e presso i terminal ferroviari e a concentrare alcune piccole industrie in prossimità del commercio all’ingrosso e al dettaglio, di hotel e dei terminal passeggeri nel centro di Manhattan, ci sono molti altri tipi di piccole attività che non hanno vincoli di alcun tipo e vengono localizzate indiscriminatamente per tutta la città” dice il rapporto. “Le fabbriche danneggiano il tessuto residenziale. Distruggono le comodità, la quiete e i vantaggi della vita domestica. Non c’è nulla di più vitale per una città dell’abitare della propria popolazione. Non c’è nulla di più essenziale per garantire la qualità dell’abitare che escludere i traffici commerciali e la produzione industriale dalle strade residenziali.

Una decorosa vita domestica la chiave di lettura

Il rapporto spiega nel dettaglio questo disagio ed è proprio l’importanza di condizioni opportune per la vita domestica la chiave di lettura. Il problema del sovraffollamento è strettamente connesso alla localizzazione degli spazi per gli scambi e per la produzione. La commissione rileva come in molti casi è il costruttore che specula il principale responsabile del posizionamento del primo edificio in un isolato. Il primo ha luce e aria in abbondanza e lo spazio al piano terra si affitta con facilità. Seguono poi gli altri e i loro costruttori non hanno motivo per tenere le altezze più basse o dotarli di più ampi cortili o corti interne rispetto al primo. Aree di questo tipo sono cresciute per singole aggiunte successive e molte sono ormai al punto di rimanere soffocate dalla propria stessa crescita.

“L’attrattività sociale ed economica di edifici contenuti in altezza e dotati di un minimo di cortile o di spazi aperti è stata chiaramente riconosciuta dalle case-appartamento promosse dalla legge sull’edilizia popolare”, continua il rapporto. “Se un regolamento simile fosse stato adottato per gli uffici e i laboratori si sarebbero evitati gravi danni. Solo attraverso un piano che divida l’intera città in zone, gli utili principi contenuti nella legge per l’edilizia popolare possono essere mutualmente applicati a tutti i tipi di edifici in ogni parte della città. Si dovrà procedere prima ad un raggruppamento parziale degli edifici in relazione all’uso e poi ad una differenziazione delle altezze e delle previsioni di spazi aperti, in conformità con l’intensità d’uso, attuale e prevista, nelle varie parti della città”.

La Commissione ritiene che un piano per zone omogenee consenta di stabilire norme appropriate e ragionevoli per ogni singolo edificio e, allo stesso tempo, di garantire la sostanziale uniformità normativa relativamente ad altezze e spazi aperti per tutti gli edifici dentro un unico isolato. Ma questo piano guarderà anche al futuro. La difficoltà del piano, comunque, è che non si possono radere al suolo gli edifici né si possono mettere in discussione i diritti acquisiti per ripartire da zero. Il piano deve partire dalle condizioni esistenti. La Commissione ritiene, tuttavia, che senza dubbio alcune norme porteranno mutui benefici sia ai proprietari che alla collettività. Le proposte relative alle zone omogenee, perciò, si limitano a dare solo quelle indicazioni che la magistratura competente può considerare contemplate dalla legge. Il regolamento proposto si applica solo alle future costruzioni e ai relativi usi.

Lo spazio per le abitazioni è salvo

Il piano di zonizzazione divide la città in aree residenziali, aree per il terziario e aree senza restrizioni. Nei quartieri residenziali il piano lascia alle abitazioni i fronti stradali dovunque sia possibile. I viali e le strade principali vengono incluse quasi sempre nei quartieri d’affari, dato che la destinazione d’uso a uffici sul viale si può estendere per circa 300 metri sul retro delle strade residenziali. Nei quartieri meno costruiti è sembrato realistico destinare solo seconda o terza strada ad uffici. Un piano complessivo per il futuro assetto della città non è stato ancora elaborato.

Un piano complessivo per i porti e le attrezzature ferroviarie non è stato ancora messo a punto. Lo sviluppo futuro dei parchi non è stato ancora approfondito. Per questo un uso realistico o auspicabile per molte aree è ancora estremamente incerto e il rapporto cita ad esempio le aree intorno Jamaica Bay e Gravesend Bay e la riva sud di Richmond. Di conseguenza queste e alcune aree in simili condizioni non sono state classificate e non sono state poste restrizioni.

Sono previsti cinque limiti di altezza. L’altezza dell’edificio viene limitata in relazione alla larghezza della strada. I multipli variano da due volte e mezzo la sezione stradale, nei quartieri d’affari e finanziari di Manhattan, a una volta la sezione stradale in molti quartieri non edificati negli altri quattro distretti.

La Commissione, comunque, ha attenuato la rigorosa applicazione di questo principio stabilendo che, per calcolare l’altezza limite sulla base della larghezza della strada, una strada più stretta di 15 metri deve essere considerata come una di 15 metri ed una strada più stretta di 30 metri deve essere considerata come una di 30 metri

Consentiti edifici fino a 20 piani

Per una parte dell’area della Fifth Avenue vengono proposti i limiti di un quarto e di una volta e mezzo la sezione stradale. L’altezza di due volte la larghezza della strada è consentita in una stretta fascia sul waterfront di Manhattan e lungo l’East River waterfront di Brooklyn, Queens e nel Bronx; anche per una piccola area intorno gli uffici principali e il centro d’affari di Brooklyn. Nelle zone dove il limite è due volte la larghezza delle strade da 18 metri, gli edifici possono arrivare a 36 metri, o circa 10 piani, sul fronte stradale e, arretrando di circa 4 metri, possono salire di altri 4 piani oltre quell’altezza.

Sulle strade di 30 metri gli edifici possono arrivare a 60 metri, o circa 16 piani, sul fronte stradale e, arretrando di circa quattro metri, possono salire di altri 4 piani oltre quell’altezza.

L’unico distretto in cui viene proposta un’altezza limite di due volte e mezzo la sezione stradale è l’area degli uffici della Lower Mahattan. L’altezza di due volte la larghezza della strada è consentita nelle aree residue dei quartieri commerciali e industriali più intensamente sviluppati, in un’ampia fascia nel centro dell’isola, dalla parte più bassa della città fino alla Cinquantanovesima Strada.

Quando lo zoning diventa strumento per un ordine razziale oltre che edilizio: un brano tratto da "Le vicende dello zoning" di Franco Mancuso. (g.b.)

here English version

Nota: quello che segue è un estratto, se pur molto ampio, dal documento (edito dalla Tipografia del Commercio di Venezia nel 1867), che copre la parte analitica, ma non le proposte di progetto (f.b.)

Il presente scritto ha per iscopo di studiare quelle riforme materiali, che se furono sempre un bisogno indiscutibile di Venezia, tanto più vengono domandate d’urgenza, ora che le sue mutate condizioni politiche le permettono di pretendere che i progressi delle scienze e delle arti vengano applicati a formare di essa quell’insieme perfetto, che non soltanto dai suoi cittadini ma viene desiderato dagli italiani tutti e dagli stranieri.

Prima di passare al dettaglio di quelle innovazioni e migliorie che io intendo proporre, avendo di mira l’igiene, la comodità, la proprietà e la bellezza, metto sott’occhio al lettore una breve descrizione topografica della città nella quale farò anche risaltare la distribuzione degli abitanti in ragione di numero e di qualità nei differenti circondari, in cui trovo conveniente di dividerla mentalmente.

Una linea retta che si tiri fra il centro dell’isola di S. Pietro di Castello da un’estremità e la Chiesa del Corpus Domini dall’altra, linea che risulta della lunghezza approssimativa di chilometri quattro; questa linea costituisce l’asse longitudinale della città, la quale si distribuisce quasi simmetricamente al dissopra e al dissotto di quest’asse, raggiungendo la larghezza massima di metri 2500 tra la fondamenta delle zattere e gli orti di S. Alvise, e la minima di metri 700 al rivo delle gorbe.

Se a poca distanza dall’asse (metri 150) e precisamente alla metà del campo S. Luca noi facciamo centro e con un raggio di metri 800 descriviamo una circonferenza, ci sembra di aver diviso la città in quattro scompartimenti, ciascuno dei quali ha una fisionomia propria e circostanze particolari che noi tenteremo di delineare partitamente per poi comporne una sintesi, o, come dicono i matematici, trovare la risultante di questi quattro enti o forze che ci darà la fisionomia generale della città.

Questi quattro circondari sono:

I – Lo spazio racchiuso nella circonferenza suaccennata, e che noi, quantunque abbiamo poca deferenza agli immortali, chiameremo di S. Marco.

II – Lo spazio racchiuso tra il rivo dei Mendicanti, la circonferenza suddetta, la riva degli Schiavoni, i Giardini, S. Pietro, l’Arsenale e che denomineremo Castello.

III – Lo spazio che resta a sinistra di S. Marco al dissopra dell’asse, detta da principio, e che chiameremo Cannaregio.

IV – Finalmente, lo spazio a sinistra di S. Marco al dissotto dell’asse, al quale poniamo, più o meno impropriamente, il nome di Giudecca.

Il circondario di S. Marco

Questo circondario, che è rappresentato sulla carta dal circolo compreso nella circonferenza descritta, è tutto ciò che di più singolare contiene Venezia e che potrebbe paragonarsi allo scudo di Achille, così riccamente descritto da Omero. E difatti qui abbiamo S. Marco e i suoi annessi, i principali monumenti sacri quali le chiese di S. Marco, la Salute, i Frari, S. Zaccaria, Ss. Giovanni e Paolo, i Miracoli; abbiamo le piazze più spaziose della città, quelle di S. Marco, di S., Stefano, di S. Paolo, di S. Angelo, di S. Maria Formosa, di Ss. Giovanni e Paolo; tutti i cinque teatri della città; Rialto e i suoi mercati; la Borsa; l’Accademia di belle arti; il Governo; i Tribunali; gli Archivi; la Dogana di mare; gli Alberghi; e finalmente, come se ciò non bastasse, abbiamo due terzi (2.700 metri), la parte più ricca di Palazzi di questa strada unica al mondo che si chiama il Canalazzo. Tutta la vita cittadina qui si concentra, la borghesia e la nobiltà predominano sulle altre classi sociali; vi hanno ricetto le belle arti, e le classi operaie in generale, e specialmente le industrie che hanno genesi dal mare, vi sono affatto escluse. Eppure qui ebbe origine e sede la prisca città, la quale, si vede, che prosperando e aumentando, gli strati, dirò così di nuova formazione invece di sovraporsi o inestarsi indistintamente ai più antichi ne li scacciavano a dirittura verso la periferia la quale andava sempre più allargandosi, ma il nocciolo d’oro restò sempre nel centro, vicenda non nuova nelle città antiche e che si ripete a Parigi a Vienna, che mostra l’indole assolutistica della classe dominante; quando viceversa a Milano, splendida officina del medio-evo, le arti industriali avevano ricetto all’ombra del Domm.

Ma l’epoca moderna rovescia gran parte delle istituzioni vetuste, le classi sono avvicinate, certe anomalie non possono e non devono più sussistere e ne viene di conseguenza che a chi studia i miglioramenti di Venezia si presenta a risolvere il seguente:

PRIMO PROBLEMA – Ottenere che la popolazione delle classi elevate si persuada a spostarsi dal centro alla periferia, e perciò facilitare non solo le comunicazioni ma provvedere alle comodità della popolazione lontana.

Di ciò si parlerà nel seguito del presente scritto.

La superficie di questo primo circondario, detraendo quella occupata da Gran Canale e dalla parte di laguna tra la piazza e la Dogana, ascende a decare o pertiche censuarie 1.607, circa la quarta parte della superficie occupata dall’intera città che risulta di 6.154 pertiche, delle quali 275 costituiscono l’Arsenale e di queste 109 in acqua, e 822 le due isole della Giudecca e di S. Giorgio.

Ora vediamo la quantità di popolazione dalla quale questo circondario viene abitato. Qui devo premettere che pei confronti che ho istituiti sulla popolazione mi sono servito dell’anagrafi del 31 ottobre 1862 e questo per due ragioni; la prima perché quell’anno è circa a una eguale distanza dalle due epoche di commozione 1859 e 1866, e per conseguenza si può ritenere che la cifra della popolazione si avvicini alla media più generale, la seconda perché negli uffici dell’Anagrafi, il 1862 è l’ultimo in cui si sieno compilati i prospetti della popolazione divisa per sestieri e parrocchie, i quali fanno tanto al caso mio.

Sopra 122.391 abitanti che conteneva l’intera città 51.483, poco meno della metà, erano stipati nel I° circondario, cioè sopra una superficie che non è che il quarto della totale, ed il terzo se si vuole non tener conto dell’arsenale e delle isole di Giudecca e di S. Giorgio.

Dall’esame di queste cifre noi siamo condotti a conchiudere che la popolazione più agiata è quella altresì che è più soggetta alla privazione di quei due splendidi doni che la natura non ha dato in proprietà a nessuno, l’aria e la luce.

Né io mi chiamo pago di ciò e voglio condurre il lettore alla conoscenza di più muniti particolari.

La parrocchia di S. Marco con una superficie totale di 86 pertiche ha una popolazione di 4.799, cioè per ogni pertica abitanti 56,04. Io feci però il calcolo minuzioso della superficie puramente abitata e cioè escludendo le vie, i canali, le piazze, i cortili i luoghi pubblici ecc., si ha per questa parrocchia la superficie di sole pertiche 62 e per ogni pertica 77,52 abitanti. Questo calcolo che avrei voluto fare per tutte le parrocchie se ne avessi avuto il tempo, ma che però intendo di fare in seguito, istituito sopra alcune delle principali parrocchie, mi da pel I° Circondario il seguente prospetto:


Parrocchie Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
totale abitata totale abitata
S. Marco 86 62 56,04 77,52
S. Maria del Giglio 63 44 49,21 70,32
S. Luca 65 42 48,39 74,45

La media risultante di abitanti 74 per ogni pertica di superficie si può tenere per approssimazione la media del I° Circondario.

Il circondario di Castello

Per la posizione marittima di Venezia il secondo circondario di Castello ha un’importanza tutt’altro che secondaria, specialmente poi quando l’arsenale ed il commercio marittimo ritornino in fiore e le relazioni coll’Oriente; aspirazione sempiterna della città sieno ristabilite come ai tempi antichi.

Questo circondario forma da sé una cittadella nella città, ha abitudini proprie e quasi un linguaggio particolare. Tutti gli adifizi che alla marina militare si riferiscono sono inchiusi in esso, l’arsenale, le caserme, il bagno, e tutti i cittadini appartenenti al ceto marittimo. Ma sopra una superficie totale di 1.162 pertiche, poco meno di un sesto della città con 20.635 abitanti, sesto del totale, non ne ha che appena 541 circa di superficie abitata e abbiamo, analogamente a quanto fu calcolato nel 1° circondario, il seguente prospetto:


Parrocchie Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
S. Pietro di Castello 252 83 37,02 111,81
S. Giovanni in Bragora 93 34 44,05 110,68

Qui ci è giuocoforza confessare, che queste cifre ci parlano in un senso molto desolante. Dunque la popolazione operaia, arsenalotti, costruttori, velieri, che abitano in S. Giovanni in Bragora e in S. Pietro di Castello è realmente più stipata di tutta la popolazione benestante che abita il centro della città. Ma non solo è più stipata, ma se si considera in quali specie di lupanari essa è rinchiusa, si può ben dire che questa classe infelice non ha niente da farsi invidiare dalla popolazione agricola che nelle città dell’Italia meridionale forma il ribrezzo dei viaggiatori. Noi annunciamo qui un fatto che forse si collega assai di più di quello che sembra allo studio che veniamo tracciando. Nel 1863, il primo posteriore a quello in cui fu fatta l’anagrafi su cui basiamo i nostri studj, sopra la mortalità di 3.585 individui, 429 morirono da tisi polmonare ed altre malattie affini e 129 da idropisia il che costituisce nientemeno che l’11,94 per % di tisici e il 15,54 per % comprendendovi le idropisie, malattie che sentono l’influenza della mancanza d’arieggiamento, di comodità, di pulizia. E notisi che negli anni successivi la proporzione aumentò di maniera che nei primi cinque mesi del 1866 essa raggiunse nel primo caso il 12,61 per % e nel secondo il 18,11 per %.

Dall’esposto scaturisce la necessità di studiare il seguente

SECONDO PROBLEMA – Costruire delle case operaie nel circondario di Castello e dilatare la superficie abitata specialmente nelle parrocchie di S. Pietro di Castello, di S. Giovanni in Bragora e di S. Martino.

III circondario di Cannaregio

Il circondario di Cannaregio ha una superficie di 1.467 pertiche, poco meno della quarta parte della città e una popolazione di 30.331 abitanti, il quarto del totale, che vivono sulla superficie abitata di 1.031 pertiche. Qui i polmoni incominciano a respirare, non troviamo più le miserabili viuzze di Castello, né il labirinto di S. Luca, ma canali e vie larghe, case arieggiate, benefiche ortaglie; qui infine il padrone del secolo, il vapore, vi pose, come doveva porre, la sua dimora. Occupano una gran parte di questo circondario stabilimenti industriali, opificj a vapore, depositi di legnami, macello, stazione della ferrovia e la maggior parte della popolazione industriale è qui raccolta. La difficoltà di calcolare sollecitamente le aree delle abitazioni non ci permette di dare il soli prospetto che per la sola parrocchia di Ss. Ermagora e Fortunato dove abbiamo:


Parrocchia Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
Ss. Ermagora e Fortunato 140 65 34,25 72,94

Questi dati si devono ritenere superiori alla media generale di tutto il Circondario, considerando che S. Geremia e S. Marziale sono parrocchie disabitate.

Secondo dunque le nostre idee di riforma un centro d’attrazione della popolazione dovrebbe cadere in questo circondario, dove le condizioni generali sono nello stato il più soddisfacente. Ne emerge che qui si deve far capo a un terzo problema, il quale è in istretta colleganza col primo.

PROBLEMA TERZO – Trovare nel 3° Circondario di Cannaregio un centro di attrazione e proporre i modi di renderlo rispondente a tutte le esigenze della popolazione.

IV circondario di Giudecca

Il quarto circondario di una conformazione complessiva, parte continentale e parte isolana ha una superficie totale di 1.900 pertiche, poco meno di un terzo della intera città, delle quali 87 costituiscono il Campo di Marte, 733 l’isola della Giudecca, e 87 quella di S. Giorgio; ha una popolazione di 19.942 abitanti (un sesto del totale) dei quali 17.146 nella parte continentale e 2.796 nella isolana. La superficie abitata nella parte continentale è di 756 pertiche. Anche qui non si è calcolato il prospetto che per una parrocchia.


Parrocchia Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
S. Maria del Rosario (I Gesuati) 180 79 21,05 47,78

Questo circondario che è nelle più felici condizioni, ha il suo avvenire legato a quello del commercio marittimo. Comprende la Dogana di mare e, sia conservata questa e posta in comunicazione a vapore colla ferrovia o sia avvicinata alla ferrovia stessa, è certo che in questo circondario i docks e i magazzini generali dovranno sorgere. Egualmente i cantieri da costruzione e da raddobbo, che l’ingeg. Romano propone giustamente di erigere alla punta occidentale dell’isola della Giudecca saranno in esso compresi. Anche qui sorgerà il bisogno di case operaie ed di un mercato nell’isola, ma, pur troppo, questo bisogno non è urgente per la mancanza degli stabilimenti da costruzione.

Anche qui si presenta il

PROBLEMA QUARTO – Trovare un centro di attrazione del 4° circondario, studiando se sia più conveniente ch’esso sia nella parte continentale o nell’isolana, sottomettendo la risoluzione del problema a un piano concreto di magazzini generali e di cantieri da costruzione.

Riepilogando, dai confronti numerici istituiti, risulta:

- che la popolazione di Venezia è inequabilmente distribuita nei vari quartieri della città;

- che la maggioranza della classe educata è agglomerata nella parte centrale, e qui aggiungiamo che per le sue esigenze difficilmente si persuade ad allontanarsi da questo nucleo dove trova sfogo agli affari e molti compensi che contrabilanciano il difetto di comodità e libertà;

- che per conseguenza non è solo il materiale allargamento od accorciamento delle vie che bisogna studiare come un fatto isolato, ma che esso va subordinato all’idea di un discentramento da attuarsi contemporaneamente;

- che questo discentramento non si può ottenere se non che procurando che altri centri secondarj di attrazione sorgano alla periferia in modo da invogliare la popolazione al suo dislocamento e a una modificazione di abitudini che torni a vantaggio anche delle classi sociali che per essere, come si credono, meno elevate, non pertanto hanno il diritto al rispetto e al soccorso di tutti.

[...]

Dopo aver descritto il grande piano per Chicago di Daniel Burnham, Patrick Abercrombie affronta per i lettori della Town Planning Review un altro grande esperimento della City Beautiful americana: il cosiddetto “McMillan Plan” per Washington, dal nome del senatore che si impegnò per realizzarlo. Protagonista, ancora, Burnham, e insieme a lui un architetto americano di formazione europea, McKim, e il paesaggista Frederick Law Olmsted Jr. Come aveva ricordato Charles Reilly nell’introduzione a questa breve serie di articoli, parlare di “american planning” significa, spesso, trattare di architetture, prospettive, vedute, e non certo delle questioni sociali come la casa o l’igiene, che sono al centro del dibattito europeo.

E, come il lettore può scoprire da solo, nel caso di Washington Abercrombie orienta la sua prosa sempre più verso la critica di architettura, lasciando ai margini (quantitativamente, ma non qualitativamente) osservazioni di tipo urbanistico come per esempio gli strumenti di attuazione. (fb)

Patrick Abercrombie, “Piani regolatori in America – Proposte di trasformazione a Washington”, The Town Planning Review, luglio 1910 (traduzione di Fabrizio Bottini)

Uno studio sulla città di Washington è particolarmente interessante in questo momento, in vista delle proposte per una capitale dell’Australia, e le stesse vicissitudini attraverso cui è passato questo piano suggeriscono spunti e cautele di grande valore per altre città. In generale, si può dire che tutte le caratteristiche di nobiltà possedute ora da Washington si devono al suo piano originario, e ovunque ci siano state divergenze rispetto ad esso i risultati sono stati deplorevoli. Le proposte attuali sono di ritornare per quanto possibile al progetto originario e di arricchirne e ampliarne gli obiettivi, senza alterarne il carattere originale.

Un altro elemento interessante per noi, sta nel fatto che queste proposte, vecchie ora di circa otto anni, sono state in generale adottate, e molte di esse messe effettivamente in pratica, compresa quella che a un orecchio inglese suona come la meno praticabile dell’intero progetto: la rimozione totale di una grande stazione ferroviaria di testa da una parte della città, e il concentramento di tutte le linee in ingresso in una sola stazione unificata. Questo ora è un fatto compiuto, e un esempio di praticabilità anche per le ipotesi più audaci.

La nostra descrizione del caso di Washington si limiterà quasi solo a considerare la zona centrale, che con la sua concentrazione di edifici pubblici costituisce la vera e propria “Città Capitale”, essendo questa la caratteristica distintiva di Washington, così come i problemi del transito commerciale erano quella di Chicago.

Il soggetto si articola naturalmente in tre sezioni: 1) Un esame del piano originario di Washington progettato dal Maggiore L’Enfant e realizzato fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo; 2) Le variazioni rispetto al piano, nella crescita della città durante il XIX secolo; Il Rapporto della Commissione nominata allo scopo di suggerire miglioramenti, il recupero e ampliamento del piano L’Enfant, i lavori già realizzati secondo le raccomandazioni della Commissione.

Il rapporto conclusivo dei Commissari affrontava anche la questione generale di Washington, cresciuta sulle colline che circondavano la pianura dove L’Enfant aveva disegnato la sua Capitale. Per la zona, si è preparato un piano urbano, indicando come questa crescita dovrebbe essere controllata. Non ci proponiamo di analizzare questo piano, con l’eccezione del sistema di parchi, che proponiamo come esempio, degno di ammirazione, di pianificazione americana, e in relazione a Washington come città, indipendentemente dal suo ruolo di capitale.

Il sito per la Capitale Nazionale degli Stati Uniti fu scelto da Washington nel 1790. Occupava un’area di circa 250 chilometri quadrati, su entrambe le sponde del fiume Potomac, e fu ceduta dagli Stati del Maryland e della Virginia. Alla fine la parte della Virginia, a sud del fiume, fu restituita, con l’eccezione del cimitero di Arlington; restò una superficie di circa 170 chilometri quadrati, comprendente quello che è ora noto come District of Columbia. Non costituisce municipalità, dato che i cittadini non votano né controllano le questioni locali, ma il distretto è governato da Commissari nominati direttamente dal Presidente e dal Congresso. Questo tipo di organizzazione senza dubbio faciliterà la messa in pratica di qualunque piano generale di trasformazione.

Il Piano di L’Enfant

Cinquanta chilometri quadrati del distretto formano una pianura solo lievemente ondulata, delimitata su due dei lati dal fiume Potomac e dalla sua diramazione orientale, l’Anacosia River, e sugli altri due dal Rock Creek e da ripide colline. Questo fu il luogo scelto da Washington per la Città Capitale, e a Peter Charles L’Enfant, un maggiore del Genio Francese, fu commissionata la stesura di un piano.

L’Enfant probabilmente conosceva bene i grandi giardini francesi, e poteva aiutarsi con la collezione di mappe delle città che Jefferson, il Segretario di Stato, aveva raccolto in Europa. Dunque, per primo si considerò l’aspetto monumentale del piano. L’idea centrale consisteva nella correlazione reciproca che avrebbe dovuto esistere fra gli edifici pubblici, suddivisi fra due centri di importanza, il legislativo e l’esecutivo. Questi due centri avrebbero dovuto essere circondati da propri gruppi di edifici dipendenti, e da essi si sarebbero irradiate le principali strade della città; essi avrebbero anche dovuto essere collegati l’un l’altro, uniti da giardini, canali, viste sul fiume, così da formare un unico e coerente insieme artistico.

L’edificio legislativo, il Campidoglio, era collocato su una collina naturale, con l’asse puntato su un vasto viale, il Mall, diretto a ovest verso il fiume; l’edificio esecutivo, la Casa Bianca, era collocato su un asse nord-sud, perpendicolare al primo e spostato a ovest; all’intersezione fra questi due assi doveva essere collocata una statua equestre di George Washington. Una strada diagonale, la Pennsylvania Avenue, collegava direttamente Campidoglio e casa Bianca. In questo modo la composizione formava un triangolo rettangolo, con i due edifici principali piazzati a ciascuna estremità dell’ipotenusa, e il monumento sull’angolo retto.

Entrambi gli edifici si affacciavano su un’ampia parkway, il più vasto spazio aperto della città, pensato per offrire un nobile contesto a queste due caratteristiche dominanti della Capitale. Da essi si irraggiavano anche dei viali, a formare le vie principali della città. Che questo non fosse un semplice “piano accademico”, è dimostrato dal fatto che le intersezioni dei viali erano studiate a formare piazze su spazi la cui posizione era determinata dal loro definire una particolare prospettiva, o da altri vantaggi naturali. Massachusetts Avenue, una delle arterie più importanti che non si irradia dal Campidoglio o dalla Casa Bianca, fu così progettata per generare incroci su questi “predeterminati” punti. Questo metodo pratico, è descritto a margine della mappa di L’Enfant, col titolo di “Osservazioni esplicative del Piano”.

1) Le posizioni dei differenti edifici, e delle molte piazze e spazi di diversa forma, così come disegnati, furono in primo luogo definite sui terreni più favorevoli, secondo le visuali prospettiche più ampie, e il più possibile suscettibili a quei miglioramenti che uso o abbellimento possano suggerire in futuro.

2) Le linee dei viali di comunicazione diretta sono state studiate per unire gli oggetti più lontani e separati coi principali, e inoltre per mantenere attraverso il tutto una reciprocità di visuale.

3) Le direttrici nord e sud, tagliate da altre in direzione est e ovest, costruiscono una distribuzione della città secondo strade, piazze, ecc. e queste linee sono state combinate in modo da incontrarsi in certi punti coi viali divergenti, così da formare sugli spazi “predeterminati” le diverse piazze o aree.

L’ultima sezione divide l’intera città secondo una griglia normale agli assi principali di Campidoglio e Casa Bianca. I quadrati della griglia non sono tutti della stessa dimensione; sono sistemati per quanto possibile a formare isolati regolari all’incrocio delle due avenues diagonali.

Le due imperfezioni del piano di L’Enfant sono l’asimmetricità della composizione centrale – il triangolo rettangolo – e la carenza di relazione fra la “Griglia” e i viali diagonali. Il lato ipotenusa, Pennsylvania Avenue, con la visuale contenuta su entrambe le estremità da una vista laterale del Campidoglio e della Casa Bianca, naturalmente diventa la via principale della città; ma la sua complementare a sud del Mall, Maryland Avenue, disegnata secondo linee egualmente ampie e generose, non ha uno scopo particolare, col risultato che se sull’una si allineano importanti edifici, l’altra scade in una strada residenziale secondaria. C’è di fatto la forte sensazione che la Casa Bianca debba essere controbilanciata a sud da un altro edificio, o monumento, in un punto che nel piano di L’Enfant sarebbe collocato nel fiume.

L’altra imperfezione, la griglia, su cui i viali diagonali sembrano sovrapposti, ha come risultato quello di produrre goffi lotti triangolari sulle vie principali. Lo si nota in modo particolare su Pennsylvania Avenue, ed è pregiudizievole a qualunque realizzazione monumentale continua. Nelle città antiche, quando le vie diagonali devono essere tracciate attraverso un sistema esistente di strade ad angolo retto, questi angoli sgraziati sono inevitabili (la Avenue de l’Opera a Parigi è un esempio di come si sia superata la difficoltà nel modo migliore possibile), ma disegnando un piano per una città nuova le strade laterali ovunque possibile dovrebbero essere ad angolo retto col viale principale.

Con queste eccezioni, l’idea è magnifica. La nobile ampiezza del Mall (450 metri), la sua progettazione, come largo viale alberato al centro, con edifici monumentali collocati su ciascun lato. La posizione del Campidoglio sulla sua collina che guarda verso il Mall e il fiume. La logica “reciprocità” fra i centri del Legislativo e dell’Esecutivo e il loro simbolico punto di incontro sulle linee delle due grandi prospettive, al monumento di Washington. Tutto questo rende il piano per Washington uno dei più grandi risultati dell’urbanistica.

Il Diciannovesimo Secolo

Il piano di L’Enfant fu disegnato più o meno nell’anno 1800, e per quanto riguarda la direzione dei viali principali, le piazze e spazi aperti ai loro incroci, la zona del Mall e gli spazi degli Esecutivi, oggi è realizzato.

Fortunatamente, anche i due edifici principali furono collocati secondo il piano L’Enfant, e in uno stile architettonico ad ogni modo adatto ad esso, di guida per edifici futuri. Il Campidoglio è stato più volte ingrandito e alterato, ma il risultato è piuttosto soddisfacente. Le ali laterali e l’alta cupola furono aggiunti nel 1851 da T.U. Walter, ed è improbabile che l’aspetto esterno venga fisicamente modificato, ora.

La Casa Bianca, d’altra parte, ha subito parecchie trasformazioni, ma sono di carattere tale da poter essere spazzate via in qualsiasi momento.

Con queste eccezioni il significato e l’idea di fondo del piano di L’Enfant per la zona centrale sembra siano stati completamente persi di vista durante il diciannovesimo secolo. Il Mall era considerato semplicemente un parco a cui capitava di trovarsi in un posto vicino al centro città. È quasi incredibile per noi, guardando al piano di L’Enfant e alle proposte della Park Commission per il suo ripristino, quanto totalmente siano state abbandonate e dimenticate le sue relazioni col Campidoglio. Ne furono cedute in uso strisce a varie istituzioni, che ci collocarono edifici a caso, con giardini progettati secondo le migliori linee del pittoresco, senza nessun riguardo per il Campidoglio che li sovrastava. Infine, si consentì a una ferrovia di stendere i suoi binari attraverso il Mall e di realizzare una stazione su un suo lato. Per venticinque anni la vista dal Campidoglio fu sfigurata dal passaggio dei treni, e il massimo si raggiunse in tempi più recenti, nel 1900, quando il Congresso, ritenendo che il passaggio a livello in entrata al Mall fosse pericoloso, decise di consentire la costruzione di un grande viadotto e di una rimessa ferroviaria alti cinquanta metri, attraverso il Mall.

Un’altra importante modifica rispetto al piano riguardò la posizione del monumento. Perché la statua equestre di Washington prevista da L’Enfant fu sostituita, nel 1848, con un colossale obelisco di marmo bianco. Questo monumento è tanto semplice ed elementare che difficilmente potrebbe, di per sé, essere definito bello, ma è in grado di entrare ad alto livello in una composizione, insieme ad altri elementi. Se consideriamo il tipo di memoriali che veniva eretto in Inghilterra a quell’epoca, dobbiamo congratularci con gli americani per la nuda semplicità del loro monumento a Washington. Sfortunatamente, vuoi per incuria o per ignoranza, o per la scelta solo empirica di una collocazione con sottosuolo adatto, l’obelisco non fu piazzato all’incrocio dei due assi, ma oltre cento metri fuori linea in una direzione, e quaranta nell’altra.

Il resto della deturpazione è causato dai primi tre edifici connessi al Campidoglio e alla Casa Bianca, ciascuno a violare uno dei principi essenziali del piano L’Enfant. Due ampi edifici dell’Esecutivo furono piazzati su ciascun lato della Casa Bianca (il loro appropriato vicino): quello dei Dipartimenti di Stato, della Guerra e della Marina, e quello del Tesoro. Ma entrambi furono collocati in modo da tagliare la visuale della Casa Bianca dal viale. Così, la “reciprocità visiva” a cui mirava L’Enfant fra Campidoglio e Casa Bianca lungo Pennsylvania Avenue è troncata dall’angolo dell’edificio del Tesoro.

Il terzo edificio, la Biblioteca del Congresso, è il più recente e il più vistoso. Messo al termine del ramo meridionale di Pennsylvania Avenue, una delle principali radiali dal Campidoglio, è sovrastato da una cupola colorata e dorata che rivaleggia con quella dello stesso Campidoglio. In questo modo, il principio base secondo cui l’edificio del Legislativo dovesse stare in cima alla collina, a dominare la Capitale Nazionale, non fu colto se non recentemente, nell’anno 1890.

Un altro fattore, che fortunatamente non danneggiò il piano L’Enfant ma fu un’aggiunta diretta alle sue potenzialità, fu la bonifica della piana del Potomac a ovest e sud del Mall, che aggiunse oltre un chilometro di visuale sull’asse principale, distanziando il Campidoglio di quattro chilometri dalla riva del fiume.

Ci fu anche una proposta, con relativa delibera di finanziamento, per un ponte commemorativo attraverso il Potomac, verso il cimitero di Arlington. Fu suggerito di realizzarlo come prolungamento della New York Avenue, uno dei viali che partono dalla Casa Bianca, e avrebbe tagliato obliquamente la visuale principale, ma senza alcun rapporto con essa.

Proposte della Park Commission per Washington

La Commissione che fu nominata nel 1901 per esaminare lo stato di Washington, suggerire interventi, e redigere un piano che ne prefigurasse il futuro, era composta da D.H. Burnham, C.F. McKim, Augustus St. Gaudens e Frederick Law Olmsted Jr. Dopo un’indagine preliminare fu deciso che prima di considerare seriamente qualunque piano di intervento sull’area centrale, dovesse essere esclusa dal Mall e anche dai dintorni la stazione ferroviaria.

Dopo molte discussioni e opposizioni, la compagnia accettò il trasferimento, ed infine fu trovata una nuova collocazione su Massachusetts Avenue, per una Union Station che comprendesse tutte le linee in ingresso a Washington. Allora questa stazione, in quanto unico accesso ferroviario alla città, assunse un nuovo carattere, di vestibolo della capitale, ed è stata pensata coerentemente come uno degli edifici pubblici più importanti di Washington, con un’enorme piazza aperta di fronte, che attraverso Delaware Avenue conduce poi al Campidoglio, ad una distanza di circa mezzo chilometro.

Ora il terreno era aperto per qualsiasi progetto coordinato sul Mall e dintorni, e i Commissari, dopo un viaggio in Europa, prepararono il loro rapporto, di cui quanto segue è l’essenza.

Il sistema del Mall

Il primo aspetto da considerare è il Mall stesso. I lotti separati in cui è stato suddiviso devono essere rimossi, e l’intero spazio aperto al pubblico. Poi al posto della pittoresca mescolanza di alberi con cui ora è piantato, deve tornare il grandioso viale di L’Enfant, con visuale aperta dal Campidoglio al Monumento. L’eccentricità di quest’ultimo sull’asse non è tanto pronunciata che la parte centrale del Mall non possa essere resa obliqua, lasciando i lotti a nord leggermente più grandi di quelli a sud. È una di quelle irregolarità di pianta che si notano sulla carta, ma sono assolutamente invisibili nella realtà.

L’intervento generale sul Mall prevede un viale lungo due chilometri e mezzo, fiancheggiato da un quadruplo filare di olmi, con una semplice striscia d’erba nel centro (suggerito dal tapis vert di Versailles) larga novanta metri. La sezione più vicina al Campidoglio, comunque, dove la Pennsylvania e Maryland Avenue convergono, sarà occupata da una piazza, da progettarsi in modo formale, con sculture e arredo a verde, e che conterrà il monumento a Grant e ai suoi due luogotenenti Sherman e Sheridan. Questo sarà uno spazio di traffico di dimensioni simili a Place de la Concorde a Parigi. Da questa Union Square al Monumento il viale prosegue ininterrotto.

Il Mall in sé stesso non ha in alcun modo ruolo di via di traffico, nonostante ci siano strade di fianco agli olmi; ma non si suggerisce di escludere il traffico di attraversamento nord-sud. La scala del Mall è ampia abbastanza perché la sua continuità non possa essere disturbata dal passaggio di carrozze e veicoli. In effetti al centro si ipotizza di utilizzare questi assi di attraversamento trattando lo spazio fra le due strade come un giardino, simile a quello di Union Square. Su ciascun lato dei filari di olmi saranno collocati edifici pubblici in spaziosi giardini.

Il Giardino del Monumento

Quando il Mall arriva al Monumento, gli olmi si allargano a circondare un giardino ribassato. Il Monumento non può essere riportato sull’asse della Casa Bianca, ed è impossibile pensare a qualcosa di concreto che possa enfatizzare l’incrocio di assi senza competere con Monumento, ed esserne schiacciato: è stato così deciso di contrassegnare l’incrocio con un vuoto, una vasca circolare circondata da un giardino depresso contenente padiglioni e statue. Una scalinata di marmo, dell’intera larghezza dello spazio aperto del Mall, conduce dalla base del Monumento al giardino, dodici metri più in basso. Questa sistemazione del Monumento, che ha dato alla Commissione più crucci di ogni altra parte del Rapporto, è un audace studio di contrasti. L’Obelisco, un monumento di semplicità e dimensioni eguagliate solo dalla grande Piramide, contrasta con la delicatezza, grazia e fantasia di un giardino. La continuità del Mall è conservata dai filari circostanti di olmi. La posizione del Monumento così corrisponde a quella dell’altare maggiore in una cattedrale, collocato leggermente a est dell’incrocio fra la navata e il transetto.

Ampliamenti del Piano L’Enfant

Fino a questo punto, le proposte della Commissione sono in pratica un ripristino dei progetti di L’Enfant, con le necessarie modifiche. Oltre a questo, esse ne diventano un ampliamento, o piuttosto un logico completamento reso possibile dalla bonifica della piana del Potomac. Il completamento consiste nel prolungare l’asse del Campidoglio a ovest di Monument Garden, e di quello della Casa Bianca a sud di esso.

Sezione Occidentale del Mall

La parte del Mall che si estende per un chilometro e mezzo a ovest del Monumento fino al Potomac sarà attrezzata a bosco con percorsi e corsie tagliate attraverso, del tipo di quelli della Foresta di St. Germain. La porzione centrale prosegue la larghezza della Mall Avenue, e contiene un canale largo sessanta metri e lungo più di un chilometro.

Alla testa di questo canale, al centro di un rond point, sarà collocato un grande edificio commemorativo, che chiuda la visuale dal Campidoglio così come fa l’Arco di Trionfo dal Louvre. Il memoriale proposto è quello di Abramo Lincoln, in quanto secondo personaggio nella storia americana.

Questo rond point segna la connessione fra la zona centrale della città e il sistema di parchi del District of Columbia, i cui rami settentrionale e meridionale si incrociano in questo punto, Riverside Drive da Rock Creek a nord, e Potomac Park coi collegamenti all’area dell’Anacostia a sud.

Memorial Bridge

Per vent’anni si è discusso di un ponte commemorativo attraverso il Potomac verso il Cimitero Nazionale di Arlington sul lato della Virginia, e sono state fatte varie proposte. La Commissione suggerisce di includerlo in un piano generale, e comunque di non collocarlo sull’asse principale, ma attraversare il Potomac ad angolo retto, con l’aiuto di un’isola al centro, e il vantaggio aggiunto che la vista del ponte sia chiusa dal bel portico in stile Greco Dorico della Lee Mansion sulle alture di Arlington. L’audacia nello staccarsi dall’asse principale è ampiamente giustificata.

Sezione meridionale

La parte a sud del Monumento deve essere adibita a parco per il tempo libero. Qui deve esserci uno Stadio, palestre all’aria aperta, campi da tennis ecc. Un bacino per spettacoli sull’acqua con una progettazione formale, collega il fiume con la lunga striscia d’acqua, Washington Channel, fra la piana del Potomac e la città. Dove l’asse della Casa Bianca interseca quello di Maryland Avenue è individuato il sito per un monumento commemorativo, da dedicarsi a un personaggio che la Commissione lascia al futuro di decidere.



Localizzazione degli edifici pubblici

La Commissione stabilisce anche i siti per gli edifici pubblici, secondo le intenzioni originali di L’Enfant. Adotta anche la saggia precauzione di proibirli quando siano fra le strade, così da prevenire un ripetersi dello svarione della Biblioteca. Attorno al Campidoglio devono essere collocati gli edifici connessi direttamente a Legislazione e Giustizia. Edifici ministeriali, come richiesto, saranno attorno a Lafayette Square, a nord della Casa Bianca, sviluppando le linee già definite dagli edifici del Dipartimento di Stato, della Guerra, della Marina e del Tesoro. Il Rapporto suggerisce anche che l’Ufficio Esecutivo del Presidente sia spostato dalla Casa Bianca, e posto al centro di Lafayette Square, circondato dai suoi edifici ministeriali.

Su ciascun lato del Mall devono essere collocati musei e altri edifici di generale interesse pubblico, ma non di tipo ministeriale.

Di fronte allo spazio della Casa Bianca devono trovar posto edifici di carattere pubblico o semipubblico, come quelli occupati da associazioni. La Corcoran Art Gallery è già localizzata qui.

Il triangolo fra la Pennsylvania Avenue e il Mall deve essere lasciato agli uffici del District of Columbia: un edificio distrettuale, un archivio, una caserma per la milizia ecc. L’ufficio postale esiste già, in questo settore. È difficile pensare come possa mai diventare, la Pennsylvania Avenue, una bella strada, per via dei continui sgraziati incroci. E le proposte di modifica di quella che è la più importante strada della città, sono le meno soddisfacenti del Rapporto.

Opere realizzate secondo il Rapporto della Commissione

È un peccato che questo piano generale per la ricostruzione e lo sviluppo futuro di Washington non possa essere adottato ufficialmente, come la dittatura con cui è governato il District of Columbia sembrerebbe rendere fattibile. Ma a quanto pare il Congresso può stabilire solo se un particolare edificio o monumento è collocato secondo le raccomandazioni della Park Commission. Altre parti del piano sono apparentemente nelle mani dell’uno o dell’altro Dipartimento Esecutivo, come i Commissari per il District of Columbia, l’Ufficio responsabile dei Suoli ed Edifici Pubblici, e persino i Segretari delle Istituzioni confortevolmente localizzate sul Mall, e che le proposte del piano cacceranno via dal proprio territorio privato.

Ci pare che per portare a compimento questo splendido piano sia necessaria una certa dose di autoritarismo.

Comunque si è iniziato, con la localizzazione di nuovi edifici, il che mostra come il Congresso e i Commissari di Distretto siano entrambi convinti ad attuare il piano.

La Stazione ferroviaria unificata

È stata costruita su progetto di D.H. Burnham, ed è da ogni punto di vista un vestibolo per il campidoglio. La piazza sul fronte è stata completata, sollevando l’intera area di dodici metri, il che ha richiesto un milione e mezzo di metri cubi di materiale. La facciata della stazione a dire il vero è di qualche metro più ampia del Campidoglio, ma l’edificio è stato mantenuto basso, semplice, e il suo carattere di porta della città è suggerito dalla parte centrale, ispirata all’arco di Costantino.

Palazzi per gli uffici del Senato e della Camera

Questi due enormi blocchi, contenenti le stanze private dei componenti le assemblee legislative, sono stati collocati su ciascun lato del Campidoglio. Gli edifici, di Carrère e Hastings, sono identici nel progetto, e nel contegno di subordinazione al Campidoglio costituiscono un buon precedente per l’insieme degli edifici Legislativi. Speriamo che le idee per tagliare la cupola della Biblioteca siano messe in pratica.

Edifici sul Mall

Devono essere realizzati due grandi edifici sul lato nord del Mall, entrambi con caratteristiche e materiali adatti per la loro posizione: il nuovo Museo Nazionale, di Hornblower & Marshall, che prenderà il posto del grottesco edificio in mattoni ora sul Mall, e quello del dipartimento all’Agricoltura. Al principio, sembrava che questo edificio sarebbe stato collocato insieme a quelli Esecutivi attorno alla Casa Bianca, ma la necessità di laboratori e di un museo privato collegati alla parte amministrativa ha suggerito come più appropriato un sito sul Mall. Il progetto è di Rankin, Kellog e Crane. Questi edifici sono stati studiati in correlazione reciproca e le linee della copertura trattate in modo armonioso, alzando l’una e abbassando l’altra all’estremità a questo scopo.

Palazzo Distrettuale

È stato costruito un nuovo District Building (praticamente, un Municipio) sul fronte della Pennsylvania Avenue, nel triangolo fra questa e il Mall, su progetto di Cope & Stewardson.



Lincoln Memorial e Ponte

Sono stati effettuati gli espropri per il Lincoln Memorial e il Memorial Bridge, e la loro localizzazione sarà determinante per tutta la parte occidentale del sistema Mall.



La zona della Casa Bianca

Il restauro della Casa Bianca è stato curato dallo scomparso Mr. McKim per restituirla all’uso come residenza del Presidente. Sono stati sistemati uffici temporanei negli spazi circostanti, sin quando non si inizieranno i lavori per il centro di Lafayette Square.

Gli edifici della George Washington University, e delle Daughters of Revolution sono pure stati collocati di fronte allo spazio della Casa Bianca.

Il piano per Washington così si sta gradualmente realizzando, e speriamo che nel futuro prossimo si metta mano alla piantumazione della parte esistente del Mall.

Il sistema dei parchi

Come già detto, il sistema esterno di parchi si trova sui terreni alti che circondano la città originaria. A questi vanno aggiunti gli spazi bonificati nella piana del Potomac e i progetti di bonifica e di laghi sull’Anacostia River. Il ramo nord del sistema a parchi comincia con la strada lungo il fiume al Lincoln Memorial, e tramite l’esistente Rock Creek che entra nel Potomac si collega al Giardino Zoologico e al Rock Creek Park, formando una valle continua, molto pittoresca, lunga più di otto chilometri. Questa sezione settentrionale si collega anche al parco nel settore più settentrionale del Potomac.

Il raccordo fra molte riserve esistenti, interessa il nord-ovest e il sud-est con centro attorno all’Anacostia River; per quest’ultimo si propone di trasformarlo in un lago circondato da terreni di bonifica convertiti a parco. Più a est, la cima di un’alta e boscosa collina, in linea diretta con Massachusetts Avenue, sarà destinata a parco. Infine le strade lungo le rive dell’Anacostia completano il circuito, congiungendo la piana del Potomac e il sistema del Mall.

Entro questo percorso, si mira alla massima varietà di paesaggi, e si intende conservare il carattere di ciascuno, connettendoli con una serie di viali e parkways.

Nota: Il rapporto della Park Commission per Washington, qui riassunto e commentato “in diretta” da Patrick Abercrombie, è in gran parte letteralmente riportato sul ricchissimo sito di John Reps alla Cornell University. La puntata precedente, delle osservazioni critiche di Abercrombie sul piano di Chicago di Burnham, è disponibile in questa stessa sezione di Eddyburg.

A quello di Antonio Pedrini (1905), fanno seguito alcuni testi che si riferiscono prevalentemente al dibattito italiano che dalla seconda metà degli anni Venti del secolo scorso si è sviluppato per tutto il decennio successivo: Silvio Ardy (1928), Cesare Chiodi (1926), Alberto Calza Bini (1928) esprimono le tesi contrapposte sulla figura dell’urbanista e sulla sua formazione. Allo stesso periodo si riferiscono i testi di Eugenio Fuselli (1933) e di Giuseppe Bottai (1937), per diverse ragioni singolari rivelatori di un’epoca e delle sue logiche. Chiude questo gruppo di testi, e in qualche modo conclude il dibattito del decennio precedente, lo scritto di uno dei padri dell’urbanistica italiana, Luigi Piccinato, mentre un rapporto di Gaston Bardet (1940) testimonia la ricchezza delle esperienze e del dibattito che già allora si registravano in Francia.

Al periodo postbellico si riferisce un ulteriore gruppo di scritti. Un interessante resoconto del 1° congresso sull’insegnamento dell’urbanistica (1951), fittissimo di relazioni e di interventi vivaci e spesso caratterizzati da notevole spessore, dà il clima generale della dibattito. e gli interventi del geografo Bruno Nice (1950), del britannico William G. Holford (1950) e dello statunitense Henry S. Churchill (1963) esprimono i punti di vista di altri mondi verso i quali gli urbanisti italiani volgevano lo sguardo. La definizione ampia di un altro indimenticato maestro, Giovanni Astengo (1970), colloca in un quadro organico gli argomenti dell’urbanistica razionalista.

Tra gli scritti più recenti, ho scelto per ora alcuni scritti di un lucido studioso, Francesco Ventura (1999), con due mie postille, e di un generoso e intelligente urbanista “militante”, Silvano Bassetti (2001). Il testo di Ventura apre un significativo ponte tra l’argomento di cui si occupa questa cartella e la questione della Rendita, quello di Bassetti introduce al tema decisivo dei rapporti tra urbanistica e politica, su cui occorrerà lavorare.

Altri testi, per chi è interessato, sono disponibili nel sito di Fabrizio Bottini

Premessa – di Fabrizio Bottini

Un classico autore di urbanistica come Patrick Abercrombie, per un tema che, almeno nel lontano “dopoguerra” in cui si colloca questo articolo, è tutt’altro che classico: la pianificazione del territorio spiegata ai bambini. O qualcosa del genere. E a ben vedere nemmeno Abercrombie apre una frontiera del tutto nuova, visto che a Chicago il grande piano di Daniel Burnham era stato seguito, dieci anni prima, da un manualetto di animazione culturale per le scuole, con il preciso scopo di educare (e formare una futura base di consenso) le nuove generazioni alla città futura. Si trattava del cosiddetto Wacker’s Manual, dal cognome del promotore, ed è stato osservato dagli studiosi a questo proposito che nel corso del tempo “la città avrebbe avuto una cittadinanza illuminata e informata” sugli scopi del piano regolatore ( The Plan of Chicago 1909-1979, catalogo della Mostra, Chicago 1981).

L’idea di Abercrombie però va decisamente oltre, e non a caso prefigura forme di coinvolgimento generalizzato che troveranno spazio solo una generazione dopo, ovvero proprio nel quadro delle New Towns nella cui promozione il grande urbanista gioca un ruolo di primissimo piano, dalla partecipazione alla Commissione Barlow negli anni Trenta, al Greater London Plan che proprio sulle città satelliti e sull’esodo “socialmente consapevole” basa il suo impianto di decentramento.

Questo del 1921, in altre parole, è un esordio ufficiale e piuttosto organico del tema partecipativo, piuttosto che una declinazione sul tema delle scuole di urbanistica. E qui lascio volentieri al lettore la scoperta del perché.

The place in general education of civic survey and town planning, Town Planning Review, luglio 1921 (traduzione di Fabrizio Bottini)

I – Analizzare

È possibile che non si sia imparato dalla guerra tutto quanto che ci si aspettava da noi: ma fra le lezioni minori, forse non del tutto dimenticate, si può includere l’uso e l’interesse per la Mappa. Si dice che molti hanno imparato per la prima volta la geografia dell’Europa e del Medio Oriente durante quegli anni; ma è una definizione incompleta, perché non era la vecchia geografia fatta di nomi delle capitali, promontori e fiumi di una regione, che dovevamo studiare, ma una presentazione grafica e viva, realizzata attraverso l’aeroplano e immaginifiche viste a volo d’uccello, semplificazioni diagrammatiche e curve di livello. Allora abbiamo appreso, per ragioni militari, il valore delle valli fluviali, e osservato con stupore l’importanza strategica dei siti di vecchie città, i cui stessi nomi erano scivolati via dalla memoria. In altre parole, senza capire quanto stavamo facendo, studiavamo gli effetti delle Caratteristiche Fisiche Naturali, dei Mezzi Artificiali di Comunicazione, della Geologia Economica e della Persistenza Storica, sul modo di condurre una guerra a scala mondiale; ma non è ugualmente e generalmente riconosciuto come la padronanza di queste medesime cognizioni, necessarie ai combattenti per scopi militari, sia egualmente essenziale per le stesse persone, quando siano impegnate nello sviluppo in tempi di pace.

Non avrebbe dovuto essere lasciato alla guerra, l’insegnarci come leggere una mappa o una planimetria: e comunque, quanto raramente ci capitava, prima? Quanti guidatori di mezzi motorizzati potevano con fatica essere indotti a studiarsi un percorso sulla carta d’ordinanza prima di partire per un viaggio attraverso un territorio straniero, e contavano (lo fanno ancora) sulle ovvie strade principali e qualche occhiata al volo ai segnali stradali, perdendosi così piacevoli strade secondarie, e spesso allungando senza motivo il viaggio? O ancora, chi non ha presente un presidente di comitato, di autorità pubblica o impresa privata, che osserva saccente un piano che gli viene sottoposto per l’approvazione, e di cui è completamente incapace di afferrare il significato? Gli architetti, a dire il vero, sono spesso accusati di fare disegni troppo aridi; di assalire i sensi con l’odore della carta da lucido (come ha sperimentato Kips); di confonderti con sezioni che seguono linee a zig-zag su un piano; in altre parole, di proporre al pubblico i segni cabalistici di un’arte segreta. Si è sentito di un gruppo di seri uomini d’affari che, dovendo giudicare i meriti di due progetti per la decorazione di una nave, hanno deciso all’unanimità per l’autore di un intelligente schizzo prospettico, dove l’elemento più importante era uno squisitamente eseguito giovane, seduto su una poltrona di pelle, che soffiava anelli di fumo da una sigaretta. L’altro progetto, un elaboratamente disegnato prospetto, è stato scartato senza commenti.

Un piano, naturalmente, non è una cosa arida, né dovrebbe essere inintelligibile; ma forse l’errore non sta nell’uomo medio, ma nel modo in cui gli è stata insegnata la geografia a scuola: un modo che è ora felicemente superato, salvo in qualche costosa scuola privata.

Il metodo moderno di insegnamento della geografia, non si ferma alla lettura delle mappe, e non comporta solo terre lontane e liste di nomi: gli allievi sono indotti a volgere gli occhi verso il luogo in cui vivono. Al principio, questa osservazione ravvicinata può sembrare noiosa, se paragonata alle prospettive lontane, ma presto si scopre un campo di studi affascinante, con l’interesse aggiunto di vedere e toccare gli oggetti studiati, invece di leggerne una descrizione. Si fanno tentativi di ricostruire la propria città o villaggio in diversi periodi passati, considerarne l’esistenza anche in relazione al territorio circostante; poi di analizzare la città com’è oggi, la sua planimetria stradale, la struttura sociale, le varie attività e ambiti in cui si svolgono; e in particolare, sottolinearne i difetti. In altre parole, attraverso molte mappe e diagrammi preparati da diversi gruppi di scolari, essi sono in grado di ottenere un’immagine sfaccettata del luogo natio, a capire per la prima volta come si sia arrivati alla sua forma presente, e a comparare l’aspetto reale di un luogo con la sua rappresentazione planimetrica. Questo studio, cominciato a scuola, può essere continuato da Boy Scouts e Guide: cosa è più vicino agli obiettivi professati da queste organizzazioni, se non la conoscenza dei luoghi? Ma il bambino a scuola, e anche probabilmente lo Scout o Guida, essendosi a suo tempo imbarcato nello studio della propria geografia locale, scoprirà non solo di aver imparato come leggere una mappa, ma di sentire il bisogno di mappe più versatili ed esplicative quando, da adulto, inizierà ad avere serio interesse per il luogo dove abita e in cui lavora. Capirà rapidamente che le mappe di minor valore che possediamo sono quelle solite, dove la coloritura principale mostra le divisioni di contea, le città appaiono come circoli più o meno grandi, fiumi e ferrovie sono linee, e le montagne ombreggiature vermiformi. La prima mappa dovrebbe essere colorata, ombreggiata secondo le curve di livello, e in cui l’effetto delle aggiunte più recenti e artificiali, come le città, sia ridotto al minimo. Per fortuna questo tipo di mappa può essere acquistato alle scale più ridotte, ma quella ufficiale da 6 pollici omette le curve di livello sulle zone urbane, come se un cartografo super-coscienzioso fosse imbarazzato sul come tracciarle sopra un edificato continuo.

Ma il nostro giovane cittadino, allevato a capire le mappe, e che ha già fatti i suoi tentativi di disegnarsene, scoprirà presto che le sue esigenze superano l’ambito delle pubblicazioni governative, e che qualcun altro deve mettersi al lavoro. Gli sarà forse detto, dagli abitanti più anziani, che col tempo conoscerà la città tanto a fondo quanto loro, semplicemente andando su e giù; ma se ha padroneggiato la geografia a scuola, lui risponderà che esiste una conoscenza che sembra estesa, ma che è totalmente superficiale: il tipo di familiarità che la vostra lingua ha coi denti. È in contatto continuo con essi, conosce tutte le caratteristiche della loro superficie. Ma è sorprendente, quante insospettabili fessure il Dentista-Cartografo può scoprire. Recentemente è stata preparata, come parte della Analisi Urbana, quella che sembra una planimetria estremamente elementare, e che mostra gli edifici industriali nel centro di una città. Il risultato ha stupito chi conosceva la città, o almeno credeva di conoscerla, a fondo: un’area particolare, non lontana dal municipio, spiccava come quasi completamente industriale. L’ufficiale sanitario ha quindi deciso di non consentire la ricostruzione di nessuna delle abitazioni da demolire, e nello stesso modo in altri due settori questo semplice ritratto grafico di un fatto che era sfuggito alla comprensione dei vecchi abitanti, si è dimostrato in grado di influenzare il futuro di tutto il centro città.

Ancora, al cittadino si presentano informazioni su altri settori della vita urbana, nel modo più completo e descrittivo. A dire il vero, tanto complete e descrittive, e tanto concentrate e sgradevoli, che egli è totalmente incapace di digerirle: colonne di cifre, masse di statistiche, pagine di tabelle. Ma nessuna possibile acrobazia di immaginazione, può tradurre queste pagine stampate fitte in una forma visiva. Egli può sapere, per esempio, quante case a doppio affaccio ci sono nella sua città; può anche avere le statistiche del tasso di mortalità o di malattia, ma finché non le vede rappresentate graficamente e comparate, non ne afferrerà il significato.

La cosa più importante, è il bisogno di comparare i diversi aspetti della vita urbana: per esempio, il quadro dei trasporti con le aree residenziali e i distretti industriali e le statistiche sanitarie; i diagrammi di “accessibilità” non sono più sufficienti, quando mostrano una linea rossa per i percorsi del tram e una tratteggiata a croce per le ferrovie: i fattori tempo, distanza, frequenza e costo, devono essere mostrati graficamente.

Deve essere chiaro, da tutto questo, che il cittadino, per capire a fondo la sua città, richiede una Analisi Urbana. Questo non è il luogo per dilungarsi su scopi e caratteristiche di una analisi urbana o regionale (che includa il distretto circostante), ma semplicemente per sottolineare che non ne hanno bisogno solo gli esperti che governano la città, ma anche lo stesso cittadino, perché possa comprendere in profondità la natura dei problemi che i suoi esperti stanno tentando di risolvere.

Il problema di chi debba preparare questa Analisi è importante, e probabilmente il lavoro può essere profittevolmente suddiviso: l’amministrazione locale ha le informazioni, ottenute per esempio dall’ufficio igiene per la popolazione, le abitazioni, le statistiche sanitarie, i tassi di mortalità ecc.; dall’ingegnere municipale si hanno dati sul traffico, l’uso dei tram, e altre questioni di immediata importanza per lo sviluppo e il miglioramento della città. Ma ci sono numerose indagini, come quelle sui raggruppamenti sociali, gli studi archeologici, l’analisi delle bellezze naturali e degli edifici antichi, l’agricoltura, comparazioni geologiche e botaniche, che sono ugualmente necessarie se si vuole realizzare un quadro completo. Una Società Civica o Associazione Regionale volontaria, potrebbe ben affrontare questo lato del lavoro, appoggiandosi alla locale Università per aiuto e orientamento negli aspetti tecnici. Una società civica che condivida la produzione di queste ricerche, in armonia con l’amministrazione locale, assicura che i suoi membri proseguiranno attivamente il lavoro di studio del proprio vicinato iniziato a scuola.

Probabilmente, uno dei doni più preziosi che ci ha lasciato il periodo di guerra è l’applicazione della fotografia alla produzione di analisi aeree. Qui si ha l’opportunità di vedere la propria città da un punto di vista totalmente nuovo, ed è illuminante comparare l’aspetto della mappa ufficiale con la foto planimetrica ripresa dall’aeroplano, e questa, ancora, con una diagonale o prospettiva a volo d’uccello. Ogni città dovrebbe avere la propria ricognizione aerea, mostrata in vedute di grandi dimensioni, attentamente spiegata da indici. In più, in luoghi adatti in ogni parte della città, queste vedute e le relative mappe dovrebbero essere mostrate come guide per il pubblico, e come formazione alla lettura di mamme. Sino ad ora, sono solo le stazioni della metropolitana di Londra ad aver adottato (parzialmente) proprio questo tipo di guida locale. Non è eccessivo, sperare da una futura generazione formata in geografia, che sappia usare queste guide in una città nuova, invece del metodo esistente di seguire consigli come “terza svolta a sinistra, seconda a destra, cammini dritto fin quando vede un bar ...”. La metropolitana di Londra ha anche fatto uso di mappe illustrate che nessuno potrebbe accusare di essere aride: Macdonald Gill’s South Downs e Central London potrebbero sedurre anche un magistrato di campagna, a contemplare il loro umorismo.

II – Costruire

La pratica di leggere planimetrie facilmente, come la stampa, e lo studio delle condizioni esistenti da parte del grosso pubblico, così che i problemi locali possano essere affrontati in modo fermo, sono essenziali. Ma non bisogna fermarsi allo stadio di acquisizione della conoscenza: il passo successivo è l’uso immaginifico che se ne può fare. L’Analisi Urbana e Regionale non è un fine in sé: gli studi analitici devono essere seguiti da proposte costruttive. Dunque, nonostante possa suonare audace suggerirlo, lo studio del Miglioramento Urbano dovrebbe iniziare a scuola. Nessuno scolaro intelligente e dotato di immaginazione, mentre analizza proprio quartiere, saprà resistere al tentativo di migliorarlo, o profetizzarne il futuro. Il presidente del comitato di Analisi Urbana di Leeds, qualche tempo fa mise in palio un premio per le scuole, ad un esercizio di vera e propria “Urbanistica” e i risultati furono sorprendentemente interessanti. Ora, questo non significa suggerire che la tecnica urbanistica sia tanto semplice che anche un bambino la può padroneggiare, ma è certo che esiste una buona quantità di urbanistica che consiste nell’applicazione di buon senso, basato sulla conoscenza e illuminato dall’immaginazione, alle questioni di ogni giorno: questioni come andare e tornare dal lavoro, la necessità di campi da gioco e gli svantaggi di usare le strade come tali, il miscuglio di abitazioni e fabbriche, l’affaccio diretto delle case su strade strette attraverso cui tuonano giorno e notte tram e autocarri a motore, il disgusto di scoprire begli edifici cacciati in fondo a strade strette dove nessuno può vederli, l’entusiasmo per i begli edifici degnamente collocati, la comodità di stazioni ferroviarie ben collegate alla città che ci si aspetta debbano servire ... la lista dei problemi quotidiani della città non ha limiti. Ora, per armonizzare tutte le necessità di questi numerosi aspetti, e saldarle in un praticabile ed economico schema, occorre considerevole abilità di carattere tecnicamente vario, ma le idee principali, le linee essenziali, le soluzioni desiderabili, sono alla portata di tutti; e visto che proprio il cittadino è il giudice ultimo del piano – nessun piano sarà mai posto in esecuzione, se non ha il sostegno intelligente della cittadinanza in generale – gli conviene non solo essere egli stesso un urbanista dilettante, ma essere in grado di giudicare e capire in profondità i progetti predisposti dai suoi esperti incaricati.

Nelle scuole, si sono tenute con grande successo ed effetto lezioni sui principi generali di urbanistica. La relazione fra i trasporti quotidiani e la residenza, fino a tempi recenti pallidamente conosciuta dalle nostre Autorità Civiche, può essere afferrata al volo da un bambino di dieci anni; né lui o lei troveranno più difficile apprezzare un sistema di parchi con campi da gioco, ad una distanza di cinque o sei minuti a piedi; ancora, non mancheranno di capire l’errore di sistemare le case sotto le rupi incombenti delle “scure Sataniche officine”: il ruolo giocato dai venti, dalle altezze, dai livelli di fumo e di precipitazioni piovose nel determinare i siti residenziali può essere dimostrato con eguale facilità. Tutte queste cose interessano il benessere dell’abitante di città così da vicino che è difficilmente contestabile il fatto che i rudimenti dovrebbero essere insegnati a scuola: sono urgenti tanto quanto l’economia domestica.

Andando avanti negli anni, ci dovrebbe essere una Società Civica a cui affidare il compito di mantenere questo interesse, la critica, e anche la pratica amatoriale dell’urbanistica, fra un grande numero di cittadini. Se l’architettura era tanto apprezzata nel diciannovesimo secolo, l’urbanistica sarà egualmente compresa nel ventesimo. Non ci deve essere antagonismo fra le idee portate avanti dalle Società Civiche e i piani predisposti dalle amministrazioni locali; ma con ogni probabilità le prime stimoleranno le seconde, ed eviteranno loro di tenere semplicemente il passo con i bisogni immediati, con soli servizi municipali amministrati efficientemente, o un utilitarismo ad una sola dimensione.

C’è molto da dire in favore delle Società Civiche – o di associazioni commerciali, come accaduto in Canada o negli Stati Uniti, con le proposte di piani regolatori generali – sia che promuovano concorsi, sia che nominino una piccola Commissione. Ma se l’amministrazione locale è sufficientemente progressista da farlo, e si noti, di non limitare le sue proposte alle sole strade e traffico, ma coprire l’intero campo della vita civica dai centri di rappresentanza al risanamento dei quartieri degradati, agli orti, allora la Società Civica può orientare le sue energie all’educazione del pubblico, per una piena comprensione di cosa significano Miglioramento Urbano e Urbanistica.

Quando il grande e immaginifico piano per Chicago fu redatto e sontuosamente pubblicato dal Commercial Club, ci furono due percorsi distinti che il documento dovette prendere per produrre effetti significativi. Primo: doveva essere adottato dalle autorità cittadine, e costituire la base della futura politica di crescita e miglioramento. Questo fu fatto, e un opuscolo appena pubblicato mostra cosa è stato realizzato in dieci anni, verso l’attuazione di quel possente progetto. Seconda, e di eguale importanza, la necessità di rendere popolari il piano e la relazione esplicativa, altrimenti le autorità non avrebbero avuto sufficiente sostegno. Un Manuale del piano di Chicago fu preparato ad uso delle scuole, un piccolo e grazioso volume dove storia, sociologia, e progetti per il futuro sono posti in dovuta relazione, e il tutto compone un manuale per studenti e cittadini sui problemi urbani in generale, e quelli della loro città in particolare.

Dunque quello che è necessario, per la comunità in senso lato, è, primo, Conoscenza, conoscenza locale della città, la sua storia, i suoi difetti e bisogni, realizzabile solo attraverso l’Analisi Urbana o Regionale; secondo, Immaginazione, resa più acuta per valutare le possibilità della città, comprendere cosa significa Urbanistica, o meglio Disegno Urbano, per assicurarsi che l’esperto Urbanista incaricato non sia una “larva senza ali”, come l’ha descritto Mr. Branford, “niente meglio di un uomo comune non rinnovato con l’incarico di praticare la cruda anatomia di questa sfortunata città”.

Nota: per chi fosse interessato a questi temi, sono disponibili sul mio sito sia la versione italiana del "Preambolo" di Abercrombie al Greater London Plan, sia una raccolta pure tradotta di testi sulle "Planning Schools" a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta (f.b.)

“Beati gli antichi che non avevano antichità”: La battuta di Denis de Diderot al tempo della famosa quérelle tra antichi e moderni sembra essere diventata un’aperta convinzione in politici e amministratori, se appena consideriamo il modo come trattano i nostri beni archeologici, e in particolare le antichità di Roma, che pure sono state nei secoli la meta obbligata della cultura del mondo. Non è esagerato dire che esiste un partito preso contro l’archeologia (complici anche letterati, storici e critici d’arte): lo dimostra la miserabile entità dei fondi che vengono stanziati per la conservazione del nostro più antico e illustre patrimonio. L’ultimo episodio si è avuto alla Camera durante la discussione sulla legge finanziaria 1990, quando pochi volontari hanno presentato degli emendamenti per mettere in grado la Soprintendenza archeologica di proseguire l’opera meritoria, svolta tra l’82 e l’87, di restauro, consolidamento e scavo delle antichità romane.

Da tre anni sono infatti esauriti i fondi stanziati da una legge dell’81, che ha preso il nome dall’allora ministro dei beni culturali Biasini: che è stata anche il primo e l’ultimo provvedimento apprezzabile dello stato per riparare ai danni causati dall’orribile corrosione delle pietre antiche sotto l’impatto dell’inquinamento atmosferico. Con quei fondi, la soprintendenza ha condotto la più vasta campagna di restauro delle antichità mai tentata, ha provveduto al consolidamento dei maggiori complessi monumentali e ha eseguito scavi nel suburbio per acquisire una conoscenza approfondita del territorio ed evitare quindi distruzioni in caso di lavori e sterri per opere di urbanizzazione.

Con l’esaurimento dei fondi, quest’opera meritoria viene non solo interrotta, ma vanificata per l’impossibilità di svolgere l’indispensabile e continua attività di manutenzione, mentre non vengono rimossi alla fonte i veleni atmosferici, prima fra tutti le esalazioni del traffico; le più straordinarie vestigia dell’arte e dell’architettura romana finiranno con lo sfarinarsi in gesso tra poche generazioni. Per questo, nella discussione sulla legge finanziaria, il sottoscritto ha presentato un emendamento perché la soprintendenza romana venisse rifinanziata in modo adeguato (210 miliardi in tre anni).

“Onorevoli ministri”, ha detto ingenuamente, “quando vi riunite in consiglio voi potete ammirare dalle finestre di palazzo Chigi la Colonna Antonina che, in 514 metri quadri di rilievi, narra le gesta dell’imperatore filosofo: come non vi rendete conto che ogni giorno che passa questa meraviglia appena restaurata torna ad essere preda dell’inquinamento atmosferico, col rischio di andare perduta per sempre?”. Niente da fare: su 437 onorevoli presenti, 220 hanno votato no, 150 sì e 67 anime timorate si sono astenute. Così è successo anche per il successivo emendamento che stanziava qualche miliardo per dare il via agli espropri per la realizzazione del gran parco della via Appia Antica, invano vincolata a parco pubblico da un quarto di secolo.

Duecentodieci miliardi in tre anni per la salvezza di Roma antica sono l’equivalente del costo di una decina di chilometri di nuova autostrada, quelle autostrade così spesso inutili e dannose per le quali i miliardi si stanziano e si spendono a migliaia. Queste sono le priorità alla rovescia dei nostri politici e dei nostri benpensanti, come quei dannati danteschi che camminano con la testa girata all’indietro: sì che ’l pianto degli occhi / le natiche bagnava per lo fesso. Così che la soprintendenza archeologica di Roma dispone oggi di un paio di miliardi, tanto quanto basta per tener pulito il Colosseo e tagliar l’erba del Foro Romano.

Mancanza di fondi, furti, crolli, esportazioni clandestine: stiamo allegri, nel 1992 cadono le barriere doganali nella Comunità europea, e già c’è chi va predicando che le nostre leggi sono troppo severe, che i beni culturali sono merci e come tali devono essere sottoposti a leggi del mercato e del commercio e quindi circolare liberamente. Esultano i mercanti e si rifanno vive quelle teste fine che da anni sostengono che lo stato italiano debba disfarsi del “superfluo”, cioè vendere all’estero i materiali conservati nei depositi dei musei per fare un po’ di quattrini e risanare il bilancio. (Un insano disegno di legge del governo prevede l’alienazione dei beni demaniali, terreni, immobili, foreste eccetera, compresi evidentemente i beni culturali, dal momento che non dice nulla in contrario). I beni culturali sono invece l’unica “merce”, per usare questo termine degradante, che non deve circolare, perché sono legati, integrati e intimamente connessi all’area culturale, al contesto territoriale che li ha prodotti e dal quale derivano senso, sostanza e valore. Mettiamocelo bene in testa.

Titolo originale: Residential and Industrial Decentralization– Estratto e tradotto per eddyburg_Mall (http://mall.lampnet.org) da Fabrizio Bottini

Il concentramento della popolazione nelle aree urbane a subito un rapido incremento nel secolo scorso. La popolazione delle città è cresciuta in parte per le nascite fra la popolazione indigena. Ma l’invenzione e produzione entro le città di macchinari agricoli e altri apparecchi che fanno risparmiare lavoro hanno reso possibile una crescita della popolazione urbana a scapito di quella rurale. Le maggiori occasioni sociali e produttive delle città hanno condotto un flusso continuo di popolazione dalla campagna. Inoltre, circa tre quarti [1]degli immigrati in America dall’Europa si sono stabiliti nelle città. Poche amministrazioni hanno pianificato in modo intelligente per questa rapida crescita urbana. Sono stati stipati edifici sul terreno, e affollate persone dentro gli edifici. La vita urbana è divenuta per molti versi scomoda, insicura, malsana.

Quando una città cresce, vengono eretti nuovi edifici sui lotti delle vecchie case, oppure le abitazioni degli originali abitanti cittadini o semi-rurali vengono “convertite” a uso urbano per molte famiglie. Spesso accade anche che vengano utilizzati a scopo di abitazione granai o altri edifici di servizio, oppure che le vecchie case vengano distrutte e sostituite da casamenti in affitto. Ogni lavoratore impiegato nelle varie attività locali desidera essere vicino al posto di lavoro. Le strutture per i trasporti pubblici non vengono realizzate prima che ne sia dimostrato il bisogno, e quindi la popolazione si affolla in un’area ristretta, abituandosi a vivere con strade lastricate e senza alberi, in case spoglie, monotone e deprimenti. Si abitua a condurre un’esistenza separata dalla natura. La responsabilità della proprietà di casa è avvertita da pochi. Il senso di cittadinanza e responsabilità morale per mali sofferti da chi sta vicino si indeboliscono. Il prodotto è una razza sempre più artificiale, egoista, apatica.

Nell’interesse sia dell’igiene che della moralità pubblica, la casa a cottage è di gran lunga preferibile all’abitazione in casamento d’affitto. Quando una popolazione urbana vive in casamenti d’affitto, ci sono grandi quantità di persone affollate entro un’area limitata, il che comporta un continuo traffico, attraverso le strade del quartiere, di abitanti e visitatori, e per la consegna di merci. Il traffico è rumoroso, il che logora i nervi degli inquilini più sensibili. Solleva anche una notevole quantità di polvere composta di sostanze minerali e organiche dannose per la salute di chi le respira. I corridoi, cantine e cortili in comune dei casamenti d’affitto sono strumento di trasmissione di molte delle malattie delle famiglie qui riunite. Il pericolo si riduce in qualche misura realizzando finestre a illuminare e ventilare i passaggi, ma non viene eliminato, perché molte parti restano lontane dai raggi del sole, e sono aerate in modo inadeguato. La tubercolosi è responsabile di quasi un decimo di tutti i decessi negli Stati Uniti, stroncando la vita di solito fra le età di venti e quarant’anni, nel periodo di maggior produttività. Il bacillo tubercolare può sopravvivere per settimane al di fuori del corpo umano, in una stanza umida, senza sole, in un corridoio, in una cantina. Il casamento d’affitto contiene di frequente i germi della tubercolosi in gran numero, ed essi possono essere trasportati dalla polvere del corridoio ai polmoni della vittima. La casa in affitto può così ad un tempo ridurre la vitalità, attraverso una relative assenza di luce solare e aria pura, e contemporaneamente offrire abbondanti occasioni per la trasmissione delle più diffuse e pericolose malattie.

I casamenti, inoltre, non assicurano la riservatezza essenziale per un elevato sviluppo umano, mentale e morale. Gli alloggi sono realizzati vicini gli uni agli altri, così che gli affari dell’una famiglia sono facilmente visibili dalle finestre degli appartamenti circostanti. La riservatezza si può ottenere soltanto chiudendo le finestre o le tende, a sacrificio dunque di luce e aria, che sono elementi indispensabili per la massima salute funzionale. É difficile ottenere un po’ di solitudine anche nelle migliori delle case ad appartamenti, dove si è vicini ai suoni di strumenti musicali o ad altri rumori delle molte famiglie circostanti. Ma la più grave controindicazione del casamento in affitto è quella di rendere impossibile la supervisione dei bambini da parte dei genitori. Il bambino per la propria salute deve giocare fuori casa. Ma quando il bambino delle case in affitto esce dal proprio appartamento, esce dal controllo dei genitori, può accompagnarsi a qualsiasi altra persona, desiderabile o no, che il casamento o la strada del quartiere possono aver portato qui. Anche la scelta dei giochi, come quella dei compagni di gioco, è sottratta al controllo dei genitori, e il tempo è spesso trascorso in modi pericolosi.

La casa a cottage non ha nessuno di questi svantaggi. Sulle vie di queste abitazioni la quantità di traffico necessaria, e di conseguenza il rumore e la polvere, sono molto inferiori a quanto si verifica nei quartieri dei casamenti in affitto. Non c’è un corridoio comune attraverso il quale condividere le malattie delle famiglie dei vicini. Ciascuna abitazione è isolate in uno spazio aperto. Anche incendi e occasionali incidenti diminuiscono, nella casa a cottage. Aumenta la quantità di riservatezza, perché le famiglie dei vicini vivono separate, e possono avere al tempo stesso solitudine, aria e luce. Ma la cosa più importante è l’occasione offerta alle madri, principali responsabili dell’educazione dei giovani della razza, di sovrintendere ai loro bambini, che possono giocare in un cortile aperto, con compagni scelti dalla mamma, e a giochi approvati o controllati, mentre lei sta al lavoro in cucina. L’alloggio a cottage rende anche possibile per il capofamiglia coltivare un orto nelle ore libere dal lavoro, cosa che oltre a distrarre in gran parte dei casi dalle occupazioni quotidiane, mette a disposizione verdure fresche, ad un costo inferiore rispetto a quello dell’acquisto al mercato, e offre l’occasione per un’educazione dei bambini alla natura. Non meno importante, il fatto che l’abitazione a cottage quando è in proprietà tende a sviluppare nella famiglia un senso di responsabilità, sia per la propria casa che per il quartiere dove è collocata. Questo senso di responsabilità si riflette nella politica locale, a vantaggio della comunità, rendendo i cittadini più coscienziosi sia nei comportamenti privati che in quelli pubblici.

Esistono due gruppi di politiche sociali particolarmente importanti, come strumenti per indurre i lavoratori industriali delle nostre città ad abitare in case a cottage. La prima si può chiamare decentramento produttivo; la seconda, decentramento residenziale. La strategia del decentramento industriale comporta misure per spostare fabbriche e laboratori dalla città verso il suburbio o l’aperta campagna. Il decentramento residenziale comprende le strategie per spostare gli abitanti delle città verso i sobborghi, o i centri minori, villaggi, campagne. Una politica di decentramento residenziale può, quindi, includere tutte le azioni che penalizzano la realizzazione di casamenti d’affitto in città – per esempio leggi che richiedano a questi complessi di essere antincendio, consentendo al tempo stesso la costruzione di abitazioni unifamiliari con struttura in legno- o promuovono mezzi di trasporto rapidi ed economici, o riducono il prezzo d’acquisto dei terreni suburbani, facilitano i prestiti a basso tasso di interesse per la costruzione di un cottage, favoriscono le tendenze di “ritorno alla terra”.

Le occasioni industriali offerte dalle città costituiscono una delle cause principali della loro rapida crescita in America. Gli imprenditori hanno collocate i propri impianti nei centri urbani principalmente perché si trovavano vicini al mercato del lavoro, alle infrastrutture di trasporto, ai consumatori. Verso le città si spostano sia il disoccupato che l’ambizioso, grazie alle possibilità di impiego regolare, che appaiono maggiori. Questa popolazione industriale è in gran parte la causa del malsano affollamento nelle città americane. Se si potessero spostare queste industrie dalle città ora sovraffollate, verso spazi aperti, se si potessero indurre anche le nuove imprese a stabilirsi in aperta campagna, e se la popolazione industriale potesse essere attirata dalle città verso nuovi villaggi industriali, i caratteristici mali del sistema della casa in America sarebbero grandemente ridotti.

Ci sono molti elementi di carattere economico favorevoli al decentramento produttivo. I terreni per le industrie in città sono molto costosi; si possono ottenere spazi per usi produttivi nei sobborghi o in aperta campagna a costi bassissimi: spesso a nessun costo. Si possono scegliere le comunità dove le tasse sono inferiori a quelle della città, e spesso un consiglio eletto di amministrazione rurale troverà vantaggioso concedere i terreni e esentare dalle tasse per un certo periodo di anni, per un’industria che si insediasse. Le infrastrutture di trasporto per i prodotti di alcuni settori sono senza dubbio migliori nelle città, me questo vantaggio relativo, a favore della collocazione urbana, può scomparire quando vengano realizzati particolari tratti ferroviari all’esterno delle città, a connettere con la rete nel suo insieme. In un centro urbano, gran parte delle attività deve mettere in conto una grande quota del proprio bilancio ogni anno al trasporto di merci da e per gli scali ferroviari, in spese per gli autisti dei veicoli, in sprechi per i danni che comporta un eccesso di movimentazione, ecc.: tutte spese che potrebbero essere eliminate del tutto se lo stabilimento industriale fosse situato su un tracciato di derivazione, dove è possibile caricare le merci sui vagoni direttamente. Il costo del lavoro è più ridotto nelle comunità rurali, se I lavoratori sono meno sindacalizzati che nelle città, o se il costo della vita è inferiore. Se al decentramento produttivo si accompagna quello residenziale, se gli abitanti dei casamenti d’affitto della città si spostano in case a cottage con giardino, salute, soddisfazione, efficienza, stabilità del lavoro possono essere superiori nel villaggio industriale a quanto siano in città, con conseguente riduzione delle perdite derivate all’impresa dall’irregolarità e rilassatezza sul lavoro.

Un programma di decentramento produttivo non è facilmente applicabile a tutti i settori. La sua attuazione dipende dal tipo di industria, dalle dimensioni degli spazi che occupa in città, dalla disponibilità di manodopera, e da vari altri fattori. Le attività che si rivolgono ai soli abitanti di una città, come lavanderie, sartorie, altri laboratori di abbigliamento o macinazione, devono restare, per essere vicine al consumatore, e comunque saranno le ultime a muoversi. Le attività stagionali devono restare vicine a una grande disponibilità di lavoro, e in genere non possono spostarsi verso le comunità rurali, almeno finché non si imporrà un efficiente sistema nazionale di scambi del lavoro. Anche le industrie che hanno già investito molto negli immobili urbani troveranno difficile tagliare le radici e ristabilirsi in aperta campagna. Dunque il processo di decentramento produttivo è necessariamente lento, ma l’obiettivo è comunque importante, e può essere promosso a scala nazionale e statale, da commissioni per il miglioramento dell’abitazione, da camere di commercio suburbane o rurali.

Un decentramento industriale non accompagnato da quello residenziale è di scarso valore per quanto riguarda il problema dell’abitazione. Graham Romeyn Taylor, nel suo Satellite Cities, espone una quantità di casi nel Middle West, in cui i lavoratori industriali sono rimasti abitanti delle città, e si spostano quotidianamente verso il posto di lavoro. Ciò è allo stesso tempo disagevole e inutile. L’esperienza dimostra che è possibile realizzare villaggi industriali in modo coordinato, applicando i migliori principi urbanistici alla loro costruzione, e vi si possono alloggiare i dipendenti in case igieniche, artistiche, riservate. Ma per farlo, è essenziale o che l’impresa acquisti centinaia di ettari attorno ai propri impianti, oppure che ciò sia fatto da qualche organizzazione particolare di cittadini. In America è stato sperimentato in modo estensivo solo il primo metodo.

L’esperienza dimostra che chi usa il lavoro può acquistare grandi appezzamenti di terreno a prezzi unitari molto bassi, e con la collaborazione di competenti urbanisti pianificarli e organizzarli con una rete di strade residenziali curvilinee, servite da centri sociali e commerciali, a un basso costo per lotto. É possibile progettare dei cottages per tutta l’area, o solo per una sua parte, realizzandoli contemporaneamente, acquistando i materiali all’ingrosso da un commerciante o fabbricante, pure a basso prezzo, e offrendo così abitazioni unifamiliari ben attrezzate in un gradevole villaggio industriale, a un affitto che il lavoratore possa permettersi di pagare.

Quando un datore di lavoro si impegna a dare casa ai propri dipendenti in questi villaggi, è cosa saggia per lui realizzare alcune abitazioni da affittare, e altre da vendere con pagamenti-rateazioni agevolate, su un periodo dentellale o più lungo. Si dovranno anche lasciare alcuni lotti inedificati, che sarà poi possibile cedere in modi agevolati a dipendenti che desiderano progettarsi e costruirsi la casa. Il datore di lavoro dovrà badare a consentire ai dipendenti di scegliere, se vogliono affittare o comprare, e non dovrà obbligare, direttamente o indirettamente, a vivere nelle proprie case. Se hanno la possibilità di abitare ovunque desiderano, i dipendenti non avranno occasione di sentirsi vittime di paternalismo, o in qualunque modo obbligati a dipendere dal datore di lavoro. Chi rispetta l’individualità del dipendente in questo modo, probabilmente non avrà problemi sindacali.

In altro metodo di decentramento industriale è stato tentato di Inghilterra. Un libro di Ebenezer Howard intitolato Garden Cities of Tomorrow, pubblicato la prima volta nel 1898 col titolo Tomorrow, auspica la realizzazone di città industriali a popolazione contenuta, attraverso società a dividenti limitati composte da cittadini interessati al bene pubblico. Howard raccomanda che tali città abbiano una popolazione non superiore a 32.000 abitanti. Ciascuna deve essere circondata da una cintura di terreni agricoli; la densità di case per ogni quartiere industriale deve essere contenuta. I terreni non sono di proprietà dell’industria che si trasferisce nella città giardino, ma di un comitato col compito di garantire che resti disponibile ai cittadini della comunità. Howard spera di promuovere la creazione di queste città giardino per decentrare l’industria, svuotare le città, assicurare ad ogni cittadino d’Inghilterra sia i vantaggi della vita rurale – aria pura, case unifamiliari, orti – che quelli della vita urbana – buone scuole, chiese, teatri, occasioni di incontro.

Nel 1901, sono stati acquisiti 1.544 ettari di terreno a cinquanta chilometri da Londra, a Letchworth. Sono stati pagati circa 100 sterline l’ettaro, dalla Garden City Pioneer Co., Limited. Subto dopo la Pioneer Co. si è sciolta, ed è stata istituita la First Garden City, Limited, ora proprietaria dei terreni su cui sorge la città. La costituzione di questa società offre dividendi del solo 5% sulle quote, che inoltre possono essere acquisite dai cittadini della Garden City se essi lo desiderano. Alle fabbriche è destinato un apposito quartiere, collocate in modo che i venti dominanti portino i fumi lontano dalle abitazioni. La zona delle fabbriche è nascosta da una collina al resto della città, e attraversata da una ferrovia che collega direttamente Londra a Cambridge. Ci sono già oltre trenta proprietari di fabbriche che sono stati convinti a stabilire i propri impianti in questa città.

Oltre i due terzi dell’area esterna sono destinati ad una cintura agricola permanente che offrirà derrate fresche alla città, condividendone la vita sociale. L’attuale popolazione è di 8.000 abitanti, alloggiati in cottages singoli, doppi o a schiera. Il numero Massimo di abitazioni edificabili per ettaro è di trenta, offrendo così a ciascuna casa un ampio giardino. Inoltre ogni abitante può prendere in affitto degli orti. I costi per le case e i terreni sono bassi, e i lavoratori dell’industria sono alloggiati molto meglio che in città. La cittadina è magnificamente progettata e ben tenuta, con gli abitanti dotati di senso civico. Applicando il piano di Howard’s si è realizzata una comunità industriale decentrata, che offre tutti i vantaggi del villaggio di proprietà dell’industriale, e nessuno dei suoi svantaggi. Questo metodo non è stato ancora tentato su larga scala, ma è promettente, e importante a sufficienza da meritarsi un serio tentativo anche in America sotto la guida di un organismo competente di cittadini consapevoli dell’urgenza del problema.

La politica del decentramento residenziale è importante per le nostre città, sia che l’industria si decentralizzi oppure no. Se le industrie si spostassero dalle città e i lavoratori le seguissero, il problema del decentramento residenziale per il resto della popolazione urbana diverrebbe relativamente semplice, perché si renderebbero disponibili grandi quantità di spazi, per una popolazione limitata. Comunque, che le industrie si spostino o no, è importante che le amministrazioni cittadine, convinte della superiorità relative dell’abitazione a cottage, promuovano questi alloggi attraverso norme particolari. Ovviamente, in genere il lavoratore cittadino non può vivere in una casa unifamiliare nei sobborghi, se non può spostarsi dall’abitazione al posto di lavoro in mezz’ora, o meno. E non può di norma abitare in un cottage se affitto, o pagamento di rate, interessi, ammortamento ecc, per acquistare la casa, gli costa di più – costo quotidiano del trasporto incluso – dell’affitto di una sistemazione equivalente in città. [2]

La questione è in qualche modo più compelssa di quanto non appaia da questo ragionamento, perché spesso ci sono vari membri della famiglia che lavorano in città, nel qual caso la posizione della casa deve essere scelta con riguardo ai bisogni di chi lavora più lontano o per più ore. Anche l’assenza di alcuni vantaggi sociali è di impedimento alla vita suburbana. Quindi uno degli elementi per la soluzione del problema sarà l’offerta di accesso a strutture per l’istruzione e la ricreazione, per tutte le età ed entrambi i sessi, agli abitanti dei sobborghi residenziali.

Per rendere accessibile l’abitare nel suburbio, è importante individuare mezzi di trasporto rapidi ed economici per tutte le zone esterne delle città adatte alla funzione di quartieri residenziali. É importante, per questa ragione e per il traffico veicolare, avere ampie strade radiali che collegano i poli commerciali, industriali e di incontro della città ai suburbi.

Il costo delle abitazioni suburbane che si realizzano di solito in America, è proibitivo per le classi lavoratrici. Le abitazioni vengono costruite singolarmente, a prezzi al dettaglio per quanto riguarda i materiali, il costo del lavoro, i prestiti, spesso da persone poco addentro ai metodi per ridurre i costi di costruzione; sono edificate su lotti dalle forme poco adatte, acquistati da speculatori fondiari a prezzi eccessivi, affacciati su strade eccessivamente larghe e costose da realizzare. Per ridurre i prezzi delle abitazioni, dunque, in primo luogo è necessario abbassare quelli dei terreni. Ciò si può ottenere in parte attraverso lo zoning, ad esempio destinando quartieri interamente alle abitazioni, cosa che contiene i valori speculativi dei terreni. Si può ottenere anche rendendo più economica la realizzazione delle strade, progettate più strette, semirurali, nei distretti solo residenziali, e predisponendo lotti edificabili in qualche modo meno profondi di quelli caratteristici delle città americane. I terreni possono anche essere resi più economici tassando nello stesso modo sia i terreni urbanizzati che quelli inutilizzati, per il loro valore potenziale. La bassa tassazione di oggi sui terreni inutilizzati serve da stimolo agli speculatori per mantenerli tali. Se la valutazione di queste superfici si incrementasse, i proprietari entrerebbero in concorrenza per vendere i propri terreni, riducendo così i costi per lotto edificabile. Il costo del denaro preso in prestito per ogni casa si può ridurre se a chiedere il prestito sono grosse entità, con grosse somme per grandi operazioni. Oppure, le somme possono essere concesse in prestito, a singoli o cooperative di inquilini, dalle amministrazioni statali o cittadine, seguendo l’esempio europeo, posto che questa politica ottenga buoni risultati tali da compensare i gli elementi negativi che caratterizzano i sistemi di sussidi pubblici. Gli insediamenti suburbani, comunque finanziati, devono essere progettati da esperti urbanisti e realizzati con tutte le economie di scala nell’acquisto di materiali e uso di manodopera.

Esistono quattro principali forme organizzative che possono essere utilizzate per le operazioni su vasta scala dell’insediamento suburbano: (1) il soggetto commerciale, che interviene a scopo di profitto per l’investitore; (2) il soggetto filantropico, che costruisce i quartieri principalmente a vantaggio degli abitanti, e non cerca alcun ritorno monetario dal proprio investimento; (3) il soggetto cooperativo, attraverso il quale gli abitanti organizzati realizzano l’insediamento nel proprio interesse collettivo; (4) il soggetto pubblico, che realizza la trasformazione per il vantaggio pubblico, in genere senza alcun fine di profitto monetario per l’investimento. Le linee di demarcazione fra questi quattro tipi di soggetto non sono nette. L’agenzia commerciale può essere filantropica, nel senso che può trovare un buon affare il fatto di tenere in considerazione il miglior interesse dell’inquilino o acquirente finale. Il soggetto filantropico, d’altra parte, tende ad essere sempre più commerciale, perché ritiene che una beneficenza finalizzata ad eliminare la povertà di chi la riceve debba essere gestita con criteri di impresa. Gran parte delle cosiddette compagnie filantropiche che realizzano insediamenti suburbani sono imprese a dividendi limitati concepite per versare il 5% sul capitale investito, destinando tutti i guadagni ulteriori agli occupanti delle abitazioni sotto forma di servizi di vario tipo. Le cooperative sono gestite secondo il principio filantropico del servizio, e al tempo stesso animate dal desiderio di massimo profitto per l’investimento, in termini di benessere degli inquilini associati. Si chiama “self- help through service”. Tutti i tipi di entità descritti sopra, possono essere promossi attraverso un’agenzia pubblica – sia statale che municipale – che metta a disposizione terreni a basso prezzo, esenzioni fiscali, prestiti a interesse ridotto, o altre agevolazioni, a chi sta costruendo case salubri per i ceti più poveri.

Esempi dell’organizzazione di tipo commerciale per la costruzione di cottage si possono trovare in qualunque città in crescita. Anche le società filantropiche a dividendi contenuti hanno realizzato molto, per l’affitto o la vendita, nelle città americane, come ad esempio la City and Suburban Homes Company, a Homewood, Brooklyn ; la Sanitary Improvement Co., Washington; la Goodyear Tire and Rubber Co., di Akron,Ohio; e la Modern Homes Company, di Youngstown, Ohio. I gruppi industriali, il cui scopo può essere sia filantropico che commerciale, hanno ampiamente costruito per i propri dipendenti, in molti paesi. Gli esempi del principio cooperativo sono rari in America, anche se questo tipo di struttura probabilmente verrà sperimentata a Billerica e East Walpole, Massachusetts, e a Hamilton, Ontario. L’abitazione cooperativa si è dimostrata decisamente un successo a Harborne, Hampstead, e in altri sobborghi giardino realizzati in forma associata in Inghilterra. Insediamenti suburbani di iniziativa pubblica sono stati sviluppati dal County Council di Londra, e da centinaia di amministrazioni municipali europee: come a Sheffield. Inghilterra, o Ulm, Germania. Sono intervenuti i governi nazionali o provinciali in Irlanda (Congested Districts Board), Nuova Zelanda e Germania.

Qualunque di questi tipi di ente può essere utilizzato, in determinate condizioni, per realizzare vantaggiosamente insediamenti suburbani. Il tipo commerciale è quello più comunemente attivo, perché la spinta del profitto è sempre uno stimolo alla costruzione di case nelle città in crescita. Ma le abitazioni realizzate per l’uomo di pochi mezzi sono costruite e progettate meno bene di quelle degli altri tipi di agenzie, dato che lo scopo è quello di garantire profitti immediati agli investitori. L’interesse dell’abitante è considerato solo per quanto fa guadagnare. Il tipo di organizzazione commerciale è inevitabile nella costruzione di case, finché resterà l’istituto della proprietà privata, ma nella maggior parte delle città deve essere affiancato da altre forme di agenzia.

L’entità filantropica, o società a dividendi limitati, può essere utilizzata per trarre vantaggio dalla sperimentazione di nuovi tipi costruttivi. Funzione principale della società filantropica, sperimentazione a parte, è quella divulgativa. Essa può prendere la forma di istruzione dei costruttori locali sui nuovi metodi, formazione degli inquilini per il buon mantenimento degli edifici, educazione degli occupanti al risparmio, attraverso nuove e facilitate forme di accesso alla proprietà. Probabilmente il ruolo più importante di questo tipo di agenzia è la scoperta di nuove tipologie di abitazione e la loro cessione in forme di pagamento agevolate agli occupanti. In questo modo, la City and Suburban Homes Company di Homewood, Brooklyn, ha costruito abitazioni su lotti da 12x30 metri e le ha messe in vendita a 2.500-3.000 dollari, terreno incluso. L’occupante può pagare in rate diluite su vent’anni, con versamenti mensili per tasse, interessi e ammortamento, pagando allo stesso tempo una polizza assicurativa pari a due terzi del valore del mutuo, in modo tale che in caso di morte, la compagnia sia tutelata per la vendita della casa, e la famiglia nel suo dirotto alla proprietà.

Negli Stati Uniti sinora non sono state utilizzate agenzie governative per la realizzazione di insediamenti suburbani, ma in Europa esistono vasti appezzamenti di terreni acquistati dalle municipalità, edificati con case a basso costo, e cedute in affitto dal comune ai lavoratori, oppure vendute con rateazioni agevolate di lungo periodo. Quest’ultimo metodo si è rivelato utile a evitare una dannosa speculazione sui terreni suburbani, e per promuovere la proprietà della casa anche fra i più poveri. Sinora, difficoltà costituzionali e una relativa inefficienza o disonestà da parte degli uffici municipali, hanno reso sconsigliabile l’applicazione di questo metodo nel nostro paese. É stato fatto un approccio simile comunque a Toronto, Canada, dove i titoli della compagnia a dividendi limitati vengono garantiti dalla municipalità.

L’organizzazione cooperativa, non ancora sperimentata su larga scala in America, ha caratteristiche particolari come strumento di promozione delle costruzioni suburbane. Secondo questo metodo, il potenziale abitante suburbano investe in quote di una cooperativa di abitazione. Si assicura un’opzione sui terreni del suburbio. Gli occupanti vengono selezionati dalle municipalità entro la cui circoscrizione ricade. Il denaro, sia in Inghilterra che in Germania, può essere preso a prestito dallo Stato a un interesse del 3 o 3½ per cento, e altri fondi si ricavano emettendo obbligazioni. I terreni, naturalmente, devono essere pianificati da esperti urbanisti, e si deve trarre vantaggio dalla realizzazione su grande scala. Quando le abitazioni sono pronte, gli appartenenti all’associazione cooperativa, tutti potenziali occupanti, entrano nelle case e pagano un affitto alla società. Il cui reddito è costituito dagli affitti pagati. Da questo reddito lordo si ricavano le spese di gestione, si pagano gli interessi dei prestiti governativi o delle emissioni, una percentuale è accantonata come capitale di riserva, e quindi vengono pagati gli interessi sulle quote di ciascun socio-abitante, a un tasso contenuto, di solito al 5%. Tutti i profitti netti rimanenti a questo punto possono essere distribuiti ai membri in funzione dell’affitto pagato all’associazione, ma non tornano sotto forma di denaro, piuttosto di quote del capitale, si che ciascuno ne possiede per 1.000 dollari, o il valore della propria abitazione.

Le decisioni sugli affari della cooperativa di abitazione suburbana sono strettamente democratiche. Ciascun membro ha a disposizione uno solo voto. Questa forma organizzativa è particolarmente stabile ed economica, perché ciascun componente ha il massimo interesse negli affari del complesso edilizio. Quindi non ci sono perdite in caso di spazi inutilizzati, perché se una casa è vuota, ogni membro è sollecitato a trovare un nuovo occupante. I costi di riparazione sono mantenuti al minimo, perché gli occupanti fanno attenzione alle proprietà condivise. Ci sono poche, o nessuna, perdite in termini di ritardi sugli affitti, perché le quote dell’occupante possono essere rilevate per eliminare il suo debito nei confronti dell’associazione. Inoltre, con questa forma organizzativa, tutti gli incrementi di valore dei suoli creati dalla comunità diventano proprietà dei membri abitanti.

Quindi il decentramento di attività e residenze è altamente desiderabile, ed è importante che l’America stimoli questo movimento attraverso particolari misure. È necessario istituire un’agenzia nazionale che fornisca informazioni a chi intende costruire, o alle persone che intende impiegare, sui meriti dei vari metodi di progettazione, finanziamento, organizzazione dei complessi suburbani. La stessa agenzia potrebbe costruire o ampliare la propria utenza attraverso la propaganda. Mostre di materiali per l’edilizia, di progetti costruttivi o urbanistici, sui costi e i tipi di organizzazione, regolamenti e metodi di lavoro delle imprese di costruzione. Attraverso la costituzione di un tale centro di informazioni e propaganda sia l’urbanista che il promotore di migliori complessi abitativi industriali o suburbani sarà in grado di agire con piena conoscenza dei risultati, positive o negative, degli esperimenti già condotti, traendone profitto. La sperimentazione a caso, che si risolve in inutili errori, potrà così essere evitata. In tal modo, con poca fatica e spesa, potranno notevolmente incrementarsi quantità ed efficienza dei progetti di decentramento.

Nota: curiosamente, sarà proprio uno dei giovani collaboratori di John Nolen, Earle Draper, a coniare vent'anni più tardi il termine "sprawl", a definire l'insediamento suburbano poco o mal pianificato; è scaricabile da fondo pagina un file PDF di questa traduzione con qualche immagine (f.b.)

here English version

[1]Nel 1910, il 72,1% della nostra popolazione nata all’estero viveva nelle città (amministrazioni con oltre 2.500 abitanti). Sunto del Tredicensimo Censimento, p. 200.

[2]Esistono varie combinazioni. Se si è meno malati nel suburbio si può pagare un affitto equivalente a quello della città più quanto si risparmia in parcelle del medico. Nel suburbio si possono pagare meno le verdure, bevande, abbigliamento, divertimenti ecc.; ciò che si risparmia in questo modo – se non c’è un corrispondente aumento del costo della vita suburbana e il reddito rimane uguale – può essere speso in affitto.

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1.Quanti sentono e seguono con intelletto d’amore il problema del deurbamento e i problemi connessi della casa, della campagna, dell’autarchia, hanno certamente appreso con intima soddisfazione che la prossima legge Urbanistica, già approvata dalle Commissioni legislative nel luglio u. s., “porrà l’Italia” secondo l’annuncio dato alcuni mesi fa dal Ministro Gorla “all’avanguardia tra le nazioni più progredite”, poiché “si prefigge attraverso il rinnovamento e ampliamento edilizio della città il miglioramento di vita nei centri minori e nelle campagne, per combattere la pericolosa corsa all’inurbamento”. L’art. 1 della legge, infatti dichiara: “Il Ministero dei Lavori Pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio della città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il deurbamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”.

E la relazione dello stesso Ministro che ne accompagnava il disegno alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni chiariva:

”Concepita la disciplina urbanistica come fondamento di una sana convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale, la legge urbanistica si appalesa come il mezzo più efficace per attuare quel deurbamento che è uno dei capisaldi della politica del Regime. Espressione di questa tendenza sono due nuovi istituti improntati alle vedute più moderne. L’uno è il “piano territoriale di coordinamento”, che quando venga posto in essere costituirà la trama entro la quale dovranno inquadrarsi i piani regolatori dei singoli Comuni, in modo da assicurarne l’armonica coesistenza. La creazione di tali piani territoriali è stata lasciata al criterio del Ministro de Lavori Pubblici, senza imporre prescrizioni rigide, ma segnando soltanto orientamenti e diretti, e di massima in quanto trattasi di provvedimenti di vasta portata da sperimentare con cautela.

L’altro istituto è quello del “piano regolatore generale” esteso alla totalità del territorio comunale, con che si eviteranno gli inconvenienti derivanti dall’attuale sistema, per il quale il piano regolatore generale è limitato al centro urbano ed alla zona di ampliamento”.

A sua volta il Ministro Gorla, parlando alla Commissione legislativa della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, soggiungeva “è vano fissare la gente là dove non vuole rimanere se non le si danno i primordiali servizi necessari”.

Così il legislatore mira a tradurre in precetti normativi la nuova dottrina urbanistica, la quale, come avvertì il Ministro Bottai, inaugurando nel 1938 il Congresso nazionale di urbanistica “non ha come esclusivo compito di ordinare la città, ma anche e specialmente i borghi e le campagne” o, come altrimenti si è espresso uno dei più profondi e appassionati cultori della materia, G. A. Calza Bini, “estende i suoi studi alla organizzazione di tutti i centri sociali, in città come nelle campagne, sui porti come sulle spiagge marine e sui fianchi dei monti”.

E non può non apprezzarsi questo contributo ideale e pratico che viene offerto dalla dottrina urbanistica e dal nuovo mandato legislativo per la realizzazione del deciso programma del Duce rivolto alla ruralizzazione del Paese, quale base prima e insostituibile della indipendenza economica e politica della Nazione, e alla sana politica del villaggio categoricamente ribadita dal Sottosegretario all’Interno G. Buffarini Guidi contro il tradizionale privilegio delle metropoli.

2. Concretamente quali norme la legge contiene, quali potestà specifiche essa attribuisce al Ministro dei LL. PP., quali mezzi offre diretti o influenti al fine del deurbamento?

Sembra mirarvi innanzi tutto la norma, che, all’antisociale distinzione della legge del ‘65 tra Comuni aventi popolazione superiore ai 10 mila abitanti e Comuni con popolazione inferiore, ai quali ultimi negava la facoltà di formare il piano regolatore, e alla irreale distinzione che quella stessa legge faceva fra Comuni nei quali si manifestasse la necessità di espansione e Comuni che tale necessità non avessero, pone una regola generale obbligante tutti i Comuni a formare il piano regolatore edilizio esteso all’intero territorio, piano che comprende (art. 8) così le norme di correzione e sistemazione dell’abitato esistente (piano regolatore della legge del ‘65) come le norme di edificazione nelle zone di espansione (piano di ampliamento della legge del ‘65), o, quanto meno, ad includere nel proprio regolamento edilizio un programma di fabbricazione con l’indicazione dei limiti di ciascuna zona e con precisazione dei tipi ed eventualmente delle direttrici di espansione (art. 34). Ogni lembo di territorio nazionale, anche il più remoto e rurale, potrà in tal modo rappresentare al suo popolo la bellezza e le comodità della nuova edilizia sorta secondo gli schemi concepiti dalla dottrina urbanistica associata alla scienza igienica e il cuore pulsante del Regime per la più elevata redenzione della vita rurale e del benemerito popolo delle campagne.

La relazione ministeriale, poi, spiegava, nel brano trascritto, che a tale scopo sono stati concepiti i due istituti del piano di coordinamento e del piano regolatore generale per tutto il territorio, e non del solo abitato. Dalle linee direttrici di cotesti piani, infatti, possono partire provvide iniziative ed opere, particolarmente stradali, idrauliche, e industriali, di immediato e sicuro effetto di valorizzazione e popolamento di campagne anche lontane.

L’art. l, inoltre, espressamente pone e definisce questo compito del Ministro dei Lavori Pubblici; compito non del tutto nuovo, come quello che già era implicito nelle sue funzioni di organo della politica generale del Governo, ma ora nettamente imposto e che dovrebbe concretarsi nell’indirizzare anche verso quel fine particolare l’azione propria e le opere da eseguirsi a cura del suo Ministero o degli istituti da esso diretti o dipendenti, e nel vigilare che quel fine sia fra le vedute precise dei regolamenti, dei piani, dei programmi costruttivi, delle opere degli enti locali.

3. Ma, se non erro, non vi si rinviene altra norma positiva a ciò diretta. Sia consentito domandarci allora se queste affermazioni di principio e questo mandato generico possano per sé soli apportare un contributo pratico realmente efficace pel conseguimento dello scopo idealmente prefisso del deurbamento. Si tratta evidentemente di principii solo direttivi e di un mandato di carattere discrezionale il cui effetto pratico dipenderà dall’applicazione di essi, e che potrà mancare, ove l’azione pratica non risponda.

Gli stessi piani e programmi edilizi d’altra parte non possono, per propria funzione, che rappresentare il puro quadro topografico d’insieme delle zone in cui i piani o i programmi suddividono, nella carta, il territorio di uno o più Comuni con la sola indicazione delle linee terminali e periferiche e della destinazione di ciascuna di quelle zone (abitato centrale da rettificare, zone di espansione di esso con la tipologia delle costruzioni, zone industriali, linee stradali o navigabili, ecc.) disegnando, quindi, per esclusione, le restanti parti del territorio riservate alla cultura agraria.

Da sé solo dunque il dettato della legge non sembra segnare passi positivi sulla strada del deurbamento.

4. Constatiamo intanto ogni giorno, e non senza preoccupazione, come nonostante gli sforzi di leggi, di provvedimenti di Governo, della più convincente dialettica della stampa, la corsa verso l’urbanesimo e l’abbandono che ne deriva , delle campagne non si arginano. Un’apposita legge, quella del 6 luglio 1939, pose come un reticolato giuridico alle facili invasioni delle città. Opere gigantesche di bonifica e appoderamento sono state compiute o sono in corso di esecuzione e nuove città sono sorte nel centro di territori redenti od accanto a nuove industrie, per volontà del Regime e con immane sforzo finanziario dello Stato. Il nuovo codice civile sanziona nuovi doveri per la conservazione e lo sviluppo della proprietà rurale. Un altro disegno di legge è davanti alle assemblee legislative contenente provvedimenti a favore dell’economia montana.

Nella realtà il problema resiste a questi reattivi vari.

D’altro canto la stessa legge urbanistica (reputo dovere della critica leale, e come tale collaboratrice, rilevarne gli aspetti che appaiono negativi) sembra dimenticare i suoi buoni propositi quando, nella indicazione del contenuto dei piani, dei programmi, dei regolamenti, non fa cenno alcuno ad elementi praticamente diretti al fine del deurbamento, mentre molto preoccupata, e pur giustamente, si manifesta dei riguardi tecnici, estetici, storici, monumentali, oltre che del traffico e dell’igiene. Autorizza la espropriazione per la precostituzione di un demanio comunale di aree disponibili per le future zone di espansione dell’abitato, per la formazione dei comparti, per la regolare lottizzazione delle aree, per rettifica dei confini nell’abitato e nelle zone di espansione di esso, ma, come mi riservo di esaminare in altro scritto, reca norme scarse o nulle dirette ad attenuarne il costo. Sembra voler incoraggiare un maggiore spreco di aree libere per giardino a scopi puramente estetici (art. 25). Modificando il primo schema, che sottoponeva all’obbligo della licenza del Podestà con le garanzie conseguenti qualsiasi costruzione nel territorio del Comune; la prescrive solo per le costruzioni entro l’abitato e le zone di espansione.

5. Se a me fosse lecito aggiungere al corredo, già immenso, delle approfondite elaborazioni nella materia una modesta idea, delineerei, sul terreno positivo, due nuove regole generali che considererei utilmente integratrici della legge urbanistica. M’incoraggia a farlo, oltre l’amore del tema, l’ultimo articolo della legge il quale, nel chiaro intento del legislatore di volerla perfezionare nell’immediata applicazione, autorizza il Governo ad introdurre nel regolamento anche norme integrative, fra le quali appunto penso possano trovare sede quelle che sottopongo al vaglio sapiente delle sedi competenti.

La prima statuirebbe : “ Ogni podere destinato a coltura agraria o almeno quello che abbia la estensione della unità colturale prevista dal nuovo codice civile quella, cioè, sufficiente a dar/lavoro ad una famiglia agricola (art. 846 c. c.) dev’essere dotato di una casa sana e sufficiente per le famiglie del proprietario e del lavoratore o dei lavoratori fissi del fondo e per gli altri bisogni della coltivazione”.

Non v’è bisogno di dimostrare, dal punto di vista economico, demografico e sanitario, che condizione prima per attrarre e trattenere nelle campagne lavoratori e proprietari è un alloggio accogliente dotato dei requisiti rispondenti alle esigenze maggiori della vita (acqua, luce, strade); che la presenza continua o frequente del proprietario e del lavoratore è, a sua volta, condizione essenziale per la migliore custodia, cura, coltivazione e produttività della terra; e che la vita in case e campagne salubri è fattore importante dello sviluppo della sanità e della moltiplicazione della razza.

Non v’è bisogno di dimostrare neppure che, mentre s’investono spese enormi per rifugi pubblici, antiaerei di carattere temporaneo e malsicuri, il disseminare di case abitabili il territorio nazionale nelle zone destinate all’agricoltura, fuori dei centri abitati, significa anche costruire i rifugi più sicuri e sani.

Dal punto di vista del contenuto giuridico, la norma non solo non incontra ostacolo nell’ordinamento generale, ma concorrerebbe ad attuare i principii cardinali posti, nei riguardi della funzione sociale e degli sviluppi della produzione fondiaria, negli articoli 836 e segg. del nuovo codice civile. Dal lato formale potrebbe osservarsi che una disposizione siffatta avrebbe sede più propria in una legge generale di riordinamento della proprietà fondiaria. Ma non appare estranea alla legge urbanistica, se è vero, com’è vero, che questa è ispirata alla dottrina urbanistica la quale spinge il suo sguardo ad ogni nucleo sociale, intende disciplinare l’edilizia anche per finalità del deurbamento da essa stessa dichiarato.

E posta questa regola, la licenza di costruzione del Podestà dovrebbe essere subordinata non al puro accertamento igienico ed estetico, ma anche alla rispondenza di essa alle varie esigenze pratiche cui per i fini della legge deve soddisfare.

6. La seconda regola stabilirebbe: “ Il piano regolatore comunale (almeno dei Comuni soggetti alla legge contro l’urbanesimo) deve stabilire larghe fasce di territorio, convenientemente collegate col centro abitato da comode vie di accesso, suddivise in lotti di 2000, 3000, 4000 mq., al di là delle immediate zone di espansione dell’abitato o intorno alle borgate periferiche. In ciascun lotto il proprietario ha obbligo di costruire, secondo gli allinea menti che il piano stabilirà, un fabbricato semirurale sufficiente per alloggiare almeno la famiglia del proprietari, la famiglia di un lavoratore rurale a modicissimo fitto, e possibilmente anche altri inquilini, preferibilmente lavoratori”.

Sembrami intuitivo che queste fasce semirurali attrarrebbero non poca parte della popolazione operaia e media; avvicinerebbero molti lavoratori agricoli ai giardini, orti, terreni ove sarebbero chiamati a prestare la loro opera; assicurerebbero alle famiglie coabitanti una parziale indipendenza economica mercé la coltivazione dei terreni circostanti, insieme con un’abitazione a mite fitto, in contrade salubri semicampestri.

Nel piano regolatore, costituirebbero anch’esse speciali zone di espansione a carattere prevalentemente rurale.

7. Mi si presentano alla mente, nel formulare queste idee, le obiezioni che alcuni anni fa opponeva con ingegnoso calcolo geometrico Ugo Notari, il quale, postosi il problema se convenisse che gli abitati crescessero in estensione o in altezza, e rilevata la tendenza verso la prima osservava:

”Ecco un primo settore del gigantesco piano regolatore, sul quale dovrà essere combattuta 1a prima grossa battaglia. Le nuove case richiedono nuove aree, e le nuove aree, lentamente ma irresistibilmente, mangeranno la superficie coltivabile. La casa è così una irriducibile nemica del pane. Se noi vogliamo più grano per provvedere all’alimentazione delle nuove generazioni, dobbiamo sviluppare le nostre città e i nostri paesi in altezza, predisponendo tutta una nuova legislazione sulla proprietà fondiaria nel senso di conferire un movimento generale alla sopraelevazione delle case esistenti. Le nuove aree commerciali devono essere i tetti; le città e i paesi debbono avviarsi ad avere case ad otto a dieci piani”.

Non mi avventuro nella questione, che eccede la mia competenza e i fini di queste note, se negli abitati debbano preferirsi i grattacieli o i fabbricati medii o piccoli, ma è certo che, se dovesse seguirsi al cento per cento il ragionamento geometrico del Notari, dovrebbero abolirsi anche le abitazioni campestri, che sottraggono anch’esse terreno al pane. Ma è pur certo che questo senza di quelle non nascerebbe neppure nella più gran parte dei terreni destinati a produrlo.

Le difficoltà essenziali, invece, per la pratica applicazione delle due regole che traccio, sarebbero tutte e soltanto di carattere finanziario, poiché, come è noto, pochi o pochissimi dei proprietari di terre o aree hanno mezzi propri per adempiere l’obbligo di costruzione che verrebbe loro imposto. Ma se quelle due regole fossero riconosciute necessarie per lo scopo, non dovrebbero essere negati mezzi e accorgimenti atti a superare le difficoltà che si oppongono, e cioè:

a)sovvenzioni e facilitazioni più larghe possibile (esenzioni fiscali, contributi governativi, mutui a lunghissima scadenza e minimo tasso, ecc.) come per le costruzioni popolari o per le bonifiche;

b)espropriazione o sanzioni penali a carico degli inadempienti;

c) opere stradali e impianti di luce e acquedotti, e uffici pubblici periferici indispensabili per rendere possibile la vita nelle campagne.

Questi provvedimenti, che a lor volta integrerebbero le due regole, potrebbero avere sul regolamento della legge urbanistica una enunciazione di massima, con rinvio alle leggi speciali cui competerà di disporli.

Comunque non sarà vana l’attesa dei risultati dell’impegno assunto dalla legge urbanistica.

Le due eminenti coscienze che presiedono al Dicastero dei Lavori Pubblici, il Ministro Gorla e il Sottosegretario Carletti, che hanno già rivolto i loro studii sull’importante problema, hanno nella propria altissima competenza e lunga esperienza, la traccia più sicura delle vie da percorrere perchè questa sana finalità della legge non rimanga una proclamazione puramente letterale.

Essi hanno sopratutto nel loro spirito le consegne date dal Duce:

“I finanziamenti concessi al Consorzio fra istituti di case popolari debbono servire per la costruzione di nuove case anche nei Comuni rurali perchè dal provvedimento ne dovranno trarre vantaggio quegli autentici rurali, che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e in silenzio”.

“Entro alcuni decenni tutti i rurali italiani devono avere una casa vasta e sana, dove le generazioni contadine possano vivere e durare nei secoli come base sicura e immutabile della razza”.

“Solo così si combatte il nefasto urbanesimo, solo così si possono ricondurre ai villaggi e ai campi gl’illusi e i delusi che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi cittadini del salario in contanti e del facile divertimento”.

Antonio Tosi, Sulle appartenenze sociali nella città moderna, in Atti della Tavola Rotonda di studi urbanistici: Vita e Nuove Forme della Città, Centro di cultura dell’Università Cattolica, Passo della Mendola, 27 agosto - 1 settembre 1965

1. La sociologia urbana è in crisi. Nata in una prospettiva antiurbana giustificata sulla base dei pregiudizi degli intellettuali e dei disagi dei primi inurbati, si trova oggi a disporre di schemi inadeguati: proprio nel momento in cui la città ha raggiunto una dominanza che mai nessuna società aveva visto. Gli stereotipi sulla città vengono demoliti uno dopo l’altro, insieme ai loro correlati scientifici: soprattutto vengono attaccate alcune formulazioni ottenute deduttivamente dalla scuola psicosociale (Simmel e Wirth ne sono gli esponenti più noti e quindi più suscettibili di diventare i capri espiatori) e alcune conclusioni che i cultori della human ecology avevano ricavato dalla loro grande costruzione ideologica. Ma la mancanza di una teoria, o quanto meno di una impostazione metodologica capace di far pervenire ad una teoria, mette i moderni combattenti della crociata contro gli stereotipi nella condizione di poter alimentare altri stereotipi; l’accumulazione di ricerche empiriche non integrate teoreticamente può opporre al mito della città divoratrice di uomini il mito opposto, e altrettanto indimostrabile, della città come luogo di un progresso automatico. Che la conoscenza della città possa progredire attraverso queste vie è per lo meno discutibile.

Le proposizioni ricorrenti a proposito del tipo di rapporti sociali che caratterizzano la città insistono, riallacciandosi alla tradizione psicosociale, sull’impersonalità, l’isolamento, il declino delle appartenenze primarie, la dominanza delle organizzazioni formali accentuando in genere le connotazioni negative di questi caratteri.

Urbanisti fermi alla “sociologia” di Mumford, recenti critici della società di massa, nostalgici della piccola comunità e prefiguratori di partecipazioni democratiche “di base “, ecologi incapaci di abbandonare i loro postulati antisociologici, tutti si sono affezionati ad una serie di proposizioni circa l’interazione in ambiente urbano che vengono solitamente imputate a Wirth. É soprattutto per questo consenso sul riferimento che prendiamo l’avvio da Wirth: anche se è doveroso precisare che in realtà le proposizioni wirthiane erano di tipo ipotetico: prudenti e molto meno ruralistiche e pessimistiche di quelle dei suoi seguaci.

Il vantaggio della formulazione wirthiana consiste nella sua preoccupazione di mettere in rapporto il sistema di organizzazione sociale urbano - il tipo di rapporti sociali e di istituzioni - con un tipo di base demografica, una tecnologia e un ordine ecologico da una parte, e con un set di atteggiamenti, idee e costellazioni di personalità dall’altra. L’urbanesimo è dal punto di vista demografico emergenza di comunità infeconde ed eterogenee. Sul piano dell’ordine sociale è sostituzione di contatti secondari a contatti primari, cui si accompagna un indebolimento dei legami di parentela, il declino del significato del vicinato, il venir meno delle basi tradizionali di solidarietà sociale, il trasferimento di attività industriali, educative e ricreative ad istituzioni specializzate; cui si accompagna, dal momento che l’azione individuale è inefficace e l’efficienza si raggiunge solo in gruppi, una moltiplicazione di associazioni volontarie, La moltiplicazione del numero di persone in interazione, che rende impossibile contatti pieni tra persone, ha conseguenze sulla personalità e il comportamento collettivo urbano: la personalità urbana – “schizoide” - intrattiene contatti impersonali, superficiali, transitori e segmentali, che conducono alla riserva, all’indifferenza, ad una prospettiva blasee e all’immunizzazione del proprio io contro le richieste degli altri. La superficialità, anonimità, e carattere transitorio delle relazioni sociali urbane rendono conto della sofisticazione e razionalità degli abitanti della città. La libertà dal controllo emozionale personale dei gruppi intimi li lascia in uno stato di anomia. A tutto ciò. si accompagna un aumento di disorganizzazione personale, malattie mentali, suicidio, delinquenza, corruzione, disordine.

2. Si tratta, come è noto, di ipotesi sostenute da diverse ricerche empiriche (che peraltro non giustificano il pessimismo con cui molti le propongono). Ma, soprattutto recentemente, si è andato sviluppando negli Stati Uniti un cospicuo orientamento di ricerca che è risultato in una reinterpretazione della vita sociale urbana. Questa reinterpretazione, che in parte sembra contrastare con le ipotesi accennate, ha fondato la sua critica proprio su quello studio delle “appartenenze “ dell’abitante urbano su cui i teorici della disorganizzazione sociale avevano costruito le loro ipotesi. É interessante, anche se il tentativo comporta il rischio di grosse semplificazioni, riassumere i risultati di queste ricerche:



a) i rapporti primari. L’appartenenza a gruppi informali è nella città fenomeno quasi universale: soltanto un piccolo segmento della popolazione è privo di tali appartenenze. In particolare è pressoché universale l’amicizia, fuori da ogni contesto organizzativo: l’abitante urbano è raramente isolato del tutto da relazioni con amici singoli o circoli di amici. E forse ancor più importanti sono le relazioni parentali: la famiglia coniugale è di fondamentale importanza (l’abitante della città tende a spender la maggior parte delle sue serate nel seno della famiglia); e importante è perfino la famiglia estesa (le visite a parenti sono il tipo più corrente di “riunione”; inoltre queste relazioni vanno al di là delle chiacchiere occasionali: l’aiuto reciproco tra i membri di una famiglia estesa sembra essere una risorsa molto importante per la famiglia singola);



b) la partecipazione formale. A parte la partecipazione religiosa gli abitanti della città appartengono ad una sola - o a nessuna - associazione. Gli individui di basso e medio livello sociale appartengono al massimo ad un’altra associazione (di solito connessa al lavoro per gli uomini, ai bambini o alla religione per le donne): soltanto nei livelli superiori si trova spesso colui che appartiene a molte associazioni. Se poi si studia la frequenza alle attività associative, si trova che una cospicua quota di appartenenze è costituita da “appartenenze di carta”;

c) l’appartenenza locale. La situazione è a questo proposito molto più differenziata. Per il vicinato la gamma varia da aree locali in cui molte persone sono “intensi vicini”, ad altre in cui la maggior parte della gente conosce appena alcuni dei suoi vicini. Il medio abitante della città ha alcune relazioni informali di vicinato, ma esse non sono per lui molto significative: egli apprezza molto il vicino che è “una brava persona e ti lascia stare”. Anche l’identificazione e la partecipazione alla comunità locale offrono una vasta gamma di situazioni: tuttavia se la maggioranza delle persone identificano la loro area di residenza come “la loro vera casa”, coloro che preferirebbero vivere altrove, possono variare da una percentuale minima a più di metà dei residenti in una determinata area.

Queste tendenze nell’importanza e nell’attribuzione di significatività alle proprie appartenenze suggeriscono l’infondatezza di due importanti ipotesi della sociologia urbana tradizionale, che si reggevano sulla convinzione che nella città i rapporti sociali fossero soprattutto organizzati e formali:

a) con il declinare della comunità primaria e del vicinato ci si aspetta che l’amicizia sia più strettamente correlata all’organizzazione di lavoro: le ricerche citate mostrano invece che i compagni di lavoro costituiscono una parte minore delle relazioni primarie dell’individuo quando egli è fuori dal lavoro. In generale le relazioni di lavoro sono isolate dalla partecipazione primaria libera dell’abitante urbano;

b) contrariamente a quanto ci si può aspettare, la partecipazione culturale al divertimento organizzato è poco importante per gli adulti urbani. La maggior parte di essi partecipa con moderata frequenza a manifestazioni ricreative di massa (in concreto si tratta soprattutto di spettacoli cinematografici): la vera importanza dei mezzi di divertimento di massa è nella casa. Televisione e radio sono estremamente importanti, ma nel contesto della partecipazione familiare.

Se questi sono i risultati relativi a settori molto urbanizzati della città americana, ricerche condotte in altri Paesi rilevano un’analoga importanza delle appartenenze primarie di contro ad una debolezza di implicazioni in organizzazioni formali. Certamente se passiamo dalla situazione americana ad altri contesti culturali in cui il processo di urbanizzazione si è sviluppato secondo modalità diverse o non ha ancora raggiunto punte estreme, le conclusioni di Greer richiedono di essere per lo meno specificate: in nessun caso tuttavia è possibile sostenere che l’isolamento, l’anomia, e la formalizzazione dei rapporti siano i caratteri tipici della vita sociale urbana.

Uno studio di Oeser e Hammond a Melbourne ci offre un quadro simile a quello descritto da Greer: l’ordine sociale della città australiana è centrato sull’unità d’abitazione monofamiliare, sulla famiglia coniugale, parenti selezionati, il lavoro, e i mass media, questi ultimi consumati in casa. Le ricerche del Center for Urban Studies e soprattutto quelle dell’Institute of Community Studies arrivano a risultati convergenti per diversi quartieri di Londra: a Pimlico viene scoperta un’organizzazione sociale strettamente intessuta che è “proprio l’opposto dell’immagine scolastica dell’anomia urbana”; a Bethnal Green, Young e Willmott trovano la “famiglia estesa” e una ricca vita locale: gli abitanti sono “attaccati a mamma e papà, ai mercati, ai pubs e al quartiere, al Club Row e al London Hospital”, l’accentuazione del legame madre-figlia produce un tipo di three-generation family,. la scoperta di situazioni simili in quartieri diversi quanto a collocazione nell’area metropolitana e a caratterizzazione socio-economica e culturale, convince Willmott che non si tratta di persistenza anacronistica di vecchie forme di vita sociale, ma di tendenze generalizzabili.

Una ricca vita sociale, centrata sui rapporti parentali e di amicizia, e in molti casi comprendente una intensa vita di vicinato, si può rintracciare in diversi quartieri di Parigi e di altre città francesi. Ipotesi simili sembra si possano avanzare anche per la situazione italiana, anche se le ricerche in, proposito sono per il momento insufficienti per permettere adeguate generalizzazioni.



3. Questi pochi cenni bastano a mostrare come, nelle città, la vita di relazione sia centrata su intensi e frequenti rapporti personali -soprattutto con i parenti e gli amici -e suggeriscono la possibilità che, all’interno di questa generale tendenza, si possano riscontrare importanti differenze entro una società e tra diverse società. E’ però opportuno, prima di provvedere all’individuazione di alcune differenze culturali che qualificano la generale ricchezza di rapporti interpersonali entro la città, richiamare alcune ragioni storiche della nascita e della sopravvivenza degli stereotipi sull’anomia, l’isolamento, il significato dei rapporti formali, e i loro presupposti logici: e quindi la loro eventuale capacità di descrivere entro certi limiti alcune situazioni storiche e culturali particolari.

Nel definire la città alcuni dei primi studiosi antiurbani ricorrevano a termini negativi, concettualizzando l’urbano come il non-rurale: si parlava di anomia, indebolimento del gruppo primario, ecc. Queste definizioni, oltre a riflettere nostalgie ruralistiche, assumevano che ciò che è astratto e impersonale non è reale ( per cui reale è il legame che consiste nel salutare il vicino, e non lo spartire con lui, magari senza saperlo, un pregiudizio contro i meridionali). Oggi, con lo sviluppo dell’urbanesimo, la definizione negativa è insufficiente, in quanto è la cultura urbana quella dominante, e questa cultura è condivisa anche dai sociologi. Ma il pensare alla città in termini negativi continua a pesare sulla sociologia urbana favorendo l’errore logico antico: teorizzare sul fatto che nella città sono assenti alcuni caratteri (per di più mitizzati) della campagna.

Molti dei concetti teorici impiegati erano, in parte a causa dell’errore precedente, tali da frapporre enormi difficoltà alla possibilità di verifica. Due di essi, il concetto di continuum rurale-urbano e l’ipotesi secondo cui i caratteri dell’interazione urbana dipendono principalmente dalla dimensione e dalla densità dell’aggregato ( espresse in termine di popolazione ) erano fondamentali per le impostazioni sotto esame: ed entrambi sono da tempo sottoposti a severe critiche di carattere metodologico. Si trattava di impostazioni che procedevano per “tipi ideali”, ma con una certa tendenza a reificarli: ne risultava un postulato di incompatibilità tra tipi “opposti”, così che ci si aspettava che in una società caratterizzata da rapporti secondari non vi fosse posto per rapporti primari. Sembra certo che questo uso improprio della categoria “tipo ideale” fosse connesso a quell’atteggiamento ideologico, sostanzialmente antiurbano, che incoraggiava a interpretare la situazione presente sul metro di una situazione passata (idealizzata).

Goode lo mette chiaramente in rilievo a proposito delle teorie sulla famiglia moderna. È probabile che molti errori nell’interpretazione delle trasformazioni della famiglia siano imputabili alla tendenza a misurare il cambiamento sulla base di un tipo ideale del passato. Secondo Goode la famiglia classica della nostalgia occidentale è un mito. Così come la famiglia coniugale è un tipo ideale: abbiamo visto che in Inghilterra e negli Stati Uniti la famiglia delle classi meno elevate -probabilmente la meno estesa delle famiglie - riconosce un campo di parentela più largo di quello che si inscrive nell’unità nucleare. E almeno sotto questo aspetto il modello di tipo ideale non riesce a render conto della realtà e della teoria sociale: i legami tra certe categorie di parenti sono così forti che il sistema familiare “ non può essere limitato alla unità nucleare senza l’impiego della forza politica». La contrapposizione tra i due tipi per misurare la trasformazione sulla base delle caratteristiche imputate al primo è anche responsabile delle ingiustificate apprensioni sulla crisi della famiglia: il pessimismo di coloro che, non ritrovando nella famiglia moderna alcuni lineamenti cui erano abituati, ritenevano che fosse la famiglia a sparire e non quei lineamenti, si fondava su quell’atteggiamento retrospettivo cui abbiamo accennato.

Certamente nel processo di urbanizzazione si possono individuare degli aspetti negativi: soprattutto in un processo di urbanizzazione rapida o in generale nelle prime fasi del processo, è facile notare manifestazioni patologiche. È la città di queste prime fasi - quella in cui slums, delinquenza e malattie sono più frequenti - che gli antichi sociologi urbani prendevano come base della loro teorizzazione. Essi non conoscevano la città dei suburbia, del baby-boom e del benessere, su cui teorizzano i sociologi urbani revisionisti: è insomma possibile che le divergenze tra pessimisti e ottimisti dipendano in parte da differenze nei rispettivi oggetti di studio.

Tuttavia il problema non è così semplice. Perché, vi abbiamo accennato, è in certe caratteristiche metodologiche che va ricercata la peculiarità delle ipotesi della vecchia sociologia urbana. Certo nelle prime fasi dell’urbanizzazione la città può essere più facilmente descritta nei termini delle vecchie ipotesi: ma è la “idealizzazione” (negativa) di questo tipo di città che diventa discutibile. Dubbi sul pessimismo relativo alla città erano già stati sollevati dagli inizi: studiosi come Adna Weber non erano affatto convinti che la città portasse alla rovina morale. Gli stessi ecologi classici credevano all’esistenza di processi anabolici-catabolici e di successioni alternate di processi di disorganizzazione e organizzazione.

Ma era la disorganizzazione che in definitiva veniva sottolineata: sul piano metodologico si assumeva che non un’organizzazione, ma la disorganizzazione sociale esisteva nella città, e come conseguenze della disorganizzazione venivano interpretati i fenomeni urbani. A parte gli errori metodologici che di fatto erano presenti in tale tipo di analisi, ci interessa qui mettere in rilievo come la teoria della disorganizzazione sociale si fondasse su una particolare concezione derivata da Cooley e Mead dei legami tra rapporti sociali e stati psicologici. Si assumeva in particolare che l’assenza di “stretti” rapporti con gli altri portasse ad un io ambiguo e a uno stato psicologico confuso, e che una rete di rapporti sociali poteva essere mantenuta solo se si mantenevano stretti rapporti sociali fondati su stati psicologici stabili. Poiché gli abitanti della città - soprattutto delle aree centrali - non avevano stretti rapporti sociali, ma quei rapporti “formali” che, non essendo “reali”, non erano capaci di produrre una rete di appartenenza consistente e quindi un io consistente, essi dovevano essere particolarmente esposti a malattie mentali, al suicidio, ecc. Il pessimismo degli studiosi della città si rivolgeva all’aspetto trasformante del processo di urbanizzazione - quello che privava gli abitanti della città dei loro rapporti - ed era particolarmente accentuato in quanto particolarmente profonde erano le trasformazioni che essi osservavano.

Ma ben presto divenne chiaro che non il processo di urbanizzazione in sé, con la sua azione trasformante, provoca conseguenze negative, ma il modo in cui il , processo viene affrontato. Non la trasformazione, ma la trasformazione inattesa sconvolge i processi psicologici. Una trasformazione “ordinata” può sostenere una particolare struttura sociale piuttosto che distruggerla. Nei Paesi sottosviluppati - nota un rapporto delle Nazioni Unite - molte delle cosiddette conseguenze dell’industrializzazione (e dell’urbanizzazione) non sono le conseguenze dell’industrializzazione stessa, ma piuttosto della preservazione - o della tentata preservazione - di modi di vita preindustriali in un ambiente estraneo e inappropriato. In definitiva la negatività con cui il processo di urbanizzazione si manifesta è inversamente proporzionale alla capacità di affrontarlo: dipende dall’attrezzatura sociale di cui la società dispone, e in particolare dai modi di orientamento in essa diffusi.

Di conseguenza il pessimismo sul processo di urbanizzazione in sé - per quel che riguarda i rapporti sociali e gli stati psicologici connessi - non si giustifica. La ragione è duplice. Innanzitutto quella semplice relazione tra stati psicologici e struttura sociale, tra mancanza di rapporti stretti e ambiguità dell’io, non è necessaria: i moderni studi sulla struttura sociale urbana lo dimostrano abbondantemente. Inoltre non è neppur vero che nella città i rapporti sociali “stretti” sono scarsi: ed è l’illustrazione di questo secondo aspetto che costituisce l’oggetto del- la nostra discussione. Già Whyte aveva mostrato come gli abitanti degli slums fossero tutt’altro che privi di rapporti sociali significativi. In seguito - ne abbiamo accennato - le ricerche che hanno contestato l’anomia e l’isolamento degli abitanti della città si sono moltiplicate. Sulla base di queste ricerche è facile mostrare che nelle città i rapporti personali sono estremamente intensi e significativi per la maggior parte degli abitanti; si configurano secondo modalità in parte coincidenti, in patte diverse rispetto al passato; sono inseriti in un mondo di organizzazioni e si caratterizzano in relazione ad altri tipi di appartenenze; e soprattutto l’equilibrio tra i diversi tipi di rapporti sociali varia enormemente secondo le situazioni e i gruppi sociali svelando l’enorme differenziazione della realtà urbana. Mentre la vecchia sociologia urbana si riferiva alla città come ad un’entità omogenea limitandosi ad individuarvi la “presenza” o la “assenza” di certi caratteri.



4. Le appartenenze sociali degli abitanti della città assumono diverse configurazioni secondo il grado di urbanizzazione che una società o un suo settore ha raggiunto. Inoltre le configurazioni variano con le diverse caratteristiche strutturali e culturali delle diverse aree urbane o di loro settori. Sotto questo secondo aspetto le differenze possono essere considerate indi- pendenti dal grado di urbanizzazione, anche se questo è di per sé una variabile culturale, e anche se le differenze interne ad una società emergono con chiarezza nelle fasi più avanzate del processo di trasformazione: quando la società è divenuta “urbana” e il confronto - piuttosto che con il “rurale” - diviene sempre più confronto tra diversi tipi di “urbano”.

Nota Axelrod che a Detroit “l’appartenenza e la partecipazione a gruppi formali non erano distribuite casualmente nella popolazione, ma erano correlate a quelle che son considerate alcune delle caratteristiche fondamentali e differenziatrici nella nostra società”.Osservazioni analoghe vengono fatte praticamente da tutti coloro che studiano le appartenenze sociali. Secondo Chombart de Lauwe gli abitanti della città “sono divisi in più possibilità di scelta nelle loro relazioni. Un equilibrio deve stabilirsi tra i rapporti di vicinato e i rapporti di parentela, i rapporti di lavoro, e le amicizie elettive che costituiscono reti più o meno importanti secondo le famiglie”: secondo l’importanza che si attribuisce all’una o all’altra scelta, o secondo la possibilità che si ha di trovare rapporti attraverso l’uno di questi canali, la comunicazione con gli altri uomini prende una figura particolare. Tra i più importanti caratteri che selezionano, in funzione di un particolare equilibrio, i rapporti sociali di una persona o di una famiglia sono il suo status sociale ( espresso soprattutto in termini di reddito e istruzione) , la sua età, il suo sesso.

In relazione ai rapporti primari con parenti e amici i fattori di differenziazione agiscono sul contenuto dei rapporti più che sulla loro quantità. Fermo restando il fatto che i rapporti con amici e parenti sono frequenti e significativi per qualunque categoria di abitanti della città, è possibile ad esempio che i membri delle classi elevate possano trovare più facilmente i loro amici tra i compagni di associazione. Greer ritiene inoltre che negli strati socio-economici superiori - dove l’amicizia è spesso strumentale per fini economici - gli amici possano coincidere maggiormente con i compagni di lavoro. La stessa possibilità viene proposta per le donne lavoratrici non sposate, per le quali il lavoro sostituisce la parentela come ambito sociale predicibile. Infine è probabile che gli amici ( specialmente i gruppi di amici) siano più importanti per i giovani che per altre classi di età per le quali la famiglia può essere più significativa. Per i rapporti con i parenti l’interpretazione è problematica: se da una parte molte famiglie operaie hanno stretti rapporti con i parenti, dall’altra è possibile che per esse la situazione vari notevolmente secondo il tipo di quartiere. Sembra credibile l’ipotesi di Vieille secondo cui soltanto le famiglie borghesi possono sempre intrattenere rapporti con la famiglia estesa, mentre le famiglie operaie possono essere costrette a limitare i rapporti alla famiglia coniugale e quindi a centrare gran parte della loro vita di relazione sui rapporti di vicinato.

L ‘implicazione in rapporti a base locale sembra più sensibile all’influenza dei fattori di differenziazione accennati. E’ probabile innanzitutto che le donne abbiano con i vicini rapporti più frequenti anche se spesso si tratta di rapporti superficiali e che ai bambini il vicinato fornisca un ambiente significativo per la loro educazione e socializzazione, e che di conseguenza in qualunque tipo di situazione le donne e i bambini costituiscano la base del mantenimento di una certa quantità di vita di vicinato nella città moderna. Ma è in termini di status e classe sociale che si spiegano le principali differenze nell’importanza relativa dei rapporti coi vicini rispetto ad altri tipi di rapporto. Gli studi citati che hanno rintracciato una più o meno accentuata importanza dei rapporti con i vicini in Inghilterra, in Francia e in Italia, sono ricerche su aree abitate da popolazioni a basso livello socio-economico: soprattutto in Francia gli studiosi della vita sociale della città sembrano concordi nel ritenere che le relazioni di vicinato sono molto più sviluppate negli ambienti operai, mentre le classi borghesi sono più orientate verso amicizie elettive. La stessa tendenza, per motivi che vedremo, non sembra riscontrabile negli Stati Uniti, dove, in particolare, l’identificazione con l’area di residenza e la partecipazione in essa alle attività associative possono essere maggiori in aree di medio o alto livello socio-economico.

Soprattutto è la partecipazione ad attività associative che mostra una forte dipendenza dai fattori di differenziazione accennati. Fermo restando che appartenenza e partecipazione in associazioni sono relativamente scarse in qualunque categoria di abitanti della città, sesso, età e status sociale selezionano i tipi e le dimensioni dell’implicazione associativa: è possibile che i giovani siano più orientati ad attività ricreative che “politiche” e le donne, la cui attività associativa è in assoluto più scarsa di quella degli uomini, si orientino di preferenza ad attività in associazioni religiose, caritative, educative (e quindi tendenzialmente più localistiche); mentre tra le appartenenze più diffuse presso gli uomini vi sono quelle connesse al lavoro (soprattutto appartenenze a sindacati). Ma soprattutto è dallo stato sociale che dipende la partecipazione ad associazioni: sembra che l’appartenenza e l’impegno aumentino passando dagli strati inferiori a quelli superiori (definiti in termini di reddito, professione, istruzione). In particolare presso gli strati socio-economici superiori sono più diffusi i membri “attivi” egli appartenenti a più associazioni (appartenenze multiple).

In sostanza possiamo concludere che l’abitante della città trova tra le sue appartenenze sociali un equilibrio che varia secondo l’età, il sesso, lo status sociale. É soprattutto il ruolo dello status sociale che è stato individuato con chiarezza: in generale le persone di status elevato partecipano ad attività formali (connesse al lavoro e al tempo libero) più di quelle di status modesto che sono coinvolte in modo più significativo in reti informali di vicinato. Più problematica appare la dipendenza dalle variabili accennate dei rapporti con amici e parenti, che sono comunque frequenti e significativi per qualunque categoria di abitanti delle città.

5. Se vogliamo rintracciare i fattori specifici che spiegano la relazione tra categoria sociale (soprattutto lo strato sociale) e l’equilibrio tra appartenenze (lo vediamo in particolare a proposito dell’importanza dei rapporti con i vicini e della partecipazione locale) , è necessario prestare attenzione alle opportunità concrete di cui le diverse categorie dispongono. Tra di esse la configurazione del tempo libero e l’accesso ai mezzi di trasporto sono stati spesso indicati come significativi: una miglior collocazione o una maggior disponibilità di tempo libero o il possesso di un’auto aumentano la libertà di scegliere le proprie relazioni al di fuori del vicinato. Éevidente che queste ed altre opportunità sono diversamente distribuite tra le diverse categorie sociali, come diversa è d’altra parte la distribuzione di interessi e valori culturali che, in parte correlate con le opportunità, dovrebbero giocare nella scelta delle relazioni sociali.

Sono ancora Chombart de Lauwe e Greer che riferiscono a differenze culturali le differenze nell’equilibrio tra le appartenenze sociali. Greer suggerisce che i modi di vita delle popolazioni urbane sono differenziate lungo un continuum che va da un modo di vita “familistico” ad uno “urbano”. A quest’ultimo corrispondono vicinati in cui predominano persone singole, coppie senza figli, e famiglie con un figlio; all’estremo opposto troviamo unità di abitazione monofamiliari abitate da famiglie con diversi figli, dove il ruolo della donna è quello di moglie e madre invece che di partecipante alla forza di lavoro. Tra i due vi è una gamma di tipi intermedi. I due tipi non si differenziano quanto all’equilibrio tra appartenenze primarie e secondarie, ma piuttosto quanto al significato dell’area locale: nei vicinati familistici vi sono più rapporti di vicinato e maggior partecipazione (formale) locale; anche se - come vedremo - in nessun caso si stabiliscono quelle comunità primarie a base locale che alcuni teorici della partecipazione ritengono, o ritenevano, ideali.

Per Chombart de Lauwe vi è una evidente differenza culturale tra le famiglie operaie e quelle borghesi: una “divergenza di concezioni sulla solidarietà e la libertà”. Nei vicinati operai l’“apertura” è molto apprezzata: è più importante condividere con i vicini le pene e le gioie della vita quotidiana che preservare quella privacy che invece per le classi borghesi, che si rivolgono piuttosto ad amicizie elettive, è un valore preminente.

Dopo quanto si è detto sulle “opportunità concrete” delle diverse categorie sociali, non è certo il caso di ipotizzare la superiorità di una mitizzata cultura operaia rispetto a quella borghese o viceversa, odi quella familistica su quella urbana o viceversa. Per Chombart de Lauwe le diverse “concezioni sulla libertà e la solidarietà” sono legate alle diverse condizioni di vita; tra le quali egli indica anche alcune costrizioni materiali: nei quartieri operai i rapporti di vicinato sono imposti dalle difficoltà della vita quotidiana e dai costi dei mezzi di trasporto. Con l’elevazione dei livelli di vita i rapporti di vicinato diminuiscono fino a divenire praticamente inesistenti nelle famiglie borghesi: anche in queste classi però le amicizie non sono propriamente di elezione, ma sono rigidamente discriminate da proibizioni familiari, di casta, di classe. Si può ben dire che se le famiglie borghesi sono sfuggite alle imposizioni del vicinato, le loro relazioni sociali incontrano altre costrizioni ed ostacoli. Altri autori francesi e italiani concordano nel ritenere che la vita di vicinato si associa spesso alla miseria e al bisogno. Quanto alla possibile superiorità del modo di vita familistico rispetto a quello urbano o viceversa, tutta la sociologia urbana statunitense non è che una documentazione dei difetti - dell’uno o dell’altro “stile”.

Se si insiste qui sull’importanza dei fattori culturali nel determinare l’equilibrio tra le appartenenze sociali dell’abitante della città è solo perché si ritiene che con l’avanzare del processo di urbanizzazione e l’attenuarsi delle costrizioni materiali, la futura realtà urbana sarà sempre più differenziata in base a fattori culturali (il comportamento delle classi borghesi sopraccennato lo testimonia). Avremo una società urbana in cui saranno presenti diversi comportamenti tutti altrettanto urbani differenziati secondo variabili culturali. Greer e Chombart de Lauwe ci hanno offerto due esempi di come i comportamenti si potranno differenziare.

6. A questo punto sorge una domanda che è di importanza fondamentale in molti problemi di politica urbana: se le differenze nell’equilibrio che una persona trova tra le sue appartenenze sia rapportabile a differenze nel tipo di unità residenziale (quartiere o vicinato) in cui vive.

Sia Chombart de Lauwe che Greer "concordano nel ritenere che la scelta delle appartenenze sociali fa parte di un modo di vita e dipende perciò da quei fattori culturali e strutturali che configurano diversamente i modi di vita per diversi settori della popolazione. Sorge perciò il problema di individuare qual.i siano le variabili, i tipi di raggruppamento, i livelli di aggregati che differenziano significativamente i modi di vita in relazione alle conseguenze che essi possono avere per la scelta di rapporti sociali. Ora, da quanto abbiamo detto, sembra probabile che per la configurazione delle appartenenze siano innanzitutto significative alcune grosse differenziazioni che si possono riferire alla società globale ( come le classi sociali) o al background sociale in generale (come il sesso e l’età): è possibile cioè innanzitutto individuare modi di vita tipici delle classi inferiori, o dei giovani, o delle donne ( con le relative differenzi azioni interne) e ritenere che ad essi siano associati tipici equilibri tra le appartenenze.

Questi modi di vita possono essere rintracciati presso i membri della categoria di cui sono tipici, qualunque sia il tipo di unità residenziale in cui abitano: e quindi in un certo senso sono indipendenti dal tipo di unità residenziale. Sembra tuttavia innegabile che il tipo di comunità, quartiere, o vicinato in cui una persona risiede -assumendo esso stesso certe sue caratteristiche strutturali e culturali -possa influire sull’equilibrio delle appartenenze degli abitanti attraverso fattori locali (non riducibili cioè alle caratteristiche sociali dei singoli abitanti o dei loro gruppi di appartenenza). In altre parole l’area locale, che è sede di rapporti sociali, può diventare fattore che concorre con altri a determinare i rapporti sociali.

I due autori citati possono concordare anche su questo punto. Greer riferisce esplicitamente i due modi di vita, che ritiene significativi per le appartenenze, ad unità residenziali, proponendo l’ipotesi di un continuum che va da vicinati familistici a vicinati urbani. Chombart de Lauwe, che pure ritiene significativa (tra le altre) una differenza culturale di tipo non-locale come è quella tra operai e borghesi, in concreto riferisce quasi sempre la distinzione culturale ad una dimensione locale, illustrando la vita dèi “quartieri” operai e dei “quartieri” medi. È questa tendenza a riferire continuamente i modi culturali ad aree di residenza che ci fa supporre che l’unità di residenza abbia essa stessa un ruolo nel determinare le appartenenze: che cioè le differenze di comportamento tra un operaio e un borghese possano non essere completamente determinate dal fatto che essi appartengono a diverse classi, ma anche dal fatto che abitano in diversi quartieri.

Perché l’abitare in un quartiere piuttosto che in un altro possa avere un peso sul comportamento sociale è evidente: un quartiere prima che un ambiente fisico è un ambiente sociale che ha una sua struttura e cultura. Struttura e cultura che dipendono prima di tutto dalla composizione sociale della popolazione: i diversi gruppi che abitano il quartiere portano in esso i loro valori e stili di vita (che condividono con i membri degli stessi gruppi che abitano altrove) , determinando una struttura e una cultura che possono secondo i casi favorire certi tipi di appartenenza o certi altri (ad esempio rapporti di vicinato piuttosto che amicizie elettive) che possono variare o meno per i diversi gruppi che costituiscono la popolazione del quartiere. In certi casi l’area locale può diventare, secondo l’espressione di Greer, “un fatto sociale oltre che una sede geografica di attività”: è il caso dei vicinati familistici. Tuttavia qualunque sia il risultato, la struttura e la cultura che si costituiscono (a volte si tratta semplicemente di assenza di cultura o struttura riferibili al quartiere come tale) condizionano socialmente e psicologicamente il comportamento degli . abitanti. Questo in ogni caso.

Per capire di che condizionamento può trattarsi basta pensare alle probabilità di comportamento di un operaio in un quartiere borghese e viceversa. Bell osserva che a San Francisco le persone con occupazioni “devianti” rispetto al vicinato sono più spesso isolate dai loro vicini: sono di più i white collars che non i blue collars che riferiscono di essere isolati dai vicini nei vicinati blue collars) mentre nei vicinati white collars avviene il contrario.Ovviamente il condizionamento non ha lo stesso significato e le stesse conseguenze per tutti i gruppi sociali che abitano il quartiere. Certi gruppi sociali (come gli strati inferiori, le donne e i ragazzi) possono avere un “modo di vita” che - non comprendendo tra l’altro l’accesso ai mezzi di trasporto privati - li rende più “passivi” rispetto al condizionamento del quartiere, qualunque sia la cultura dominante nel quartiere: spesso l’alternativa che viene loro offerta non è tra rapporti coi vicini o amicizie elettive, ma tra rapporti nel quartiere e isolamento.

Se si può ammettere che l’area locale può svolgere un ruolo nel determinare le appartenenze sociali degli abitanti, piuttosto equivoca e in definitiva insostenibile risulta quella formulazione del problema che vorrebbe riferire il comportamento sociale degli abitanti (e quindi le loro appartenenze) alle caratteristiche fisiche del quartiere. Certamente un quartiere è costituito da una popolazione che risiede in un certo ambiente fisico (con certe attrezzature, una certa disposizione degli edifici, ecc.): ma non è l’ambiente fisico che spiega il comportamento degli abitanti (se non come condizionamento “negativo”), quanto piuttosto la struttura e la cultura della popolazione residente che “definiscono” l’ambiente fisico. Per cui in definitiva il problema si ridurrebbe a quello precedente dell’influenza dell’ambiente sociale del quartiere.

Gans ha proposto un’utile distinzione tra ambiente potenziale e ambiente effettivo. La forma fisica e la collocazione spaziale sono soltanto un ambiente potenziale in quanto forniscono possibilità di comportamento sociale. L’ambiente effettivo - o totale - è il prodotto di quei modelli fisici più il comportamento della gente che li usa, che varierà secondo la loro struttura sociale e cultura. Per Greer non sono le caratteristiche dell’ambiente che rendono “fatto sociale” oltre che sede di attività l’area locale, ma la cultura familistica tipica di certe popolazioni con certe composizioni sociali.

É in questa luce che vanno interpretati i risultati di molte ricerche che trovano certe relazioni tra tipo di rapporti sociali e collocazione del vicinato nel modello spaziale dell’area urbana. Si tratta di risultati parzialmente contrastanti, in quanto secondo i casi si può trovare che i residenti nella città centrale tendono a limitare i loro contatti all’interno della città stessa, mentre i residenti nei sobborghi hanno spesso relazione fuori della loro città o che gli abitanti dei vicinati suburbani hanno un maggior interesse per il vicinato. L’apparente contraddizione si spiega se si pensa che entro un’area suburbana o centrale vi possono essere vicinati diversi quanto a tipo di popolazione.

Questa precisazione ci permette di fare un’ulteriore considerazione sui rapporti tra spazio e vita sociale. É opinione ormai corrente che nella metropoli è diminuito il significato della localizzazione nello spazio come fattore di differenziazione della struttura sociale urbana. L’attività sociale dell’abitante della città è selettiva: egli oltre che tra i vicini può scegliere le sue relazioni sociali tra la vasta gamma di raggruppamenti con cui entra in contatto. Come l’unità residenziale, anche l’unità di lavoro, le unità ricreative, ecc., hanno loro caratteri strutturali e culturali che concorrono con quelli dell’unità residenziale a configurare le appartenenze sociali dell’abitante della città che entra in contatto con essi: trattandosi di unità le cui basi territoriali non coincidono, o non sono identificabili, ne risulta una perdita di significato dell’area (quella residenziale in particolare) nel differenziare la struttura urbana. Anderson arriva a differenziare dai “vicinati di partecipazione primaria” quelli “di partecipazione secondaria” e a integrare il concetto di vicinato con quello di “rete” di conoscenza e amicizia: “un’astrazione che può essere usata con o senza la dimensione spaziale così necessaria al concetto di vicinato”.

L’emergenza, accanto a reti “a maglia stretta” di reti “a maglia larga” -quelle in cui le persone in relazione con una determinata famiglia possono non avere relazioni tra di loro -non è che un aspetto di una tendenza da tempo individuata: una minor “coerenza” delle reti di rapporti, cui si accompagna una maggior indeterminatezza del rapporto tra reti sociali e territorio.

In generale le reti di rapporti sociali tendono a sfuggire alla possibilità di essere identificate con delle basi territoriali, perché le trame dei rapporti si stabiliscono sulla base di interessi e attività che non hanno un preciso riferimento topografico. In altre parole lo spazio tende ad essere una risorsa piuttosto che fattore di rapporti sociali.

Per gli Stati Uniti la tendenza è efficacemente illustrata da Webber in questi termini: “Le comunità, con cui egli (l’abitante della metropoli) si associa e a cui egli “appartiene”, non sono più soltanto le comunità di luogo in cui i suoi antenati erano rinchiusi; gli Americani stanno diventando più strettamente legati a varie comunità di interesse che a comunità di luogo, interessi basati su attività occupazionali, divertimento, relazioni sociali, o desideri intellettuali. I membri di comunità d’interesse entro una società in libera comunicazione non hanno bisogno di essere spazialmente concentrati (tranne, forse, durante le fasi formative dello sviluppo della comunità d’interesse), perché essi sono sempre più in grado di interagire l’un l’altro dovunque essi siano localizzati. Questo impressionante carattere dell’urbanizzazione contemporanea sta rendendo sempre più possibile per uomini di tutte le occupazioni di partecipare alla vita nazionale”.

Se la localizzazione spaziale perde di importanza nelle aree metropolitane, è però probabile che l’affermarlo non abbia lo stesso significato per diversi tipi di società urbana. Così come, in parte per gli stessi motivi, non ha ugual significato affermare in Italia piuttosto che negli Stati Uniti che la struttura urbana tende a differenziarsi in base a fattori culturali, in base agli “stili di vita”. L’immagine della metropoli i cui abitanti sono in grado di “interagire l’un con l’altro ovunque essi siano collocati” descrive meglio Detroit o Los Angeles che Parigi o Genova.

Per Greer lo stile di vita è diventato il più importante fattore di differenziazione della struttura urbana. A tal punto che, se è vero che in generale i vicinati più urbani si collocano nella città centrale e quelli più familistici nei suburbia, si possono ormai trovare vicinati urbani nelle aree suburbane e vicinati suburbani nella città centrale. Ma la rilevanza dello stile di vita è emersa quando i suburbia sono diventati accessibili a popolazioni di status sociale meno elevato: quando cioè un numero cospicuo di individui è stato in grado di scegliere la propria residenza nel tipo di vicinato in cui gli fosse possibile vivere secondo il suo “stile di vita”, uno stile che implicasse rapporti con i vicini o uno stile che li escludesse, scontata però la possibilità di aver accesso a rapporti con l’esterno qualora lo si desiderasse. Queste sono condizioni in cui è probabile che le differenze culturali relative alla struttura urbana si configurino a livello di vicinati piuttosto che direttamente secondo raggruppamenti della società globale. Il continuum familistico urbano ovviamente suggerisce una distinzione tra unità locali piuttosto che tra raggruppamenti sociali più vasti.

Invece la distinzione culturale di cui si serve Chombart de Lauwe - quella tra stili borghesi e operai - richiama innanzitutto una distinzione tra raggruppamenti sociali globali. Essendo l’accessibilità entro le città francesi limitata (soprattutto per certi strati sociali) , assume maggior importanza da una parte la differenziazione culturale in base a variabili generali (soprattutto di classe), dall’altra la rilevanza dell’area locale come fattore di condizionamento (soprattutto per certe classi sociali).

Ci si può attendere in definitiva una certa relazione tra diffusione dell’ accessibilità (intesa sia come possibilità di scegliere l’area di residenza che si preferisce, sia come possibilità di scegliere le proprie relazioni fuori dell’area in cui si risiede: e quindi come “libertà” dalla collocazione spaziale) e tendenza delle differenze culturali significative per la strutturazione urbana a porsi a livello di unità locali piuttosto che di raggruppamenti della società globale.

7. L’ analisi delle appartenenze sociali ci mostra l’emergenza nelle aree metropolitane di alcune tendenze che rendono inadeguate alcune diffuse ipotesi sulla formalizzazione e l’anomia della vita sociale urbana. Alla luce dei risultati degli studi sulle aree metropolitane americane, Greer può concludere che “l’implicazione dell’individuo comune nelle organizzazioni formali e nelle amicizie fondate sul lavoro è debole in ogni tipo di vicinato, i mass media sono per lo più importanti in un contesto familiare, la partecipazione in circoli parentali e amicali è potente, ma quella con i vicini e i gruppi della comunità locale varia enormemente secondo le aree. Anche se popolazioni altamente urbanizzate non sono tipiche della maggior parte degli abitanti della città, quelle che esistono deviano largamente dallo stereotipo dell’uomo atomistico e in stato di anomia: essi vivono le loro vite in relativo isolamento dal vicinato, dalla comunità, e dalle organizzazioni volontarie, ma trovano una compensazione attraverso un’implicazione intensiva in relazioni primarie con parenti e amici”.

Nei vicinati meno urbani, è maggiore l’implicazione dei suoi residenti nelle organizzazioni volontarie e maggiore il loro interesse per il vicinato e la comunità locale e la loro partecipazione ad essi. L’area locale diventa un fatto sociale, oltre che una sede geografica di attività.

Il quadro che emerge è quello di una società in cui la famiglia coniugale è estremamente potente tra tutti i tipi di popolazione. “Questa piccola struttura di gruppo primario è un’area fondamentale di implicazione; all’altro polo c’è il lavoro,’ un massiccio assorbitore di tempo, ma un’attività che raramente ha relazioni con la famiglia attraverso amicizie esterne con i compagni di lavoro. Invece la famiglia, la sua parentela, e il suo gruppo di amici, sono relativamente liberi, entro il mondo delle associazioni secondarie di larga scala. Burgess ha messo in evidenza che l’indebolimento di una comunità primaria risulta in un aumento della relativa dipendenza degli individui dalla famiglia coniugale come sorgente di relazioni primarie; lo stesso principio spiega la persistente importanza della parentela estesa e la proliferazione delle amicizie strette nell’America urbana. Nella metropoli la comunità, come solida falange di amici o conoscenti, non esiste; se gli individui devono avere una comunità nel vecchio senso di comunione, se la devono fare da sé. Queste condizioni sono a un estremo nei vicinati altamente urbani, là amicizie e parentela sono, relativamente, molto importanti nel mondo sociale dell’individuo medio. In altri tipi di vicinato la famiglia si identifica di solito, sia pur debolmente, con la comunità locale i essa “fa vicini”, ma entro limiti ristretti. Più o meno, il gruppo della famiglia coniugale se ne sta da solo; al di fuori c’è il mondo - organizzazioni formali, lavoro, e la comunità”.

Può darsi che non si possa ancora vedere in questo quadro un’immagine adeguata della vita sociale di molte città europee: quello che è certo è che questa è la tendenza rilevabile dovunque. D’altra parte anche per le città americane Greer ritiene necessario distinguere tra “tipi” diversi. Sono le tendenze comuni verso certi tipi di rapporto e, entro queste tendenze, le differenziazioni relative a certi raggruppamenti sociali e a certe variabili culturali che ci descrivono la situazione della vita sociale urbana della nuova città e fanno emergere nuovi tipi di problemi.

Se il quadro precedentemente delineato è corretto, possiamo concludere che non sono la scarsità di raggruppamenti primari in rapporto a quelli formali o la scarsità assoluta di rapporti significativi a caratterizzare la vita sociale degli abitanti della città moderna, ma la particolare configurazione che le reti di appartenenza assumono nelle loro reciproche relazioni. La base territoriale delle reti di rapporti sociali tende, lo abbiamo visto, a divenire indeterminata. Inoltre, è stato notato, il sistema di relazioni sociali nella città tende a diventare “incoerente”. Osserva Anderson che, mentre i “membri di una comunità primitiva si trovano tutti più o meno nella stessa trama di relazioni, nella comunità moderna ogni individuo ha il proprio ambito di rapporti e, di conseguenza, una particolare concezione della comunità a seconda del lavoro, della mobilità, della classe sociale, dei gruppi cui appartiene, dell’età, delle tendenze cosmopolite. La comunità come ambiente ove si hanno gli stessi interessi e si trova il maggior adempimento della propria vita, ha un significato diverso perfino per persone della stessa famiglia”. Dalla comunità in una “prospettiva locale” - vi abbiamo già accennato - si passa alla comunità in una “prospettiva globale”: i contatti al di fuori della comunità si moltiplicano ed ogni comunità si trova in un intreccio di comunità, mediante la partecipazione al quale può elaborare una propria trama di rapporti forniti di un certo grado di identità: questa costituisce la globalità.

Gli antichi sociologi urbani si erano resi conto della complessità delle reti sociali in cui sono implicati gli abitanti della città. Questa complessità comporta un’eclissi dei tipi tradizionali di comunità: certamente per gli abitanti di uno stesso quartiere può mancare una rete di relazioni sociali “coerente”, una implicazione di strutture particolari entro una struttura di insieme, e una “presa di coscienza sufficiente per gli interessati dei legami che li uniscono”. Quello che ha generato l’equivoco è stato il ritenere che esistesse una relazione tra “inconsistenza” delle reti sociali e isolamento. Ma tale relazione non ha bisogno di essere assunta.

Se un isolamento esiste nella società urbana non c’è l’isolamento degli individui, ma l’isolamento tra le loro reti di appartenenza. Le relazioni di lavoro sono isolate da quelle per il tempo libero e da quelle familiari, quelle associative da quelle primarie. Inoltre le relazioni emozionalmente più significative - quelle personali, a livello di piccoli gruppi - si isolano dalle altre, privatizzandosi: e ciò proprio nel momento in cui le appartenenze pubbliche significative tendono a centralizzarsi configurandosi a livello di grandi collettivi (partiti, comunità nazionali, ecc.). Come risultato, le relazioni intermedie - comunità locali e associazioni - si indeboliscono quanto a partecipazione significativa e divengono sempre più appannaggio di determinate élites. Non è chi non veda a questo punto come la nuova configurazione delle appartenenze sociali riproponga vecchi problemi “politici” e ne imponga di nuovi.

8. a) Il vecchio problema dei raggruppamenti intermedi non può essere posto nei termini in cui lo proponevano i teorici della partecipazione, democratica “di base”, che vedevano nella caratteristica primaria di tali raggruppamenti la salvaguardia della democrazia. Se è vero che poche sub-aree urbane corrispondono all’anonimità e alla frammentazione dello stereotipo, ancor meno sono quelle che corrispondono al tipo di comunità primaria su basi locali o connessa ai raggruppamenti organizzativi tipici della società moderna: né le une né le altre costituiscono la regola nella società moderna.

In ogni caso le sedi dei rapporti primari sono private: la famiglia e gli amici. In nessun caso si costituiscono comunità primarie in senso tradizionale o nel senso auspicato dai teorici della democrazia dal basso (che avrebbero una qualificazione pubblica): perché nessuno dei maggiori segmenti organizzativi della società urbana né le organizzazioni volontarie sono in grado di fornire la base per tale comunità. E perché l’area locale è funzionalmente debole. Certamente la struttura associativa locale varia secondo le situazioni. Negli Stati Uniti, secondo Greer è correlata al familismo, nel senso che meno urbano e più familistico è il vicinato, più vi è probabilità che si costituiscano rapporti primari su base locale (con i vicini): in questo caso la contiguità geografica, costituendo un campo per l’azione sociale, diventa la base di una interdipendenza, e poi di una partecipazione.

Nel caso di vicinati “localistici” o di settori di popolazione “localistici” (le donne, i bambini, e in certi casi gli strati inferiori) , o di problemi tendenzialmente locali (rapporti scuola-famiglia, attività per il benessere del quartiere, ecc.) , una azione a livello locale può essere più facilmente impostata e dare dei risultati. Purché si tenga presente che anche nei vicinati localistici quello che può emergere è pur sempre, secondo l’espressione di Janowitz, una community of limited liability: l’“investimento” dell’individuo è relativamente piccolo nella rete internazionale che costituisce il gruppo locale, e se le sue perdite sono troppo grandi, egli può uscirne tagliando i legami e la comunità non può trattenerlo. Quanto ai vicinati e ai settori sociali più urbanizzati, la popolazione è organizzata non in termini di comunità, ma in termini di organizzazione politica, mass media e cultura popolare. Con il progredire dell’urbanizzazione è probabile che l’organizzazione in termini di rapporti impersonali e astratti diventi la regola: nella società urbana i fuochi d’integrazione diventano sempre più l’organizzazione funzionale e l’articolazione di interessi attraverso le associazioni: con questi fuochi e con i mass media la partecipazione deve fare i conti.

Sul piano urbanistico, l’indicazione che può scaturire dalla situazione delineata è abbastanza semplice: non è necessario ipotizzare il livello locale come il livello privilegiato della partecipazione e dell’integrazione, con il rischio di indirizzare troppe energie partecipative ad attività di scarsa rilevanza politica: mentre è doveroso riconoscere la presenza di un nuovo valore presso settori sempre più vasti di popolazione, la libertà di avere relazioni sociali con chi e dove si preferisce. L’integrazione può essere raggiunta a livelli diversi dal quartiere, la partecipazione realizzata attraverso una gamma di strumenti teoricamente infinita.



b) Si sostiene comunemente che le associazioni volontarie in ambiente urbano sono sempre più importanti. Anche se diverse ricerche dimostrano che la loro importanza è minore di quel che si credeva, possiamo senz’altro condividere l’opinione corrente purché si chiarisca in che cosa consiste la loro rilevanza. Innanzitutto non si tratta di una loro capacità di essere strumenti di partecipazione locale, tranne come abbiamo visto nel caso di certi tipi di vicinati: a tal punto che Handlin le considera sotto questo aspetto una forma arcaica (dell’800 e del primo ‘900) di strumenti di azione sociale. Tanto meno le associazioni possono essere considerate importanti come luoghi di una partecipazione generale significativa. Lo abbiamo visto: la partecipazione ad associazioni è limitata ad una élite, costituita di solito da appartenenti a strati sociali piuttosto elevati quanto ad educazione e potere economico e a certe classi di età.

Possiamo allora ritenere che l’importanza delle associazioni in una società urbana consista semplicemente nel fatto che sono numerose, spesso grandi e dotate di un potere cospicuo. Se il numero di iscritti e partecipanti è limitato, vuol dire che la loro influenza - che può essere considerevole - si serve di reti di comunicazione che possono facilmente raggiungere i non-membri: si tratterà certamente di reti formali (in particolare. i mass media). Ciò non fa che confermare l’importanza particolare delle associazioni di grande dimensione. Sembra però che l’influenza delle associazioni possa contare anche su processi di comunicazione informale. Secondo Axelrod se la loro influenza diretta non tocca una grande parte della popolazione, la loro influenza indiretta può essere cospicua attraverso veicoli informali di comunicazione: “il men che massiccio carattere della partecipazione nelle organizzazioni formali suggerisce che nella misura in cui queste organizzazioni esercitano un’influenza persuasiva nella comunità urbana, ciò può avvenire attraverso i legami tra le loro minoranze di membri attivi da una parte e la sottostante rete di associazioni informali nella comunità nel complesso”: rete che abbiamo visto essere estremamente ricca.

Se l’importanza delle associazioni si pone in questi termini, è evidente che qualche dubbio può essere sollevato sulla loro capacità di essere strumento di democrazia: se le associazioni riescano a “distribuire il potere tra un gran numero di cittadini e a fornire un meccanismo sociale per il social change che si istituisce continuamente” o non siano piuttosto semi-organized stalemate che unificano una frammentaria e impotente base del sistema (americano) del potere, è problema ancora discusso tra i sociologi americani.

Non mancano importanti argomenti a favore del ruolo delle associazioni: diversi studiosi ne hanno indicato il contributo al funzionamento di un sistema democratico e hanno evidenziato i meccanismi che ne limitano le possibilità di abuso in senso antidemocratico. A noi interessa qui precisare il contributo che alla: soluzione del problema può portare lo studio delle appartenenze sociali: in particolare l’utilità di individuare le caratteristiche del joiner e di confrontarle con quelle dell’apatico, per mettere in evidenza come l’appartenenza e partecipazione a molte associazioni, è correlata con il livello sociale, l’età e il sesso, o l’area di residenza, che questa composizione potenzialmente conservatrice delle associazioni è aggravata dal fatto che le appartenenze sono in parte “multiple”, che le appartenenze sociali dell’apatico lo rendono suscettibile a certi tipi di rapporto con le associazioni, i suoi vertici, i suoi messaggi.



c) L’ enorme differenziazione che contraddistingue la vita sociale della nuova città aumenta la libertà dei suoi abitanti (soprattutto di alcuni di essi), ma acutizza certi problemi. In particolare, se è corretto individuare una tendenza all’isolamento tra le appartenenze e alla privatizzazione delle solidarietà, cui si accompagna una diminuzione generale della capacità di azione comune, possiamo aspettarci una minor capacità di difesa da parte dei settori più deboli della popolazione.

Può trattarsi di gruppi tradizionalmente deboli. Si pensi a quanto abbiamo detto a proposito delle opportunità concrete di relazioni sociali che la nostra società fornisce a certi strati sociali. In genere i gruppi socio-economici più bassi sono meno liberi dai condizionamenti della comunità definita fisicamente e geograficamente: secondo Duhl essi, piuttosto che usare l’ambiente fisico come una risorsa, “incorporano l’ambiente nell’io. La comunità ecologica per questo strato della società è, in effetti, il mondo”. Oppure si pensi a problemi nuovi, come l’ineguaglianza nella funzione di tempo libero da parte di diversi settori della popolazione, o la probabilità per certe categorie, come i vecchi, di diventare oggetto di vere e proprie segregazioni.

Ma sono soprattutto i recenti prodotti della metropoli che provocano problemi la cui soluzione appare più imprevedibile. Molti degli abitanti della città sono più liberi, ma devono ora fare i conti con un embarassement of freedom. È ancora Greer che ci illustra il fenomeno nei suoi aspetti problematici: nei suburbia “la maggior parte delle persone .. sono i discendenti, e sotto certi aspetti, gli equivalenti degli analfabeti di un centinaio d’anni fa. Essi non hanno ne gli interessi investiti nella comunità, né la tradizione di partecipazione responsabile nella vita della comunità politica. E hanno una gran libertà dalla partecipazione forzata nel lavoro. La esercitano foggiando i tipici modelli di vita cui abbiamo accennato, evitando le organizzazioni, mantenendo educatamente superficiali rapporti con i vicini e con i leaders della comunità locale, evitando i compagni di lavoro fuori del lavoro, orientandosi"verso le serate, i week-ends, e le vacanze, che spendono in famiglia, viaggiando, guardando la televisione, chiacchierando e mangiando con amici e parenti, e coltivando il giardino”.

Nota: il testo di Antonio Tosi, completo delle ricche note e riferimenti bibliografici (qui omessi per motivi di spazio) è scaricabile in file PDF (f.b.)

Antonio Tosi_1965_Mall

Estratto da: Sindacato Fascista Ingegneri della Provincia di Milano, Atti del Convegno degli Ingegneri per il potenziamento dell'agricoltura ai fini autarchici - Lombardia - Emilia - Tre Venezia - Piemonte- Milano 23-27 aprile 1938-XVI

Non è forse fuori luogo chiarire prima di tutto l'apparente antitesi che esiste nell'espressione «Urbanistica rurale».

Se nella sua accezione più moderna ed autorizzata l'urbanistica è la scienza e l'arte di disciplinare le convivenze umane, nulla di più naturale che, superata la cerchia chiusa della città, essa spinga più oltre il suo sguardo e le sue aspirazioni e rivolga la sua cura al territorio circostante, alla Provincia, alla Regione.

L'urbanistica non tanto disciplina le vie, le case, i quartieri, le città, ma gli uomini stessi, curandone la distribuzione, soddisfacendone i bisogni, creando l'ambiente sociale, tecnico, economico più adatto allo sviluppo di ogni attività.

Ampliare la sua sfera di azione non significa quindi già estendere alla campagna i fasti ed i nefasti dell'urbanesimo, ma al contrario studiare e prendere alle loro radici i fenomeni demografici nelle loro manifestazioni più tipicamente moderne, determinarne le cause, valutarne la natura e l'intensità, apprestarne i correttivi ed i rimedi.

L'espressione «Urbanistica rurale» più che un'antitesi rappresenta allora una precisazione: necessaria precisazione soprattutto in un paese come il nostro e nel clima politico e storico nel quale viviamo, che del problema della valorizzazione agricola ha fatto uno dei cardini di quel potenziamento delle forze morali e fisiche della Nazione che è l'essenza stessa della autarchia.

«Bisogna sfruttare al massimo ogni zolla di terra» proclama il Capo del Governo, ma «la terra vale ciò che vale l'uomo» e «solo un ambiente moralmente e fisicamente sano è adatto alla massima produzione».

Queste frasi si seguono e si completano colla serrata logica di un sillogismo per arrivare alla conclusione finale che può essere assunta come lo scopo stesso dell'Urbanistica: «riscattare le terra, e con la terra gli uomini e con gli uomini la Nazione».

Non parliamo quindi di antitesi, non parliamo nemmeno più di precisazione, parliamo piuttosto di inversione di termini.

Il vero problema urbanistico, inteso in senso nazionale, ha le sue radici proprio nella campagna, in questo grande serbatoio di mezzi e di uomini.

Questa è la conclusione - solo apparentemente paradossale - alla quale, pur partendo da considerazioni e da impostazioni diverse, concordemente arrivano tutte le pregevoli relazioni che ho l'onore di riassumere.

Ed ecco così, individuato sotto la specie «rurale» uno degli aspetti e delle funzioni specifiche dell'Urbanistica: la regola e la disciplina non soltanto delle città, ma anche dei territori ra esse interposti, delle nostre campagne, dei centri minori e minimi.

Ma se l'Urbanistica cittadina ha norme e leggi più note e più generali, l'Urbanistica rurale ha forme ed aspetti vari e mutevoli insuperabilmente condizionati da fatti e situazioni locali.

Per favorire una più conveniente sistemazione della masse rurali occorre è vero migliorare l'ambiente, ma questo miglioramento deve essere non un sovvertimento, ma un adattamento ed un perfezionamento strettamente aderenti agli stati di fatto creatisi per lunga vicenda di eventi e di usanze.

Ben hanno compreso i Relatori la imprescindibilità di questo fatto ed assai interessante e proficuo è il contributo da essi portato allo studio delle particolari situazioni ambientali delle quattro Regioni particolarmente rappresentate a questa nostra riunione e le cui caratteristiche sono sintetizzate in efficaci quadri riassuntivi che dal Basso Milanese al Friuli, dall'Appennino Emiliano alle Alpi Piemontesi, alla Brianza all'Oltre Po Pavese, dalla Bassa Reggiana alla Collina Veronese mettono in efficace evidenza situazioni demografiche, metodi colturali, tradizioni paesane, situazioni sociali ed economiche e sistemi costruttivi, offrendo una ricca messe di notizie, una buona e salda base di partenza per ogni nuova proposta ed una utile documentazione della varietà degli aspetti che assume la vita rurale nell'ambiente di una stessa Regione e di una stessa Provincia.

Una accurata indagine delle condizioni ambientali della Provincia di Milano è fatta dal Columbo mettendo in particolare evidenza con copia di dati statistici la essenziale differenza fra il regime agrario dell'Alto e del Basso Milanese. Nella Zona Alta la popolazione vive raggruppata in numerosi villaggi e borgate, diffusa è l'industria, predominano nel campo agricolo il piccolo affitto e la piccola proprietà, il contadino è legato alla terra che coltiva e dalla quale trae diretto profitto, mentre a saldare il bilancio domestico concorrono i proventi delle capacità produttive familiari che, esuberanti per il lavoro dei campi, trovano impiego nell'industria con flusso giornaliero di va e viene fra la casa rurale e l'officina, così da dar luogo, col favore delle comunicazioni, ad una forma mista di vita agricolo-industriale. Nella Bassa i centri abitati sono invece più radi, le industrie scarseggiano, nel campo agricolo predomina il grande fondo col grosso cascinale lontano dai centri comunali, mal favorito dalle comunicazioni, abitato da contadini semplici salariati, scarsamente attaccati alla terra che coltivano, e perciò animati da un inquieto spirito di nomadismo che li spinge ai frequenti «San Martini» dall'uno all'altro podere finchè fatalmente sono attratti dalla grande città.

Un quadretto del pari interessante è fatto dal Cosolo delle particolari condizioni del Friuli dove, a lato delle grandi proprietà delle zone di bonifica circumlagunare tuttora in corso di appoderamento e condotte con salariati e compartecipanti, si hanno ancora antiche proprietà di vecchie famiglie padronali di tradizione rurale che dalla loro villa, centro aziendale, dirigono l'amministrazione dei loro poderi coltivati a mezzadria. Il Cosolo si indugia ad esaminare con particolare competenza ed amore il problema della mezzadria per trarne acute e convincenti conclusioni circa le dimensioni dell'unità poderale e familiare intesa come cellula di tutta la organizzazione urbanistico-edilizia della zona.

Il Carena ci dipinge invece le condizioni del Basso Oltre Po Pavese ed opportunamente insistendo sul concetto che funzione dell'Urbanistica rurale non è solo la ideazione di nuove grandi opere come quelle di cui l'Agro Pontino offre così splendidi esempi ma anche la sistemazione - più modesta ma altrettanto utile e sotto molti aspetti più difficile - dei piccoli paeselli rurali esistenti, dà alcuni precisi e giudiziosi suggerimenti frutto di una personale profonda conoscenza dell'ambiente.

Della provincia di Verona il Poggi mette in evidenza la caratteristica del grande frazionamento delle case coloniche nella campagna, soprattutto nella parte bassa irrigua e nella zona collinare e la stazionarietà dei centri abitati, esclusi naturalmente i maggiori. Ciò non vuol dire, osserva giustamente il relatore, che i piccoli centri perdano importanza; al contrario la loro influenza si va maggiormente estendendo nella campagna.

Del pari esauriente è l'illustrazione che l'Artoni fa della Provincia di Reggio Emilia ricordando in primo luogo l'apporto dato alla risoluzione dei problemi che ci interessano dai Consorzi di Bonifica della zona bassa, ai quali fa ora riscontro il Consorzio per la difesa e la sistemazione della montagna reggiana.

Questi Consorzi non sono in effetto che una anticipazione dei principi e dei metodi dell'Urbanistica rurale, a proposito di che trova qui opportuna citazione l'affermazione del Rabbi che l'Urbanistica rurale non è che la prosecuzione del piano della bonifica integrale.

Il regime fondiario del Reggiano è caratterizzato da un notevole frazionamento della proprietà: il sistema di conduzione prevalente è l'affitto, che però va gradatamente modificandosi a favore della mezzadria. Anche la grande proprietà terriera, una volta eseguito l'appoderamento, non rifugge da queste forme di conduzione.

Notevole è l'attività industriale particolarmente diretta alla trasformazione dei prodotti agricoli.

Gli aggregati urbani sono assai ravvicinati fra loro. Solo nelle zone di recente bonifica si rileva qualche discontinuità nella attrezzatura urbanistica della campagna che potrà in casi specialissimi consigliare la creazione di qualche nucleo o borgata rurale. Le case coloniche sono prevalentemente distribuite nei singoli poderi della zona bassa. Raggruppate nei paeselli della zona montuosa.

Il problema urbanistico-rurale da risolvere riguarda in parte l'edilizia ma soprattutto i servizi pubblici di carattere igienico, quali la distribuzione idrica e lo smaltimento delle acque di rifiuto.

Malgrado i progressi compiuti nella valorizzazione delle risorse locali vi è infine da risolvere un problema cronico di disoccupazione il quale dovrà trovare il suo sbocco in un ulteriore progresso della bonifica, in una migliore dislocazione delle industrie, in una sempre maggiore formazione di centri e i comuni ad economia mista che sono quelli nei quali la popolazione gode di un maggiore benessere. E tutto ciò non potrà realizzarsi se non attraverso una visione meno particolaristica e più «regionale» di queste complesse questioni.

Avvertiamo subito che alla parola «regionale» qui e altrove usata non intendiamo dare il significato attinente al termine «Regione» nella accezione geografica italiana, bensì il significato comunemente accettato dagli Urbanisti, di una entità territoriale individuata da comuni fattori geografici, economici, morfologici, cui meglio che la nostra «Regione» corrisponderebbe la Provincia od il Circondario od altro simile complesso territoriale.

Non poteva infine mancare nella rassegna delle condizioni ambientali dell'Alta Italia anche un esame delle particolari condizioni delle nostre montagne e ce lo offre la relazione del Porzio, il quale giustamente osserva come, rappresentando il suolo produttivo montano circa un terzo della superficie totale del Regno, fra i compiti della bonifica integrale quello della restaurazione montana è certo il più grave per aspetti sociali e tecnici.

La montagna si spopola. Il montanaro lascia la montagna non tanto perchè attratto da illusori miraggi della città, quanto perchè letteralmente non può più viverci.

Per equilibrare il fenomeno dello spopolamento - osserva il Porzio con sussidio di esempi pratici - non vale la creazione dei centri turistici e sportivi di alta montagna. Sembra anzi ad un primo esame che ciò acceleri il corso degli eventi.

Per arginare questo processo, in certo senso cronico, per trattenere la popolazione sui monti nativi occorre agire sulle cause prime del fenomeno: attrezzatura tecnica arretrata degli abitati (povertà di case, di comunicazioni, di servizi pubblici) e condizioni non redditizie del lavoro e della proprietà.

Il Porzio illustra ciò che in questo particolare campo dell'Urbanistica rurale si è fatto negli ultimi anni, a partire dal Raduno di Pinerolo del 1934, colla istituzione degli Uffici di Fondovalle, accenna alla proposta apparsa in una autorevole rivista di far sorgere ovvero ampliare o riattare a titolo di esperimento in qualche tipico centro montano un Comune colle indispensabili attrezzature moderne di vita civile e rurale, e ricorda la istituzione di apposite Commissioni di studio anche presso il Sindacato Ingegneri.

Dalla considerazione delle condizioni particolari di ambiente le singole Relazioni passano all'esame dei provvedimenti coi quali l'Urbanistica rurale può raggiungere lo scopo essenziale di migliorare le condizioni di vita delle masse rurali.

Risalendo di un passo più indietro il Rabbi prende in esame il complesso dei coordinamenti iniziali - che egli definisce pre-urbanistici - atti ad incrementare l'energia e l'attività delle masse rurali ed a migliorare i coefficienti di produzione, quali la elevazione professionale del lavoratore agricolo, la tecnicizzazione delle giovani generazioni rurali, la creazione di una gerarchia di capacità e di qualifiche nelle maestranze, la evoluzione dei patti colonici per promuovere i miglioramenti colturali ai fini autarchici, il perfezionamento dei sistemi di raccolta e di distribuzione dei prodotti.

Il fattore uomo, i suoi bisogni morali e materiali, le condizioni di ambiente atte a soddisfare ad un minimo di esigenze di benessere e di decoro, come mezzo necessario del potenziamento agrario della Nazione, sono pure analizzati dal Radice Fossati.

I provvedimenti urbanistici da adottare a vantaggio dei lavoratori della terra potrebbero riassumersi nella forma breve: «Dare al lavoratore la dignità e la gioia del lavoro con la sanità della vita sgombra dai disagi non necessari».

Nella loro estrinsecazione pratica essi possono raggrupparsi intorno ai seguenti punti:

1) diffusione e perfezionamento delle aziende agrarie e delle case rurali isolate;

2) formazione di raggruppamenti e di borgate rurali;

3) miglioramento dei vecchi paesi;

4) incremento e sviluppo della viabilità;

5) incremento e sviluppo dei servizi pubblici.

L'unità aziendale agricola è la cellula dell'urbanistica rurale, la necessità di migliorare gli edifici aziendali nei quali si svolgono la vita ed il lavoro del rurale è intuitiva, le opportunità di conservare il cascinale colonico presso la terra da coltivare è essenziale agli effetti di un miglior sfruttamento della terra.

L'Aguzzi prendendo particolarmente in esame le condizioni del Basso Milanese si preoccupa di ridurre la dispersione dei cascinali e vorrebbe per questi un maggiore avvicinamento al capoluogo di comune.

Il Poggi nota invece con soddisfazione che nella campagna veronese la tendenza al decentramento dei cascinali è già in atto e ritiene che un simile movimento sia da favorire collo scopo tendenziale di ridurre i paesi rurali alla loro ideale funzione di centro amministrativo, politico, commerciale e di sede di quelle attività e di quei soli strati della popolazione che non sono intenti alla coltivazione dei campi o che vi hanno solo occupazione temporanea come braccianti. Le disposizioni sanitarie che limitano alcune possibilità di esplicazione delle funzioni di una azienda agraria nei centri abitati, soprattutto per quanto si riferisce alla tenuta del bestiame, inducono indubbiamente ad un graduale decentramento.

Delle due tendenze ci sembra che quella esposta dal Poggi e sostenuta da altri relatori sia la più consigliabile.

Se ci è consentita una breve digressione vorremmo qui ricordare i recentissimi lavori di bonifica edilizia della sua proprietà rurale eseguiti nello scorso anno e nel corrente da parte dell'Amministrazione dell'Ospedale Maggiore di Milano, i quali sono stati appunto condotti con questo indirizzo.

L'Ospedale Maggiore di Milano è il più grosso proprietario terriero della Lombardia possedendo circa 10.000 Ea di ottimi poderi parte nella Zona Alta e parte nella Zona Bassa fra il Ticino e l'Adda sui quali hanno stabile dimora circa 1.500 famiglie rurali.

Il piano di riassetto delle case coloniche attualmente in corso col quale verrà dato alloggio in nuovi edifici a più di 300 famiglie coloniche, senza contare i lavori di restauro delle rimanenti case, si competa nei programmi dell'Amministrazione ospitaliera con un piano di rimaneggiamento della consistenza dei singoli poderi affittati e colla formazione di entità agrarie più rispondenti alle necessità di una buona e conveniente conduzione. Perciò nelle zone irrigue della Bassa - dove sussiste ancora qualche podere di più di 200 Ea - fu fatto luogo al frazionamento in due delle vecchie unità poderali colla formazione di nuovi cascinali completi di ogni accessorio aziendale ed opportunamente dislocati sul fondo da servire, e nella Zona Alta - a Sesto Calende, Seregno, Vanzago, Magenta, ecc. - dove un buon numero di vecchie corti coloniche si trovava ad essere ormai completamente incorporato nell'abitato di quei centri urbani venne senz'altro adottato il partito di trasferire le corti coloniche stesse in località più eccentriche e più prossime ai poderi, in luogo di procedere al riattamento in sito delle vecchie costruzioni, le quali furono di preferenza invece vendute a privati od agli stessi Comuni per consentirne o la trasformazione per uso residenziale delle masse operaie e della popolazione non rurale, o, più spesso, la demolizione per sistemazioni di piano regolatore di quei centri.

Ho creduto interessante di citare questi esempi già in atto perchè sono una documentazione del come sia stato possibile conciliare le direttive del proprietario terriero colle necessità e le vedute delle Amministrazioni comunali, cosicchè il piano di bonifica dell'edilizia rurale si è automaticamente identificato con un piano di riforma urbanistica dei centri abitati, che altrimenti assai difficilmente si sarebbe attuato coi soli mezzi municipali.

Sull'argomento del riassetto dei vecchi paesi si soffermano con particolare attenzione quasi tutti i relatori, mentre logicamente sorvolano sull'altro della creazione di nuovi raggruppamenti e di borgate rurali perchè - all'infuori delle zone di bonifica dove si rivela qualche discontinuità nella attrezzatura urbanistica - per il resto delle nostre regioni non è il caso di pensare alla vera e propria creazione di nuovi centri abitati.

Se lo spazio lo consentisse varrebbe la pena di riportare per intero ciò che i singoli relatori e soprattutto il Carena scrivono sull'argomento del riassetto dei vecchi paesi rurali.

L'essenziale è questo: dopo aver dato al rurale presso la terra che coltiva una casa sana e decorosa ed una struttura aziendale atta alla migliore utilizzazione dei prodotti del suolo, occorre però offrirgli nel riassettato capoluogo del Comune anche un punto di riferimento e di raccolta dove possa trovare in un più decoroso ambiente quegli aiuti morali, culturali, assistenziali, che gli sono necessari per la sua elevazione.

I confronti colla città saranno meno stridenti se il paesello sarà più lindo ed accogliente, l'osteria avrà meno frequentatori se più sani luoghi di riunione cureranno lo sviluppo del fisico e del morale.

Potrei ancora qui citare quanto si è fatto dall'Ospedale Maggiore di Milano negli aggregati di Monticelli e di Fallavecchia, completando il rinnovo dell'ambiente edilizio colla dotazione di tutte quelle istituzioni assistenziali e ricreative di cui finora - a differenza dei loro fratelli operai delle officine cittadine - i lavoratori della campagna erano completamente privi.

Insieme al risanamento delle case rurali singole, dei complessi aziendali e dei centri rurali - inteso come mezzo per fissare il maggior numero possibile di famiglie alla terra - un utile sussidio allo stesso fine può derivare da una limitazione della concentrazione industriale nei grandi centri urbani e dalla creazione di nuovi impianti industriali, con particolare riguardo a quelli più affini al ciclo di produzione agraria, opportunamente dislocati nelle campagne.

A questo proposito sarà bene rilevare che solo un piano regolatore «regionale» delle industrie permetterà di precisare in modo conveniente i criteri distributivi degli impianti, non solo dal punto di vista quantitativo ma anche geografico, considerando la opportunità di appoggiare le nuove industrie a quei centri rurali già provvisti di una attrezzatura adeguata e qualche volta esuberante rispetto alla loro funzione attuale e dove il fenomeno della disoccupazione - prima grande molla dell'esodo verso la città - assume aspetti più gravi.

Anche le occupazioni di carattere artigiano possono essere di grande utilità perché permettono di occupare il contadino nei periodi intermedi delle lavorazioni agricole.

Analisi urbanistiche particolarmente diligenti svolte presso i singoli Comuni rurali - come propongono l'Artoni ed il Radice Fossati - permetteranno di individuare esattamente i caratteri fondamentali della loro economia, di stabilirne le necessità e le possibilità, e quindi di segnalare gli squilibri e le situazioni anormali e di suggerire i rimedi ed i provvedimenti da inserire nel Piano regionale.

Si può in genere rilevare dalle dimostrazioni dei singoli Relatori che i Comuni rurali che si trovano in condizioni economiche più favorevoli e nei quali la popolazione è più stabile sono quelli nei quali accanto ad una sana economia agricola si sono sviluppate piccole industrie legate all'agricoltura oppure speciali attività artigiane, mentre i Comuni dove l'unica risorsa è rappresentata dalla agricoltura la classe del bracciantato è numerosissima ed il fenomeno della disoccupazione assume ricorrenze più frequenti ed aspetti più acuti.

Di qui quel circolo chiuso di disoccupazione e di situazioni debitorie che allarma e preoccupa continuamente le Autorità politiche locali.

Ultimo e grave problema infine del riassetto locale quello delle vie di comunicazione e dei servizi pubblici.

E' vano sperare il risorgere della vita delle campagne, se queste non vengono adeguatamente permeate dal sistema capillare delle reti stradali e dei servizi indispensabili all'igiene ed al vivere civile.

Ma su questo argomento non ci dilunghiamo, perchè esso è trattato come tema particolare di altre sezioni di questa nostra riunione.

Fra i problemi collaterali del tema generale in discussione meritano speciale cenno quelli trattai in due apposite relazioni dai colleghi torinesi Orlandini e Rigotti.

Il primo, colla particolare competenza che gli deriva dal suo ufficio di sovraintendente ai Servizi tecnici di una grande città industriale come Torino, si occupa giustamente della stretta interdipendenza fra lo sviluppo delle grandi città e quello delle circostanti campagne che costituiscono il «suburbium», interdipendenza che porta di necessità i servizi tecnico-urbanistici del centro maggiore ad interessarsi della sistemazione delle plaghe marginali, anche oltre i limiti territoriali e cioè per tutta la zona in prevalenza rurale dell'«intercittà».

Questi studi, se in primo luogo devono tendere al miglioramento delle comunicazioni e dei servizi ed alla disciplina costruttiva per il razionale sviluppo dei centri secondari, non possono trascurare, debbono anzi tenere nella massima considerazione, la necessità di contemperare l'urbanesimo ruralizzando la città. Ma per ruralizzare la città e dare ad essa una struttura meglio rispondente alle sue esigenze di oggi e di domani occorre provvedere tempestivamente alla difesa della zona agricola esterna controllandola e potenziandola ed assicurando estese superfici marginali di terreno che, destinate a colture arboree, costituiscono le necessarie riserve per un più ampio respiro della città. Come esempio pratico l'Orlandini descrive gli arboreti in formazione intorno a Torino ed i provvedimenti adottati per la valorizzazione della collina, delle sponde del Po, della Dora e della Stura.

L'Ing. Rigotti rilevando infine come le caserme e gli stabilimenti militari per le loro particolari esigenze siano fra gli elementi negativi dell'assetto urbano per la loro ingombrante estensione, per l'antiestetica monotonia delle loro linee, per i disturbi alla viabilità ed alla tranquillità dei quartieri, e rilevando ancora come il temperamento di creare delle «zone militari» ai margini della città per la riunione di tutti gli alloggiamenti di truppe e dei servizi annessi non risolva neppur esso il problema per l'eccessivo agglomeramento che determina e per i conseguenti pericoli di una maggiore vulnerabilità in tempo di guerra, crede che le caserme debbano decisamente allontanarsi dalle città e trasferirsi nelle campagne e vede in ciò un mezzo per evitare da un lato i danni morali, che dalla permanenza nelle città durante il periodo della ferma derivano alle falangi dei giovani rurali, e dall'altro per promuovere o conservare l'attaccamento del soldato alla terra.

L'argomento molto interessante e complesso per la incidenza anche di fattori che esulano dalla nostra specifica competenza meriterebbe certo una più ampia trattazione di quella che non sia possibile nella nostra attuale riunione.

Arrivando alle proposte conclusive delle singole relazioni restano da considerare gli organi e i mezzi per la realizzazione di un così vasto programma di coordinamento dei fattori della vita rurale.

Tutti i relatori sono concordi nell'individuare nei cosiddetti «Piani regolatori regionali» gli istrumenti più efficaci per la impostazione di insieme di tutti gli studi e le indagini occorrenti. Opportunamente osserva però il Poggi che della abusata espressione «Piano Regionale» occorre fare preciso e giustificato uso. In questi ultimi tempi cornice immancabile di ogni Concorso di Piano regolatore urbano è un abbozzo organizzativo di tutto il presunto territorio di influenza delle singole città.

Sulla attendibilità di questi Piani regionali ipotetici e abborracciati su pochi imparaticci si debbono fare le più ampie riserve.

Il Piano regionale non è un mosaico di vivaci tinte stemperate a impressione e ad effetto a creare una cervellotica «zonizzazione», bensì il riassunto grafico di maturi studi e di indagini intese, attraverso una coscienziosa analisi geografica e statistica, alla esatta individuazione delle caratteristiche, delle necessità e delle possibilità di una determinata plaga.

Bando perciò alle improvvisazioni individuali.

Il lavoro di redazione del Piano regionale, che è soprattutto un piano tecnico ed economico, ed il lavoro di propulsione, di guida, di coordinamento di tutte le energie intorno all'Urbanistica rurale - intesa nella sua definizione di disciplina delle convivenze umane nell'ambito rurale - devono far capo ad appositi Enti convenientemente attrezzati.

In questo campo, giova riconoscerlo francamente, perchè la verità in tempo fascista nè spaventa nè offende, l'Estero ci ha da tempo preceduto ed in Germania ed in Inghilterra esistono organizzazioni ed istituti che opportunamente adattati al nostro particolare clima sociale ed economico possono servire di esempio.

Questi Enti di studio e di coordinamento nell'ambito provinciale dovrebbero secondo alcuni relatori essere autonomi, secondo altri dipendere dai già esistenti organismi quali il Consigli Provinciale dell'Economia Corporativa o la stessa Amministrazione Provinciale, secondo altri ancora dipendere dal Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste.

Senza ricorrere ad un eccessivo - e forse pericoloso - accentramento statale sembra che gli organi provinciali siano i meglio qualificati ed i più sensibili alle necessità locali. Il che non esclude affatto la possibilità di intese più vaste per quei problemi che trascendono i limiti territoriali della Provincia.

Quanto al passaggio dal campo degli studi a quello delle pratiche realizzazioni l'istituto dei Consorzi, attraverso il quale già in tanti campi si estrinseca l'attività degli Enti provinciali, sembra il meglio rispondente.

La istituzione dei Consorzi, i rapporti colle altre iniziative della Bonifica integrale, la graduazione dei programmi, le norme per l'intervento del credito e degli aiuti finanziari del Governo e degli Enti pubblici sono materia che richiede particolari provvedimenti di legge per dare pratica attuabilità ai piani licenziati dagli Enti di studio provinciali od interprovinciali.

Va da sè che a far parte di tutti questi Enti di studio ed esecutivi dovrebbero con preciso indirizzo corporativo entrare insieme coi rappresentanti delle pubbliche amministrazioni, e di ceti agricoli ed industriali e delle grandi organizzazioni dei pubblici servizi anche i tecnici particolarmente competenti nel campo dell'Urbanistica.

Troppo spesso dobbiamo assistere con profonda amarezza ad errori grossolani che pregiudicano la soluzione razionale dei problemi o che danno luogo a sprechi vistosi con conseguenze penose per le pubbliche finanze. Interessi particolari, idee ristrette, individualismi sfrenati, una valutazione sommaria ed unilaterale dei problemi rappresentano quel complesso di forze negative che possono frustrare completamente le superiori finalità alle quali si ispirano gli studi ed i programmi urbanistici.

In nessun campo, meglio che in questo, le concezioni politiche, etiche e sociali proclamate dal Fascismo, possono trovare la loro perfetta ed integrale applicazione.

Ordine, disciplina, gerarchia, valutazione integrale dei problemi, subordinazione degli interessi singoli agli interessi generali: ecco i principi che caratterizzano l'Urbanistica come metodo di studio e di indagine e come azione pratica.

Se infine è necessario evitare l'improvvisazione individuale è d'altra parte opportuno evitare una eccessiva burocratizzazione degli Enti e degli Uffici che sono chiamati o saranno chiamati a svolgere la loro attività nel campo dell'Urbanistica rurale.

Anche nello studio dei piani regionali, come già in quello dei piani cittadini, la collaborazione delle classi professionali potrà dare ottimi risultati.

Come ultimo anello della catena degli organi di studio ed esecutivi il Poggi prospetta la figura nuova dell'«Ufficiale Tecnico» in analogia a quella dell'«Ufficiale Sanitario» organo di direzione e di controllo non appesantito e impastoiato dal gravame di una burocratica organizzazione.

E' bene mettere pure in evidenza come fa il Quaglini anche la parte che nella esecuzione di dettaglio dei piani agrario-edilizi va conservata alla proprietà privata la cui funzione è insopprimibile nell'armonico complesso delle varie attività.

Resta infine essenziale il problema dei mezzi economici per fronteggiare così vasti problemi.

L'ambiente rurale non è un ambiente ricco. Esso solo non può disporre dei mezzi occorrenti al vasto piano di riordinamento di cui si è trattato. Ma, se il miglioramento delle condizioni di vita delle campagne è - come abbiamo dimostrato - condizione essenziale per il potenziamento delle nostre risorse agricole, l'intera Nazione, coi suoi organi statali e periferici, colle sue forze di risparmio e colle sue istituzioni di credito deve provvedere quelle annticipazioni e quei mezzi che saranno indubbiamente garantiti e compensati dai risultati finali dell'opera di bonifica degli uomini, degli ambienti e del suolo che solo se completa nei tre termini di questo trinomio può veramente chiamarsi «integrale».

Riassumendo le proposte emerse dalle singole Relazioni e dallo studio del Tema in discussione il Relatore generale dà quindi lettura delle seguenti conclusioni e proposte:

Ritenuto che nel quadro generale dell'Urbanistica - intesa in senso nazionale - l'Urbanistica rurale, e cioè la sistemazione del suolo, dell'ambiente e delle popolazioni di quel grande serbatoio di uomini e di mezzi che è la campagna, costituisce il necessario complemento dell'urbanistica cittadina,

riconosciuta la difficoltà di fissare all'urbanistica rurale rigide norme che possano uniformemente applicarsi alle svariate situazioni agricole e sociali delle diverse regioni e la opportunità dell'intervento di Enti di circoscritta competenza territoriale per il coordinamento delle iniziative pubbliche e private

il Convegno fa proprii i seguenti punti programmatici illustrati dai Relatori particolari:

1) Il miglioramento delle condizioni di vita della massa rurale - compito specifico dell'Urbanistica rurale e condizione essenziale per il potenziamento delle risorse agricole della Nazione - può essere raggiunto solo attraverso un organico coordinamento delle iniziative d'ordine tecnico, economico e sociale.

2) Base di studio per tale coordinamento è la predisposizione di piani intercomunali, provinciali od interprovinciali affidati a competenti Enti tecnico-urbanistici di emanazione locale nei quali si armonizzino tutte le rappresentanze dell'Ordinamento corporativo dello Stato.

3) I detti piani dovranno considerare con visione unitaria i problemi inerenti alla demografia, all'edilizia, alla viabilità, ai trasporti, ai servizi pubblici, all'assetto agricolo ed industriale delle singole zone, tenendo particolarmente presenti i seguenti obbiettivi:

a) perfezionare la distribuzione e la struttura delle singole aziende agrarie e delle case rurali per un sempre maggiore avvicinamento dei coltivatori alla terra;

b) migliorare l'assetto dei vecchi centri rurali (paesi e borgate) per elevare il tenore di vita delle masse lavoratrici della campagna;

c) favorire il decentramento delle industrie attinenti all'agricoltura allo scopo di promuovere la formazione di centri rurali ad economia mista (agricoltura, artigianato, piccola e grande industria);

d) incrementare i mezzi di comunicazione e di trasporto ed i servizi pubblici;

e) affiancare le iniziative già in corso per fronteggiare il preoccupante problema dello spopolamento delle zone montane.

4) Alla realizzazione di detti piani che costituiscono la prosecuzione ed il perfezionamento del programma di bonifica integrale promosso dal Regime occorrono opportuni interventi legislativi e creditizi dello Stato.

I vasti problemi che si riferiscono allo sviluppo delle città italiane ed alla disciplina della loro nuova fabbricazione, trovansi ora, nell'attuale decisivo momento edilizio, all'ordine del giorno tecnico della Nazione; ed i nostri ingegneri ed i nostri architetti debbono prepararsi ad affrontarli con adeguata competenza, con rispondenza sicura tra i mezzi ed il fine.

Purtroppo nel passato prossimo questa preparazione è quasi sempre e quasi ovunque mancata; e forse non poteva essere altrimenti. Il grandioso fenomeno dell'urbanesimo, che ha affollato le città con enormi e rapidissimi aumenti di popolazione, si è sviluppato prima che maturassero, non solo lo studio e l'esperienza, ma perfino la coscienza dei grandi problemi che esso coinvolgeva nei riguardi del passato, del presente e dell'avvenire delle agglomerazioni cittadine. In particolare i mezzi di comunicazione hanno avuto un incremento imprevedibile, sia a recare un ingombro insopportabile nelle vecchie vie, sia a costituire un elemento di liberazione e di richiamo verso l'esterno, quasi a somigliare nel contrasto tra veicolo e strada l'alterna vicenda dei mezzi bellici di offesa e di difesa.

Soltanto colà dove una mente lungimirante ha presieduto allo sviluppo edilizio, come a Bruxelles, o dove una energia imperiale ha voluto affermarsi in opere grandiose con vastissimi mezzi, come a Vienna, a Parigi, a Strasburgo, a Monaco (seguendo l'esempio di quel megalomane di genio che fu Sisto V nella Roma del Cinquecento), ivi l'organismo della città si è in tempo avviato al suo ampliamento e si è dimostrato adatto al maggior sviluppo successivo. Ma questo non è stato, nè poteva essere, il caso delle città italiane; ove non sono mancate qua e là concezioni edilizie in tutto od in parte felici, come quelle dei viali periferici e del viale dei Colli di Firenze, o quelle del Rettifilo di Napoli, del Corso Vittorio Emanuele di Roma, della via XX Settembre a Genova, ma limitate ad un tracciato, non portate ad abbracciare tutta la vita cittadina, soluzioni locali aventi scopo a loro stesse, non fasi di più vaste realizzazioni per l'incremento della città; ed intanto la nuova edificazione si è addensata entro ed intorno al vecchio nucleo, spesso alterandone il carattere d'arte e d'ambiente, fasciandolo e soffocandolo cogli enormi casamenti entro gli isolati tutti uguali, tra le vie tutte uguali e tutte ugualmente insufficienti pel movimento che vi è sopraggiunto nel periodo immediatamente successivo. Questa attività edilizia che data dai cinquanta ai venti anni fa, rappresenta ora il maggior ostacolo ad ogni espansione ulteriore.

Da questa non lieta era di imprevidenza e di incomprensione della Edilizia nella tecnica e nell'arte ci andiamo ora, forse troppo tardi, rilevando. Oggi - è confortante constatarlo - si manifesta tra noi in questo così vasto campo tutto un magnifica risveglio di energie, che si esprime in studi severi, che si sostituiscono al dilettantismo empirico, ed in iniziative razionalmente avviate. La istituzione di speciali insegnamenti di Edilizia nelle scuole superiori d'architettura e nei corsi speciali di perfezionamento presso le Scuole d'ingegneria, le moltissime pubblicazioni di libri e riviste in cui appare alfine un riflesso di quella vastissima letteratura che fiorisce in Germania, in Francia, in Inghilterra sul molteplice argomento, i pubblici concorsi banditi pei piani regolatori di importanti città, come recentemente per Milano e per Brescia, la costituzione a Roma, a Milano, a Torino di gruppi urbanistici, le stesse discussioni ferventi che si animano nelle principali città italiane sui problemi dello sviluppo cittadino, sono non solo promettenti indizi di rapide conquiste, ma insieme mezzi efficaci per la formazione di una scienza e di una coscienza urbanistica. Si comincia ormai a vedere da tutti che l'ampliamento di una città, con l'innesto di nuovi quartieri sul vecchio tronco e l'avviamento verso uno sviluppo avvenire, rappresenta uno dei compiti più vasti e di maggiori responsabilità che si presentino all'Ingegneria ed all'Architettura; regolato da leggi precise, reso complesso dall'interferire di condizioni di diversissimo ordine.

É dunque il momento di intensificare gli studi e gli sforzi, e forse sotto questo riguardo è provvido l'attuale ristagno nella fabbricazione da parte dell'industria privata. Molto ancora può essere salvato nelle nostre città, molti errori possono ripararsi o con provvedimenti organici o con efficaci espedienti; poiché la maggior portata dei mezzi, specialmente dei mezzi meccanici di comunicazione, può raggiungere ora soluzioni di un ordine più vasto di quelle che qualche decennio fa, se pure fossero state comprese, difficilmente avrebbero potuto attuarsi. Ma occorre che non si giunga tardi quando tutto sia compromesso!

Se l'Urbanistica è una tecnica ed un'arte - tecnica complessa a cui fanno capo l'igiene, la costruzione stradale, e gli impianti molteplici cittadini ed i mezzi di traffico, arte di ordine superiore che associa al sentimento tradizionale d'ambiente, la nuova composizione architettonica delle grandi masse - è sopratutto guidata da principi stabili e da un metodo determinato, che occorre ben affermare. Dopo un vario ondeggiare di tendenze, si è ormai nell'arduo tema dei piani regolatori di sistemazione e di ampliamento di antiche città giunti in modo quasi concorde a criteri ed a postulati, che ora qui, nella impossibilità di svolgere analiticamente la trattazione, si riportano nella forma un po' scolastica di un decalogo.

1.° Devesi premettere al piano regolatore cittadino il piano regolatore regionale, che contempli cioè l'ampia sistemazione delle comunicazioni esteriori coi centri prossimi ed anche la corrispondente diffusione del futuro abitato nelle campagne.

2.° Il piano regolatore d'ampliamento deve essere tutta una cosa con quello dell'interna sistemazione del vecchio nucleo, considerando il reciproco modo con cui i nuovi quartieri reagiscono sul nuovo centro e viceversa. Il piano regolatore dei mezzi di comunicazione deve analogamente essere contemporaneamente studiato e direttamente coordinato col piano regolatore edilizio.

3.° Si dividano nettamente i vari tipi di traffico, cioè il traffico esterno di passaggio, quello che converge ai nodi tra loro ben collegati della viabilità e del movimento cittadino, quello locale, ed a ciascuno si dia la sede adatta secondo ben studiati circuiti, talvolta periferici, talvolta radiali, distinguendo in ogni caso la rete stradale di grande circolazione dalla spicciola rete di vie minori per la suddivisione dei lotti di case. Il criterio dello sdoppiamento del sistema cinematico cittadino discende allo studio dei singoli organi, come le piazze d'incontro delle vie ed eventualmente i passaggi ed i mezzi di comunicazioni sotterranei.

4.° Si dividano i quartieri di nuova fabbricazione in zone di vario tipo fabbricativo, che col loro associarsi non solo diano un ritmo alla città e rechino vantaggi all'estetica ed all'igiene, ma contribuiscano all'avviamento razionale della fabbricazione.

5.° Si aprano le porte alla espansione della città nelle zone esterne, togliendo con arditi e tempestivi provvedimenti le barriere che quasi sempre ostacolano il collegamento tra la città esistente ed i nuovi centri.

6.° Si coordinino i vari mezzi suindicati, cioè tracciamento di vie secondo precisi circuiti, ampi innesti, divisione in zone più o meno intense, attivazione dei mezzi di comunicazione di vario rodine (tranvie, autobus, ferrovie, metropolitane, linee di navigazione), alla finalità di promuovere e dirigere la fabbricazione secondo un determinato programma, e di evitare che essa venga a chiudere e congestionare ed alterare il vecchio centro. La città vecchia e le sue nuove propaggini debbono coesistere ciascuna con le proprie esigenze e col proprio carattere.

7.° Si adattino i tracciati stradali alle condizioni altimetriche, evitando gli schemi geometrici ideati a due dimensioni, che tanto spesso nelle città reticolate hanno dato non soltanto un insopportabile carattere di monotonia, ma anche condizioni infelici di pendenza e di costo. Non solo i tracciati, ma gli incontri delle vie, la disposizione delle piazze e dei giardini siano frutto di uno studio complesso, relativo al flusso della viabilità, alla conformazione utile degli isolati, ad una estetica di ampia monumentalità o, più comunemente, di aggruppamenti vari e vivaci.

8.° Negli attraversamenti che si rendessero necessari nel vecchio nucleo a congiungere i poli esteriori (ove non siano efficaci gli anelli periferici) si adatti il tracciato alla fibra edilizia esistente e si eviti il contrasto di tipo e di masse architettoniche, possibilmente valendosi di nuove linee attraverso il corpo degli esistenti isolati, piuttosto che praticando allargamenti di vie esistenti.

9.° Non si pretenda di voler portare con vasti sventramenti i centri di vita nuova nei vecchi quartieri, ove ogni taglio in grande stile si risolve in danni per l'economia ed insieme pel carattere storico ed artistico della città antica, ed in luogo di avviare la soluzione della città antica la pregiudica forse irrimediabilmente. Per queste vecchie zone valga la formula del minimo delle sopraelevazioni e degli addensamenti.

10.° Si segua per questi quartieri nelle loro parti più logore e più dense, quando siano liberate dalla grande viabilità, il sistema del diradamento edilizio e dello spicciolo miglioramento delle condizioni igieniche ed architettoniche dei singoli edifici.

Alcuni punti di questo decalogo richieggono di essere maggiormente chiariti. In particolare, quello che si riferisce all'innesto di nuovi quartieri sul vecchio nucleo.

Le due soluzioni-tipo per tale innesto razionale sono come è noto, o quella degli anelli periferici che raccolgono il movimento e lo deviano dal centro (esempi, Ring di Vienna, di Lipsia, di Norimberga), o quella dello spostamento radicale o graduale del centro cittadino (esempio tipico la Neustadt di Strasburgo). Spesso però nè l'uno nè l'altro dei due sistemi sono attuabili nella forma schietta. L'anello non è efficace quando le condizioni altimetriche mal si prestano (Roma ad esempio ha due tronconi di anello nel Lungotevere e nel viale delle Mura tra Porta Pinciana ed il Castro Pretorio, ma tra loro mal congiungibili), ovvero quando ormai la città è già tanto sviluppata da non consentire più l'isolamento del nucleo centrale (come a Milano ed a Firenze). Lo spostamento del centro perché sia applicabile in modo completo, richiede una gagliarda iniziativa con mezzi adeguati in condizioni adatte; ben più sovente viene sostituito dalla formazione di vari centri nuovi tra loro ben collegati, ma possibilmente tutti da un lato relativamente alla città esistente.

Roma con la sua lunga vita edilizia e con gli errori (in gran parte inevitabili) del suo sviluppo dal 1870 in poi, offre esempi veramente istruttivi in questo campo.

Sarebbe certo interessante, ma non è qui il tempo nè il luogo, il rievocare le varie vicende edilizie dell'Urbe: dalla tipica suddivisione in distretti di Roma imperiale, alcuni incredibilmente affollati di popolazione, altri riservati a ville, altri a pubblici edifici; alla configurazione decentrata della Roma medioevale fino al principio del Quattrocento in cui tanti nuclei come di borgate diverse e lontane erano costruiti intorno al Campidoglio, nel Trastevere, presso il Vaticano e presso il LAterano; al processo di completamento delle zone intermedie ed allo spostamento del centro determinatosi sotto Sisto IV colla città curiale del rione di Ponte, sotto Leone X e Paolo III con lo sviluppo della fabbricazione in Via di Ripetta e sulla Via Lata (l'attuale Corso), fino al piano regolatore di Sisto V, che attraverso i vigneti dell'Esquilino e del Viminale tracciò le strade dritte come la sua volontà precedendo la futura città di quasi tre secoli.

Ma più direttamente utile è l'accennare alle vicissitudini edilizie di Roma capitale d'Italia. É noto che all'alta mente di Quintino Sella balenò l'idea di svolgere la nuova fabbricazione accanto e non entro la vecchia città in tutta la zona tra la Porta Pia e la Porta S.Giovanni, allora quasi deserta. I mezzi scarsi, i pregiudizi, la malaria, le opposizioni politiche impedirono l'attuazione di questo savio progetto, di cui rimase il Ministero delle Finanze come prima manifestazione isolata. E venne l'era delle piccole discussioni tra i «prataroli» ed i «monticiani», tra i sostenitori della Via Nazionale diretta a Piazza Colonna o diretta verso S.Pietro; vennero i tracciati di strade (come la Via Cavour, il Corso Vittorio Emanuele, la Via Veneto) senza uscita; si ebbe il piano regolatore del 1883 coi suoi tagli nell'interno troppi e troppo triti, quello del 1908 che volle recare un principio d'ordine ed un inizio regolare di ampliamento; ed intanto la fabbricazione si svolse anarchicamente ovunque l'individualismo la sospingeva, sia quella di quartieri privati, come il quartiere di S.Lorenzo e le costruzioni del periodo delle Cooperative, sia quella di edifici pubblici, e specialmente dei nuovi ministeri (che il Calderini ed il Sanjust saviamente volevano concentrare in Piazza d'Armi) disseminati a tutti gli estremi della città, senza un collegamento e senza una guida.

Ancora tuttavia molto più può essere salvato in Roma da un piano regolatore ideato in grande stile ed attuato con metodo serrato. Anzichè seguire in questo piano un sistema unico, il che sarebbe, per quanto si è accennato, impossibile, converrà associarne insieme vari incompleti: tracciare anelli taluni completi planimetricamente ma mal connessi altimetricamente, altri vastissimi, altri infine parziali, innestati ai primi a ghirlanda; promuovere con tutti i mezzi l'ampliamento della città specialmente nel ventaglio compreso tra il N.E. ed il Sud. L'annessa pianta schematica indica taluni di tali mezzi, consistenti nella sistemazione ferroviaria basata sull'abbassamento del piano della stazione di termini e sul prolungamento delle linee al Nord, nel tracciato di una metropolitana ad 8 avente la stazione stessa come punto d'incontro, nell'avviamento delle principali linee radialmente verso la regione esteriore testè designata. E se il grande viale periferico esterno quale appare disegnato nella unita tavola dimostrativa sembra quasi concentrico al nucleo attuale, non lo è di fatto, sia per la diversa intensità della fabbricazione prevista, sia per la diversa funzione delle vie; il viale che da Ovest dovrebbe essere di chiusa, ad Est ed a Sud si suppone di inizio di tutta una rete irradiantesi verso la campagna fino a raggiungere col tempo la cerchia dei monti e dei paesi che la circondano.

Solo un piano regolatore concepito con siffatta larghezza di criteri, cioè tracciato come schema di poche e grandissime arterie maestre aventi ben precise funzioni (simili a canali di una bonifica) di viabilità e di avviamento edilizio, attuato sistematicamente, in modo da determinare la graduale costituzione di un nuovo organismo vivo, e non con piccoli provvedimenti sporadici ed isolati, potrà risolvere adeguatamente il terribile problema: creare una Roma nuova che non sia, come quella dell'ultimo cinquantennio, una modesta città secondaria di ordinaria amministrazione, che non alteri più oltre il carattere di Arte e di Storia per cui Roma è ancora unica al mondo, ma che raggiunga veramente la grandezza imperiale auspicata dall'alta parola animatrice del Capo del Governo.

Oltre a questi concetti relativi all'ampliamento cittadino, qualche commento richiede pure l'asserzione, con essi direttamente legata, che esclude di concentrare la vita nuova cittadina nel vecchio ambiente. Ancora invece, si è ben lungi dal vedere accolto questo principio così semplice e chiaro, e non sono lontani i tagli del centro di Firenze, della Via Rizzoli di Bologna,, sono di ieri le devastazioni del quartiere di S.Lucia in Padova, sono di oggi i tanti progetti che nella vecchia Roma vorrebbero tagliare vie e piazze enormi senza uscita e senza scopo. Eppure se non ci si lascia illudere dalla rettorica edilizia, appare evidente la illogicità di aumentare l'importanza di spazi che, chiusi nel vecchio ristretto abitato, rimarranno sempre più inadatti ad essere il cuore di un organismo sempre più vasto. Enormi i danni di ordine estetico per l'alterazione della fisionomia di una vecchia città che spesso nel suo aggruppamento pittoresco può dirsi un monumento collettivo, per le condizioni ambientali degli stessi monumenti maggiori, alterate nei rapporti di masse e nelle visuali, pel carattere banalmente mercantile che inevitabilmente assumeranno le nuove costruzioni, anche se i mirabolanti disegni prospettici hanno promesso meraviglie monumentali: sicchè ad un insieme che ha in ogni elemento un valore di ricordi o di arte si sostituisce una volgare massa edilizia senza significato. Enormi i danni per la economia nazionale per la distruzione di un patrimonio di costruzioni a cui bisogna sostituire in perdita altri fabbricati di maggiore capacità, il che nel periodo attuale, in cui l'equazione del tornaconto nelle abitazioni modeste raramente dà soluzioni positive, rappresenta un altro ostacolo quasi sempre insufficientemente considerato.

Tutte le condizioni di vario ordine che apparentemente sembrerebbero contrastanti, sono quindi invece, a chi ben guardi, concordi nel determinare la necessità dello sdoppiamento tra lo sviluppo adeguato, ampio, libero, vivace della città nuova secondo le nuove esigenze, dallo spicciolo adattamento nel proprio ambiente della vecchia città.

Questa convergenza di concetti è una delle singolari, inattese caratteristiche del momento attuale dell'edilizia. Le ragioni della viabilità, dell'igiene, della bellezza, del carattere storico, della economia, dello sviluppo demografico che fino a poco tempo fa si esprimevano in trattazioni che tra loro si ignoravano, oggi si incontrano e si uniscono nei principi della giusta distribuzione delle varie zone dell'abitato, nel ritmo della viabilità, dei tracciati e dei raccordi razionali delle vie e delle piazze, dell'aggruppamento viario e pittoresco delle case, delle condizioni d'ambiente richieste dai monumenti.

Occorre tuttavia che questi problemi siano anzitutto intesi nel loro valore dal mondo finanziario ed amministrativo e politico, che ancora vi è assolutamente impreparato. A veder bene, non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l'attuazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, con un ordine di successione che può secondare o può annullare il concetto informatore del piano stesso. Tanto è vero questo, che molto spesso i piani regolatori si risolvono in una dannosa illusione e finiscono ad essere attuati soltanto per varianti sporadiche e secondo opere isolate che nulla hanno a vedere col programma edilizio. Tanto è vero altresì, che gli esempi non sono infrequenti di governanti di alta mente che hanno miseramente fallito nell'attuazione di grandi vedute edilizie, appunto per la mancanza di ogni razionale giuda nella rispondenza tra i mezzi ed il fine.

Occorre dunque che il programma tracciato sulla carta in bei disegni faccia parte di qualcosa di più vasto, che può dirsi un'alta e continua politica edilizia. Ma per far questo occorre che una seria preparazione si diffonda nelle classi dirigenti, ed è in ciò un grande compito degli ingegneri ed architetti italiani. Non solo essi debbono rapidamente impadronirsi dei problemi urbanistici, ma debbono farsene propulsori e divulgatori, se non vogliono in questo tempo in cui «secol s'innova» estraniarsi dalla vita della Nazione.

Le leggi stesse che a tutta questa materia presiedono sono quanto mai decrepite ed occorre rinnovarle. I compiti e le attribuzioni dei Comuni nei riguardi dei piani regolatori sono ancora quelli concepiti nei limiti della legge del 25 giugno 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità, a cui si aggiunge quasi sempre la legge ideata nel 1885 per le condizioni singolarissime di Napoli ed ora assurdamente generalizzata. L'una e l'altra, malgrado gli adattamenti che si è cercato portarvi con applicazioni stiracchiate e con regolamenti inorganici, creano gravissimi ostacoli all'ampia attuazione di un piano regolatore. Il carattere fiscale della valutazione degli espropri con la legge per Napoli rende enormi le resistenze dei singoli proprietari, ingiustamente spogliati. D'altro lato invece il sano provvedimento di una espropriazione non lineare, secondo i tracciati di viabilità, non per zone interne sì che i Comuni possano ricuperare con l'aumento del valore nei nuovi stabili propspicienti parte delle ingenti spese di sistemazione, è possibile solo in parte e per espedienti; non lo è ad esempio nelle zone esterne dell'ampliamento ove sarebbe più logico e provvido, poiché la trasformazione delle aree agricole in aree edilizie non dovrebbe andare a vantaggio dei singoli proprietari. E così avviene che i Comuni non hanno veri mezzi per farsi con ragionevoli compensi un demanio di aree, e che la sana e razionale tendenza all'ampliamento è ostacolata ed è invece favorita quella inopportuna degli sventramenti interni. Nè i tentativi della legge per Roma dell'11 luglio 1907 e delle varie disposizioni per le espropriazioni per costruzioni di case economiche, hanno con la loro artificiosità, fatto fare un passo alla questione.

Ed ancora: la procedura per l'approvazione e per la dichiarazione di pubblica utilità dei piani regolatori edilizi mal consente di redigerli secondo il sistema razionale della preparazione di una rete a larghe maglie a cui si intesserà in seguito la trama secondaria, come anche mal consente di considerare organicamente come cosa unica, volta ad unica finalità, il piano di ampliamento e quello di sistemazione interna.

Ed ancora: tra il piano regolatore del tracciato stradale e della edificazione e quello del traffico manca ogni legame, ed è invece essenziale costituirlo strettamente. Ancora i vari enti che vi presiedono si ignorano quasi completamente nelle loro iniziative, che invece dovrebbero essere manifestazioni di un unico programma; ed avviene così ad esempio che l'Amministrazione ferroviaria costruisca stazioni, parchi ferroviari, linee di allacciamento con passaggi a livello ecc. senza tener conto, nè in modo positivo nè in modo negativo, della funzione edilizia.

Questa quasi costante mancanza di una energia unica direttiva fa sì che l'attività privata invece d'essere, se ben guidata, fecondo elemento utile, spesso diviene dannosa.

In questo terreno germoglia così la sementa di tutte le speculazioni malsane, in cui l'interesse di gruppi finanziari si sovrappone al grande supremo interesse della città, bene spesso riesce a fuorviare con mille sapienti mezzi la pubblica opinione.

Oltre al mutare la base giuridica ed al meglio indirizzare le forze edilizie, occorre, come si è accennato che entri in campo l'elemento «tempo», e che i piani regolatori abbiano da parte delle amministrazioni una precisa e tempestiva graduazione dei provvedimenti tra loro concatenati, sicchè, per così dire, la tattica edilizia si associ alla strategia. Tra la tecnica e l'arte urbanistica da un lato e l'amministrazione e la finanza dall'altro, non può esserci distacco, ma coordinamento serrato verso un unico programma; il che può aversi solo con una mutua comprensione.

Il lavoro per giungere a questo risultato vincendo pregiudizi e resistenze non è lieve e deve esercitarsi in vario senso. Ma anzitutto occorre far sì che si diffonda ben più che ora non sia la coscienza, la preparazione, la organizzazione urbanistica.

Occorre per questo intensificare con insegnamenti severi, ma più ancora col lavoro agile delle pubblicazioni e delle conferenze la coltura in tutti i diversi campi che all'Urbanesimo fanno capo.

Occorre favorire la formazione di specialisti, sicchè anche tra noi la figura dell'Urbanista abbia il suo vero rilievo.

Occorre che in ogni Municipio di qualche importanza sia costituito un Ufficio Urbanistico (come testè si è fatto a Milano) in cui ingegneri ed architetti specializzati lavorino nella ideazione dei piani generali o parziali, nello studio dei tanti impianti cittadini, nella compilazione dei regolamenti edilizi, nella redazione di progetti architettonici delle più notevoli sistemazioni, a cui sia possibile direttamente imprimere un carattere con la costruzione di pubblici edifici, ovvero si determinino speciali norme per l'attività privata, associando armonicamente nella composizione l'Architettura alla Edilizia.

Occorre promuovere pubblici concorsi su sistemazioni, o vaste di piano regolatore cittadino o limitate per speciali località, in modo da trarne non tanto soluzioni definitive, chè il concorso troppo spesso rende lirico quello che deve avere un carattere pratico; ma spunti di idee nuove da usufruire con studio ponderato.

Occorre richiedere che l'esame dei piani regolatori sia affidato alla competenza di appositi enti nuovi, pei quali possono utilizzarsi giovani elementi tratti dal Corpo del Genio Civile e dalle R. Sovraintendenze ai Monumenti, e, più in alto, dal Consiglio Superiore delle Belle Arti e da quello dei Lavori Pubblici uniti nel lavoro comune.



Hic opus hic labor. Trattasi, in Italia più che altrove, di grandi problemi nazionali che non debbono più oltre essere trascurati; trattasi della vita stessa delle nostre belle città che non possono più essere compromesse irreparabilmente nel carattere d'Arte ad esse mirabilmente impresso dai secoli, nelle feconde possibilità di un vasto sviluppo avvenire.

La nostra Rivista può e deve portare a questo movimento un contributo diretto e validissimo. Aprendo le sue colonne a segnalazioni ed a discussioni sulle questioni maggiori che interessano le principali città od i più tipici quesiti, riferendo i portati dei più recenti studi di cose urbanistiche, riportando sistematicamente una cronaca delle vicende e delle proposte più salienti ed illustrando ampiamente i migliori progetti concreti, potrà venire vero centro di ricerche e di affermazioni in quella che giustamente può dirsi la più complessa delle tecniche, la più grande delle Arti.

1) Questa Sicilia,di strade improvvisamente abbandonate dall’asfalto, perché finiscono i denari.

– in quali tasche?

Di viadotti mai messi in uso, per mancanza di correlazione fra movimento (o stasi) socio-economico e disegni tecnici.

– di quale tecnica?

Di ponti interrotti a mezza corsa, di case abbandonate, di quartieri residenziali “terziari” per cultura, e occupazione, ed espressione architettonico urbanistica.

– quale architettura, quale urbanistica?

1a) Questa Sicilia di pseudo-sviluppo, succube della “ragion-di-mercato” e ignara delle “ragion razionalizzazioni di piano”.

– ma quale piano?

1b) Confusa e silenziosa; pettegola e provinciale; umana e ricca di immobili speranze nei paesi, distorta e imbrattata nelle città dai lacerti di una borghesia periferica che succhia il sangue ormai amaro della autonomia regionale.

– di quale autonomia?

1c) Ma questa Sicilia di oggi, di adesso:

i) auscultata dai tecnici – quali tecnici?

ii) adoperata dai politici – quali politici?

iii) disprezzata e idolatrata dai suoi stessi abitanti come i fanciulli alternativamente baciati e bastonati d’amore ferino.

– quando vincerà lo sfrido dell’attesa?

2) Gli oggetti,

è il problema di fondo che troppi siciliani si sentano e siano, per vero, trattati da oggetti. Mere cose; nel meglio caso meri fatti che rapina, semmai, un vento astratto ora metafisico ora dialettico.

– un vento non di queste contrade, pur se storico.

E allora si rinchiudono in sé. Nell’armonia prestabilita dei gesti d’uso del clan, della famiglia, della strada, del vicinato. Già il quartiere dà l’agorafobia.

– e come è facile trasferirli dalla civiltà contadina a quella industriale!

2a) La casa non è “espressione soggettiva”. Né il profilo delle strade; né quello delle curve di livello

delle acque precipiti o stagnanti;

degli alberi radi;

della sua distesa – degli agrumeti fitti.

Né il grande spiazzo neonistico dell’industria chimica e petrolchimica buono per i rotocalchi e le statistiche

malo per Priolo e/o Milazzo, e/o Agrigento, Gela, e l’alto Messinese, gli incroci delle provincie di Trapani-Palermo-Agrigento, o Palazzolo A., o Giarratana, o Raffadali o Riesi…

3) Forse un paese

è l’ambito del moto, il nuovo fuoco.

Riesi, nel 1951 20.437 abitanti e 18.167 nel 1961 – perdita secca Istat 2.270 e almeno altri 2.500 da pseudo-turisti all’estero fin’oggi 1965; 3,78 occupati nell’industria al 1951 (miniere) e 0,75 al 1961 – oggi niente, di miniera, che è chiusa la Trabia-Tallarita.

Vani abitabili (girare, vedere: non è vero) al 1961: 9.734.

3a) Frana il palazzo comunale ma i fondi per riattarlo non passano il chiuso setaccio della burocrazia regionale – stanze in fitto, allora, e liti di Consiglio comunale per favorire questa o quella pigione; ancora un morto, nella campagna;

ancora il sogno della miniera, che ammazza o storpia ma è lavoro; fazzoletti di terra, a chilometri l’uno dall’altro: canoni enfiteutici risuonanti di Grandi di Spagna, e di miseria e di cornicioni ancora nobili di trame serrate di vie illuminate da una corte improvvisa; l’ultima casa del paese è confine alle donne – la piazza è nera d’uomini, o deserta di gelo all’inverno brucia d’estate come stoppia.

3b) Terra di Sicilia – un continente di monti che degradano al mare, nelle avare pianure gremite di reperti archeologici.

4)E sopra una collina,

il gesto dei muri spiccia dal terreno, sabbia e pietra dalle cave vicine, vuoti e pieni dal ritmo degli ulivi – dal muovere dell’aria qui franta da un’erta là espansa, a perdita d’occhi, fra le coste scavate dei monti.

Ubicazione volontaria invece che grumi di edilizia sfinita dalla fatica servile verso i signori, verso il governo. Architettura liberata in funzione: l’asilo, la scuola-officina, il centro agricolo… Le leccature estetizzanti esorcizzate dal lavorare insieme con le inabilità – e le felici scoperte di una disponibilità creativa a ogni livello – dei muratori locali.

4a) Il paese si abbevera alla collina. Scopre che si può mutar tutto se si crede nel mutuo-appoggio, nel servizio, negli “altri”.

La radice – il soggetto – è l’uomo. A giro d’acqua sono gli altri uomini, è la natura di terra acque e cielo, le trasformazioni volute da tutti e non imposte dai pochi, la partecipazione organica e globale di uomini e cose alla crescita.

5)La sua misura,

infinita nell’intimo chiede confini certi all’esterno. Si ripercorre sul territorio l’itinerario del cuore quando nei prossimi si ama – si serve – l’umanità.

Nella intuizione collettiva del singolo edificio, nel suo “goderne insieme” è la proiezione di una essenza che solo attuandosi esiste. Nel percorso dall’edificio al villaggio, dal villaggio al paese, dal paese ai paesi comprensoriali, dai comprensori alle strutture sub-regionali e da questa alla ferma forma regionale – tessuto di storia, cioè di azione e reazione fra la natura e gli uomini – è il farsi, l’apparire, della pianificazione aperta:



5a) Dal manufatto architettonico al lavoro di gruppo, dalla creazione sempre nuova dell’urbanistica vivente all’autonomia sociale delle scelte produttive e di consumo archi sempre più vasti sino al termine estremo di una partecipazione di primo grado, che è quello regionale (è la essenza della sua “autonomia”).

Nasce l’Italia delle Regioni – Ma senza quella radice, quel “soggetto”, non ci sarà che un coacervo, una aggregazione burocratica e astratta.



6)Questa Sicilia,

di oggi, di adesso – e di domani,

passerà dal sottosviluppo a uno sviluppo a lei alieno. Lo sviluppo della tecnologia che sfugge dalle dita degli uomini come sabbia impazzita e a poco a poco li sommerge.

6a) Che cosa aspettano gli architetti siciliani? Noli foras ire, in te ipsum redi! Con il popolo di Sicilia, quello che aspetta di agire, servire, amare – insieme.

l. Origine, e cronaca della compilazione del piano.

La necessità di collegare fra loro le varie attività urbanistiche, esercitatesi fino ad ora unicamente nell’ambito comunale e di piano particolareggiato, per coordinarle in un più vasto quadro regionale ed interregionale, era da tempo avvertita in sede teorica. Questa preoccupazione era sfociata nella legge urbanistica del 1942 che prevedeva la possibilità, non ancora sperimentata in Italia, della compilazione di piani territoriali di coordinamento su scala regionale.

Fu tuttavia soltanto durante l’ultima fase del periodo bellico, quando la prolungata e forzata stasi delle costruzioni edilizie, fermando completamente tutte le attività edificatorie sul suolo nazionale, venne a determinare una netta cesura colla situazione edilizia anteguerra, ed in seguito alle sempre crescenti distruzioni del patrimonio edilizio delle grandi città industriali, che si prospettarono chiaramente la necessità, l’urgenza e la pratica possibilità di predisporre un piano di coordinamento urbanistico su basi regionali.

La cesura con la situazione anteguerra forniva infatti l’occasione di abbandonare i vecchi, arbitrari e dispersivi sistemi di costruzione, fino allora seguiti soprattutto nella edificazione cittadina (costruzione sporadica e caotica su parcelle frazionate e irregolari, senza un preciso piano distributivo, senza norme vincolative di densità e di soleggiamento, senza ordine di precedenze, senza integrazione sufficiente di attrezzature collettive, ecc.), e di sostituire ad essi, nella ripresa edilizia, un metodo di costruzione pianificata nel tempo e nello spazio.

Le distruzioni, detraendo un sempre maggior numero di locali alla già inadeguata consistenza edilizia d’anteguerra, proponevano l’urgenza di soluzioni radicali per colmare il crescente fabbisogno edilizio e reclamavano che la ricostruzione non fosse un semplice ripristino della situazione quo ante, ma si proponesse come norma il miglioramento della situazione precedente.

La distruzione di stabilimenti industriali poneva l’interrogativo se alla loro ricostruzione in sito non fosse preferibile il trasferimento in più adatte ed attrezzate località vicine o lontane.

Le distruzioni delle vie di comunicazione ponevano problemi di precedenza, di rettifiche, di migliorie.

Era d’altra parte evidente che una ripresa dell’attività edificatoria in tutti i settori edilizi, senza un preventivo piano di coordinamento sufficientemente esteso nello spazio, avrebbe significato ricalcare nella edilizia cittadina i vecchi sistemi di costruzione, appena appena addomesticati da quella blanda e condiscendente prassi urbanistica, che a Torino aveva dato i suoi frutti nella Via Roma nuova, nei casoni a blocco dell’Istituto Case Popolari, nello squallore delle barriere, nel selvaggio sfruttamento delle aree centrali e nella beata architettura dei villini. Avrebbe significato non migliorare per nulla la situazione edilizia cittadina; ma all’opposto consolidare la situazione di sovraffollamento e di insalubrità delle abitazioni popolari, avrebbe significato non solo non risolvere, ma neppure impostare il problema delle aree industriali, avrebbe significato congestionare di traffico il Capoluogo, bloccarlo nei preesistenti errori urbanistici e continuare a concentrarvi il massimo dell’attività edificatoria, in una parola, avrebbe significato avviare Torino in tempo più o meno lontano verso la meta ambita e maledetta della metropoli, trascurando i problemi dell’intorno regionale.

Per prevenire queste conseguenze immediate e lontane e reagire a quello che sarebbe stato l’indirizzo naturale delle cose, non si presentava a noi, che tali tendenze osteggiavamo in linea critica, altro che una sola possibilità di azione: la compilazione,di un piano urbanistico dimostrativo.

Questi i moventi che spinsero il nostro Gruppo ad occuparsi fin dall’autunno 1944 del Piano Regionale Piemontese. Ci confortava allora la convinzione che la fine del conflitto avrebbe fornito l’occasione, veramente unica nella storia di questo secolo, di poter dare inizio ad una sia pur lenta, ma graduale ed integrale organizzazione urbanistica. Ritenevamo quindi indispensabile agire in questa direzione.

Purtroppo la situazione politica generale era quanto mai sfavorevole alla formazione dei piani. Le voci, che fin dal 1941-1942 si erano levate dalle colonne di Costruzioni e di Architettura Italiana a richiedere l’immediato inizio di una vasta e coordinata attività pianificatrice, erano rimaste senza seguito. I tempi non erano allora maturi: l’organismo politico italiano, che stava entrando nella fase finale della profonda crisi storica che ci ha travagliato, era assolutamente estraneo al promuovere, appoggiare e favorire una attività lungimirante, che richiede innanzitutto, da parte di chi la inizia e vi si dedica, una serena fiducia nel futuro ed una lunga prospettiva di pace. Parimenti, la successiva tragica situazione dell’Italia occupata, divisa e frazionata costituiva un forte ostacolo ad una attività pianificatrice regionale e nazionale. Ogni iniziativa di carattere ufficiale era dunque preclusa: non rimanevano che l’iniziativa e l’attività privata in un campo strettamente limitato.

Intanto una grave conseguenza della generale situazione militare e politica si stava profilando: non era assolutamente possibile che al termine del conflitto l’Italia avesse pronto un programma urbanistico ufficialmente approvato da immediatamente attuare.

Ciò importava, oltre che il crollo dell’illusione in una immediata mobilitazione generale per la ricostruzione pianificata, vagheggiata come ideale e luminoso trapasso dallo stato di guerra allo stato di pace, anche il pericolo dello slittamento verso quei sistemi di costruzione, che assolutamente si volevano contrastare e trasformare.

A mitigare questa cocente delusione stava la coscienza che la nostra situazione, comune del resto a molti dei paesi europei, squassati dal conflitto, non era ancora tale da pregiudicare completamente e per sempre la formazione dei piani: questi restavano pur sempre urgenti ed impellenti, ma era anche facilmente prevedibile che le difficoltà finanziarie, dovute all’assestamento economico e sociale, ritardando una ripresa edilizia su vasta scala, avrebbero determinato un intervallo di tempo sufficiente all’approntamento dei piani.

Una razionale riorganizzazione urbanistica era dunque soltanto ritardata, ma non ancora definitivamente compromessa.

Queste circostanze ben note, che fortunatamente appartengono ad un passato ormai lontano, giustificano il notevole ritardo con cui oggi si procede, in Italia, all’approntamento ed alla applicazione dei programmi urbanistici e spiegano anche, in parte, il presente generale disorientamento del pubblico nella scelta di un chiaro indirizzo nella ricostruzione edilizia.

L’aver richiamato tali circostanze di carattere generale serve inoltre per la comprensione delle difficoltà in cui si è mosso il nostro gruppo durante i primi passi per lo studio della pianificazione regionale del Piemonte.

Specie il reperimento e la raccolta del materiale statistico, occorrente per .una chiara visione d’insieme dei vari fattori urbanistici, non fu esente da ostacoli di ogni genere: le biblioteche locali bruciate o sfollate, la disorganizzazione completa degli Uffici e delle Pubbliche Amministrazioni durante l’ultima fase della guerra, la diffidenza generale da parte di ogni Ente, cui ci si rivolgesse, durante l’occupazione, per la richiesta dei dati, l’assenteismo e l’indifferenza degli stessi nei primi mesi dopo la liberazione, contribuirono ad aggravare il compito oneroso che ci eravamo proposti.

Finalmente il passaggio delle provincie del Nord al Governo Italiano ed il processo di riorganizzazione nazionale, unitamente al normalizzarsi della situazione generale, contribuirono a chiarire le relazioni ufficiali e facilitarono gli scambi colle autorità centrali.

La prima comunicazione pubblica del nostro studio fu presentata al 1° Convegno Nazionale per la Ricostruzione, tenuto in Milano nel dicembre 1945.

Successivamente nel febbraio ‘46, in occasione di una pubblica riunione indetta dal Sindaco di Torino, veniva data lettura di una relazione sui concetti generali del piano che ebbe notevole eco nella stampa locale.

Nel mese di aprile, su personale invito del Presidente del Consiglio delle Ricerche Prof. Colonnetti veniva allestita a Roma la prima Mostra di alcuni degli elaborati del Piano con l’intervento del Ministro Cattani e del Consiglio Superiore dei LL.PP. Nelle venti tavole esposte, erano illustrati in gran parte i risultati delle ricerche analitiche e statistiche effettuate nei vari campi di indagine, come premessa alla redazione del Piano.

L’interessamento e l’incoraggiamento delle Autorità a questi studi si concretavano successivamente nella decisione, da parte del Ministero dei LL.PP., di procedere alla compilazione del piano territoriale di coordinamento della Regione Piemontese. La pianificazione urbanistica regionale inizia ufficialmente così il suo primo esperimento in Italia, ed è per noi motivo di grande compiacimento che questo abbia ad esercitarsi sul territorio del vecchio e industrioso Piemonte.

Nelle pagine che seguiranno verrà illustrata e riassunta una parte dello studio regionale, sia nell’indirizzo metodologico che nei principi generali, ed alcune pratiche applicazioni.

[...]

Principi generali dell’urbanistica regionale.

Quali gli scopi di un piano regionale? Scopo generale del piano Urbanistico è quello di trasformare gradualmente la situazione di fatto di una data circoscrizione territoriale in modo da crearvi, in tempo più o meno breve, le più efficienti condizioni possibili per le attività produttive e le migliori condizioni ambientali di vita per la popolazione.

Per illustrare questo concetto noi possiamo pensare ad esempio che la Regione, oggi determinata nel suo stato attuale dall’elemento naturale, ma ancor più dal lavoro dell’uomo attraverso i millenni ed erede di una plurisecolare vita borghigiana, si trovi un po’ nelle condizioni di una vecchi bottega artigiana, in cui siano stati immessi da poco tempo, macchinari modernissimi, senza procedere ad una completa revisione e riorganizzazione delle attrezzature.

Se si vuole che la nuova macchina, impiantata nella vecchia bottega renda, è necessario rivedere i vecchi strumenti, sostituire gli inadatti e gli inservibili, distribuire tutti gli attrezzi secondo un processo di lavorazione che non è più quello artigianale, ripulire e riordinare.

Ecco il compito del piano urbanistico.

Naturalmente non si potranno apportare istantaneamente trasformazioni integrali. Il patrimonio edilizio, che noi abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni, con tutti i suoi errori e le sue manchevolezze, non può essere annullato e interamente rifatto. Si tratta però di dare inizio ad un’opera di graduale ma profondo riordinamento, si tratta essenzialmente di razionalizzare tutte le opere edilizie che verranno eseguite nel prossimo futuro, per imprimere ad esse una giusta direzione. Si tratta in definitiva di stabilire le line direttrici principali lungo le quali tutta l’attività edilizia, pubblica e privata, industriale e agricola, prossima e lontana, possa indefinitamente svolgersi nelle condizioni di più alta efficienza.

Considerato in astratto ed in generale il concetto di efficienza e delle migliori condizioni ambientali di vita resterebbe tuttavia ancora molto vago se esso non avesse in concreto ed in particolare significati tecnici ben precisi nei singoli settori, cui si riferisce, e sui quali è opportuno soffermarsi alquanto.

Per l’abitazione significa

a) adeguare in tutte le nuove abitazioni il numero dei vani al numero dei componenti della famiglia, per garantire un grado di affollamento non superiore all’unità;

b) assicurare a tutte le nuove abitazioni un minimo di soleggiamento e di verde;

c) non oltrepassare dati limiti di densità fondiaria e territoriale;

d) procedere, nella formazione dei nuovi quartieri, al raggruppamento delle abitazioni secondo il principio organico. Esso si può enunciare in questi termini:

ogni gruppo di abitazioni forma un nucleo residenziale con i suoi servizi; dal raggruppamento di più nuclei; con l’aggiunta di servizi e di attrezzature collettive adeguate, nasce il quartiere organico residenziale; più quartieri organici, integrati da servizi comuni e sommati a congrue zone di lavoro (industriale, commerciale e artigiano), formano l’unità cittadina organica

”In tal modo la città residenziale diventerà una vera federazione di unità organiche e di quartieri organici residenziali, essi stessi federazione di nuclei residenziali” (Lebreton, La Cité Naturelle).

Per l’edilizia industriale significa:

a) predisporre nei complessi urbani esistenti, nelle aree di espansione degli stessi e nelle località di creazione di nuovi centri delle zone da destinare esclusivamente ad uso industriale;

b) nella determinazione di zone industriali tener conto di tutti quei fattori ubicazionali, che pongono una data area in condizione geograficamente favorevoli all’arrivo delle materie prime, alla loro trasformazione, alla distribuzione dei prodotti, ai reciproci scambi, di semilavorati tra industrie di un unico ciclo produttivo, all’afflusso e alla residenza della mano d’opera;

c) attrezzare le zone industriali con servizi generali utili al buon funzionamento della zona e ad incrementare l’efficienza degli impianti.

Il raggruppamento di numerose attività industriali permetterà di ripartire e sostenere l’onere di detti servizi, che andranno dagli allacciamenti stradali ai raccordi ferroviari, piani caricatori, magazzini generali, centrali termiche collettive, oleodotti, impianti di posta pneumatica, ecc. In un’area industriale attrezzata ogni nuovo impianto diventa automaticamente compartecipe degli investimenti di capitale, della comunità.

d) distribuire gli stabilimenti nell’interno delle aree industriali tenendo conto del ciclo produttivo generale e dei reciproci scambi di semilavorati e di prodotti, dando ai singoli stabilimenti la possibilità di espandersi e di contrarsi conformando volta a volta le dimensioni alle esigenze economiche e tecniche, in continuo divenire, della produzione industriale.

Per le attrezzature edilizie collettive significa :

a) adeguare qualità, dimensioni e numero delle attrezzature alle esigenze e al fabbisogno sia delle nuove unità cittadine organiche che di quelle zone dei vecchi centri esistenti che sono suscettibili di essere riorganizzate colla integrazione in misura acconcia di quei servizi di cui difettano;

b) distribuire le attrezzature in luoghi adatti ed a giusta distanza dalle abitazioni, al cui servizio sono destinate;

c) destinare. per esse zone tranquille di largo respiro, provviste di molta area verde e di area di riserva, con accessi separati e indipendenti dalle arterie di grande comunicazione.

Per la circolazione stradale significa introdurre nella rete varia esistente quelle modifiche che permettono:

a) di formare una completa rete di strade di grande traffico veloce tecnicamente efficiente (sezioni adeguate alle intensità di traffico, piste separate, incroci selezionati e corredati da manufatti che eliminano i punti di conflitto, ecc.);

b) di allacciare razionalmente le grandi linee di traffico regionale ai centri esistenti secondo la tecnica combinata dalle linee anulari di circonvallazione, e delle linee di penetrazione e di attraversamento veloce;

c) di riorganizzare la viabilità interna cittadina dei centri esistenti colla rigorosa classificazione in:

- arterie di grande traffico veloce (attraversamento e suoi affluenti);

- vie cittadine a traffico automobilistico lento (delimitanti i quartieri residenziali);

- strade residenziali pedonali e miste (interne ai quartieri);

d) di combinare l’allacciamento fra le strade di varia classe in modo che a alle linee di penetrazione e di attraversamento veloce si dipartano a giusta distanza, evitando il più possibile gli incroci a livello, le arterie di grande traffico veloce. Su queste si innestino a livello le vie cittadine a traffico lento, dalle quali si accederà alle strade residenziali. In tutti i casi, sia rigorosamente evitata l’intersezione a livello fra gli attraversamenti veloci e le strade residenziali.

Questi, in riassunto, alcuni fondamentali e noti principi tecnici di carattere particolare oggi diffusamente divulgati dalla più evoluta tecnica urbanistica, e la cui rigorosa applicazione consente una razionale risoluzione dei problemi edilizi e quindi la progressiva creazione di condizioni ambientali di vita migliori e più efficienti delle attuali.

Molti di essi si riferiscono a problemi che si riscontrano e si risolvono unicamente in sede di piano comunale e particolareggiato, ma già parecchi di essi, soprattutto quelli che si riferiscono alla tecnica delle nuove unità urbane, alla zonizzazione industriale e alla viabilità generale, riguardano problemi che non si possono impostare e risolvere altrimenti che in sede di piano regionale.

I principi esposti non esauriscono certamente il campo urbanistico; resta ad esempio da esaminare un importante settore: quello agrario. Lo abbiamo lasciato per ultimo perchè, pur essendo intimamente connesso agli altri settori urbanistici, esso va esaminato con procedura sua propria ed in base a specifici principi.

Innanzitutto il problema agrario dal punto di vista urbanistico non è dissociabile dall’aspetto economico del maggior rendimento delle colture agricole. L’urbanista deve quindi associarsi all’economista agrario per concretare, dove occorra, un vasto programma di miglioramento e di trasformazione delle colture.

In esso, oltre ad essere contemplate particolari direttive di specifica tecnica agraria (rotazione agraria, incremento di produzione foraggiera, trasformazione dei prati stabiliti asciutti, sostituzione di colture, allevamento razionale del bestiame ecc.), dovranno essere affrontati e risolti problemi generali demografici economici e sociali, e quindi urbanistici, di enorme peso nel complesso dell’economia regionale, basata per la massima parte, in Italia, sull’economia agricola.

Essi sono essenzialmente due:

a) L’adeguamento della mano d’opera agricola ad un rendimento medio.

È nota l’alta densità di mano d’opera agricola in Italia. Là dove all’alta densità di mano d’opera agricola si aggiunge purtroppo anche una bassa produttività media del suolo (situazione dell’Italia Insulare e Centro-Meridionale, condivisa anche dalle regioni montane delle Provincie dell’Italia Settentrionale), si abbassa necessariamente il rendimento medio della popolazione agricola. Infatti, mentre l’agricoltore medio italiano coltiva 4,9 fed, cioè nutre col prodotto del suo lavoro, oltre sé stesso, altri 3,9 abitanti, e mentre l’agricoltore delle regioni di pianura, in Piemonte mediamente raggiunge gli 8,6 fed, nelle regioni di montagna piemontesi esso scende mediamente ai 2,3 fed, e in alcune Zone, particolarmente infelici, esso scende perfino al di sotto degli stessi limiti della propria sussistenza.

L’adeguamento ad un rendimento medio, indispensabile per ridurre i prezzi dei prodotti agricoli ad un livello tale da poter far fronte alla futura concorrenza estera, si può ottenere attraverso uno dei seguenti mezzi:

I – Aumentare la produttività unitaria agricola con migliorie tecniche.

II - Diminuire la densità coll’impiego della mano d’opera eccedente nella stessa località e ancora nell’agricoltura (messa a coltura di terreni incolti ecc.) o nella pastorizia e foreste.

III – Impiegare il supero di mano d’opera ancora in sito, ma in altre attività esistenti o di nuovo impianto (ad es. industrie alimentari ecc...).

IV – Permettere l’inurbamento.

V – Favorire l’emigrazione all’estero.

VI. – Favorire l’emigrazione interna, spostando l’eccedenza di mano d’opera in località adatte a riceverla, occupandola in attività produttive di nuovo impianto.

Ad esclusione della soluzione di inurbamento (sempre deprecabile se avviene nel modo spontaneo e caotico seguito finora), gli altri mezzi esposti sono applicabili e tra loro integrantesi. Il III e soprattutto il VI porgono problemi di trasferimento di popolazione e di impianto di nuove attività, che toccano nel vivo il problema urbanistico regionale.

b) La riforma agraria. - Molti gli studi che economisti e politici dedicano oggi al complesso problema della riforma agraria in Italia. Esso ha sostanzialmente due aspetti fondamentali: il problema delle dimensioni delle aziende agrarie e la revisione dei contratti agrari.

Il primo è un problema tecnico economico e politico che si presenta in modo molto vario nella Penisola e che va dal frazionamento del latifondo del Centro e Mezzogiorno all’accorpamento in unità organiche delle frantumatissime parcelle di seminativi e di prati nelle regioni montane.

Esso ha notevoli riflessi in campo urbanistico perchè non è possibile effettuare un durevole frazionamento né un’utile rifusione parcellare senza al contempo provvedere ad un complesso di opere di bonifica pubbliche e private (strade, canali, acquedotti ecc.) e di attrezzature edilizie (case rurali, stalle, sili ecc.).

Il secondo aspetto, quello contrattuale, pur essendo intimamente collegato al primo, ha tuttavia un carattere giuridico e sindacale molto particolare, che fuoriesce dal campo urbanistico. Ciò nonostante hanno spiccati riflessi urbanistici alcuni schemi di riforma basati sulla gestione cooperativa delle aziende agricole, per le profonde innovazioni che essi apporterebbero nell’edilizia rurale con la introduzione, ad esempio, di nuove e complesse attrezzature collettive.

La separata risoluzione tecnica dei problemi particolari dei vari settori elencati non è ancora tale da produrre di per sé il piano regionale.

Questo rischierebbe in definitiva di frantumarsi in una numerosissima serie di varie iniziative, originate da particolari condizioni locali, e di soluzioni a queste strettamente collegate, che, se pur anche avvenissero colla razionale e illuminata applicazione dei principi tecnici esposti (il che comporterebbe già un gigantesco passo oltre alla prassi caotica delle soluzioni inefficienti e contrastanti), ancora non costituirebbero nel loro complesso tutto organicamente articolato, ma resterebbero una semplice somma algebrica di parti meccanicamente risolte e fra loro slegate, se mancasse l’elemento vivificatore del tutto, il centro motore del grande insieme regionale.

La pianificazione regionale si realizza e può assolvere il suo compito, può cioè condurre alla formazione di un organismo vivo ed efficiente, solo se viene promossa una diffusa circolazione sanguigna in tutti i settori, una profonda osmosi fra tutti gli elementi; solo se viene attuata la continua applicazione di un principio vivificatore.

La necessità di rifarsi ad un principio urbanistico generale si presenta quindi in definitiva come necessità di unità e di sintesi e la stessa ricerca e definizione di tale principio appare ora, dopo l’esame dei singoli problemi parziali, facilitata e chiarita.

Riassumiamo (anticipando i risultati delle analisi) la situazione regionale piemontese.

La Regione ha urgente necessità di saldare il deficit di abitazioni e di attrezzature: i centri urbani industriali sono sovraffollati, in essi esistono distruzioni totali, esistono tuguri inabitabili, esistono industrie in pessime condizioni ubicazionali, la campagna in alcune zone è esuberante di mano d’opera agricola, la montagna tutta soffre per l’altissima eccedenza della stessa mano d’opera.

Se si continua a costruire, un po’ meglio di prima, ma cogli stessi sistemi e nelle stesse località di prima, si saranno lasciati i problemi urbanistici demografici e sociali allo stesso punto di prima: i centri industriali continueranno ad affollarsi e ad enfiarsi, le montagne a languire. Né l’espansione a macchia d’olio, né il frazionamento dell’attività edilizia in mille opere slegate permetteranno mai una rigorosa applicazione dei principi tecnici enunciati.

Per sollevare contemporaneamente città, campagna e montagna dai mali di un cattiva urbanistica, praticata da mezzo secolo, e per razionalizzare la futura attività edilizia, industriale ed agricola, non c’è che un rimedio: instaurare una ordinata urbanizzazione del suolo, che preveda la successiva creazione nel tempo di nuove unità organiche, in cui troveranno contemporaneamente lavoro e abitazione i senza-tetto, gli ex abitatori di alloggi sovraffollati o di tuguri inabitabili, e gli emigrati dall’eccedenza demografica agricola e montana. Questi potranno diventare in tal modo i fortunati pionieri di una nuova civiltà del lavoro, impostata sulle più efficienti, più gradevoli e più serene condizioni ambientali di vita, frutto di una intelligente ed umana applicazione dei mezzi tecnici più moderni.

Il principio generale della urbanizzazione regionale capace di connettere le singole risoluzioni in un grande tessuto omogeneo, sta precisamente in questa procedura e in questo concetto:

CONVOGLIARE LA MASSIMA PARTE DELL’ATTIVITÀ EDILIZIA VERSO LA FORMAZIONE DI NUOVE UNITÀ CITTADINE ORGANICHE PERFETTAMENTE ATTREZZATE ED ECONOMICAMENTE ATTIVE.

Questo principio richiede, per poter esser tradotto in pratica, i seguenti presupposti:

l) la possibilità di effettivamente coordinare le attività edilizie, attraverso una opportuna procedura;

2) la possibilità di trasferire impianti industriali in condizioni ubicazionali migliori e di maggior rendimento;

3) la possibilità di creare nuove attività di produzione industriale;

4) la possibilità di organizzare tecnicamente le singole unità produttive entro un ciclo tecnico il più possibilmente completo ed efficiente (la zona industriale);

5) la possibilità di estendere, sull’intero territorio regionale, una oculata e previdente zonizzazione, che predisponga con lungimiranza gli adeguati vincoli sulle aree, che si prevedono, in futuro, destinate all’impianto delle nuove unità organiche.

Il principio; urbanistico enunciato, che non esclude per altro applicazioni di dettaglio della tecnica urbanistica a tutto il territorio, può essere nucleare per tutte le regioni industrialmente evolute. La sua applicazione è fonte di grandi trasformazioni economiche e sociali e feconda di deduzioni. Innanzitutto viene introdotto un metodo cosciente di urbanizzazione graduale ed organica del suolo, che permette la figliazione dal vecchio ceppo regionale di gemmazioni nuove, sane (igienicamente ed economicamente) e di grande vitalità. Ogni nuovo accrescimento è controllato e portato a vivere nelle migliori condizioni: eugenetica scientificamente perfetta. Non solo, ma i benefici influssi di questo metodo vengono risentiti in tutta la Regione, nei grandi e nei piccoli centri, nella campagna e nella montagna.

Anche ai problemi isolati e particolari viene impressa una direzione nuova e ben definita, anche per i vecchi centri può essere impostata, in questo senso, una proficua revisione urbanistica. Anziché anelare a sempre nuove espansioni, essi potranno iniziare con profitto una minuta opera di riorganizzazione interna basata sulla determinazione, nel tessuto già costruito, di zone ben delimitate che possano ricevere la individualità di un quartiere e che, colla integrazione di attrezzature collettive mancanti, con una solerte politica edilizia di sfollamento, diradamento e di risanamento, e con la intensificazione di zone verdi, possano aspirare a diventare quartieri attrezzati. Anche per i vecchi centri potrà quindi essere applicato il concetto federativo dei nuovi quartieri organici.

In tal modo il soffio di vita delle nuove unità organiche entrerà a vivificare puranche i grossi centri edilizi esistenti, salvandoli dalla tristezza dell’anonimo e insalubre casamento e dallo slittamento verso il dramma della gigantesca metropoli.

La metodica, rigorosa applicazione del concetto generale esposto e dei principi tecnici validi per le soluzioni particolari conduce inevitabilmente alla programmazione e coordinazione di una enorme massa di opere, pubbliche e private.

Ma il possesso di un principio fondamentale, chiaramente espresso e perseguito, permetterà pure di sceverare, nella mole di opere, quella logica successione che porterà a raggiungere progressivamente lo scopo.

La semplicistica obiezione, che spesso viene opposta, circa la impossibilità di impostare ed attuare piani lungimiranti in situazioni economiche difficili decade immediatamente colla facile osservazione che è pur sempre possibile la esecuzione parziale (fosse anche minima per ora), ma graduale ed elastica di un’opera che sarà completa entro un certo numero di anni.

La pianificazione regionale così esposta impegna la collettività ad un’opera di grande collaborazione umana, che può divenire reale solo attraverso la accettazione e la cooperazione generale, solo seguendo un cammino comune, percorso senza distorsioni prospettiche e senza individuali egoismi.

Gli anni del New Deal sono lontani nel tempo. Oggi tutto è cambiato e quella straordinaria esperienza di governo resta consegnata alla storia. Tornando però a rileggere e a guardare i personaggi e le storie di quella stagione si avverte che la polvere che si è depositata non ha ridotto l’attualità di talune idee e comportamenti. La storia non torna mai uguale a sé stessa ma ci ri-propone sentieri già battuti con l’obbligo, però, di rinnovarli e di farli avanzare, ma, forse, il suo compito principale è di aiutarci a riconoscere la moneta falsa corrente.

Ritorno alla terra era la parola d’ordine del presidente Roosevelt che pensava di affrontare la povertà della popolazione rurale attraverso gli aiuti economici e una migliore gestione delle aziende agricole. Inoltre, egli pensava che per contribuire alla ripresa del settore agricolo bisognava intervenire nelle parti degradate delle città e favorire lo spostamento della popolazione nelle aree agricole. Su questa ipotesi si costituì il movimento noto con lo slogan “back to the land”.

A quel tempo uno dei consiglieri del presidente era Rexford G. Tugwell, un economista esperto di economia rurale che la pensava in modo del tutto diverso. Tugwell era convinto che la modernizzazione dell’agricoltura americana richiedeva interventi ampi e una precisa programmazione. Tra i fattori negativi del sistema agricolo americano di quel tempo, lui segnalava: la rigidità, la difficile relazione tra efficienza e tecnologia, l’eccessivo numero di aziende, la contrazione dei mercati, e non ultimo il disequilibrio crescente tra industria ed agricoltura.

La condizione del sistema agricolo era tale, secondo Tugwell, che era indispensabile intervenire con urgenza per evitarne la bancarotta. Il consumo di suolo era un fenomeno di proporzioni enormi e molte imprese erano condannate ad una esistenza di povertà, ma soprattutto era convinto che il flusso migratorio, dalla campagna alle città, avrebbe danneggiato l’economia americana. Altrettanto importante e urgente era il sostegno contro la povertà nelle aree rurali e l’aiuto per gli agricoltori affinché potessero continuare a mantenere il terreno da coltivare. Erano questi i compiti essenziali di una politica federale che si poneva l’obiettivo di costruire il futuro.

Il pensiero di Tugwell appare ancora oggi originale e per questo, anche al di là degli esiti, resta come un esempio tra i più interessanti di politiche pubbliche sul territorio. Il centro del suo ragionamento era che la politica agricola non passava (o comunque non solo) per l’aiuto diretto attraverso la distribuzione di sementi e di strumenti, ma era necessario attivare un processo di riallocazione di quelle aziende collocate su terreni poco produttivi. L’intervento da attivare era sul versante della pianificazione dell’uso del suolo “… if a system of land-use planning were implemented, the United States non only would be conserving its natural resources but also would be making the fullest use of its human resources”. Si trattava di avviare un programma il cui interesse strategico per il Paese ne giustificava la messa in campo di notevoli sforzi economici e organizzativi.

Sono passati 70 anni da quando, con l’ordine esecutivo 7027 del 1 maggio 1935, il presidente Roosevelt istituisce la Resettlement Administration e Tugwell viene nominato direttore. Cominciò così un programma pubblico divenuto famoso con il nome di Greenbelt Towns. L’idea di fondo era di avviare un programma che per contribuire a risolvere la povertà rurale prevedeva la realizzazione ex novondi alloggi e di nuovi centri abitati posti ai bordi dei centri urbani principali e in contatto con le aree rurali produttive. Si trattava di un intervento pubblico che si fondava sull’esigenza di riconoscere l’inevitabilità della crescita urbana ma, allo stesso tempo, che considerava possibile realizzare alloggi in un ambiente più consono per accogliere la popolazione e favorire così la migrazione dalle zone rurali.

La politica di riassetto

L’insieme di questa politica pubblica promossa da Tugwell faceva affidamento al concetto di “Resettlement” (riassetto). Il riassetto consisteva nello stabilire un programma di azione comprensivo (diremmo oggi integrato?) per alleviare i problemi socio economici della popolazione agricola. Nonostante l’approccio pragmatico si assumeva come obiettivo di interesse pubblico la realizzazione, attraverso un approccio sperimentale, del sistema di welfare necessario ad accompagnare le riforme sociali.

Scriveva Tugwell:

“In senso stretto la RA, Resettlement Administration, (l’amministrazione per il riassetto) non si esaurisce nel campo degli alloggi. Essa costruisce gli alloggi, ma la sua azione va ben oltre il dato, pur importante, che milioni di americani necessitano di nuovi alloggi e di conseguire uno standard minimo di decenza. Quello che la RA prova a fare è di mettere insieme case, terreno e persone in modo che il loro rafforzamento possa consolidare in modo permanente l’economia e la struttura sociale del paese.”

Tre furono gli obiettivi prioritari del programma di intervento messo a punto da Tugwell:

1. conservare il terreno abbandonato dagli agricoltori perchè non più idoneo alla coltivazione per destinarlo ad usi più consoni, ad esempio per la forestazione… ;

2. aiutare gli agricoltori ad abbandonare il terreno non più produttivo o scarsamente produttivo per un terreno migliore da lavorare che assicurasse un reddito più elevato;

3. aiutare, infine, quegli imprenditori che vivevano su terreni produttivi ma che a causa della crisi economica o perché inesperti nella conduzione dell’azienda, avevano bisogno di aiuto.

La necessità di una politica pubblica trovava il suo fondamento nella complessità del problema che investiva direttamente aspetti ben più ampi del solo settore agricolo. Gli interventi si collocavano entro un quadro problematico che vedeva gli Stati Uniti confrontarsi con il fenomeno sempre più consistente della migrazione verso i centri urbani.

Da questa visione integrata dell’azione pubblica e della politica pubblica nasce il programma che prevedeva la costruzione di città e centri suburbani che dovevano facilitare i cambiamenti della società rurale americana verso la modernità del ventesimo secolo.

Un programma che richiese un’organizzazione complessa e che comportò la realizzazione di undici uffici regionali con quattro divisioni che facevano da coordinamento presso la RA. I fondi per la realizzazione degli interventi erano messi a disposizione da una legge federale del 1935 .

Quali erano gli elementi caratterizzanti questa esperienza? La letteratura ce ne restituisce almeno tre:

1. l’integrazione delle politiche pubbliche per il governo di fenomeni complessi, come sono tutti quelli che interessano il territorio. Le esternalità prodotte da un’azione entro un contesto specifico devono essere sempre oggetto di politiche di governo in grado di controllarne gli effetti e gli esiti. La dimensione integrata appare qui un carattere costituivo delle politiche pubbliche.

2. Un secondo aspetto è che queste politiche integrate se pur intervengono su settori diversi, l’agricoltura, il suolo, la produttività, devono fare forza su più punti nei diversi settori per conseguire un effettivo contributo alla crescita economica e sociale.

3. Cè, infine, un aspetto istituzionale, ai cambiamenti sociali ed economici si deve rispondere attraverso la pianificazione. Non sembrano esserci altre possibilità. Assumere dinanzi a sé il progresso richiede il disegno di meccanismi sociali, come le tecniche di pianificazione, che incontrano specifici bisogni ed enfatizzano gli aspetti di sperimentazione.

La pianificazione non ha dogmi da implementare, Tugwell affermava questo come una sua convinzione forte, piuttosto, la pianificazione, deve corrispondere alle circostanze, alle risorse e alle tecniche a disposizione e deve essere in sintonia con i tempi e non rincorrere sogni astratti.

Le Greenbelt towns

Tugwell aveva ipotizzato 25 Greenbelt communities, ma ne furono pianificate quattro e completate solo tre: Greenbelt nel Maryland; Greenhills, nell’Ohio e Grendale nel Wisconsin.

Il disegno delle quattro città ripercorre quattro differenti approcci che tenevano in conto le specificità del luogo, la legislazione ma anche le tradizioni e i pregiudizi locali. La scelta e la composizione dei gruppi di lavoro fu fatta in modo da favorire la costruzione di un team che facesse propria l’importanza della sfida che stavano giocando e che sentisse di essere parte di uno dei più significativi esperimenti nazionali per la costruzione di città. Sebbene ogni team lavorava separatamente dagli altri lo faceva secondo principi e caratteri comuni. La divisione in team era necessaria perché differenti erano la topografia, la popolazione, l’economia e l’ordinamento legale e normativo di ogni sito. Ogni gruppo di pianificazione era suddiviso in tre dipartimenti: disegno urbano, architettura e ingegneria. La città di Greenbelt, era disegnata lungo un bosco con spazi aperti che favorivano la brezza fresca durante l’estate. Greenhills era, invece, costruita sulla sommità di tre piccole colline incise da avvallamenti che ne restituivano un disegno della pianta irregolare. Greendale era costruita su un terreno con dolci rilievi ed era incisa, nella parte centrale, da un piccola insenatura. Greenbrook sarebbe stata costruita, invece, su un terreno pressoché piano.

Una bassa densità abitativa era considerata un fattore costante per tutte e quattro le città. A Greendale questa era di 5 famiglie per acro (1 acro= 4.046, 86 mq), a Greenhills si saliva a 8,5 famiglie e a Greenbelt si scendeva a 4 famiglie. Il disegno dei lotti era differente ma aveva in comune il rigetto per i blocchi chiusi.

L’opposizione alle politiche di riassetto

Il programma man mano che veniva realizzato sollevava numerose critiche da fronti diversi: era molto costoso, era estraneo alla cultura americana, il programma non era in grado di incidere sui problemi che affliggevano la vita urbana. L’attacco della stampa e dei media fu sempre più insistente e si fece strada lo stereotipo di Tugwell Comunista e Bolscevico. Il carattere pionieristico del programma nel ricercare un nuovo assetto tra vita urbana, industriale e rurale divenne un difetto piuttosto che un pregio. Quando il piano per la quarta città, Greenbrook, venne presentato le critiche si trasformarono in una dura opposizione legale.

Nel maggio del 1936 la corte di appello del distretto della Columbia ingiunse alla Resettlement Administration di non procedere con la costruzione di Greenbrook. Le obiezioni formulate per il ricorso sottolineavano l’impatto prodotto dalla sua eventuale costruzione che avrebbe, secondo gli oppositori, stravolto il carattere di borgo dell’attuale insediamento, si aggiungevano poi notazioni relative ai costi a carico dell’autorità locale. Un’ulteriore fattore di critica proveniva dai proprietari. Greenbrook era stata progettata per 25 mila abitanti, la più grande del programma di riassetto, e gli abitanti della zona temevano che i valori immobiliari sarebbero crollati se si realizzava un intervento così grande e per giunta con il sussidio federale.

Le motivazioni della sentenza poggiavano però sulle competenze specifiche in materia di costruzione di alloggi. La Corte affermava che il Governo federale non aveva il potere di attivare direttamente politiche di costruzione di alloggi per due ragioni:

a. queste attività non rientrano tra le competenze del congresso, in quanto i progetti di alloggi (il diritto alla casa?) non hanno alcuna relazione con il welfare;

b. queste attività sono riservate unicamente agli Stati tanto che la legislazione del Congresso su questa materia è proibita.

Il programma ricevette così un duro colpo, si riuscì a contenere la validità del pronunciamento della Corte al solo New Jersey, potendo così completare i programmi già avviati e spendere le risorse già allocate, ma non si poterono più avviare nuovi programmi.

Il clima di favore attorno al programma cambiò e non fu sufficiente neanche l’appoggio convinto del presidente Roosevelt e della moglie Eleanor. L’umore del Congresso era via via più ostile all’intero programma e all’idea di un programma pubblico per la realizzazione di nuove comunità abitative.

Ma il vero conflitto era probabilmente culturale e aveva a che fare con l’importanza che il programma aveva attribuito alla pianificazione, al controllo dell’uso del suolo e soprattutto al destino di quelle aree lasciate libere perché non più idonee per l’attività agricola. L’idea da sconfiggere non era il disegno delle Greenbelt towns ma quella per cui il programma costruiva la possibilità concreta di un’alternativa al laissez faire e all’uso indiscriminato e incontrollato del suolo. Tugwell era convinto che gli interessi nazionali non erano solo nella efficienza della produzione, nell’innovazione tecnologica e nel migliorare i meccanismi di mercato ma, anche, nel governo attraverso la pianificazione pubblica.

Tugwell non era un personaggio ingenuo e sapeva che l’affermazione di questa linea richiedeva dei forti cambiamenti culturali, legislativi e istituzionali ma, come lui stesso affermava, sappiamo che è più difficile pianificare piuttosto che non, e che se lasciamo le cose andare per il loro verso si renderà poi evidente a tutti la necessità di uno sviluppo governato. Programmare equivale quindi ad affermare un principio di precauzione o un comportamento lungimirante che per questo richiede la costruzione del consenso ma anche l’affermazione di principi di interesse generale.

Il blocco del programma fu una decisione solo rinviata di lì a poco, e così nel Dicembre del 1936 il congresso smantella la Resettlement Administration. Tugwell rassegna le dimissioni, non solo da direttore della RA ma anche dal gruppo di esperti che lavorava con il presidente, era la fine del 1936.

Le tre comunità realizzate sono ancora oggi abitate e mantengono forti richiami all’identità originaria. Per chi volesse saperne di più può visitare i siti indicati di seguito.


Sito su Greenbelt, Maryland
Greenbelt virtual
Per saperne di più su Rexford G. Tugwell

Bibliografia:

David Myhra, ”Rexford Guy Tugwell; initiator of America’s Grennebelt New Towns, 1935 to 1936”, in AIP Journal May 1974

Sternsher Bernard, Rexford Tugwell and the New Deal, New Brunswick: Rutgers University Press, 1964.

Michael V. Namorato, Rexford G. Tugwell, A Biography, Praeger, New York, 1988.

Dichiarazione di W. Paul Farmer, Executive Director e Chief Executive Officer della American Planning Association

Davanti alle Sottocommissioni (Commissione Trasporti e Infrastrutture) riunite della Camera: Risorse Idriche e Ambiente; Sviluppo Economico, Edifici Pubblici, Gestione dell’Emergenza

Una strategia e una visione per ricostruire New Orleans

18 ottobre 2005 - [Titolo originale: A Vision and Strategy for Rebuilding New Orleans- Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]

Presidente Shuster, Presidente Duncan, distinti membri delle Sottocommissioni, vi ringrazio per aver richiesto questa audizione. Tengo in alta considerazione l’opportunità di esprimermi su un argomento tanto importante, che è al centro dei miei interessi professionali e personali.

Mi chiamo Paul Farmer, sono Executive Director della American Planning Association (APA). In quanto APA, apprezziamo la possibilità di avere questa occasione di discutere l’impegno per la ricostruzione di New Orleans nel suo stretto rapporto con la pianificazione e le decisioni attuative.

Sono qui sia come responsabile della più antica e ampia associazione dedicata alla promozione di una buona urbanistica, che costruisca città valide nel tempo, sia come urbanista professionista che ha prestato la sua opera in città varie, stimolanti, complesse, come Pittsburgh, Minneapolis, e Eugene, Oregon. Ho iniziato a interessarmi di urbanistica da studente delle superiori, a Shreveport, Louisiana, affascinato dalle trasformazioni della mia città. Fu allora che appresi come esistesse una professione interamente dedicata ad aumentare le possibilità di scelta per la popolazione e migliorare la qualità di vita della gente.

L’APA rappresenta 38.000 urbanisti professionisti, componenti di commissioni urbanistiche, cittadini interessati a costruire una visione per il futuro delle proprie comunità. I nostri associati partecipano, nel settore privato e a tutti i livelli della pubblica amministrazione, a predisporre e attuare piani che coinvolgono i cittadini in un processo di attenta riflessione pensato per costruire un progetto futuro.

Piani che riflettono valori identitari locali, promuovono una saggia gestione delle risorse, aumentano le possibilità di scelta nei modi di vita, lavoro, tempo libero, e migliorano la qualità della vita urbana. Sono lieto di vedere qui tante persone che rappresentano la spina dorsale del successo economico, sociale e politico di New Orleans. La nostra discussione sarà un elemento critico per la proposta di chiare politiche per una ricostruzione duratura delle comunità nella regione colpita. Credo sia un buon segno, il fatto che abbiamo qui contemporaneamente due Sottocommissioni al lavoro. La vostra responsabilità riguardo alla FEMA, al Genio militare e altre agenzie chiave per la gestione dell’emergenza e la prevenzione è rilevante e vitale per il nostro lavoro. Lo sforzo di ricostruzione richiederà molta collaborazione, sia da Capitol Hill che localmente in Louisiana.

L’uragano Katrina e la successiva alluvione sono stati fra i maggiori disastri a scala urbana e regionale nella storia degli USA. Il danno è stato immediatamente aggravato dall’uragano Rita. La ricostruzione di New Orleans e della cista del Golfo comporterà il più grande e complesso impegno di pianificazione della nostra vita. Sarà fatto di analisi approfondite e dibattito pubblico riguardo agli equilibri fra obiettivi ideali e scelte pratiche. Comprenderà alcune tematiche urbanistiche fra le più difficili del nostro tempo – giustizia ambientale, equità razziale, ripristino dei sistemi naturali, delle infrastrutture, acquisizione di proprietà privata, bonifica ambientale, tutela dei beni culturali, prevenzione dagli eventi calamitosi, sviluppo economico, riorganizzazione urbana - tutti ad una dimensione senza precedenti.

Oggi vorrei parlare dell’importanza della professione di urbanista e del processo di pianificazione, in particolare nei loro rapporti con gli sforzi di ricostruzione a seguito di un disastro. Esporrò gli aspetti fondamentali della pianificazione generale di lungo periodo, come tali principi possano essere applicati e introdotti efficacemente a New Orleans, cosa farà l’APA per contribuire, dal punto di vista istituzionale e sul terreno, e infine il nostro punto di vista sul ruolo del governo federale in questo sforzo coordinato, oltre alla raccomandazioni per l’immediato futuro.

Valore della pianificazione generale e della partecipazione pubblica



La pianificazione e le particolari competenze degli urbanisti vengono utilizzate per aiutare vari gruppi a trovare un terreno comune e soluzioni condivise riguardo ai problemi urbani. La pianificazione è il metodo attraverso il quale nelle città i rappresentanti eletti, i funzionari e gli altri interessi vengono messi insieme a definire ed attuare un progetto basato su obiettivi e valori condivisi.

La pianificazione offre un modo ai cittadini interessati di far sentire la propria voce, su come vogliono riorganizzare la propria città. In questo modo, la pianificazione per una sana democrazia ha il medesimo valore del diritto di voto. Nessun altro processo pubblico mette i cittadini in grado di essere tanto direttamente coinvolti nel formare il futuro del luogo dove essi vivono. L’urbanistica è democrazia in azione. Parte di questo processo democratico coinvolge gli abitanti, gli interessi dei costruttori, e altri soggetti interessati che si uniscono a comporre una visione comune del futuro urbano.

Ricostruire con le dimensioni che si presentano oggi deve essere uno sforzo collaborativo tra il livello locale, statale, federale. L’obiettivo è di ricostruire città sicure, dare agli abitanti opportunità di scelta per vivere e lavorare. Viste le grandi trasformazioni in corso nelle nostre città, le modifiche individuate da tanti studi e ricerche, pianificare è più vitale che mai, anche come strumento di azione informata delle amministrazioni municipali.

Le decisioni di piano sono fra le più essenziali delle responsabilità di governo locale. L’urbanistica influenza la vita di ogni cittadino in una comunità. La partecipazione e il controllo in sede locale sono essenziali per mantenere la fiducia del pubblico e la verificabilità. La pianificazione a New Orleans dovrà utilizzare in pieno gli uffici e istituzioni esistenti. Governo federale, APA e altre entità possono offrire assistenza tecnica e nuovi strumenti per rimpiazzare la capacità di azione locale provvisoriamente assente, ma è vitale collaborare con strutture come la planning commission o l’ente di pianificazione regionale, per costruire un solido piano di ricostruzione che rifletta valori locali.

Gli urbanisti sono formati ad esaminare una situazione e offrire una prospettiva generale. Questo punto di vista consente loro di individuare sia le conseguenze previste che quelle possibili, nei processi di crescita e mutamento. La pianificazione, in essenza, riguarda la gestione del mutamento secondo modalità che coinvolgano i cittadini, riflettano i loro punti di vista, ne restituiscano il valore aggiunto.

Le città non possono fare a meno di una buona pianificazione, nella sola corsa a ricostruire. Ora è il momento di considerare tutti i problemi urbanistici, per assicurare che vengano realizzate comunità di valore durevoli. Gli urbanisti sono una risorsa vitale per le città devastate, per aiutare a valutare i rischi, ricostruire in modo sicuro, ridurre la vulnerabilità rispetto ad eventi di origine umana o naturale. I pianificatori aiutano le comunità a individuare un quadro generale e a mantenere una prospettiva di lungo termine a orientare la crescita e il mutamento.

Ogni abitante deve avere voce nel processo di ricostruzione. Ciò richiederà coordinamento delle assemblee pubbliche cittadine e di altri incontri, a un livello senza precedenti vista la dispersione geografica dei residenti. Questo coinvolgimento rappresenta certo una sfida, ma che non può essere ignorata. Per ricostruire città dal valore duraturo nel tempo, gli abitanti, gli interessi economici e i rappresentanti eletti, devono prendere le decisioni sulla città insieme.

Gli investimenti in termini di tempo, capacità, creatività, e naturalmente denaro, sono centrali per il successo di una città. Coinvolgere la business community sarà particolarmente importante nel caso di New Orleans, ed è una buona pianificazione quello che alla fine genera confidenza negli investitori. Una buona pianificazione è quello di cui gli investitori hanno bisogno per sapere che il loro lavoro sarà remunerato, non vanificato.

Ricostruire gli argini semplicemente ai livelli pre-Katrina molto probabilmente non instillerà fiducia negli investitori. Gli argini hanno ceduto. Bisogna anche riconsiderare il tipo di argini, la sostituzione eventualmente con terrapieni dei muraglioni che hanno ceduto lungo i canali. E sì: il governo deve prepararsi a utilizzare lo strumento del diritto di esproprio. Sarà necessario acquisire alcune proprietà, per tutelarne molte altre e proteggere vite umane. Dobbiamo anche iniziare ad attuare il Piano Coast 2050 e ripristinare le zone umide.

Le grandi città non si realizzano in una notte, o per caso. Sono pensate, sono pianificate. Comportano impegno, collaborazione, partecipazione civica. Promuovono l’inclusione, le occasioni per tutti, e non solo per pochi. L’APA sostiene e auspica la partecipazione perché le buone idee emergono quando si mettono insieme parecchie persone. Nessuna grande città è mai frutto di una sola persona, o di un piccolo gruppo.

È necessario un approccio multilaterale



L’elemento chiave per ricostruire le regioni devastate è un approccio multilaterale. Ciò significa prendere in considerazione gli aspetti ambientali, valutare i potenziali di rischio, attuare i piani di mitigazione degli impatti, sollecitare la partecipazione ai processi di piano e sostenere le decisioni corrette.

Non possiamo rinunciare ad una buona pianificazione in cambio della sola corsa a ricostruire. Una ricostruzione affrettata semplicemente esporrà le città ad un rischio maggiore. La ricostruzione deve procedere con cura, svilupparsi ad una velocità che possa ricondurre gli abitanti a casa in modo sicuro. Soprattutto, la ricostruzione deve conservare l’unicità del tessuto fisico e culturale della regione.

L’urgenza della risposta e della ricostruzione dopo l’uragano deve essere equilibrata da decisioni consapevoli. Devono essere utilizzati i migliori esempi del passato, studi, buoni piani, esempi storici, in modo che non si ripetano gli stessi errori di progetto ed effetti ambientali. Non si devono scavalcare le procedure di regolamentazione e ambientali nel nome dell’efficienza e speditezza nell’approvazione, il via libera ai progetti edilizi e infrastrutturali, deve comunque dare priorità a ciò che avvantaggia tutti.

Non possiamo permetterci di ignorare la lezione che ci è stata impartita dell’uragano Katrina. Ignorare i potenziali di rischio è pericoloso per le nostre comunità. Ora è il momento di valutare la vulnerabilità a eventi di origine umana o naturale e contemporaneamente attuare programmi di mitigazione per ridurre tali rischi nel corso della ricostruzione. Mettiamo gli strumenti del piano a disposizione per costruire solide fondamenta alle città. Una efficace prevenzione degli eventi calamitosi, una risposta ad essi e misure di mitigazione degli impatti, possono avvenire solo tramite adeguati ed efficaci investimenti in infrastrutture, per tutte le città e in particolare per questa regione.

Quello che si deve ricostruire, dove lo si ricostruirà, e con quali caratteristiche, sono domande aperte. Egualmente importante è cosa non si deve ricostruire. E i casi abbondano. Solo per fare un esempio, le scuole possono essere riportate alla vita come veri e propri centri di servizio per tutti gli abitanti delle città, sette giorni la settimana. Dal punto di vista della pianificazione decisioni del genere devono coinvolgere tutti i cittadini – ovvero chi abitava nella zona prima dell’uragano, gli interessati al settore edilizio residenziale, gli operatori economici, il settore energetico, le persone competenti in materia ambientale, oltre ai governi statale e locali – nelle decisioni sulla migliore localizzazione di scuole, case, percorsi dei trasporti pubblici, grandi arterie e corridoi di mobilità.

È possibile anche aumentare gli spazi aperti pubblici. Credo che troppo spesso si cominci dalle grandi infrastrutture, dalle decisioni su dove collocare strade e autostrade e sovrappassi o cose del genere. Sono cose importanti, ma credo che lo spazio collettivo dove le persone si incontrano sia estremamente importante in qualunque città, e non si tratta di qualcosa che possa essere aggiunto poi.

Sono stato responsabile per l’urbanistica a Minneapolis per molti anni, e un secolo fa alcune persone molto sagge di Minneapolis avevano deciso che lo schema di sviluppo della città dovesse essere attorno alla catena di laghi mantenuta pubblica, così tutti i terreni attorno ai laghi, al torrente Minnehaha e a gran parte del Mississippi sono pubblici. Ciò mi da’ motivo di ritenere che ci sia spazio per rivedere questo aspetto di New Orleans pur rispettandone la storia.

Uno degli elementi chiave di qualunque pianificazione generale è la costruzione o conservazione delle caratteristiche storiche e culturali di un’area. Il motivo per cui New Orleans e la regione circostante hanno attirato tanti turisti negli anni è in gran parte riconducibile alle forti influenze storiche e culturali. La gente vuole sperimentare la ricca eredità storica, francese, meridionale, creola, vuole assaggiare le classiche ricette della cucina locale, ascoltare i leggendari musicisti zydeco e jazz, ammirare gli artisti e le loro opere in città, essere circondata dall’intrico dei lavori in ferro battuto e dalle varie architetture.

Conservazione storica e ripristino degli edifici sono parte essenziale della ricostruzione di New Orleans. Qui, più che in qualunque altra città del paese, le strutture storiche sono parte irrinunciabile sia della cultura che dell’economia. Dovremo usare New Orleans come laboratorio di innovazione in questi campi, ampliando gli usi dei fondi ex rehabilitation tax a stimolare il riuso di strutture vitali per la città. In più, dovremo introdurre un residential historic tax credit per i proprietari di casa di New Orleans per sostenerli nella ricostruzione secondo modalità che conservino la vitalità dei quartieri esistenti.

Parlando di questo, non possiamo dimenticare il capitale intellettuale rappresentato dalla popolazione. Uno dei modi più efficaci per rispettare il carattere tradizionale di una comunità è il riconoscere il valore della “infrastruttura sociale” di un’area. Una pianificazione aperta, trasparente e partecipativa rappresenta un elemento critico per ricostruire reti sociali più solide e inclusive di prima.

Dobbiamo anche guardare alle lezioni che abbiamo appreso da altre esperienze. La Florida ha mostrato come il coordinamento regionale delle decisioni locali possa essere efficace nella ripresa dopo eventi calamitosi. La Florida ha mostrato anche il valore di piani generali sostenuti dalla forza della legge. Il mio stato natale farà bene a seguire questa lezione.

Il ruolo dell’APA



Ora è il momento di iniziare a definire le forme della pianificazione di lungo periodo, perché esse saranno influenzate dalle decisioni prese nelle prossime settimane e mesi. Siamo concentrati sulle capacità di ricostruzione pianificata per rispondere ai bisogni immediati, e assistere altre città prive di piani di preparazione agli eventi calamitosi. Vanno prese accuratamente in considerazione tutte le soluzioni temporanee, perché non si trasformino in decisioni sbagliate e definitive.

Va riconosciuto che i nostro colleghi della Louisiana avranno bisogno di assistenza dall’esterno, dato che le risorse locali sono estremamente scarse nel momento in cui esse sono maggiormente necessarie alle città.

In risposta a questa sfida l’APA ha messo a disposizione numerosi materiali disponibili online per aiutare a orientare il processo di ricostruzione, tra cui progetti tipo, strumenti vari di pianificazione, esempi di ordinanze ed esperienze da altri casi di disastri naturali. In più, l’APA ha immediatamente lanciato una serie di iniziative, come offrire ai mezzi di comunicazione elenchi di propri membri noti per le conoscenze in materia di ricostruzione e prevenzione, organizzando uno speciali laboratorio Katrina recovery alla riunione annuale della sezione della Louisiana, pubblicando un numero monografico della rivista Interact dedicato a cosa può fare ciascun urbanista per collaborare ad accelerare la ripresa, organizzando una conferenza telematica sull’argomento per i propri iscritti, creando una sezione Katrina sulle pagine web dove sono disponibili molte risorse formative.

Alla National Planning Conference dell’APA a San Antonio nell’aprile 2006, terremo una sessione sulle misure di intervento dopo eventi calamitosi, per formare i partecipanti su questi temi. Visto che il Texas ha accolto tanti evacuati, terremo anche un laboratorio di una giornata, di sabato, sui problemi della ripresa e ricostruzione.

Utilizzeremo tutte le risorse dell’APA, conferenze e strutture, concentrandoci su questi temi, ed esprimere i modi in cui i nostri membri possano partecipare a titolo personale, a collaborare a costruire potenzialità di pianificazione.

L’APA manderà un gruppo di urbanisti a New Orleans a ricostruire le strutture di piano per la città. Altrove nella Costa del Golfo, i Planning Assistance Teams collaboreranno con le comunità colpite, offrendo assistenza, competenze e conoscenze. Questi esperti collaboreranno coi leaders locali nell’affrontare i vari bisogni di pianificazione, ricostruzione, mitigazione degli impatti ecc. Molti dei nostri iscritti hanno esperienze di inondazioni, incendi, terremoti e altri eventi, e possono offrire un valido aiuto ai propri colleghi e alle città di questi stati.

Naturalmente, il ruolo dell’urbanistica a New Orleans ora e per il futuro sarà diverso da quanto avveniva prima dell’uragano Katrina. La sua applicazione in sede locale seguirà le decisioni degli amministratori. Il coinvolgimento sarà ampio e diffuso.

Il gruppo di lavoro valuterà i punti di forza, debolezza, opportunità e sfide connessi all’urbanistica cittadina così come si configurava prima del disastro, giudicando le attuali capacità operative degli uffici. Prenderà in considerazione il coordinamento dei vari aspetti urbanistici all’interno dell’amministrazione pubblica, fra il governo cittadino e le istituzioni locali come scuole, università, ospedali, nella prospettiva delle sfide senza precedenti che aspettano New Orleans e di quanto esse necessitino di soluzioni non tradizionali per assicurare una forte ed efficace azione di piano.

Il gruppo di lavoro predisporrà un piano organizzativo per gli uffici urbanistici cittadini, comprese raccomandazioni di bilancio e organico, ad assicurare una prospettiva di obiettivi generali, e potrà collaborare con i funzionari nell’attuazione di tale piano organizzativo.

Il gruppo potrà anche predisporre una serie di linee e procedure per l’approvazione dei progetti, come le norme tecniche, le autorizzazioni e permessi, ispezioni, e offrire raccomandazioni generali sulle principali politiche, come il comprehensive plan cittadino, la gestione delle aree alluvionali, progettazione urbana, bilancio ambientale, partecipazione pubblica.

Ruolo del livello federale e Policy Recommendations



APA svolge un ruolo guida nel campo della pianificazione e collabora con le città perché abbiano maggior possibilità di scelta, attraverso le proprie iniziative generali a livello federale, e di divulgazione pubblica. Tali attività riguardano un vasto ambito di questioni, come le spese per la mobilità, il risparmio energetico, la tutela ambientale, l’abitazione o lo sviluppo economico.

Il lavoro di ricostruzione a New Orleans richiederà sostegni per la raccolta di dati e le analisi, come i modi di condivisione delle informazioni tra vari uffici e competenze, o l’adeguatezza del personale negli uffici impegnati nella pianificazione, a livello cittadino, regionale, statale e federale. Occorre anche produrre informazione tecnica e programmi di formazione che sappiano costruire competenze regionali in grado di deliberare consapevolmente, e sviluppare una serie di strumenti comunicativi che assicurino la partecipazione di tutti i soggetti interessati, ivi compresi gli abitanti sfollati. Il governo federale deve continuare a collaborare con pianificatori esperti nelle aree colpite.

È chiaro come ora non sia il momento per un approccio decisionale “business as usual”. Gli abitanti di New Orleans hanno di fronte sfide enormi e l’azione di governo deve essere il catalizzatore della ricostruzione, non un ostacolo. Comunque, un approccio troppo capillare teso ad emanare norme e regole può essere egualmente pericoloso per un futuro sostenibile di New Orleans. È mia opinione che la chiave stia nel legare processi di pianificazione efficienti e possibilità di regole meno rigide.

Dobbiamo consentire eccezioni ad alcune procedure, verificato che i risultati siano coerenti ad un piano locale. Nello stesso modo, le norme di pianificazione urbanistica e edilizie locali devono essere coerenti al piano generale di ricostruzione. Si tratta di due percorsi che devono lavorare insieme senza soluzione di continuità, altrimenti si rischia di produrre un processo di ricostruzione a macchie di leopardo.

I componenti delle presenti Sottocommissioni conoscono meglio di chiunque altro il ruolo vitale dei trasporti nel funzionamento delle città. I trasporti saranno un elemento chiave nella riorganizzazione di New Orleans, e occorre una risposta federale in questo campo. Occorre congratularsi con la Federal Transit Administration, che è immediatamente entrata in azione offrendo risorse operative agli uffici locali per ripristinare il servizio. Anche l’assenza di valide alternative di mobilità per gli abitanti, ha contribuito a determinare le dimensioni della crisi. La risposta federale e la pianificazione locale dovranno lavorare a promuovere attivamente una maggiore scelta e possibilità di spostamenti a New Orleans.

Dato che le questioni dei trasporti sono tanto importanti, dovrà essere fornito sostegno ulteriore all’agenzia metropolitana di pianificazione e autorità dei trasporti pubblici, non solo per ripristinare in pieno il servizio, ma anche per prendere in esame i problemi resi evidenti dal disastro, come la protezione delle infrastrutture chiave o l’aumento delle alternative di mobilità collettiva.

Occorre costruire alloggi temporanei come parte del processo di ricostruzione di lungo periodo delle città, in modo tale che chi torna possa, per quanto possibile, iniziare a vivere e riprendere coi propri vicini. Si deve mettere a disposizione un finanziamento pubblico per urbanisti a livello di città e di quartiere, perché assistano gli abitanti ad organizzare e finanziare la propria ricostruzione, offrano la possibilità di sviluppare strategie creative per migliorare i quartieri e realizzare zone per gli evacuati, costituiscano un collegamento fra abitanti e amministrazioni locali.

La riduzione o eliminazione dei potenziali rischi naturali deve essere inserita nel processo di ricostruzione, per rendere le città più sicure. Incoraggiamo il governo federale a diventare un riferimento più costante nella promozione di uno sviluppo più sicuro. Un’efficace prevenzione degli eventi calamitosi e misure di mitigazione degli impatti, possono realizzarsi solo con investimenti adeguati e mirati in infrastrutture, per tutte le città e particolarmente per questa regione.

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Sapete, sono appena stato nella mia città di Shreveport, Louisiana, per la riunione annuale della locale sezione APA. Il titolo di quello speciale convegno era: Planning for Prosperity: Opportunities in Post Katrina Louisiana, e racconta molto meglio di parecchi libri l’atteggiamento locale, e insieme la grande occasione e responsabilità che abbiamo oggi. Noi, urbanisti, legislatori, uomini d’affari, professionisti nei settori pubblico e privato, abbiamo l’opportunità di ricostruire New Orleans in modi che creino una vera prosperità. Possiamo collaborare a far sì che da questo grande sforzo nazionale possano nascere città di valore durevole nel tempo.

Credo che lavorando insieme, con una visione complessiva dell’area, possiamo costruire una città riuscita nel lungo termine, dal punto di vista della prosperità economica, sociale, politica. Non si tratta di fare un rabberciamento affrettato. I nostri sforzi devono mirare ad effetti permanenti e duraturi. È per questo preciso motivo, che dobbiamo affrontare il processo di ricostruzione in modo sistematico e comprensivo, accogliendo via via voci e bisogni della comunità locale. La ricostruzione richiede partecipazione continua da parte di tutti i componenti della comunità, indipendentemente dalla loro attuale collocazione.

Storicamente, gli urbanisti sono stati all’avanguardia nella progettazione di spazi e metodi che assicurino sicurezza stimolando vitalità e senso comunitario. È un gesto di riequilibrio. Siamo pronti a continuare nel nostro importante ruolo di fronte alle nuove sfide che aspettano le città. L’APA proseguirà nel dedicare risorse ad uno sforzo che dovrà essere commensurato alle sfide e opportunità offerte da questo disastro senza precedenti.

Il nostro congresso annuale raduna 5-6000 persone. Siete invitati a partecipare alla nostra prossima riunione di New Orleans del 2010. Grazie.

Nota. La versione originale di questa deposizione è disponibile al sito Amercan Planning Association ; di seguito scaricabile il file PDF di questa traduzione (f.b.)

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