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Lo scritto di Roberto Camagni riprende e sviluppa una delle lezioni tenute alla seconda edizione della Scuola di eddyburg (2006). Il testo visibile sul monitor non compende: le tabelle e le figure, l’intera parte dedicata al confronto tra Milano e Monaco di Baviera e la bibliografia. Il testo integrale è scaricabile in formato .pdf (in calce)

Premessa

La città è innanzitutto un grande bene pubblico, fatto di strade, parchi, stazioni, aeroporti, reti di mobilità e di comunicazione, servizi, tutti elementi che implicano una spesa pubblica, nazionale o locale, in conto capitale o in conto corrente.

Essa può essere anche considerata un “bene di club” - una categoria intermedia fra i beni pubblici, che sono a disposizione di tutti e per i quali non esiste una “rivalità” nell’uso, e i beni privati (tipicamente “rivali”) - in quanto la sua disponibilità:

- avvantaggia chi è socio del club, e cioè nel caso della città, innanzitutto gli stockholder urbani (proprietari), e poi in modo decrescente i residenti e i city-users, ma in modo limitato gli esterni;

- fornisce una utilità proporzionale alla dimensione del club (“effetto rete” o “esternalità di rete”, tipico ad esempio dei soci di un network telefonico); nel caso della città, questo effetto deriva dalla presenza di economie di agglomerazione [1].

Ad essere ancora più precisi, possiamo dire che la città è un bene “collettivo”, creato e definito da investimenti e decisioni sia pubbliche che private.

Da tutto ciò segue una conseguenza importante: il valore economico delle sue singole parti non è determinato dall’azione singola, ma dall’azione collettiva, esterna al singolo attore, dal fatto cioè che si verificano sinergie e esternalità incrociate con tutte le decisioni – localizzative, di investimento, di gestione – che avvengono o sono avvenute nell’intorno fisico del luogo in cui la decisione individuale si è realizzata.

Come si vedrà, questo elemento risulta estremamente importante allorché si tratta di reperire le risorse per effettuare gli investimenti pubblici che fanno vivere la città. Il tramite, logico prima che economico, è costituito dalla rendita fondiaria urbana, il valore dell’unità fondiaria o immobiliare su cui si realizza l’investimento privato: se tale valore infatti dipende in misura rilevante dagli investimenti che la pubblica amministrazione realizza nel contesto urbano nonché dagli investimenti che altri soggetti privati realizzano nell’intorno, esso può essere almeno parzialmente tassato.

Il problema del finanziamento degli investimenti pubblici è divenuto cruciale negli anni recenti, in presenza della cosiddetta crisi fiscale dello stato: per effetto di numerosi elementi – globalizzazione, interventi pregressi di finanza pubblica allegra che hanno creato un vistoso debito pubblico, espansione delle tipologie di beni pubblici cruciali nella nuova fase di sviluppo ma anche necessità di alleggerire il peso fiscale sulle attività economiche – lo stato non è più in grado di realizzare tutti gli investimenti pubblici che appaiono necessari (Camagni, 1999).

Questo lavoro intende esplorare le modalità con le quali oggi è possibile finanziare la realizzazione di beni pubblici, senza incrementare il debito pubblico esistente: attraverso la tariffazione dell’uso e la realizzazione a carico di privati (project financing), o attraverso varie forme di tassazione degli incrementi di valore patrimoniale che si vengono a manifestare per effetto degli investimenti pubblici stessi o in occasione di trasformazioni urbane rilevanti.

Quest’ultimo caso viene affrontato alla fine del lavoro, attraverso una analisi comparativa delle modalità di tassazione immobiliare (oneri di urbanizzazione e concessori) nel caso dei grandi progetti di trasformazione urbanistica a Milano e a Monaco di Baviera. Emerge nel caso milanese una forte differenza, a favore del privato e a sfavore del pubblico, rispetto al caso tedesco, una differenza facilmente estendibile al caso italiano.

I beni pubblici tariffabili e il project financing

L’intero ragionamento sul finanziamento degli investimenti pubblici prende le mosse dall’evidenza della crisi del modello tradizionale, che vedeva lo stato farsi carico di tutte le anticipazioni necessarie, stampando moneta (fino agli anni ’70) o emettendo titoli del debito pubblico. Lo sviluppo economico che ne seguiva, generando redditi (profitti, salari, rendite) e consumi, permetteva, attraverso la tassazione, di ripianare il debito (Fig. 1).

La crisi fiscale dello stato, generata dall’accumularsi esplosivo di deficit di bilancio pubblico e dal costo del conseguente servizio del debito per interessi, ha generato una impossibilità per lo stato di contrarre nuovi debiti per finanziare gli investimenti pubblici. Di qui la ricerca di modalità nuove di finanziamento dei pur necessari interventi, nell’attesa di generare risparmio pubblico sufficiente attraverso la riduzione delle spese correnti.

Al fine di identificare una delle possibili soluzioni, facendo intervenire il privato nel finanziamento delle opere pubbliche, occorre costruire una tipologia dei beni pubblici. Essi si distinguono dai beni privati per due caratteristiche essenziali: la non-rivalità nell’uso (la mia fruizione di una piazza non implica la non-fruizione di altri, se non vi è congestione) e la non-escludibilità (impossibilità tecnica di escludere selettivamente qualcuno dall’uso). Emergono quattro categorie di beni (Fig. 2):

- i beni privati, escludibili e rivali,

- i beni pubblici puri, non-escludibili e non-rivali,

- i beni tariffabili ( toll goods), escludibili e non-rivali,

- i beni comuni, non-escludibili ma rivali.

Due categorie intermedie emergono con piena rilevanza territoriale. Innanzitutto i commons o beni comuni, che sono disponibili in quantità limitata ma che, non avendo un costo, vengono spesso sperperati (“la tragedia dei commons”): aria, acqua, balene e pesci nei mari e nei laghi, ma anche suolo e paesaggio. Le possibili risposte risiedono alternativamente in un forte controllo pubblico, nella privatizzazione ove possibile (secondo gli insegnamenti di Coase: un privato gestore di un lago pescoso non consente l’esaurimento delle trote), o in un faticoso ma virtuoso processo di reidentificazione collettiva con il patrimonio e le identità locali (Magnaghi, 2005).

La seconda categoria è costituita dai beni tariffabili, in quanto tecnicamente escludibili: grazie a quest’ultima caratteristica infatti, tali tipi di beni possono essere soggetti a tariffazione, e dunque possono essere assegnati ai privati con un contratto di concessione di costruzione e gestione. Il settore pubblico in questo caso non deve impegnare risorse finanziarie ma solo controllare il rispetto degli obblighi contrattuali sulle caratteristiche delle opere, la loro manutenzione e le modalità di tariffazione. E’ chiaro che in questo caso l’utente deve pagare un prezzo per l’uso dei beni (autostrade, ponti, infrastrutture in generale), un prezzo che garantisca la profittabilità privata dell’operazione; il privato, naturalmente, non regala nulla, anche se apparentemente fornisce un bene pubblico.

E’ per questa categoria di beni che, al di là del tradizionale contratto di concessione, è possibile fare ricorso a nuove fattispecie contrattuali come la cosiddetta finanza di progetto (project finance) (Carbonaro, 1993; Camagni, Mutti, 1994; Imperatori, 1998; Medda, Carbonaro). Si tratta di una tecnica di finanziamento di un progetto basata sulla certezza del flusso di cassa che esso può generare al fine del ripagamento del servizio del debito e sulla “bontà” del progetto stesso, anziché su garanzie patrimoniali fornite dal promotore/debitore. In sostanza, si passa dal concetto tradizionale di “finanziamento per un progetto” a quello di “finanziamento di un progetto”: non si valuta da parte del finanziatore la capacità di rimborso del promotore e la sua solidità patrimoniale, ma le prospettive reddituali del progetto (Tab. 1).

Operativamente, la finanza di progetto prevede la creazione di una società di progetto (“veicolo finanziario”), giuridicamente distinta rispetto ai singoli promotori, che cura la realizzazione dell’iniziativa, e una rete di attori, pubblici e privati, con compiti complementari: finanziatori, imprese di costruzione, fornitori, enti pubblici locali e non che garantiscono contratti di concessione, impegni normativi e di servizio e contributi a fondo perduto (Fig. 3). La struttura contrattuale fra questa rete di attori, e in particolare fra attori pubblici e attori privati, è assai più complessa di un montaggio finanziario tradizionale; per questo è essenziale un rapporto di fiducia reciproca.

I vantaggi di questa forma di realizzazione, al di là del fatto che non impegna l’ente pubblico in un investimento diretto, sono costituiti dal fatto che in generale l’operatore privato è più efficiente nella realizzazione dell’investimento, in quanto apprezza in modo assai più stringente il costo del tempo. D’altra parte, il privato deve essere messo nella condizione di assumere interamente il rischio del progetto: l’eventuale supporto pubblico per l’evidenza di una insufficiente redditività deve essere definito ex-ante e non assumere la forma di garanzia contro rischi di aumenti di costi o di minore domanda. In quest’ultimo caso infatti (project financing “sporco”, spesso utilizzato in Italia) viene meno l’incentivo all’efficienza privata, e dunque il vero vantaggio economico di ricorrere a questa forma di finanziamento.

Nel caso infine che le tecnostrutture pubbliche di realizzazione diano sufficiente garanzia di efficienza, il project finance appare inutile e maggiormente costoso: si aggiunge infatti il profitto del promotore privato ai costi complessivi da sostenere, e il maggiore costo per interessi rispetto a una grande struttura pubblica. Per questa ragione ad esempio SNCF non ha fatto ricorso a questa tecnica nella realizzazione delle nuove linee TGV in Francia (salvo il caso del tunnel sotto la Manica).

Tasse di scopo e recupero di plusvalori fondiari

Il ricorso alla finanza di progetto, o ai metodi più tradizionali di concessione di costruzione e gestione per le grandi infrastrutture (beni pubblici escludibili, come abbiamo visto), non esaurisce le modalità di finanziamento dei beni pubblici urbani. Come è possibile vedere in Figura 4, altri strumenti a carattere fiscale sono disponibili, che presentano solide giustificazioni dal punto di vista economico.

Al di là di possibili trasferimenti pubblici da parte del governo centrale, a fronte di riduzioni di esternalità negative o per favorire esternalità positive, altri due tipologie di interventi sono percorribili:

- la tassazione di eventuali produttori di diseconomie esterne (pensiamo alla utilizzazione di auto privata in città, che può essere tassata con tasse di scopo, con tariffazione della sosta o dell’attraversamento – parking pricing e road pricing ) e la utilizzazione diretta delle entrate per approntare modalità alternative di mobilità ( earmarking), e

- la tassazione dei plusvalori fondiari, effettivi o potenziali, che derivano dalle decisioni di fornitura di beni pubblici urbani (in genere infrastrutture di mobilità, ma anche servizi o interventi sulla qualità urbana).

Per comprendere appieno questa seconda fattispecie, è necessario un breve excursus sulla teoria della rendita fondiaria urbana.

Beni pubblici e rendita fondiaria.

E’ importante subito comprendere che la rendita fondiaria urbana, intesa come il valore di scambio per l’uso del suolo, è ineliminabile: essa infatti si manifesta come la controparte in termini di valore dei vantaggi localizzativi offerti da ciascuna particella di suolo urbano. In conseguenza, essa è indipendente dal regime di proprietà dei suoli, anche se, in diversi regimi di proprietà, cambiano le modalità della sua appropriazione (utilità individuali o rendita burocratica di chi è addetto alla allocazione delle risorse territoriali: in entrambi i casi, essa è facilmente monetizzabile, a fronte, appunto, dei vantaggi localizzativi).

Infine, la rendita fondiaria urbana costituisce strumento potente di allocazione “ottimale” delle attività nel territorio. Si dimostra infatti facilmente come uno dei modelli storici maggiormente rilevanti in questo caso, il modello di von Thünen, non solo interpreti insieme la struttura delle localizzazioni settoriali e il profilo della rendita dal centro alla periferia, ma indichi contemporaneamente il modello insediativi ottimale dal punto di vista, duplice, della massimizzazione del reddito complessivo e della minimizzazione dei costi di trasporto [2].

I vantaggi localizzativi a loro volta sono creati dalla localizzazione dei seguenti asset:

- i beni pubblici di accessibilità,

- i beni pubblici di qualità urbana e ambientale,

- i servizi pubblici localizzati,

- la dimensione complessiva della città e la sua generale attrattività (efficienza, qualità della vita, identità).

I primi tre casi stanno alla base della rendita differenziale, a carattere micro-territoriale, specifica di ogni unità spaziale; il quarto sta alla base della formazione della rendita assoluta, a carattere macroterritoriale, che si manifesta su tutte le unità di suolo urbano in modo simile.

Dunque: i vantaggi localizzativi (e la conseguente rendita fondiaria)sono creati dagli investimenti pubblici, dalla pianificazione e da quello che gli economisti classici chiamavano lo “sviluppo generale della società”. In conseguenza la rendita fondiaria sarebbe “un reddito non guadagnato”, che deriva da quanto accade per decisione in parte pubblica e in parte privata nello spazio circostante di ogni unità territoriale.

Importante è la conseguenza pratica che segue da questo ragionamento: come affermava Alfred Marshall alla fine dell’ottocento, se la rendita fondiaria fosse tassata al 100%, ciò costituirebbe uno sconvolgimento politico maggiore, ma dal punto di vista economico non genererebbe alcun effetto, “il vigore dell’industria e dell’accumulazione non ne sarebbe necessariamente danneggiato”[3].

Da tutto quanto precede, si può derivare la giustificazione per il secondo tipo di interventi, citato nel paragrafo precedente, per finanziare la produzione di beni pubblici urbani: la tassazione dei plusvalori fondiari derivanti dall’offerta e la localizzazione di nuovi beni pubblici (in una percentuale da definire “politicamente”)[4].

Questo tipo di interventi può assumere tre forme parzialmente differenti (Camagni, 1999):

- il “ recapture” di plusvalori patrimoniali immobiliari derivante dalla fornitura di beni pubblici localizzati (ad esempio, nuove stazioni lungo linee di trasporto pubblico metropolitano); le betterment levies inglesi e i contributi di miglioria specifica introdotti per qualche anno nella nostra legislazione negli anni ’60 appartengono a questa categoria [5];

- la tassazione dei developer, che trasformano terreni urbani divenuti appetibili grazie alla sopravvenuta (maggiore) centralità, anche attraverso procedure negoziali divenute normali nella maggior parte dei paesi avanzati;

- la internalizzazione di esternalità: con questo termine si intende la valorizzazione di terreni adiacenti alle aree di nuova accessibilità (nuove stazioni) attraverso la concessione di permessi di costruire edifici a varia funzionalità, in modo da poter generare plusvalori fondiari e immobiliari rilevanti da far rientrare nella disponibilità pubblica attraverso una tassazione. Nella maggior parte dei casi internazionali, il developer è costituito qui da una grande agenzia pubblica, ma niente vieta che si tratti di privati con i quali avviare una negoziazione pubblico/privato (come nel caso, ricordato in Fig. 4, parte di una procedura complessa di project financing).

Dunque, si procede in genere alla tassazione della rendita fondiaria in presenza di trasformazioni, cioè allorché si manifesta (e il privato si appropria di) una differenza fra la rendita potenziale e la rendita attuale:

- perché gli usi storici sono divenuti impropri (aree dismesse)

- per effetto del degrado cumulativo (“ rent gap theory”)

- per urbanizzazione di aree agricole perturbane

- per processi di riqualificazione del centro storico

- per effetto della predisposizione di nuovi beni pubblici (metro, ..).

Si chiede al privato di partecipare genericamente ai costi pubblici di manutenzione della città, più specificamente ai nuovi costi pubblici che sono implicati dalle trasformazioni (oneri di urbanizzazione) o agli investimenti pubblici che valorizzerebbero il patrimonio privato.

[omissis]

Conclusioni

In questo lavoro si sono volute esplorare le diverse forme possibili di finanziamento della “città pubblica” in epoca di crisi della finanza locale. Si sono analizzate le diverse forme di project financing e soprattutto le diverse forme di “ri-cattura” dei plusvalori fondiari e immobiliari conseguenti alle operazioni di trasformazione urbanistica. Tali plusvalori emergono proprio per effetto della costruzione dell’insieme di opere e infrastrutture pubbliche (oltre che dei conseguenti investimenti immobiliari privati), in presenza di un “non-lavoro” da parte dei proprietari: emerge così una giustificazione forte perché una parte di essi possa ritornare al pubblico proprio per finanziare le opere.

Si sono poi analizzate le modalità con cui in Italia si utilizzano gli oneri di urbanizzazione allo scopo di realizzare le normali infrastrutture e sovrastrutture, e si è effettuato un confronto fra un Programma Integrato di Intervento a Milano e simili programmi negoziati fra pubblico e privato a Monaco di Baviera. Appare evidente che a Milano l’introduzione di una procedura di negoziazione urbanistica - se pure ha certamente consentito di flessibilizzare e accelerare i processi di trasformazione - non ha in nessun modo alterato la storica sotto-tassazione delle trasformazioni urbane e degli incrementi di valore generati. Ad essere ottimisti, il pubblico ottiene solo un terzo di quanto realizzato a Monaco.

Questo appare dunque un campo aperto al miglioramento delle pratiche negoziali da parte dei comuni, spesso colpevolmente inerti o incapaci di difendere adeguatamente l’interesse pubblico; ma anche un campo in cui sarebbe essenziale il supporto di una nuova legislazione urbanistica nazionale e di nuove regole sulla tassazione delle rendite e dei plusvalori immobiliari.

[1] Si veda al proposito il Cap. 1 del mio manuale di economia urbana: Camagni, 2000.

[2] Si veda al proposito Camagni, 2000, cap. 6.

[3] Interessante notare come, in successive ristampe dei suoi Principles, Marshall abbia censurato questa frase: era intervenuta nel frattempo l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che scomunicava, insieme al marxismo, il “georgismo”, la dottrina che prevedeva un’unica imposta del 100% sulla rendita e l’abolizione delle imposte su profitti e salari. Si veda Camagni, 2000, p. 193.

[4]La cosiddetta “regola d’oro” della finanza locale afferma che, in equilibrio, la spesa in beni pubblici eguaglia il “surplus” della città (differenza fra valore prodotto e costi) e questo eguaglia (è assorbito da) la rendita fondiaria.

[5] Il limite di questa tipologia consiste nel fatto che si tassano plusvalori potenziali ma non realizzati su alcun mercato (almeno finché il proprietario non aliena il suo immobile rivalutato), e questo dà luogo a probabili e costosi contenziosi.

Eddyburg.it organizza la seconda edizione della scuola estiva di pianificazione dedicata quest'anno al tema della costruzione pubblica della città.

La scuola si terrà dal 26 al 30 settembre 2006, presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, Parco archeominerario di San Silvestro Campiglia Marittima (LI).

Con essa si intende:

- fornire i presupposti, i riferimenti e gli obiettivi del governo della città e del paesaggio;

- informare sull’evoluzione del quadro legislativo e istituzionale;

- promuovere un confronto con le esperienze e tendenze europee.

Il tema

Dalla casa ai trasporti. Dall’ambiente ai servizi. Il soggetto pubblico ha visto ridursi progressivamente il proprio ruolo, ritirandosi non solo dall’intervento diretto, ma anche dall’esercizio di indirizzo e regolazione. In Italia, questa riduzione è stata accettata da destra e sinistra, vuoi per un convincimento culturale, vuoi per le inefficienze dell’amministrazione pubblica. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze, sociali e territoriali, e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall’ambiente e dal paesaggio.

L’urgenza di un recupero della costruzione pubblica della città (o del territorio, qui inteso in modo equivalente) appare non più rinviabile. E’ in questo senso che possiamo tornare a parlare di “città pubblica”, concentrando l’attenzione sugli strumenti necessari per mantenere, ampliare o costruire il patrimonio di beni pubblici.

Come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si tenterà di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.

Il programma

Martedì 26 settembre:

Arrivo e registrazione

Mercoledì 27 settembre

m - Introduzione al corso: le parole chiave

m - Una nuova stagione di politiche abitative: la risorsa suolo per il diritto alla casa

p - Una nuova stagione di politiche per l’ambiente

Giovedì 28 settembre

m - Muoversi e sostare: idee e non opere per una città a misura dei cittadini.

p - a disposizione per lavori di gruppo

Venerdì 29 settembre

m - Una nuova stagione di politiche urbanistiche nazionali e regionali

p - Sostenere l’intercomunalità

Sabato 30 settembre

m + p - Seminario aperto. Chi paga la città pubblica? Il ruolo dell’economia sociale.

I docenti

Edoardo Salzano, già presidente dell’INU e già preside della facoltà di pianificazione del territorio dell'IUAV, direttore di eddyburg.it

Giovanni Caudo, ricercatore, Università Roma Tre.

Gabriele Rabaiotti, ricercatore, Politecnico di Milano.

Giancarlo Storto, già Segretario del CER.

Francesca De Lucia, architetto.

Maria Berrini, Istituto ricerche Ambiente Italia. Dario Franchini, dirigente provincia di Pisa.

Massimo Zucconi, presidente di Parchi Val Di Cornia spa.

Mauro Baioni, urbanista.

Maria Rosa Vittadini, professore, Università IUAV Venezia.

Armando Barp, professore, Università IUAV Venezia.

Elena Camerlingo, dirigente del settore trasporti - Comune di Napoli .

Maurizio Sani, dirigente del settore urbanistica Regione Emilia Romagna.

Angela Barbanente, urbanista, assessore al territorio - Regione Puglia.

Maria Cristina Gibelli, professore, Politecnico di Milano.

Roberto Camagni, professore, Politecnico di Milano.

Piero Cavalcoli, dirigente del settore urbanistica - Regione Puglia.

Francesco Erbani, giornalista de "la Repubblica".

Pierluigi Sullo, direttore di"Carta".

Oscar Mancini, Segretario della CGIL – Vicenza.

ISCRIZIONI

Modalità

Alla Scuola estiva di Pianificazione sono ammessi 30 partecipanti, ai quali sarà rilasciato un attestato di frequenza.

Per ricevere maggiori informazioni, o comunicare la propria volontà di adesione, vi invitiamo a rivolgervi ai recapiti sotto indicati, indicando nome, cognome, qualifica, e-mail, telefono.

Seguirà l’invio del modulo di conferma da compilare in ogni sua parte e da rispedire unitamente alla ricevuta di versamento di un acconto di 150,00 €.

Costi di partecipazione

Il costo di partecipazione è pari a 395 € + IVA e comprende la partecipazione alle lezioni e alle altre attività didattiche, il materiale didattico, i coffee break e il pranzo. Sono esclusi gli spostamenti, il pernottamento e la cena.

Studenti e urbanisti under-30 possono usufruire di una tariffa agevolata.

Pernottamento

Chi lo desidera può pernottare presso l’ostello di Palazzo Gowett, a pochi passi dalla sede del corso. Sono disponibili stanze doppie, triple o quadruple a 32 € per persona (trattamento di mezza pensione, escluso il servizio alberghiero).Altre soluzioni di alloggio saranno fornite su richiesta.

La sede

Le attività della Scuola si svolgeranno presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima

L’area dei Parchi è situata a circa 80 km a sud di Livorno ed è attraversata dalla SS1 variante Aurelia che collega Rosignano a Civitavecchia.

I Parchi sono segnalati alle uscite di San Vincenzo nord, San Vincenzo sud, Piombino/Venturina, Riotorto/Vignale.

Per il Parco archeominerario di San Silvestro, l’uscita consigliata è San Vincenzo sud.

Dopo l’uscita seguire le indicazioni per Campiglia Marittima. Il Centro Villa Lanzi è indicato da un cartello bianco sulla sinistra, a pochi km dal paese.

Informazioni e pre-iscrizioni

Didattica e contenuti del corso: Mauro Baioni, tel: +39 335 5865736,
mabaion@tin.it

Iscrizioni e aspetti amministrativi: Monica Porciani, tel: +39 348 8883163,
villalanzi@parchivaldicornia.it

Mauro Baioni, Direttore di questa scuola, mi ha proposto di aprire questa sessione fornendo qualche elemento a proposito di un certo numero di “parole chiave”.

Parole rilevanti, sulle quali in eddyburg sono raccolte appropriate definizioni, che è utile ricordare qui, anche per costruire una sorta di lessico comune nei nostri colloqui. Le parole su cui vi intratterrò sono: pianificazione, democrazia, partecipazione, sussidiarietà, governance, sviluppo, beni e merci, lavoro, rendita.

Pianificazione

Vorrei partire dalla parola “pianificazione” – termine che adopero più spesso e più volentieri di “piano”. Naturalmente intendendo la pianificazione della città e del territorio. Io la definisco così:

“Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica (non faccio nessuna distinzione tra l’una e l’altra) quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.”

Per completare questa definizione, occorre precisare il significato che assumono i termini che ho adoperato per qualificarla. In primo luogo, qual è l’oggetto della pianificazione:

“Sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione.

Dove per trasformazioni fisiche intendo quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali intendo quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono. A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere secondo me diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.”

Prima di aggiungere un altro paio di definizioni vorrei precisare perché distinguo piano e pianificazione .

“In termini molto sintetici, occorre passare cioè dall'attuale concezione della pianificazione, centrata sull'idea di "piano" e consistente in una serie di piani che si succedono a salti di tempo, ciascuno dei quali viene, volta per volta, attuato, a una concezione della pianificazione basata sull'idea di "processo", e quindi su un succedersi, sistematico, continuo e cadenzato, di atti di pianificazione nei quali il momento del piano, quello dell'attuazione e quello della verifica ciclicamente si susseguono e - per così dire - si nutrono l'uno dell'altro.”

Ovviamente questa definizione comporta che gli atti e i documenti della pianificazione non vengano redatti da soggetti esterni all’amministrazione, ma prodotti al suo interno, con strutture adeguatamente qualificate e sorrette da competenze esterne.

Ecco altre due, definizioni, non contraddittorie né tra loro né con la mia. Quella di Antonio Cederna, che accentua l’aspetto morale della pianificazione urbanistica:

“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese.”

Giorgio Ruffolo è un economista. In un importante saggio sulla necessità di una politica ambientale ha dato una definizione che mi sembra molto bella della pianificazione territoriale, che vi propongo:

“Il quarto pilastro di un ambientalismo moderno è la pianificazione territoriale. E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico.”

La definizione di Ruffolo introduce il concetto di bellezza: “dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa”, produrre “valore aggiunto estetico”. Ma non si tratta della bellezza dell’oggetto: è una bellezza d’insieme. E nella differenza tra attenzione all’oggetto e attenzione all’insieme sta il fondo della differenza tra due mestieri che, nel nostro paese (a differenza di moltissimi altri) sono molto vicini e quasi confusi: l’urbanista e l’architetto. A me sembra molto chiaro un passo di Itali Calvino, che cito spesso per rispondere al quesito: che differenza c’è tra l’urbanista e l’architetto. Ecco il passo di Calvino.

“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.”

L’urbanista si occupa dell’arco, l’architetto delle pietre. L’architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L’urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un’armonia e una funzionalità complessive. L’architetto disegna la casa dell’uomo, l’urbanista la casa della società.

Democrazia

“Disegnare la casa della società” significa esprimere quest’ultima. Da quando nasce l’urbanistica moderna ciò significa che è essenziale il legame tra urbanistica e pianificazione da un lato, società e democrazia dall’altro lato.

La democrazie non è una formula astratta, è un regime molto concreto, che è giunto a maturazione in un determinato processo storico e si è svolto in una determinata parte del mondo.

Della democrazia vorrei riportare innanzitutto una bella definizione, spirituale, di Norman Mailer:

“La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.

“Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.”

La democrazia che conosciamo non è l’unica esistita,né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi teniamocela, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione. Ricordiamo soprattutto che essa è stata messa in crisi da alcune cause precise, che Canfora sintetizza così:

“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo.”

Solo se siamo consapevoli dei suoi limiti ed errori – delle sue cause - potremo: 1) tentar di migliorarla nell’applicazione, 2) non interrompere la ricerca di un sistema migliore.

Sulla storia e sulla crisi della democrazia esistono intere biblioteche. Io consiglio il libro di Luciano Canfora, Democrazia, Storia di una ideologia, editore Laterza. Ne trovate qualche stralcio in eddyburg. Comunque ricordate sempre che le istituzioni hanno senso solo nel loro contesto (storico, territoriale, economico). Perciò non ha senso parlare di esportare istituzioni, senza che prima abbiano maturato le condizioni che lo rendano possibile. Aver dimenticato questo è uno degli errori della globalizzazione (termine sul quale dovremo prima o poi soffermarci).

Parlare di democrazia ci rinvia al altre questioni:le istituzioni attraverso le quali la democrazia rappresentativa si esprime, e il rapporto tra di esse; il rapporto tra le istituzioni (e in generale la democrazia) e la società. Incontriamo subito tre parole sulle quali è opportuno riflettere: sussidiarietà, governance, partecipazione.

Sussidiarietà

In un regime democratico rappresentativo esistono diversi livelli di governo. In Italia, Stato, regione, provincia o città metropolitana, comune. Si tratta di individuare un principio che consenta, in linea generale, di attribuire competenze ragionevolmente distinte ai diversi livelli. Questione rilevantissima per la pianificazione. Questo principio è stato individuato nella sussidiarietà.

Esistono due modi di intendere il principio di sussidiarietà. Il primo è demagogico e devastante, ed è quello che si traduce nello slogan “tutto il potere al basso”. Malauguratamente è l’interpretazione dominante in Italia. Eco il testo che la definisce:

“attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a).”

L’altra interpretazione è quella originaria, propria della cultura europea. Si può sintetizzare nella frase “a ciascuno degli istituti territoriali (Unione europea, stati nazionali, regioni,province, comuni) tutte e sole le decisioni relative a quegli oggetti ed aspetti che, nell’interesse generale, a quel livello possono più efficacemente essere governati”.

In appendice troverete un testo che argomenta ampiamente la questione.

Governance

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno. Come moltissimi altri termini, viene usato spesso in modo impreciso, o addirittura distorto. In appendice trovate un testo nel quale ho cercato di precisare il significato e i modi d’uso della governance.

Molto sinteticamente vorrei sottolineare:

- che nella governance è decisivo stabilire quali sono gli attori che si siedono attorno al tavolo della concertazione, quali sono i rispettivi ruoli e interessi;

- che vanno in particolare distinti, e posti in una scala gerarchica, i portatori d’interessi generali, d’interessi diffusi, d’interessi economici e, tra questi, quelli che esprimono la produzione e quelli che esprimono la rendita;

- che particolare attenzione va posta tra i portatori d’interessi forti e portatori d’interesse deboli;

- che non possono essere attribuiti a sedi multiple, in cui siedono portatori d’interessi generali e portatori d’interessi particolari, responsabilità che competono a sedi istituzionali, cioè portatrici d’interessi generali;

- che la governance non è alternativa al government: la ricerca del consenso e della condivisione delle scelte non esclude, ma integra ed arricchisce il momento della decisione pubblica e autoritativa.

Partecipazione

Per l’urbanistica la partecipazione è una chimera raramente raggiunta. Per la democrazia la partecipazione è la condizione irrinunciabile e, quando non c’è, la testimonianza della crisi. La partecipazione è difficile, se non impossibile, quando domina l’ideologia dell’arricchimento individuale, pervasivamente e vittoriosamente propagandata da tutto il mondo dei massmedia, e in primo luogo da tutte le reti televisive.

Ciò apparirà chiaro se teniamo presente la bella definizione di Manuel Castells:

“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va “aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione

“Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.”

In eddyburg troverete una ottima “visita guidata” ai testi raccolti nel sito, redatta da Carla Maria Carlini, e nell’appendice un mio breve testo.

Economia

La cultura urbanistica ha smarrito la consapevolezza dell’importanza dell’economia nella vita e nei destini della città e del territorio. Eppure la città, nel suo sorgere come invenzione dell’uomo e nel suo affermarsi (come oggi nel suo dissolversi tra megalopoli e sprawl), è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.

Non possono mancare perciò alcune parole-chiave rilevanti a questo proposito: sviluppo, lavoro, rendita sono essenziali.

Sviluppo

Nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità.

Consistenti correnti di pensiero, che cominciano a tradursi in pratiche, hanno rivelato che questo sviluppo è arrivato a un punto mortale. Si sono manifestati i limiti delle risorse disponibili sul pianeta, e la loro esistenza configge con la natura stessa di questo sistema economico, obbligato alla crescita indefinita.

L’espressione più felice è forse quella di Kenneth Boulding

“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”.

Beni e merci; valore d’uso e valore di scambio

L’operazione culturale che ha dovuto essere compiuta per raggiungere un simile risultato è stata quella di ridurre ogni bene e merce,e di cancellare il valor d’uso riducendo ogni valore a valore di scambio. È allora importante tenere ben presenti queste distinzioni.

Il bene è un oggetto (o un servizio, o un sentimento) che ha valore di per se,per l’uso che ne fa l’essere umano; la merce è un oggetto (o un servizio) la cui funzione è solo quella di essere scambiato con un altro oggetto o servizio. Il bene è caratterizzato da identità, la merce da fungibilità: il fungibile universale è la moneta, espressione sublimata della merce. Il valor d’uso è riferito ovviamente al bene, il valore di scambio alla merce.

Questa economia nella quale viviamo riconosce il valore dei beni solo riducendoli in merce. Il che spesso significa eliminarne il valor d’uso, o attribuirne il godimento solo ad alcuni. Ma questa economia non è l’unica possibile: difendere oggi i beni (le coste e i boschi, i beni culturali sparsi sul territorio o sedimentati in essi e nelle città, i corsi d’acqua e le culture dei luoghi) ha senso anche perché tutela- in vista di una economia futura possibile -. Patrimoni che altrimenti sarebbero distrutti per sempre.

Lavoro

Anche il lavoro ha una duplice natura. È lo strumento per l’arricchimento interiore delle persone, per lo svolgimento d’una loro funzione sociale, oper l’espressione della sua identità. In questo senso è un bene. Ma è ridotto a merce quando comprato e venduto (preso e dato in affitto) per produrre altre merci. Cessa di avere un’identità, una personalità, una funzione umana (oppure la conserva solo marginalmente e opzionalmente), ed è finalizzato unicamente alla produzione di altra merce.

Ecco due belle definizioni di lavoro (Karl Marx, Capitale, 1867

“Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.

“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita.”

Rendita

Tra tutte le parole dell’economia quella che ha più incidenza per il territorio è indubbiamente la rendita. È grazie alla rendita, e al peso che essa ha nell’economia italiana, che quote rilevanti e del tutto ingiustificate del territorio vengono sottratte ai loro usi ragionevoli e trasformati in una “repellente crosta di cemento e asfalto”,come ripeteva Antonio Cederna. Che cos’è la rendita?

È una delle tre forme di reddito:il salario, remunerazione del lavoro, il profitto, remunerazione dell’impresa, la rendita, remunerazione della proprietà.

A differenza delle altre due forme di reddito, come ha scritto recentemente l’economista Giorgio Lunghini,

“la rendita non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà.”

Vediamo una definizione scientifica della rendita, quella di Claudio Napoleoni:

“Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:

1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;

2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi.”

Le tre forme di rendita esprimono differenti classi sociali. Al salario corrisponde l’operaio, proprietario della forza-lavoro. Al profitto corrisponde il capitalista, organizzatore della produzione che esercita comprando sul mercato le diverse componenti del capitale. Alla rendita corrisponde il proprietario degli immobili (aree ed edifici) adoperati nel processo produttivo.

Storicamente, la rivoluzione borghese (Inghilterra e Francia fine XVIII secolo, Germania metà XIX secolo) ha rappresentato la vittoria della borghesia capitalistica sulla proprietà fondiaria d’impronta feudale (ancien régime)

Una delle ragioni per cui l’Italia è distante dagli altri paesi europei è proprio l’incidenza della rendita,dovuta al fatto che la borghesia, giunta al potere in ritardo rispetto agli altri paesi europei, ha potuto prevalere solo alleandosi all’ancien régime, quindi alla rendita.

Paesaggio,ambiente, territorio

Mi piacerebbe a questo punto ragionare su altre parole, sulle quali si sono scritte cose molto interessanti anche se spesso confuse, adoperando i termini in modi molto diversi e attribuendo loro significati spesso scambiati: paesaggio,ambiente, territorio

Ma eddyburg ha ancora poco materiale a questo proposito, e alcuni di noi stanno pensando di preparare proprio a partire da queste parole la prossima scuola di Eddyburg: la terza edizione. Quindi, su queste parole rinviamo. Per ora, incamminiamoci sulla via della seconda edizione della scuola, e auguri a tutte e a tutti.

APPENDICE

Sussidiarietà

Salzano, Edoardo "Il principio di sussidiarietà", da Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)

Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino al completamento e al riordino del trasferimento e della delega delle competenze alle regioni, nel 1977. Fino alla ventata del “federalismo all’italiana” e delle “devoluzioni” il criterio che si cominciava ad adottare era quello di riferire le competenze a oggetti[1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”, ancor oggi celebrato a parole.

In Italia questo termine viene infatti adoperato spesso (come del resto il termine “sostenibilità”) in modo approssimativo. Nel linguaggio della Lega di Bossi, “sussidiarietà” significa tutto il potere al basso, il più lontano possibile da “Roma ladrona”. Nel linguaggio dei variopinti fautori (a destra, al centro e a sinistra) del “meno Stato più mercato”, significa delegare tutto il possibile ai privati. In un linguaggio più accettabile significa delegare ai livelli più vicini all’elettorato il maggior numero possibile di competenze. In realtà nella cultura europea il termine ha un significato alquanto diverso.

In omaggio al principio vichiano che “natura di cose altro non è che nascimento di esse” , è utile ricordare che il principio di sussidiarietà venne proposto da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, per individuare i poteri degli organismi sovranazionali europei distinguendoli da quelli dei governi nazionali: una definizione “dall’alto”, quindi, e non “dal basso”, come tutte quelle che circolano in Italia. Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992, in cui il lungo dibattito trovò sbocco e sistemazione. L’articolo 3b afferma:

“La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”

Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistema di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?

Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.

E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si vogliano rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.

La governance

Salzano, Edoardo, da “Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma”, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)

Come nasce

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati . Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni.

“[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale”

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

“un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti”

altri come le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica.

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

“la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali”.

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Non è vero che tutti gli attori sono uguali

Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.

Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Gli interessi privati

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio , funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

La partecipazione

Salzano, Edoardo, da “Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma”, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)

Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti

“se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia.”

Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,

“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.”

Per concludere che

“la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.”

Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.

Sostenibilità (sviluppo sostenibile), secondo l'ONU

Il testo originale del paragrafo 3, che contiene la definizione del termine “sviluppo sostenibile”, in due pagine del rapporto From One Earth to One World (Rapporto Brundtland) della World “Commission on Environment and Development”, pubblicato nel 1997 con il titolo Our Common Future, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1989. Trad italiana da Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988

L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ailoro. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato delta tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attivita umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono pero essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica

La Commissione e del parere che la diffusa povertà non sia piu inevitabile. La povertà non e soltanto un male in sè, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche e d'altro genere. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.

Lo sviluppo globale sostenibile esige che i più ricchi facciano `propri stili di vita in sintonia con i mezzi ecologici del pianeta, per esempio per quanto riguarda 1'uso dell'energia. Inoltre, gli incrementi demografici possono aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento dei livelli di vita; sicché, uno sviluppo sostenibile puo essere perseguito solo se I'entità della popolazione e l'incremento demografico sono in armonia pm il mutevole potenziale produttivo dell'ecosistema.

In ultima analisi, però, lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicché, a conti fatti, lo sviluppo sostenibile non puo che fondarsi sulla volontà politica.

Qualcuno ne ha parlato come di una "definizione di compromesso". In effetti, sebbene sia certamente un compromesso molto avanzato e una definizione molto severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo capitalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.

Quanto quel compromesso sia avanzato è testimoniato dal fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland.

Eddyburg.it organizza la seconda edizione della scuola estiva di pianificazione dedicata al tema della costruzione pubblica città .

La Scuola intende:

- fornire i presupposti, i riferimenti e gli obiettivi del governo della città e del territorio;

- informare sull’evoluzione del quadro legislativo e istituzionale;

- promuovere un confronto con le esperienze e tendenze europee.

Come l’anno passato, le attività si svolgono presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima (Livorno).

La città pubblica

Dalla casa ai trasporti. Dall’ambiente ai servizi. Il soggetto pubblico ha visto ridursi progressivamente il proprio ruolo, ritirandosi non solo dall’intervento diretto, ma anche dall’esercizio di indirizzo e regolazione. In Italia, questa riduzione è stata accettata da destra e sinistra, vuoi per un convincimento culturale, vuoi per le inefficienze dell’amministrazione pubblica. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze, sociali e territoriali, e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall’ambiente e dal paesaggio.

L’urgenza di un recupero della costruzione pubblica della città (o del territorio , qui inteso in modo equivalente) appare non più rinviabile. E’ in questo senso che possiamo tornare a parlare di “città pubblica”, concentrando l’attenzione sugli strumenti necessari per mantenere, ampliare o costruire il patrimonio di beni pubblici.

Come costruire una città vivibile, una città amica delle donne edegli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento?

A queste domande si tenterà di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.

Per saperne di più

Chi vuole avere ulteriori informazioni sulle attività svolte l’anno passato e visionare i materiali prodotti può consultare le pagine del sito dedicate alla edizione del 2005.

Chi vuole avere ulteriori informazioni sul luogo di svolgimento delle attività della scuola, può visitare il sito del Parco archeominerario di San Silvestro.

Per ricevere informazioni e comunicare la propria adesione

Vi invitiamo a rivolgervi ai recapiti sotto elencati, indicando nome, cognome, qualifica, e-mail, telefono.

mabaion@tin.it

Nei prossimi giorni

Sul sito eddyburg.it presenteremo:

- il programma dettagliato;

- i docenti partecipanti;

- i costi di partecipazione e le modalità di adesione.

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