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Di prima mattina, il 5 febbraio del 62 dopo Cristo, in Campania si verificò uno spaventoso terremoto che nel volgere di pochi secondi uccise migliaia di inconsapevoli abitanti. Vaste aree di Pompei crollarono travolgendo gli abitanti nel sonno e ogni tentativo di salvarli fu ostacolato dallo scoppio di vari incendi. I sopravvissuti si ritrovarono spogliati di ogni cosa, a eccezione degli abiti che avevano indosso e che erano completamente ricoperti di fuliggine, tra gli edifici un tempo eleganti ridotti in rovine. Attraverso l´Impero dilagarono spavento, incredulità e rabbia. "Come è mai possibile", si andava chiedendo, "che i romani, i più potenti al mondo, il popolo tecnologicamente più avanzato, i romani che hanno costruito acquedotti e soggiogato orde di barbari, siano così esposti agli insensati capricci della natura?".

La disperazione e lo sbigottimento - fin troppo diffusi oggi, all´indomani del terremoto al largo dell´Indonesia - attrassero l´attenzione del filosofo stoico romano Seneca. Egli scrisse una serie di testi volti a consolare i suoi lettori, ma, cosa assai tipica in Seneca, il conforto offerto fu del genere più rigoroso e fosco che si potesse concepire: "Voi dite ?Non pensavo che sarebbe accaduto´. Pensate dunque che esista qualcosa che non accadrà quando invece ben sapete che è possibile che accada, quando vedete voi stessi che è già accaduta?".

Seneca cercò di mitigare l´impressione d´ingiustizia che imperversava tra i suoi lettori ricordando loro - nella primavera del 62 - che i disastri naturali e quelli provocati dall´uomo faranno sempre parte della nostra vita, per quanto evoluti e sicuri noi si creda di essere diventati. Pertanto, anche nella nostra epoca dobbiamo sempre attenderci l´imprevisto: la calma è soltanto un intervallo nel caos. Nulla è certo, nemmeno il suolo sul quale poggiamo i piedi. Se non ci soffermiamo a riflettere sui rischi di improvvise onde gigantesche, se di conseguenza paghiamo uno scotto per la nostra ostinata ingenuità intenzionale, è perché la realtà comprende due diversi aspetti che disorientano in modo assai crudele: da una parte il senso di continuità e di sicurezza che si trasmette di generazione in generazione e dall´altra i cataclismi non preannunciati. In pratica, ci ritroviamo a esitare tra il plausibile invito a dare per scontato che il domani sarà molto simile all´oggi e la possibilità che andremo invece incontro a un evento spaventoso, dopo il quale nulla sarà più come prima. Ed è proprio perché abbiamo fortissimi incentivi a non prendere in considerazione il secondo dei due scenari che Seneca ci esortò a ricordare che il nostro destino è sempre nelle mani della Dea Fortuna. Costei può distribuire i suoi doni e poi, con terrificante velocità, osservarci mentre soffochiamo per una lisca di pesce incastrata in gola, o mentre chiudiamo gli occhi per sempre, scomparendo per colpa di uno tsunami insieme all´hotel nel quale eravamo alloggiati.

Il terremoto in Asia ha acquisito un rilievo del tutto particolare perché molte delle aree devastate erano zone turistiche, luoghi dove la gente si è recata espressamente alla ricerca della felicità, soltanto per trovarvi morte e caos. Se si visitano i siti Web degli alberghi ora devastati, si possono ancora osservare magnifiche immagini di spiagge assolate, di camere accoglienti, di barbecue in piscina o di immersioni nei fondali marini.

Seneca sostiene che proprio perché veniamo feriti maggiormente da ciò che non ci aspettiamo, laddove dobbiamo invece aspettarci di tutto ("Non vi è nulla che la Fortuna non osi"), dovremmo sempre tenere ben in mente l´eventualità che si verifichino gli eventi più terribili. Nessuno dunque dovrebbe mai accingersi a partire per un viaggio in macchina, né scendere le scale o salutare un amico senza la consapevolezza - che Seneca per altro non avrebbe voluto che fosse necessariamente funesta o tragica - che possa accadere qualcosa di fatale.

Considerando le nostre competenze tecnologiche, è diventato naturale credere di essere in grado di controllare il nostro destino. L´uomo non deve più essere il trastullo delle forze del caso: esercitando la ragione, tutti i nostri problemi possono essere risolti. Nulla è maggiormente lontano dalla mentalità di uno stoico. Piuttosto, sottolinea Seneca, noi dobbiamo accentuare la consapevolezza di ciò che in un qualsiasi momento della nostra vita può andare storto: "Nulla dovrebbe mai esserci imprevisto. La nostra mente dovrebbe anticipare tutto, in modo da poter far fronte a tutti i problemi. Noi dovremmo considerare non ciò che non è usuale che accada, bensì ciò che può accadere. Che cos´è infatti l´uomo? Un vaso che il più lieve urto, il più lieve movimento brusco può frantumare. Un corpo debole e fragile".

All´indomani del terremoto della Campania, molti sostennero che l´intera zona dovesse essere evacuata e che non si dovesse più edificare nelle zone a rischio di terremoto. Ma Seneca confutò l´implicito principio che sulla Terra potesse esistere un luogo - la Liguria, per esempio - nel quale ci si possa considerare del tutto al sicuro, lontani e al riparo dai capricci della Fortuna: "Chi può garantire che in questo o in quel sottosuolo si possono erigere fondamenta più solide? Tutti i luoghi hanno le medesime caratteristiche e se non sono ancora stati colpiti da un terremoto, ciò non di meno potranno esserlo in futuro. Sbagliamo se riteniamo che al mondo possa esservi un luogo esente da pericoli, sicuro? La natura non ha creato nulla di immutabile". Né - potrebbe aggiungere Seneca qualora fosse vivo oggi - la natura ha creato una costa che non potesse essere investita dall´avanzare della marea.

Per cercare di prepararci psicologicamente al disastro, Seneca invitava a sottoporsi ogni mattina a uno strano esercizio, che egli in latino chiamò praemeditatio - premeditazione - consistente nel rimanere sdraiati prima ancora di colazione e di immaginare tutto ciò che nell´arco della giornata che si ha davanti potrà andare storto. L´esercizio non è fine a se stesso, essendo stato concepito per prepararsi all´eventualità che la città in cui si vive venga distrutta la sera stessa o che per qualche ragione muoiano i propri figli. Così si legge in uno degli esempi di premeditazione: "Viviamo tra cose concepite tutte per cessare di vivere. Esseri mortali ci hanno dato la vita e noi stessi abbiamo dato vita a esseri mortali. Pertanto aspettiamoci di tutto".

Lo stoicismo pretenderebbe dunque che noi si accetti tutto ciò che la vita ci propina? No, essere stoici significa riconoscere quanto siamo vulnerabili nonostante tutto il nostro progresso. Seneca arrivò a chiederci di immaginare di essere simili a cani legati a un carro guidato da un conducente imprevedibile. Il guinzaglio è lungo abbastanza da poterci lasciare un certo qual margine di libertà di movimento, ma non così tanto tuttavia da consentirci di vagare a nostro piacere. Un cane spererebbe per sua stessa natura di potersi allontanare a suo piacimento, ma la metafora di Seneca implica che se non potesse farlo, sarebbe meglio per l´animale seguire docilmente il carro, invece che esserne trascinato a forza e finire strangolato. Così disse infatti Seneca: "L´animale che si dibatte rifiutando il guinzaglio finisce col serrarlo? non esiste giogo più stretto da ferire un animale di quello che l´animale stesso stringe, osteggiandolo invece di assecondarlo. Il miglior sollievo dai mali che ci opprimono consiste nel sopportare e nel piegarsi alla necessità".

Ritornando dunque al passato e alla saggezza dei filosofi stoici, potremmo trovare un metodo utile per ridimensionare alcune delle nostre aspettative e per smorzare il nostro shock davanti ai disastri naturali e allo spargimento di sangue. Nel 65 d. C. quando l´imperatore Nerone ordinò a Seneca di suicidarsi, la moglie e i suoi famigliari scoppiarono in lacrime. Seneca no, poiché aveva imparato a seguire il carro della vita con rassegnazione. Portandosi con tranquillità il coltello ai polsi, pronunciò una frase che faremmo bene a ripeterci, quando leggiamo le notizie sui giornali in alcune mattine particolarmente tristi. Egli disse: "Che bisogno vi è di piangere in alcuni momenti della vita? È per la vita tutta intera che si dovrebbe piangere".

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Traduzione di Anna Bissanti

Bel tempo nell'economia mondiale per oggi e per buona parte di domani: crescita forte nel 2005, nessun brusco arresto all' orizzonte. Ma per il dopodomani il campo è diviso tra chi annuncia sereno e chi attende tempesta, tra Pangloss, il personaggio di Voltaire ostinatamente convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e Cassandra, la preveggente figlia di Priamo, secondo cui la quiete sta per diventare tempesta. La disputa che li divide riguarda non solo l'economia, ma anche la politica. Dice Pangloss: il benessere non è mai tanto cresciuto nel mondo quanto nella presente generazione e grazie al mercato si estenderà sempre più a tutti. Le turbolenze recenti (insolvenze finanziarie, Enron, boom e caduta della Borsa, effetto tsunami, caro petrolio) sono state superate più facilmente di quelle precedenti (primo choc petrolifero, crisi del debito latinoamericano). Sì, ci saranno altre turbolenze, ma il mercato ci penserà. Dopotutto io, Pangloss, non dico che il nostro mondo sia magnifico né che sia il migliore in assoluto, ma è il migliore possibile. Abbiate fiducia: le tempeste verranno, ma le sapremo affrontare.

Dice Cassandra: stiamo prolungando una festa che non può durare, e alla cui fine non ci stiamo preparando. L'energia che usiamo (carbone, petrolio, gas) si estingue, dilapidiamo le risorse del pianeta, di cui minacciamo vita e clima. Il mercato di cui ci beiamo è una bestia senza controllo. Stiamo entrando in un nuovo stato di natura dove è privatizzato l'uso stesso della forza, dal terrorista suicida al mercato nero di armi di distruzione di massa. L'economia sembra governare un mondo anarchico, ma finirà per esserne la vittima.

Che cosa dovremmo pensare noi, cittadini comuni? Provo a suggerire alcuni punti, che nascono da una medesima considerazione: prima ancora del mercato e della politica vi è la società, che influenza entrambi, oltre ad esserne influenzata.

Primo punto: ogni lettore può e deve formarsi una propria opinione. Sbaglierebbe a ritenersi in inferiorità rispetto agli specialisti della materia o ai detentori del potere. Questo punto può inquietare chi si attende miracoli da scienziati e governanti; invece, a mio giudizio, dovrebbe rassicurare. Quando non coincide col buonsenso l'economia di solito sbaglia. Viviamo in democrazia e ciascuno contribuisce a scegliere indirizzi e persone di governo. Il pensare che la generalità dei cittadini abbia buonsenso e informazioni sufficienti a compiere scelte ragionevoli è motivo di profonda fiducia per le sorti della nostra libertà e per le prospettive di un buon governo. Gli atteggiamenti diffusi nel corpo sociale si riflettono sul funzionamento del mercato e della politica.

Secondo punto: il «noi» usato sopra è un aggregato di interessi eterogenei. Comprende imprese e famiglie, consumatori e produttori, settori di punta e settori in declino, debitori e creditori. Spesso la fortuna di alcuni è la sfortuna di altri. I pantaloni e i mobili a basso costo offerti dai cinesi e da Ikea mettono in difficoltà il produttore nazionale, ma sono graditissimi al consumatore. L'eterogeneità degli interessi attraversa la singola persona, la singola impresa, il settore, per non dire il Paese. È come se fossimo, nello stesso tempo, dipendenti di Alitalia (oltre 1000 euro per il volo Roma-Londra) e utenti di Ryan Air (meno di 50 per lo stesso viaggio). Tra interessi eterogenei occorre scegliere e i due processi attraverso cui le scelte si compiono nelle nostre società sono il mercato e la democrazia.

Terzo punto: per capire e per decidere bene occorre uno sguardo lungo. Solo questo permette di non arrivare impreparati agli eventi. Le previsioni dell'economista e le decisioni del governo tendono, invece, a non guardare oltre l'orizzonte breve dei modelli o le scadenze delle prossime elezioni. Guardando più lontano, specialisti e politici mettono a repentaglio quanto hanno di più caro, il prestigio scientifico e il potere. Eppure, solo scrutando il paesaggio nebbioso del dopodomani si possono predisporre soluzioni non troppo dolorose alle difficoltà che ci stanno venendo incontro. La recente disputa con la Cina nel tessile e nell'abbigliamento è venuta per aver quasi dimenticato il giungere a scadenza di accordi commerciali liberamente stipulati e noti da tempo.

Quarto punto: il futuro è aperto. Nell'economia, nella politica economica, nelle relazioni umane, più di un futuro può scaturire da uno stesso presente. Nonostante l'importanza del Fato nella cultura greca, perfino Cassandra descrive catastrofi contro le quali, se fosse creduta, potrebbero essere predisposte contromisure. Il suo dramma è che, per punirla, Apollo le ha lasciato il dono della profezia, ma le ha tolto quello della persuasione. A noi Apollo non ha fatto questo cattivo scherzo.

Gli ammonimenti di Cassandra sono fondati. La più ricca società del pianeta (gli Stati Uniti) non potrà per molti anni ancora vivere sul credito di popolazioni e Paesi più poveri. Il mercato globale non può continuare a svilupparsi in modo pacifico e ordinato, se le istituzioni per il suo governo restano insufficienti, prive di potere e di legittimità. Le risorse della Terra (dalle foreste ai giacimenti energetici) non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L'equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se quasi due secoli dopo averlo scoperto continuiamo a ignorare l'effetto serra. Non può rimanere senza conseguenze profonde la disparità di tenore di vita e di condizioni di lavoro tra esseri umani — come gli europei e gli asiatici — con livelli di cultura e di capacità lavorativa quasi uguali.

Settembre è alta stagione per la diplomazia economica internazionale: in ogni parte del mondo sono in corso analisi e consultazioni, che culminano nelle riunioni del Fondo monetario internazionale a Washington. Incontri regionali (l'Unione Europea, i Paesi asiatici), settoriali (finanza, commercio, energia, sviluppo), consultazioni tra Paesi ricchi (il G7) e tra poveri (Africa, America Latina, Paesi in via di sviluppo). Si fa il punto sull'anno che sta per finire e si definisce l'animo con cui guardiamo al futuro.

Vi è motivo di temere che il messaggio degli specialisti e quello dei governanti abbiano lo sguardo più corto e il tono più rassicurante di quanto giustifichi una disincantata osservazione delle tendenze di lungo periodo operanti nell'economia mondiale e nelle nostre società. Spetta innanzi tutto alla riflessione, al buon senso, al desiderio di informarsi e di capire del cittadino comune rendersene conto e trarne conseguenze per il suo modo di guardare al futuro, ai propri comportamenti economici e sociali.

Il mitico Luca Mercalli di "Che tempo che fa" indirizza una lettera aperta alla candidata del l'Unione alla presidenza della Regione Piemonte. E' una raccolta di temi aggiornati sulla politica ambientale, e non solo. La Mercedes Bresso risponde in modo ragionevole e problematico. C'è una bella differenza con gli argomenti troppo spesso piatti e triviali della campagna elettorale in Emilia-Romagna. Utile per rimanere aggiornati e anche per la linea di politica locale (anche lo slogan è bello). Ciao (a.b.)

Luca Mercalli indirizza una lettera aperta a Mercedes Bresso:



Ti scrivo per porgerti qualche spunto di riflessione "per cambiare il futuro", come recita il Tuo slogan elettorale. Seguendo l'invito che compare sul Tuo sito Internet, questo vuole essere uno di quei contributi "delle più diverse articolazioni della società civile, dell'economia, del lavoro, della politica e della cultura, vale a dire a tutti coloro che condividono il nostro punto di vista e che vogliono cambiare con noi la nostra regione e il modo di governarla".

Del resto, per chi ha a cuore i problemi ambientali, la lettura del Tuo curriculum è un'iniezione di fiducia: "esperta di economia dell'ambiente, economia agraria e di economia del turismo", autrice di saggi tra cui "Per un'economia ecologica" e "Pensiero economico e ambiente", già Assessore regionale alla Pianificazione Territoriale e ai Parchi". "Amante delle passeggiate in montagna e nei boschi".

So anche che sei stata tra le prime in Italia a commentare il pensiero di Georgescu-Roegen, un pioniere, uno che avrebbe meritato il Nobel per l'Economia ben più di Robert Solow.

Ho avuto il piacere di conoscerTi insieme a tuo marito, quel Claude Raffestin "geografo ed esperto di Ecologia umana e Scienze del paesaggio" che completa il quadro del Tuo ambiente culturale come meglio non si potrebbe desiderare.

Insomma, a leggere queste credenziali, il Tuo programma politico dovrebbe avere una marcia in più rispetto - che so io - a quello di un qualsiasi palazzinaro che si metta in politica con obiettivi palesemente meno sostenibili sul piano ambientale.

Sembrerebbe, con un curriculum come il Tuo, di essere in ottime mani: una figura politica che non solo è ben informata su questi problemi, ma ne è pure navigata studiosa.

Ora, a questo punto, i fatti dovrebbero corrispondere alle premesse.

Eppure dal Tuo programma trapelano gli echi delle sirene della crescita continua.

"Con l'Europa per uno sviluppo sostenibile" per evitare il declino del Piemonte, recita il Tuo programma. Ma cosa vuol dire "declino"? Sulla base di quali indicatori? Forse del PIL? O del numero di autovetture prodotte dalla FIAT? Perché mai dovremmo evitare "un dignitoso e magari confortevole declino" a favore "di una dinamica fase di sviluppo"? Sappiamo che "sviluppo", come è inteso oggi (anche se corredato dell'aggettivo "sostenibile") è in realtà un modo addolcito di camuffare la continua crescita dei consumi. E' un'ossessione il ritenere che un luogo sia prospero solo se la sua popolazione aumenta o almeno non decresce, se le merci continuano ad affluire e a ripartire in sempre maggiori quantità, se l'edilizia continua incessantemente a costruire, se il valore degli scambi finanziari continua ad aumentare. A fronte di tali indicatori sappiamo bene che vi è anche l'aumento di rifiuti di qualsivoglia natura - solidi, liquidi e gassosi - e l'irreversibile diminuzione di naturalità del paesaggio, con conseguenze sia sul piano estetico, sia su quello dei cicli biogeochimici.

Ecco dunque che il passo del Tuo programma che recita come "La regione deve essere dotata in primo luogo di tutte le infrastrutture necessarie ad assicurarne la rilevanza economica, culturale, geografica e logistica cui aspira, il tutto nella logica dello sviluppo sostenibile. Vale a dire: le opere pubbliche dovranno essere progettate e portate a termine con il minimo impatto ambientale e al più basso costo sociale possibile. Opere all'avanguardia, concepite come servizi alla terra e agli uomini che debbono ospitarle, realizzate con tecnologie innovative, gestite con tutta la cura resa possibile dalla modernità", contiene inevitabilmente i germi della catastrofe ambientale. E ciò perché non riconosce il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione. In queste infrastrutture è facile vedere l'appoggio a progetti faraonici e non prioritari quali l'alta velocità ferroviaria, la quarta corsia della tangenziale torinese, una ulteriore espansione urbana e industriale capillare.

Sono tutti interventi ormai non più difendibili, inseriti nel mito della crescita continua, che - per quanto mitigata, per quanto addolcita - non può essere sostenibile per via dei meri vincoli fisici del sistema nel quale è concepita: il Piemonte - così come gran parte del nord-Italia, ha ormai subito un ampio superamento di tutte le soglie di attenzione di natura ambientale e deve ora guardare a come ridurre le conseguenze causate da un passo più lungo della gamba.

Per fare questo ritengo che l'unico mezzo sia ormai un serio approccio al concetto di decrescita. Orbene, il passato è passato. Processi storici ed economici hanno condotto fin qui e non ha importanza esaminarne più di tanto le motivazioni. Però Tu ci dici che vuoi cambiare il futuro del Piemonte. Benissimo. E' un'occasione d'oro per dimostrarlo. Se effettivamente desideri proporre un programma politico innovativo - pure rischioso, ovviamente - dovresti fare tuoi i precetti che il mondo scientifico ha da tempo - e con sempre maggior completezza - messo in luce. Il libro che ti allego "Le mucche non mangiano cemento" ne fa una sintesi, proponendo una bibliografia di riferimento che non ho dubbi Tu conosca ampiamente.

Provo comunque a sintetizzare per sommi capi gli obiettivi di un futuro realmente diverso:

1) il paradigma della crescita continua dei consumi e delle infrastrutture (e quindi pure dei relativi rifiuti) dovrebbe essere abbandonato quanto prima. Il suo fallimento è dietro l'angolo, una presa di coscienza anticipata potrebbe ancora consentire una transizione morbida verso una struttura stazionaria, altrimenti il collasso avverrà, come spesso accade nei sistemi non lineari, in modo improvviso e non modulabile da azioni di mitigazione.

2) sviluppo non deve essere confuso con crescita: esiste uno sviluppo culturale, scientifico, spirituale, perseguibile anche al di fuori di uno sviluppo dei consumi materiali o, peggio ancora, di beni superflui ed energivori. E' proprio lo sviluppo dei primi beni elencati a compensare della riduzione dei secondi. In un momento storico nel quale i livelli di benessere fisico sono ampiamente consolidati questa transizione è possibile ed è la sola a garantirne peraltro il mantenimento a lungo termine. Detto in altre parole, con la pancia piena e la casa calda possiamo anche pensare allo sviluppo spirituale/intellettuale/culturale che a sua volta sarà la chiave per continuare ad avere pancia piena e casa calda. Altrimenti si fa indigestione e si vomita. Poi però bisogna ricominciare dall'età della pietra.

3) il consumo di suoli agrari e di «paesaggio» deve essere arrestato immediatamente: in un mondo fisico dalle dimensioni finite non è pensabile espandersi all'infinito. Basterebbe applicare le illuminate proposte del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino, strumento eccellente che Tu ben conosci, purtroppo disatteso. Ovviamente la coerenza è una dote fondamentale del politico di razza: non si possono difendere i preziosi beni agrari dell'Ordine Mauriziano da una parte e contemporaneamente avallare progetti devastanti quali l'alta velocità ferroviaria: entrambi produrrebbero i medesimi risultati finali.

4) l'economia attuale in declino può trovare nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto" che ci circonda in qualcosa di almeno accettabile. Pensiamo a una FIAT che finalmente tiri fuori dai cassetti progetti che già aveva sviluppato da decenni, come la cogenerazione, e investa magari sulla produzione di pannelli solari... Le officine per fare tutto ciò sono praticamente le stesse che oggi si usano per fare automobili. Basta volerlo.

5) vi è necessità assoluta di un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite, imposti non da qualsivoglia ideologia, ma da semplice rispetto del II principio della termodinamica. In tale contesto sarebbe fondamentale disincentivare gli sprechi e l'uso del superfluo nonché gli eccessi nell'impiego di materie prime ed energia, a vantaggio di un benessere più sereno e libero dal senso di competizione sociale generato da modelli pubblicitari ormai patologici.

6) abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. In effetti, in un'epoca dove le telecomunicazioni potrebbero rendere sempre meno necessario il movimento fisico delle persone, e l'esaurimento delle risorse petrolifere porrà in un futuro prossimo restrizioni importanti alla inutile circolazione di merci banali oggi dettata da meri giochi economici, il gigantismo infrastrutturale è una scelta miope e sottrarrebbe enormi risorse alla disponibilità diffusa di servizi efficienti.

Cara Mercedes,

se vuoi veramente cambiare il futuro, dovresti avere il coraggio di inserire nel Tuo programma politico questi elementi, in apparenza fortemente impopolari in quanto lontani dal pensiero unico oggi vigente. Però il grande politico si riconosce proprio dalla capacità di essere realmente innovatore e cambiare totalmente il punto di vista dei problemi. E' peraltro difficile portare avanti tali obiettivi, però bisogna accorgersi che non solo l'ambiente scientifico sta sempre più assumendo consapevolezza che è necessario cambiare rotta, ma anche molta gente comune. Sono innumerevoli nel mondo le associazioni spontanee di cittadini volte alla decrescita (decrescita felice, décroissance, powerdown). Ma non vengo a mostrare ad arrampicare ai gatti: Georgescu-Roegen aveva scritto queste cose già nel 1974. Forse era in anticipo sui tempi. Trent'anni sono passati e ora le condizioni sono fertili per applicare la teoria bioeconomica o una sua opportuna riformulazione attualizzata.

Eppure sembra che la politica resti indietro, fatichi a cogliere questi segnali di disagio profondo, di una disarmonia con le leggi fondamentali di natura. Non basta aggiungere l'aggettivo "sostenibile" ad ogni azione per cambiarne le conseguenze. Molte azioni dovrebbero semplicemente essere abbandonate, non essere rese "sostenibili" quando non lo sono intrinsecamente. Pensiamo per esempio ai Giochi Olimpici Invernali Torino 2006.

Chi meglio di Te può comprendere queste cose? Con un curriculum così.

Ai miei occhi, come a quelli di molte altre persone mature e consapevoli della nostra situazione, assumi con la Tua candidatura politica una grande, grandissima responsabilità: quella di garantire se non il raggiungimento di questi obiettivi, almeno un segno incisivo verso la loro realizzazione, un cambiamento netto di direzione, un gesto di speranza. Se invece anche Tu, con il tuo perfetto curriculum da persona giusta al posto giusto, cadrai sotto la malìa delle sirene dello "sviluppo a tutti i costi", allora, noi che abbiamo capito di essere in un vicolo cieco, saremmo privati anche della speranza.

E senza speranza non resta che la disperazione.

Torino, febbraio 2005

Luca Mercalli (luca.mercalli@nimbus.it)

RISPOSTA DI MERCEDES BRESSO ALLA LETTERA APERTA DI LUCA MERCALLI



La lettera di Luca Mercalli è stata inserita nella sezione "Contributi al programma" del portale.

Normalmente i "Contributi" non ricevono risposta e vengono attentamente esaminati per recepire proposte e suggerimenti utili al Programma. Ma la lettera di Mercalli, trattando argomenti di grande importanza, ha suscitato molte reazioni e ha conquistato spazio sui media.

Decine di e-mail sono arrivate al nostro indirizzo.

Pubblichiamo quindi, in via del tutto eccezionale, la risposta di Mercedes Bresso.



Una bella lettera, la tua, una lettera alla quale voglio rispondere con grande sincerità, senza nascondermi dietro ai tatticismi elettorali che troppo spesso sono una scusa per non dire quel che si pensa e, soprattutto, per ritenersi in diritto di pensare quel che viene considerato indicibile.

Debbo dirti subito che anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di "blocco dello sviluppo". Mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile.

Ho studiato e riflettuto a lungo sulla teoria dell'arresto della crescita. Ma noi - il Piemonte - non possiamo rimanere fuori dallo sviluppo né possiamo rinunciare alla creazione di reddito, conseguenza immediata dell'arresto della crescita. Al contrario, dobbiamo rimanere dentro questi meccanismi di crescita. E dobbiamo rimanerci perché le dinamiche che governano i processi economici non permettono di fermarsi a un certo livello: chi si ferma non mantiene le posizioni acquisite, ma corre il fortissimo rischio di tornare indietro.

Non possiamo dimenticare poi che una quota crescente degli investimenti si concentra su servizi dematerializzati (internet, telefonia, tecnologie satellitari), che sostengono lo sviluppo e hanno un basso impatto ambientale. Io sostengo - insieme a tutto il centrosinistra - che sarà una società basata sulla conoscenza a sottrarci definitivamente al declino. Ritengo anche che il criterio della sostenibilità è l'unico che ci permette di investire in infrastrutture indispensabili e di lavorare per mantenere una parte dell'industria manifatturiera. Senza dimenticare che gli investimenti per la ricerca devono crescere non solo nazionalmente, almeno il 3% del Pil, ma anche e soprattutto nel nostro Piemonte.

Certo quel che conta è cambiare cultura, abbandonando l'equazione mentale che fa coincidere il benessere con l'incremento di beni materiali e consumi.

Io non credo affatto in uno sviluppo a tutti i costi. Credo invece che nel bilancio di ogni opera debbano essere considerati i costi non solo finanziari ed economici, ma anche sociali e ambientali. Al tempo stesso però vanno anche confrontati i risparmi che si conseguono non realizzando un'opera con quelli che l'opera, portata a termine, può garantire.

Non voglio eludere i problemi che poni, a partire all'Alta velocità. Personalmente mi sono battuta perché non si parlasse solo di Alta velocità, ma anche e soprattutto di alta capacità ferroviaria. Mi spiego. I risparmi ambientali che si ricaverebbero da una nuova ferrovia transalpina dedicata al solo traffico di persone sarebbero risibili. Se, al contrario, gli interventi rientrano in un piano destinato a ridurre il traffico su gomma a livello europeo, credo che il rapporto costi-benefici potrebbe essere interessante. Eliminare, o almeno ridurre drasticamente, il traffico dei Tir attraverso la catena alpina sarebbe un fatto grandioso, in grado di produrre effetti positivi sull'ambiente dal Baltico al Mar di Sicilia. Un elemento, questo, che mi pare sia stato enormemente sottovalutato da una parte del movimento ambientalista che pure stimo.

Non sfugge a nessuno poi che l'arretratezza delle nostre infrastrutture è una delle cause più gravi di inquinamento ambientale: un Paese senza metropolitane, con ferrovie inadeguate e con reti telematiche che toccano a malapena le aree metropolitane è condannato, fatalmente, a morire nel traffico e nell'anidride carbonica.

Le alternative sono tre. La prima: condanniamo noi stessi a marcire nell'arretratezza e a morire nell'inquinamento. La seconda, rincorriamo lo sviluppo - Achille e la tartaruga - così come lo abbiamo conosciuto fino agli anni Ottanta. La terza, facciamo del nostro ritardo il punto di battuta per spiccare un salto culturale e tecnologico. Esempio: l'Italia ha rinunciato al nucleare. Bene. Sarebbe sbagliato e antieconomico, oggi, riprendere a discutere di energia atomica nel nostro Paese. Ma il fatto di non averla ci consente di ragionare liberamente su altre opzioni meno disastrose per l'ambiente. Siamo più liberi dei Paesi che hanno investito sul nucleare e che oggi debbono continuare su quella strada per poter assorbire i giganteschi costi di ammortamento.

Possiamo (e per questo dobbiamo) intraprendere con decisione la strada dell'idrogeno, del fotovoltaico, delle energie pulite.

Non possiamo fare a meno delle grandi opere se non altro per il motivo che tutta l'Europa, di cui facciamo parte, ne è dotata. Si è calcolato che il nostro ritardo riguarda interventi per 250mila miliardi di vecchie lire. Io ho la speranza che esistano oggi tecnologie e culture in grado di colmare questo gap a costi ambientali incommensurabilmente più bassi rispetto al passato.

Quanto al Piemonte, la situazione è chiara. La nostra regione fatica a reggere il passo degli altri.

Ci sono zone dove le cose non vanno malissimo (il Piemonte sud) e aree in cui i problemi persistono. Noi abbiamo bisogno di infrastrutture moderne: non a tutti i costi, certo. Pagando solo quel che possiamo permetterci.

E ora vengo ai temi che proponi per il programma del centrosinistra.

La rinuncia al paradigma della crescita continua di consumi e infrastrutture. Qui non si tratta di aggiungere infrastrutture. Si tratta di adeguarle. Quanto ai consumi, possiamo puntare a ridurli, ma con un occhio di riguardo a chi certi standard non riesce a raggiungerli. Possiamo puntare a ridimensionare la produzione di rifiuti, certo, ma per i consumi devi tener conto dei fatti. Ci sono ormai zone di nuova povertà che stanno già sperimentando la riduzione dei consumi, ma controvoglia.

Lo sviluppo non deve essere confuso con la crescita. Posso essere d'accordo con te sugli stili di vita. Se si ha una casa e se si può contare su amici interessanti e buoni libri, il resto viene dopo. Ma non tutti vivono in questa condizione. E poi: la Regione (o lo Stato) hanno il diritto di giudicare lo stile di vita? Ci provò negli anni Settanta, e non senza una certa energia, Enrico Berlinguer, che lanciò lo slogan dell'Austerità. Non ebbe molta fortuna, neppure fra gli intellettuali. Norberto Bobbio osservò che l'austerità si pratica nelle società autoritarie (Sparta), mentre è l'edonismo il corollario delle democrazie (Atene). Forse avevano ragione entrambi. Berlinguer a chiedere uno sviluppo meno dissennato, Bobbio a dire che la riduzione dei consumi, quando i beni sono disponibili liberamente, si verifica solo con interventi autoritari.

Il consumo dei suoli agrari e del paesaggio deve essere fermato. Qui mi trovi perfettamente d'accordo. Nel nostro programma pensiamo alla tutela delle tipologie architettoniche tradizionali. Proponiamo anche di sperimentare un certo tipo di asfalto che avrebbe proprietà simili al materiale fotovoltaico. Come sai il fotovoltaico porta energia pulita, ma "consuma" molto territorio. Se andremo al governo del Piemonte, proveremo a produrre energia non inquinante utilizzando le strade che già esistono, senza occupare altra terra.

Nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto". Siamo perfettamente d'accordo. Sia pure con altre parole, tutto questo è già nel nostro programma. Anche noi, poi, sentiamo l'esigenza di incoraggiare Fiat a proseguire sulla strada dei motori a basso consumo di idrocarburi.

Un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite delle risorse. Siamo d'accordo. Ma qui le istituzioni possono solo aiutare. Tocca prioritariamente alla cultura, alle televisioni (sì), ai giornali, ai partiti, alle chiese trasmettere questi valori. Noi faremo la nostra parte, non dubitare, ma ci vorranno ben altre voci per arrivare alla sensibilità delle persone.

Abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. Di questo abbiamo già parlato: alcune grandi opere sono necessarie, altre no. Come forse saprai io non sono d'accordo con chi vuole fare tutto e di tutto, mentre mi pare essenziale conciliare la tutela del welfare con ferrovie efficienti.

Sono per fare il necessario.

E finisco da dove avevo cominciato. Sono perfettamente consapevole del fatto che non possiamo permetterci certi costi. Ma so anche che se rinunciamo al criterio della sostenibilità ambientale, non restano che due alternative: lo sviluppo selvaggio da un lato e la paralisi dall'altro. Due rischi che non possiamo correre.

Grazie per le belle parole che hai avuto per me e mio marito. Spero di non averti deluso e mi auguro di poterti incontrare presto per continuare a discutere di persona.

Mercedes Bresso

Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti lasciano la guida dell’Unipol e l’Opa Unipol su Bnl è morta. Il presidente e il vicepresidente della compagnia assicurativa lasciano i loro incarichi in parte per potersi difendere meglio (ma dovevano pensarci un po’ prima) e soprattutto perché contro di loro pesano accuse infamanti: dall’aggiotaggio all’insider trading.

Due reati particolarmente odiosi perché sono, sempre e comunque, contro il mercato, contro la gente, contro gli altri risparmiatori, piccoli e grandi. Sono reati che solo i peggiori commettono. La sola idea che a commettere simili porcherie siano stati due "cooperatori" mette i brividi e lancia un’ombra lunghissima e molto nera sul mondo della cooperazione. Anche l’Unipol (come la Banca Popolare italiana di Fiorani) aveva un consiglio di amministrazione, sindaci, revisori dei conti. Anche dei codici etici, si dice. Ma nessuno ha visto niente e niente è servito a qualcosa, a quanto pare.

E quindi la partita non può certo essere considerata chiusa con l’uscita di scena di Consorte e Sacchetti. Il movimento cooperativo dovrà interrogarsi a lungo sul suo modo di essere e su quello che fa. Non è che il caso si possa chiudere mandando a casa Consorte e Sacchetti. E tutti gli altri che erano lì? Ma le coop dovranno anche riflettere sul loro futuro, su quello che vogliono fare. E questo proprio partendo dal caso Consorte e Sacchetti. I due non sono funzionari qualunque delle coop indiziati di aver commesso qualche marachella.

I due (soprattutto Consorte, che era il capo) sono quelli che in un certo senso hanno trascinato le coop nel XXI secolo. Sono loro infatti, e non altri, che hanno portato l’Unipol in Borsa, facendola diventare una protagonista (sia pure minore) della finanza italiana, dove prima c’era una compagnia che "faceva le polizze ai compagni" e alle altre cooperative.

E infatti, giustamente, dentro il movimento Consorte era considerato una star, quello più avanti di tutti. Quello che avrebbe finalmente dato corpo e sostanza a quella specie di fantasma che è, e rimane, la "finanza rossa". Lui la stava costruendo, partendo proprio dall’Unipol. Lui ha fatto quello che gli altri cooperatori, abituati a vendere piselli in scatola nei supermercati e a tirar su villette unifamiliari per i soci, non avevano nemmeno osato immaginare.

Insomma, dall’Unipol non si sta dimettendo un funzionario un po’ birbante, ma si sta dimettendo il migliore. Quello che negli ultimi quindici anni ha indicato alle coop la nuova strada, quella della finanza.

Adesso, lui se ne va, e allora le coop devono cominciare a chiedersi se quella strada era giusta. E, soprattutto, se il movimento cooperativo è attrezzato per lanciarsi in un’avventura del genere. Sembra di capire che, almeno stando alle notizie di cronaca, i bravi cooperatori italiani non sono ancora abbastanza smaliziati e severi per gestire affari di questo genere. Sono brave persone, che fino a ieri guardavano al "loro" Consorte come un bravo padre di famiglia guarda con orgoglio al figlio che si è laureato ingegnere.

Insomma, se le coop vogliono rimanere nella finanza, nel XXI secolo, possono farlo, ne hanno il diritto. Ma allora devono attrezzarsi in modo diverso. Devono, in una parola, imparare un po’ di etica protestante. E devono stare attenti alle compagnie che frequentano. Certo, facendo affari con Fiorani e con Gnutti si potevano fare molti soldi e in fretta. Ma per questo non c’è bisogno di un movimento cooperativo. Bastano una scrivania, due telefoni e un po’ di spregiudicatezza.

L’Opa sulla Bnl è morta. In queste ore i vertici delle coop continuano a dire che l’episodio Consorte non cambia niente, si va avanti. Si tratta quasi di un riflesso condizionato, di un moto di orgoglio. Ma, non appena ci avranno fatto sopra una bella dormita, gli stessi vertici delle coop si renderanno conto che la cosa più conveniente da fare è studiare una veloce "exit strategy", cioè un modo per andarsene e per sfilarsi da questo affare pasticciato. Un affare troppo grosso per l’Unipol e dalle prospettive molto incerte sul piano industriale.

Ma qualche riflessione va fatta anche in casa dei Ds. Di questo disgraziato affare (che finirà malissimo) i Ds hanno parlato troppo, spendendo nella difesa di Unipol e del suo assalto alla Bnl i migliori fra i loro dirigenti. E hanno sempre mostrato molta, troppa cautela, nel prendere le distanze da questa storia, anche quando tutti cominciavano a nutrire profondi sospetti. In altri casi i Ds hanno mostrato molto più buonsenso e molto più fiuto.

C’è da chiedersi: perché? E molti giornali stanno già facendo, a questo proposito, insinuazioni sgradevoli. Io penso invece che quello dei Ds sia stato soprattutto un errore politico. Un grave errore politico.

In realtà, a loro l’ipotesi che l’Unipol arrivava a mettere le mani sulla Bnl è sempre piaciuta. Anzi, la vedevano come il passaggio di una frontiera.

Dalle collette domenicali dell’Unità al controllo di una grande banca nazionale. Tutti, a quel punto, avrebbero capito che i Ds erano finalmente cresciuti. che non erano più quelli delle feste con le salsicce e il discorso del compagno segretario. Inoltre, avere una banca come Bnl (associata a Unipol) nella propria area di riferimento avrebbe indotto tutti a un maggior rispetto.

Ecco, l’errore (al di là del fatto di non essersi accorti di chi era Consorte e di che cosa stava facendo) è stato proprio questo: pensare che avesse ancora un senso mischiare affari e politica. In Italia c’è già Berlusconi che lo fa, non si sente alcun bisogno di un fenomeno analogo (e speculare) a sinistra. Una forza di sinistra (o di centrosinistra) vince perché sa fare buone proposte al paese. Non perché ha le "sue" banche, le "sue" coop, i "suoi" finanzieri che operano in Borsa. Se poi l’idea era quella (da qualche parte ventilata) di contrapporre al salotto buono dell’establishment italiano una specie di salottino improvvisato, gestito da Consorte, Gnutti, Fiorani, Ricucci, allora va detto che saremmo alla follia politica.

Certo, si dirà, tutti questi ragionamenti si basano, per ora, solo su accuse e tutti hanno il diritto di essere considerati innocenti fino a una sentenza definitiva.

Giustissimo. In questa vicenda, però, abbiamo visto che, finora, i giudici milanesi che seguono il caso hanno visto sempre giusto. Anzi, hanno visto (diciamo le cose come stanno) quello che altri (ben più attrezzati) non avevano e avrebbero invece dovuto vedere. La bilancia, quindi, pende già adesso un po’ dalla loro parte. E tutti quelli che in questi anni hanno considerato Consorte come "il migliore" e i suoi disegni come una strategia vincente, interessante, è ora che comincino a cambiar

Internet ha bisogno di una Costituzione? La domanda è attuale dopo le notizie di iniziative censorie del governo cinese, e addirittura della cooperazione offerta da un portale americano, Yahoo!, per l´arresto di un dissidente. Ed è una domanda che non può essere elusa con l´argomento che ogni tentativo di imporre regole alla Rete è impossibile o non necessario. Internet è il più grande spazio pubblico che l´umanità abbia conosciuto, dove ogni giorno milioni di persone si scambiano messaggi, producono e ricevono conoscenza, costruiscono partecipazione politica e sociale, giocano, comprano e scambiano beni e servizi. Può tutto questo essere abbandonato alle prepotenze dei regimi autoritari o alle convenienze del mercato?

I fatti. Aveva cominciato qualche mese fa Microsoft accettando di mettere in guardia i propri utenti cinesi dall´usare nelle loro comunicazioni elettroniche parole come libertà, democrazia, partecipazione. Più pesantemente, Yahoo! ha fornito le informazioni necessarie per rintracciare una e-mail che un giornalista, Shi Tao, aveva mandato negli Stati Uniti, riferendo un avviso del governo ai giornalisti sui pericoli della presenza dei dissidenti nell´anniversario di piazza Tienanmen. Shi Tao è stato poi condannato a dieci anni di prigione per diffusione di notizie ritenute segrete. Infine, come ha ampiamente raccontato Federico Rampini su Repubblica (26 settembre), è arrivata una legge che sottopone a stretto controllo le comunicazioni su Internet, autorizzando solo quelle "buone", per evitare che attraverso la Rete si diffonda un contagio democratico che possa far crescere il peso delle organizzazioni di volontariato, consenta mobilitazioni tra gli oltre cento milioni di navigatori cinesi e produca così non solo dissenso, ma rivolte. Si deve concludere che Internet è per sua natura democratico, è incompatibile con i regimi autoritari?

Quest´insieme di vicende mostra con chiarezza come non si possano analizzare i problemi di Internet partendo dalla tradizionale interpretazione libertaria, che vede la Rete come spazio intrinsecamente anarchico, per sua natura insofferente d´ogni regola, capace di ristabilire autonomamente la libertà violata. Ma, per giustificare la "delazione" del giornalista, uno dei fondatori di Yahoo! ha dichiarato che la sua azienda rispetta le regole del paese dove opera. Le regole, dunque, ci sono, pesanti, e vengono rafforzate da inquietanti alleanze tra Stati e imprese, divenendo strumenti limitativi della libertà.

Pensare a regole giuridiche di segno opposto diviene una necessità, quasi un obbligo democratico. Ma ci si imbatte subito in ostacoli concreti, levati in ogni campo contro i tentativi di far nascere garanzie giuridiche adeguate alla realtà di un mondo globalizzato e di nuovi spazi senza confini, come Internet: la sovranità degli Stati nazionali e la radicata abitudine delle imprese transnazionali di pretendere di essere esse stesse i produttori delle norme che le riguardano.

Non ci resta che arrenderci, o fidarci solo nelle virtù di Internet? Guardandosi intorno, si scorgono altre possibilità. Un acuto analista, Franco Carlini, propone una reazione sociale. Sfruttare subito le opportunità offerte dalla stessa Rete, la sensibilità dei naviganti e le possibilità di mobilitazione immediata, rispondendo così a tutti i messaggi che giungano da una casella Yahoo!: "il suo messaggio viene respinto, ma saremo lieti di leggerlo quando proverrà da un servizio di mail diverso da Yahoo! e rispettoso dei diritti umani". In Italia lo stanno facendo aderenti a Magistratura Democratica e l´associazione Peacelink offre una casella di posta elettronica a chi abbandona Yahoo!. In assenza di norme di garanzie, i cittadini sparsi nel mondo cercano di incarnare una sorta di contropotere.

Iniziative del genere, che sfruttano ogni varco di Internet, sono state definite "strategie da bracconiere" e, in altre situazioni, hanno prodotto effetti significativi, com´è accaduto con il boicottaggio di imprese transnazionali che sfruttavano il lavoro minorile, e oggi Reporters sans frontières fornisce istruzioni per diffondere informazioni in Rete senza farsi scoprire. Qui tutto è più difficile per l´esistenza di uno Stato nazionale deciso a tenere una linea dura e per l´interesse di Yahoo! a conquistare l´enorme mercato cinese. Tuttavia, se la reazione proposta riuscisse a raggiungere una sufficiente massa critica, avrebbe sicuramente un peso non soltanto simbolico: per questo non convince la tesi di chi sostiene che è preferibile accettare quel che fa Yahoo! piuttosto che abbandonare gli utenti cinesi ad un monopolio nazionale assai più pressante. Già l´aver sollevato il problema, ad ogni modo, mette in evidenza il rischio concreto di una "censura di mercato". Un tema, questo, sul quale da tempo ho cercato di richiamare l´attenzione e che non può più essere eluso, dal momento che gli usi commerciali della Rete hanno superato quelli civili, prospettando così rivolgimenti profondi della stessa natura di Internet.

Le possibilità di successo delle strategie dal basso crescono se hanno alle spalle anche strategie istituzionali. Quando parlo di una Costituzione per Internet, non penso evidentemente ad un documento simile alle costituzioni nazionali, ma alla necessità di definire i principi che possono trasformare in diritti le situazioni di quanti usano la Rete. E, non essendo pensabile una assemblea costituente che proclami questi principi, è necessario seguire sentieri diversi, cogliendo le varie opportunità via via presenti nelle aree del mondo.

Un buon punto di partenza può essere costituito dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, dove il diritto alla protezione dei dati personali viene riconosciuto appunto come un autonomo diritto fondamentale. Questo vuol dire andare oltre la tradizionale nozione di privacy e considerare la tutela forte delle informazioni personali come un aspetto ineliminabile della libertà della persona. Ricordare questo fatto è importante, perché l´Unione europea costituisce oggi la regione del mondo dov´è più elevata la tutela dei dati personali, e questa scelta sta influenzando le decisioni di molti altri paesi.

Nella Conferenza mondiale sulla privacy, tenuta a Venezia nel settembre del 2000, il Garante italiano lanciò il progetto di una Convenzione internazionale, ora ripreso dalla Conferenza mondiale appena conclusasi a Montreux. Arrivare a questo tipo di documento richiederà certamente le tradizionali e lunghe negoziazioni tra governi. Ma esige intanto che tutti i soggetti coinvolti nella gestione di Internet (Stati, cittadini, providers, produttori, imprese, autorità garanti) comincino a rafforzare e a far rispettare le regole sovranazionali ormai contenute in molti documenti, a sperimentare codici di autodisciplina "di nuova generazione" (nel senso che non sono il prodotto esclusivo degli interessi di settore, ma nascono dalla collaborazione tra questi e soggetti pubblici), a verificare quali problemi possano essere risolti attraverso una migliore progettazione e un miglior uso delle stesse tecnologie, contribuendo così a definire sperimentalmente quale dovrebbe essere il campo di una futura Convenzione.

Lungo questa strada, non dovrebbe essere perduta l´occasione che a novembre verrà offerta dal World Summit sulla società dell´informazione, che si terrà a Tunisi per iniziativa delle Nazioni Unite. Si è proposto, infatti, che lì venga approvata una Carta dei diritti per la Rete, che parta dalla constatazione che Internet sta realizzando una nuova, grande ridistribuzione del potere. Per evitare che prevalgano le logiche censorie, è tempo di affermare alcuni principi "costituzionali" come parte della nuova cittadinanza planetaria: libertà di accesso, libertà di utilizzazione, diritto alla conoscenza, rispetto della privacy, riconoscimento di nuovi beni comuni. E a Tunisi si dovrà decidere se la gestione tecnica di Internet dovrà passare dagli Stati Uniti alle Nazioni Unite.

Ma l´Unione europea, che può essere il motore di questo processo ed ha assunto una posizione coraggiosa sul tema della gestione di Internet, sta vivendo una stagione che rischia d´essere dominata unicamente da preoccupazioni riguardanti la sicurezza. Rampini ricorda che "le autorità di Shangai hanno installato telecamere negli Internet café e registrano i documenti di chi entra". E´ quel che sta accadendo anche in Europa, mentre la Commissione di Bruxelles, soprattutto sotto la spinta della Gran Bretagna, propone di ridisegnare in modo restrittivo il quadro normativo riguardante le comunicazioni telefoniche e quelle attraverso la posta elettronica e Internet, cominciando dai tempi di conservazione dei dati che le riguardano. Il Parlamento europeo e le autorità garanti stanno reagendo, sottolineando che siamo di fronte a diritti fondamentali, che non possono essere compressi senza alterare i caratteri democratici delle nostre società.

In questo conflitto prende corpo proprio la dimensione costituzionale di Internet. E la giusta proposta di una protesta capillare contro Yahoo! deve valere, a maggior forza, nei confronti di regole europee che vanno ben oltre le esigenze di tutela della sicurezza.

Usa, alla fine della Luna

Politica o quasi”, si intitola la rubrica della Dominijanni su il manifesto. La intitolerei invece “Politica e oltre”. Questo articolo è del 17 maggio 2005.

Condoleeza Rice è contrariata per il danno inferto all'immagine degli Stati uniti dall'articolo di Newsweek - poi parzialmente smentito, ma quattro ex detenuti invece lo confermano - sulle profanazioni del Corano nel campo di Guantanamo. Dice che tutta questa storia rovina gli sforzi degli americani di migliorare i rapporti col mondo musulmano, che dopo gli abusi di Abu Ghraib ci voleva poco per riaccendere l'odio antiamericano e che qualcuno l'ha tirata fuori apposta. Per la verità il danno principale di quell'articolo consiste nei morti e feriti negli scontri che ha scatenato in Afghanistan, ma su questo Rice sorvola. Il suo ragionamento non fa una piega nella logica perversa che domina l'amministrazione e mezza società americana dall'11 settembre in poi, e che consiste nel mettere gli Usa nel posto della vittima anche quando con ogni evidenza occupano quello del carnefice. E così quella promettente domanda - perché ci odiano tanto? - che sulle ceneri delle Torri gemelle si ponevano i bambini con l'apertura mentale dei bambini, diventa un'interrogativa retorica a risposta chiusa: ci odiano tanto perché siamo liberi e buoni; non c'è niente da correggere, niente da cambiare, siamo i migliori ed è questo che i barbari non ci perdonano. Slavoj Zizek ha messo in rilievo più volte questo paradosso, anche su queste pagine. Con maggiore impatto mi è capitato di sentirlo mettere in ridicolo poche sere fa da Laurie Anderson, nota artista multimediale della scena newyorkese in concerto all'Auditorium di Roma con una performance sull'estetica della guerra, la spiritualità e il consumismo. E' come quando la più antipatica della classe si convince che i compagni di scuola la odiano perché è la più bella, recita Laurie e tronca: «ma non è per questo, è perché è la più stronza».

Performance di rara intensità, The End of the Moon, secondo atto della trilogia cominciata con Happiness, in cui Anderson raccontava di quando se n'era andata a lavorare in un Mc Donald per scendere temporaneamente dal piedistallo privilegiato dell'artista e calarsi in un pezzo di vita ordinaria. Stavolta invece racconta di un viaggio con la Nasa, prima artista a essere incorporata nel santuario del sogno americano di conquista dello spazio. E da un verso all'altro del suo testo minimalista, fra una nota e l'altra dei violini estenuati sulla base elettronica ossessiva e monotonale, il sogno si capovolge in incubo. L'incubo del progresso, della conquista, dell'espansione, del primato del più forte. Lo stesso primato a cui la piccola Laurie veniva educata quando usciva di casa per andare a scuola e la madre la salutava con un «vinci!» invece di preoccuparsi di vedere come stava.

Che c'era da vincere? Niente, canta adesso l'adulta, sola sul palco in nero anch'esso minimalista, a rappresentare la solitudine malinconica dell'epoca della guerra permanente, «questa guerra non finirà mai e lo sappiamo tutti». La performance comincia con il ricordo dell'11 settembre, neanche a dirlo, e finisce con la fantasia di un'implosione dello spazio, ritorno allo status quo ante big bang, «almeno questa storia finirà com'era cominciata». In mezzo non c'è nessuna àncora occidentale, solo sprazzi di spiritualità orientale. Altro che la democrazia da esportare e i nostri valori da universalizzare. La luna è finita, il sogno americano pure, resta l'incubo e i cocci dello Shuttle da raccattare fra la costa della Florida e quella della California.

Paranoia malinconica e disperata, l'opposto esatto della paranoia onnipotente di Condoleeza Rice. Dovremmo farci calamitare meno dal delirio del potere americano, e volgere ogni tanto lo sguardo sulla sua vittima prima, gli americani che lo subiscono senza riuscire a contrastarlo, attori di una soap «scritta da troppi sceneggiatori che lavorano di notte, all'oscuro, senza che noi ne sappiamo mai niente».

Secondo un luogo comune, l´attaccamento alla democrazia si svilupperebbe da solo, causa ed effetto della democrazia stessa: tanta più democrazia, tanta più virtù democratica. Un circolo meraviglioso! La democrazia sarebbe l´unica forma di governo perfettamente autosufficiente, rispetto a ciò che Montesquieu denominava il suo ressort, la molla spirituale. Basterebbe metterla in moto, all´inizio; poi, le cose andrebbero da sé per il meglio.

Ebbene, a distanza di qualche decennio dalla Costituzione, uno scritto famoso di Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, 1984) tra le «promesse non mantenute» della democrazia indicava lo spirito democratico. Invece dell´attaccamento, cresce l´apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l´assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto. E´ pur vero che la partecipazione può improvvisamente infiammarsi e l´indifferenza può essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in situazioni eccezionali. Sono però reviviscenze che non promettono nulla di buono. Gli elettori, eccitati, si mobilitano su fronti opposti per sopraffarsi, al seguito di parole d´ordine elementari: bene-male, amore-odio, verità-errore, vita-morte, patriottismo-disfattismo, ecc., cose che lestofanti della politica spacciano come rivincita dei valori sul relativismo democratico. Parole che potranno forse servire a vincere le elezioni ma intanto spargono veleni, senza che un´opinione pubblica consapevole sappia difendersi, dopo che la routine l´ha resa ottusa. Un difetto e un eccesso: l´uno indebolisce, l´altro scuote alle radici.

Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l´ethos della democrazia non si produce da sé. Monarchie, dispotismi, aristocrazie e repubbliche hanno avuto i loro pedagoghi.

Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet, Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma ciò che qui importa, il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non è certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in democrazia. Naturale dunque è che si guardi alla scuola e al suo compito di formazione civile. Il decalogo che segue è una semplice proposta.

1) La fede in qualcosa che vale. La democrazia è relativistica, non assolutistica. Come istituzione d´insieme, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli su cui si basa. Deve cioè credere in se stessa e sapersi difendere, ma al di là di ciò è relativistica nel senso preciso della parola: fini e valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili. La verità assoluta e il dogma valgono nelle società autocratiche, non in quelle democratiche. Dal punto di vista dei singoli, invece, relativismo significa che «tutto è relativo», che una cosa vale l´altra, cioè che nulla ha valore. In questo senso, cioè dal punto di vista dei singoli, relativismo equivale a nichilismo o scetticismo. Ora, mentre il relativismo dell´insieme è condizione della democrazia, nichilismo o scetticismo sociali sono una minaccia. Se non si ha fede in nulla, perché difendere una forma di governo come la democrazia che vale in quanto le proprie convinzioni possono essere fatte valere? Per lo scettico, democrazia o autocrazia pari sono. Rallegriamoci dunque se la democrazia, come insieme, è relativistica. Solo così la società può essere libera; chi se ne duole, nasconde pensieri autocratici. Impegniamoci però in ogni luogo per scuotere l´apatia, promuovere ideali, programmi e, perché no, utopie.

2) La cura delle individualità personali.

La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa. Come Tocqueville ha antiveduto, la massificazione è un pericolo mortale. Proprio la democrazia, proclamando un´uguaglianza media, può minacciare i valori personali annullando individui e libertà nella massa informe. E la massa informe può accontentarsi di un demagogo in cui identificarsi istintivamente. I regimi totalitari del secolo scorso sono la riprova: una democrazia senza qualità individuali si affida ai capipopolo e questi, a loro volta, hanno bisogno di uomini-massa, non di uomini-individui. Per questo, la democrazia deve curare l´originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle mode. Dobbiamo vedere con preoccupazione l´appiattimento di molti livelli dell´esistenza, consumi e cultura, divertimenti e comunicazione: tutti «di massa». Chi non si adegua, nel migliore dei casi è un "originale", nel peggiore uno "spostato". Non è questa certo la prima volta che ci si rivolge proprio alla scuola perché alimenti, e non reprima, caratteri e vocazioni personali delle giovani vite con cui ha a che fare.

3) Lo spirito del dialogo.

La democrazia è discussione, ragionare insieme; è, socraticamente, filologia. Chi odia discutere, il misologo, odia la democrazia, forma di governo discutidora. Alla persuasione preferisce l´imposizione. Maestro insuperabile dell´arte del dialogo, cioè della filologia, è certo Socrate, cui si deve la denuncia di due opposti pericoli. Vi sono - dice - "persone affatto incolte", che "amano spuntarla a ogni costo" e, insistendo, trascinano altri nell´errore. Vi sono poi però anche coloro che "passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi i più sapienti per aver compreso, essi soli, che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c´è nulla di sano o di saldo, ma tutto va continuamente su e giù". Dobbiamo guardarci da entrambi i pericoli, l´arroganza del partito preso e il tarlo che nel ragionare non vi sia nulla di integro. Per preservare l´onestà del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche, quelle che li manipolano, travisano o addirittura creano o ricreano ad hoc. Sono regimi corruttori delle coscienze «fino al midollo», quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un «nichilismo della realtà», mettendo sullo stesso piano verità e menzogna. Gli eventi della vita non sono più «fatti duri e inevitabili», bensì un «agglomerato di eventi e parole in costante mutamento (su e giù, per l´appunto), nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso», secondo l´interesse del momento (Hannah Arendt). Perciò, la menzogna intenzionale - strumento ordinario della vita pubblica - dovrebbe trattarsi come crimine contro la democrazia. Né intestardirsi, dunque, né lasciar correre, secondo l´insegnamento socratico. Il quale ci indica anche la virtù massima di chi ama il dialogo: sapersi rallegrare di scoprirsi in errore. Chi, alla fine, è sulle posizioni iniziali, infatti, ne esce com´era prima; ma chi si corregge ne esce migliorato, alleggerito dell´errore. Se, invece, si considera una sconfitta, addirittura un´umiliazione, l´essere colti in errore, lo spirito del dialogo è remoto e dominano orgoglio e vanità, sentimenti ostili alla democrazia.

4) Lo spirito dell´uguaglianza.

La democrazia è basata sull´uguaglianza; è insidiata dal privilegio. L´uguaglianza è isonomia - «la più dolce delle parole» - l´uguaglianza delle leggi, che, in Grecia, precedette il secolo glorioso della democrazia ateniese. Senza leggi uguali per tutti - pensiamo ai privilegi, alle leggi ad personas - la società si divide in caste e la vita collettiva diventa dominio di oligarchie. Il privilegio crea arrivismo e rincorse perverse. Se la mobilità e gli accessi in alto esistono, la società è sottoposta a stress dal carrierismo diffuso, con disagio, frustrazioni, perfino suicidi; se si chiudono, per insufficiente mobilità, si ingenera un terribile male distruttivo, l´invidia sociale. Tanto sono evidenti, non occorrono esempi della caduta attuale dello spirito di uguaglianza. Si tratta anzi di un rovesciamento: l´ammirazione sta al posto del disprezzo verso i privilegiati, esempi da imitare nel modo di pensare e nello stile di vita. C´è un luogo di culto sociale che esprime lo spirito autentico del nostro tempo: lo stadio. Si faccia attenzione alle stratificazioni del pubblico.

Alla tribuna volgarmente denominata dei vip, dove siedono i prominenti di politica, finanza, mondanità, si volgono gli occhi di diecine di migliaia di potenziali clientes che, invece di avvertire l´indecenza della situazione, farebbero di tutto per esservi ammessi.

5) Il rispetto delle identità diverse.

In democrazia le identità particolari sono ininfluenti sul diritto di stare in società. Non è stato così in passato; non è pienamente così neppure ora. Oggi, il problema della coesistenza di identità plurime è di natura etnico-culturale e religiosa; storicamente, è stato religioso, derivando dal distacco della Riforma dalla Chiesa di Roma. In nome dell´ordine interno, col principio cuius regio, eius et religio, a metà del ?500 si impose in Europa l´identità di religione agli abitanti le medesime terre, rendendo sì possibili le migrazioni da uno stato all´altro per difendere, insieme alla vita, la fede, ma permettendo la persecuzione religiosa entro ciascuno Stato. L´idea della tolleranza nacque per consentire di tenere insieme terra e fede, per non dover perdere l´una volendo conservare l´altra. Ma non alla tolleranza si rivolge la democrazia. Il contesto è diverso. L´assolutismo, quando si ammorbidisce, può parlare di tolleranza; non la democrazia, cui si addice invece il linguaggio della cittadinanza, uguale per tutti. Onde il concetto di identità, se deve valere per riconoscere e proteggere le culture diverse, è irrilevante per la partecipazione alla vita pubblica.

Il rischio viene ora da un nuovo richiamo all´unione tra potere civile e religione. Storicamente, essa ha posto la vita religiosa sotto la potenza degli Stati. Oggi, «atei-clericali», o come li si possa chiamare, mirano al rovescio: cuius religio, eius et regio, in un ambiguo intreccio di potere civile e religioso in cui l´uno si appoggia sull´altro (Stefano Levi della Torre). Una nuova alleanza tra trono e altare, una minaccia di rinnovate intolleranze su ampia scala. Questi problemi sono particolarmente vivi nel riflesso che hanno con riguardo ai simboli, velo islamico o crocifisso cristiano. La democrazia non ne può impedire l´esposizione a nessuno in particolare, ma nessuno, a sua volta, può farne uso aggressivo. Se e quando prevarrà il reciproco rispetto, un problema che oggi appare tanto acuto, all´identità associandosi l´esclusione, si supererà da sé, senza bisogno di soluzioni giuridiche. Molto può la scuola nel promuovere la reciproca accettazione e con ciò abbassare l´insolenza dei segni distintivi.

6) La diffidenza verso le decisioni irrimediabili.

La democrazia implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia stessa). Le soluzioni definitive ai problemi, senza possibili ripensamenti e correzioni, sono dei regimi della giustizia e verità assolute. In quanto perennemente dialogica, la democrazia non ha e non può volere verità né a priori, come frutto per esempio di mandati divini, né a posteriori, come conseguenza di decisioni popolari, anche se unanimi. La strada per dire: «ci siamo sbagliati» deve restare sempre aperta. Non è privo di significato che le democrazie siano prevalentemente orientate contro la pena di morte e contro la guerra, due decisioni dagli effetti irreversibili. Le autocrazie, invece, non hanno scrupoli.

Possono fondarsi, come in de Maistre, sull´elogio congiunto della forza armata e del boia, naturali prosecuzioni della verità assoluta. Tutti comprendiamo quanto le decisioni irreversibili possano pregiudicare la discussione in materie oggi divenute cruciali, come la bioetica, la tecnologia applicata ai temi della vita, della morte e della salute o il rapporto tra l´essere umano e la natura - tutte esposte al rischio di scelte senza ritorno.

7) L´atteggiamento sperimentale.

La democrazia è orientata da principi ma deve imparare quotidianamente dalle conseguenze dei propri atti. E´ scontata la citazione della weberiana etica della responsabilità, accanto all´etica della convinzione. Non è così per i regimi della verità assoluta. Essi non temono le conseguenze. Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus. Lo spirito democratico è invece quello in cui convinzioni e conseguenze formano il campo di tensione che determina le norme dell´agire responsabile. Ogni progetto realizzato apre problemi che rimettono in discussione il progetto. L´esperienza è il banco di prova della teoria. Immergersi in questa tensione forma il carattere, rende accettabili le sconfitte e promuove nuove energie. Sotto questo aspetto, l´istituzione scolastica da noi è particolarmente carente, orientata com´è all´astrattezza che genera distacco dal mondo, induce alla rinuncia e invita all´individualismo chiuso in se stesso.

8) Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza.

In democrazia, nessuna deliberazione si interpreta nel segno della ragione e del torto. Non vale la massima terroristica: vox populi, vox dei. Essa solo apparentemente è democratica poiché nega il diritto della minoranza, la cui opinione, per opposizione, si direbbe vox diaboli. Vox populi, vox hominum, invece; voce di esseri fallibili ma disposti a riconoscere i propri errori. Il motore di questo movimento sta non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto «distinguìti dalla maggioranza nel compiere ciò che ritieni giusto». La loro ragione d´essere è la sfida alla deliberazione presa, in previsione di un´altra migliore. Per questo, la prevalenza di una maggioranza su una minoranza non è la vittoria della prima e la sconfitta della seconda ma l´assegnazione di un duplice onere: alla maggioranza, dimostrare nel tempo a venire la validità della decisione presa; alla minoranza, insistere su ragioni migliori. Ond´è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle che instaurano la democrazia stessa) chiude definitivamente la partita, perché il terreno per la sfida di ritorno è sempre aperto.

9) L´atteggiamento altruistico. La democrazia è forma di vita di esseri umani solidali. La virtù repubblicana di Montesquieu è questo: amore per la cosa pubblica e disponibilità a mettere in comune qualcosa, anzi il meglio di sé: tempo, capacità, risorse materiali. Ciò costituisce la res publica come risorsa comune cui tutti possono attingere. L´emarginazione sociale è dunque contro la democrazia e l´idea che nessuno possa essere lasciato a se stesso non è elemento accidentale della democrazia. L´alternativa è il darwinismo sociale, l´ideologia crudele che legittima la fortuna dei forti e abbandona i deboli alla loro sorte. Dire queste cose a un pubblico di insegnanti che quotidianamente hanno a che fare con studenti che eccellono e con altri che faticano a tenere il passo significa evocare problemi che essi conoscono bene e solidarizzare con la loro fatica.

10) La cura delle parole. Essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le parole, devono essere oggetto di cura particolare, come non è in nessun´altra forma di governo. Cura duplice: quanto al numero e alla qualità. (a) Il numero di parole conosciute e usate è proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia. Quando il nostro linguaggio politico si fosse rattrappito al solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo ridotti a gregge. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti nella scala sociale. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà al logos migliore, ma al più abile con le parole, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza nella distribuzione delle parole. «E´ solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l´espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ed ecco perché una scuola ugualitaria è condizione di democrazia. (b) La qualità delle parole. Per l´onestà del dialogo, le parole non devono essere ingannatrici. Parole precise e dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole su parole. Le parole, poi, devono rispettare, non corrompere il concetto. Altrimenti, il dialogo diventa un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con la frode. Ancora impariamo dal Socrate del Fedone: «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi». Il mondo della politica è dove questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare per l´appunto dalla parola «politica». Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano arte, scienza e attività dedicate alla convivenza. Ma oggi si parla di politica di guerra, segregazionista, espansionista, coloniale, ecc. «Questa è un´epoca politica - ha scritto Orwell. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono ciò a cui pensare». Altro inganno: la libertà, da protezione degli inermi contro gli abusi del potere è diventata, nell´uso «politico», scudo dietro il quale i potenti nascondono la loro pre-potenza.

Inganni, dunque. A chi pronuncia parole come queste siamo autorizzati a chiedere: da che parte stai? Degli inermi o dei potenti?

Abbiamo detto della democrazia e cercato di mettere in luce dieci implicazioni pratiche della sua nozione con riguardo agli atteggiamenti spirituali che ne devono conseguire. Sarà stato certamente notato, tuttavia, che il problema più importante e, al tempo stesso, più difficile si è finora evitato. Si è infatti è taciuto della premessa, l´adesione alla democrazia. La domanda, ora, non è se si possa insegnare che cosa è o qual è lo spirito della democrazia, ma se si possa insegnare a essere democratici, cioè ad assumere nella propria condotta la democrazia come ideale o virtù da onorare e tradurre in pratica. In breve, si tratta di sapere se ideali e virtù, in particolare la virtù politica che sta a base della democrazia, siano insegnabili oppure no.

Siamo così pienamente, di nuovo, al centro di un argomento tipicamente socratico. Se solo alcuni e non altri sono predisposti alla virtù politica, gli uni saranno destinati a governare e i secondi a obbedire e la democrazia sarebbe un esperimento contro natura, destinato ad avere vita breve e a produrre gran danno.

Essa ci consegnerebbe indifesi nelle mani di maggioranze di ignoranti senza testa politica, nella migliore delle ipotesi; di malvagi con testa criminale, nella peggiore. Il mito del Protagora racconta di come Prometeo, avendo distribuito agli esseri viventi, per conto degli dei, tutte le facoltà necessarie per una vita buona, si accorse che mancava agli uomini l´euboulía, l´assennatezza nelle deliberazioni comuni. Onde essi fondavano città per difendersi dai pericoli della vita ferina ma, una volta radunati, scoppiavano dissidi, si disperdevano di nuovo e perivano. «Ora Zeus, temendo l´estinzione della nostra stirpe, manda Ermes a portare tra gli uomini rispetto e giustizia, affinché siano ornamenti e vincoli, propiziatori d´amicizia. Ermes dunque interroga Zeus in qual maniera virtù e rispetto si debbano distribuire tra gli uomini. "Debb´io distribuirle come furono distribuite le arti? E le arti furono distribuite così: un solo che possiede la medicina basta a molti che non la possiedono; e così anche i cultori delle altre arti: devo io dunque collocare allo stesso modo giustizia e rispetto tra gli uomini, o distribuirla tra tutti?". "Tra tutti - risponde Zeus - e che tutti ne abbiano parte, perché non potrebbero esistere le città, se ne partecipassero pochi, come avviene per le altre arti. E poni il mio nome per legge, affinché chi non partecipi al rispetto e alla giustizia sia ucciso come peste della città"». Tutti sono dunque capaci di virtù politica. Basta che la conoscano. Questa era la convinzione socratica: la virtù esiste in sé, tutti la possono conoscere e, poiché nessuno è malvagio se non per ignoranza, ciò che occorre e basta per essere virtuosi è la retta conoscenza.

Noi sappiamo che, disgraziatamente, non è così; che Socrate erra, sia perché le virtù non sono realtà obiettive ma valori soggettivi; sia perché, comunque, nella natura umana la conoscenza non coincide affatto con la coscienza, perché si può essere malvagi con la perfetta consapevolezza di esserlo.

Se dunque non è la conoscenza che fonda l´adesione alla virtù, potrà essere l´utilità? Possiamo cioè pensare di promuovere adesione alla democrazia mostrandone i vantaggi? Purtroppo, anche qui la risposta è no. Se ci riferiamo a beni come, per esempio, lo sviluppo economico, la promozione delle arti e della scienza, la pacifica convivenza, la sicurezza pubblica come frutti benefici della democrazia, non possiamo non considerare che esistono momenti critici in cui, proprio per garantirceli quando paiono sfuggirci, siamo disposti a limitare la democrazia, o addirittura a rinunciarci, per metterci nelle mani salvifiche di qualcuno che provveda per tutti. Onde, una fondazione solo strumentale e utilitarista della democrazia potrebbe rivelarsi un suicidio.

Né dunque essenzialismo alla Socrate, né mero utilitarismo, nella pedagogia democratica. Che dire allora, senza cadere in melliflua, ideologica e alla fine falsa e controproducente propaganda di un valore? Chi ha qualche esperienza di insegnamento di temi politici e costituzionali - la legalità, la libertà, la solidarietà, la democrazia, per l´appunto - conosce bene questo pericolo. Un pericolo che comporta anche una contraddizione: qualsiasi altro sistema di governo, ma non la democrazia, può far uso di propaganda. In ogni propaganda è implicita una tentata violenza all´altrui libertà di coscienza. La democrazia è dialogo paritario e, se vuol essere tale, questo deve farsi deponendo ogni strumento di pressione: innanzitutto pressione materiale, come quella che viene dalla violenza e dalle armi, ma anche pressione morale, come quella che può essere esercitata nel rapporto asimmetrico di autorità-soggezione che si crea talora, quando degenera in autoritarismo, tra padre e figli, maestro e allievo: un rapporto che può mancare di rispetto e contraddire libertà e democrazia.

Pensando e ripensando, non trovo altro fondamento della democrazia che questo solo. Solo, ma grande: il rispetto di sé. La democrazia è l´unica forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità nella sfera pubblica, mi riconosce capace di discutere e decidere sulla mia esistenza in rapporto con gli altri. Nessun altro regime mi presta questo riconoscimento, poiché mi considera indegno di autonomia, fuori della cerchia stretta delle mie relazioni puramente private. E´ per questo - cosa notevole - che la Chiesa cattolica, pur in origine favorevole a regimi politici autocratici e poi indifferente, purché essi fossero rispettosi dei suoi diritti e del suo diritto naturale, ha da ultimo condannato le dittature (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 75) e fatto affermazioni preferenziali nei confronti della democrazia (ivi, 32), stante il rapporto tra questa e la dignità umana, un pilastro del suo insegnamento sociale attuale.

Ma non basta il rispetto di sé, occorre anche il rispetto, negli altri, della stessa dignità che riconosciamo in noi. Il motto della democrazia non può che essere: «Rispetta la dignità del prossimo tuo come la tua stessa». Infatti, il solo rispetto di se stessi e il disprezzo degli altri portano non alla democrazia ma alla lotta per l´affermazione della propria autocrazia, al fine di evitare la necessità e la limitazione del necessario coordinamento reciproco.

Questo rispetto è qualcosa di moralmente elevato, ma non necessariamente incontestabile. Si può rispettare in sé la propria dignità, e così negli altri; ma ugualmente ci possono essere buone ragioni per disprezzare sé e gli altri: ragioni personali, che affondano le loro radici nelle storie individuali; ma anche ragioni universali, come quelle offerte dalle religioni che annichiliscono di fronte a Dio l´essere umano, peccatore fin dall´origine e indegno di condursi da sé, e si predispongono così a forme di governo teocratiche o autocratiche su base religiosa.

Anche a questo proposito, la storia meno recente della Chiesa cattolica e dei suoi rapporti con l´autorità politica è istruttiva. E lo sono anche certi tentativi recenti di imporre verità dogmatiche tramite la forza dello stato, in questioni eticamente sensibili come quelle che riguardano la tecnologia applicata alla nascita, alla vita e alla morte.

D´altra parte, il rispetto di sé e degli altri è sempre esposto al peso della spossatezza. La democrazia stanca. L´oppressione dispotica suscita reazione e ribellione, la democrazia invece stanchezza. La virtù democratica è cosa «pénible», come annotava già Montesquieu: «La virtù politica (della democrazia) è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua prestata all´interesse pubblico invece che agli interessi propri».

Dunque, rispetto agli istinti egoistici, essa, se non proprio una cosa contro natura, almeno è una sfida permanente.

Ma vale la pena questa rinuncia? A che pro? Abbiamo già ricordato le «promesse non mantenute» della democrazia, di cui ha parlato il professor Bobbio. L´elenco delle delusioni è lungo: l´ingovernabilità delle società pluraliste; la rivincita degli interessi corporativi che soffocano l´interesse generale; la persistenza di oligarchie economiche, politiche e di ogni altra natura; lo spazio limitato che la democrazia occupa, non essendo riuscita a penetrare dappertutto nella società; il potere occulto che contrasta con l´esigenza primordiale che il potere si mostri pienamente in pubblico e ha indotto a parlare di un «doppio stato», uno visibile e un altro invisibile; l´apatia politica; il fanatismo e l´intolleranza; tecnocrazia e burocrazia (e quindi gerarchia) invece che democrazia; sovraccarico di domande e difficoltà delle risposte, cioè ingovernabilità. Questo elenco, col senno dell´oggi, è incompleto. Parliamo di videocrazia, conseguente alla crescente concentrazione a livello mondiale e nazionale della comunicazione politica; di plutocrazia, determinata dall´assunzione del potere politico in mani di pochi detentori di smisurate ricchezze personali, e di cleptocrazie, quando quelle ricchezze sono il frutto di attività illecite. Si assiste con un senso di impotenza allo sviluppo di una dimensione ormai planetaria delle organizzazioni degli interessi industriali e finanziarie dell´odierno capitalismo, in un mercato che palesemente sfugge al controllo dei poteri politici nazionali, ammesso che essi, anziché essere conniventi, intendano porre regole e controlli. L´aumento delle disuguaglianze e delle ingiustizie su scala mondiale alimenta l´identificazione dei regimi democratici con le plutocrazie, da cui l´identificazione della democrazia, ideale universale, con un regime di casa nostra, regime dei forti e dei ricchi, che credono talora di poterla imporre con lo strumento tipico dei prepotenti, la guerra.

Queste sono le «promesse non mantenute». Ma che significa questa espressione? Non nasconde forse un malinteso? E´ infatti un modo di dire approssimativo che mette fuori strada. E´ come se un tempo ci fossimo affidati alla democrazia, aspettandoci un contraccambio, e quindi potessimo lamentarci se le nostre attese sono andate deluse. Ma la democrazia non è un´Alcina o una Circe. Non ci hanno detto una volta: venite da noi ché vi promettiamo una vita di amorose delizie, e si siano poi scoperte per megere ributtanti che ci riducono a una vita animalesca. Non è qualcosa fuori di noi, indipendentemente da noi e tanto peggio per noi, se ci siamo illusi. Non è lecito parlare di promesse non mantenute della o dalla democrazia, come se questa ci avesse un tempo dato affidamenti, poi rivelatisi vani. La democrazia non promette nulla a nessuno ma richiede molto a tutti. E´ non un idolo ma un ideale corrispondente a un´idea di dignità umana e la sua ricompensa sta nello stesso agire per realizzarlo. Se siamo disillusi, è per illusione circa la facilità del compito. Se abbiamo perduto fiducia è perché siamo sfiduciati in noi stessi. Le promesse sono quelle che ci scambiammo tra noi nel dire di volere la democrazia (art. 1 della Costituzione) e, se non sono state mantenute, è perché abbiamo mancato verso noi stessi ed è qui, in questo scarto tra ciò cui aspiriamo e la bruta realtà delle cose, che, naturalmente, si innesta il nostro tema: la pedagogia democratica, l´insegnar democrazia.

Lo spirito attuale, di fronte a queste disillusioni, non è certo quello trionfante in cui cinquanta anni fa si celebrava la vittoria delle democrazie sui totalitarismi. Nel 1951, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, si tenne un simposio sulla democrazia promosso dall´Unesco cui parteciparono centinaia di studiosi di tutto il mondo e di ogni orientamento politico. Per la prima volta nella storia dell´umanità, in quegli anni la democrazia riceveva il riconoscimento di unica definizione ideale di tutti i sistemi di organizzazione politica e sociale e diventava la categoria-base su cui collocare e a cui confrontare tutte le azioni, i pensieri e le relazioni politiche. Essa risuonava come sintesi di tutto ciò che di bello e buono esiste nella vita collettiva. Nessun regime, capitalista o socialista, liberale o sociale, pluripartitico o a partito unico, rappresentativo o basato su auto-investiture carismatiche, ecc. intendeva rinunciare ad autoproclamarsi democratico. Il problema dell´adesione sembrava universalmente risolto. Fin da allora, però, doveva risultare chiaro proprio da quell´illimitata adesione che il nobile concetto era sottoposto a una tale dilatazione da perdere di significato, oltre che analitico, anche ideale, predisponendosi così, fin da allora, a corrompersi e anche a rendere bassi servigi a chi avesse voluto travestirsi in democratico per i propri scopi.

Quello spirito trionfante non c´è più e ci si accorge sempre più spesso che la democrazia esige ricostruzione, dove c´è da recuperare le posizioni, e resistenza, dove c´è da salvaguardarle.

E si fa sempre più chiara la consapevolezza che si ha a che fare con macro-difficoltà, mentre la democrazia, oggi, è all´altezza dei suoi propositi piuttosto in micro-dimensioni. Ma cos´altro possiamo fare se non considerare che la diffusione nelle coscienze dell´attaccamento alla dignità delle persone, al valore della democrazia e alle azioni che ne derivano si possa generalizzare al punto da insidiare, a sua volta, le insidie che la minacciano?

Il titolo dell' Unità di martedì scorso «Fazio se ne va, ritorna la Banca d'Italia» esprimeva solo una speranza, certo generosa, ma niente di più. La verità è che siamo al tramonto di Bankitalia, che Fazio, al massimo, ha solo accelerato e reso clamoroso. La Banca d'Italia, da quando c'è l'euro non ha più il governo della moneta (con il quale faceva politica economica), ora perde anche il controllo sulla concorrenza che passa all'Antitrust. Qualcuno potrà annetterla agli enti inutili. Forse esagero, ma il punto di maggiore interesse e preoccupazione è che la caduta di Bankitalia mette in piena luce un quadro complessivo di liquidazione o indebolimento dei poteri sui quali si è fondato l'equilibrio democratico del nostro paese. I partiti politici praticamente non ci sono più, il parlamento è fortemente indebolito, la stessa Confindustria non si sa bene che cosa rappresenti (i poteri dei capitalisti si esprimono più attraverso stampa e televisione che non attraverso l'associazione). Si può aggiungere che anche i sindacati non hanno più la forza che avevano negli anni `70. Il tramonto di Bankitalia appare come il compimento del franare della costituzione materiale del paese. E tutto questo - già preoccupante - ha due aggravanti.

Innanzitutto il famoso declino, che continua e si esprime in una stagnazione o calo della produttività. Un calo della produttività che se continua, come si prevede, ci sbatterà in faccia la questione salariale e la prospettiva di un blocco o riduzione dei salari non può procedere nella pace sociale; comporterà scontri e domanda di autorità.

In secondo luogo siamo - a livello europeo - a una crisi, direi una cancellazione, della politica economica, se non addirittura della politica. Prendiamo il caso delle banche: le banche centrali dei singoli stati hanno poteri assai ridotti e non hanno più il governo della moneta: non possono più svalutare o rivalutare, alzare o abbassare i tassi di interessi. Ma, nel contempo la Banca centrale europea ha solo una funzione antinflazionistica, cioè solo di freno e non di promozione. E così è anche a livello degli stati: gli stati nazionali debbono stare dentro le regole di Maastricht, ma non c'è uno stato federale europeo in grado di fare politica economica europea. Gli stati nazionali sono ingabbiati e non c'è uno stato europeo in grado di fare una politica continentale, sia pure articolata nelle varie regioni che lo compongono.

Sarò troppo incline al pessimismo ma una situazione caratterizzata dal frammento dei poteri componenti dell'equilibrio costituzionale di un paese e dalla estrema difficoltà o impossibilità di sviluppare politiche in grado di contrastare il declino economico e la caduta della produttività non promette nulla di buono. All'orizzonte si riaffaccia il fantasma delle tentazioni autoritarie, anche in situazioni e forme fortemente diverse da quelle che abbiamo sperimentato nel passato.

Eccesso di «disfattismo», come si diceva in tempi di guerra? Forse, ma il modo con il quale l'attuale governo ha chiesto la fiducia per il disegno di legge sul risparmio non è un buon segno.

Si apre oggi a Bagdad il primo di una serie di processi a Saddam Hussein.

È giusto trascinare l´ex dittatore davanti ad un giudice penale? Per quali motivi lo si fa?

Processando Saddam si potrà certo portare alla luce e documentare crimini efferati, ignoti alla maggior parte degli iracheni. Il processo avrà dunque un effetto non solo archivistico ma anche pedagogico, perché aprirà gli occhi di tanti. Si potrà pure dare un minimo di soddisfazione morale ai familiari delle vittime. E gli americani realizzeranno il loro obiettivo principale, che è duplice: legittimare politicamente e idealmente il nuovo governo, mostrando le nefandezze di quello precedente, e contribuire a ridurre il sostegno della popolazione per gli insorti baathisti, screditando tutti i seguaci di Saddam.

C´è anche un altro intendimento: esporre l´ex dittatore in tutte le sue debolezze di uomo, umiliandolo in pubblico: lui abituato a terrorizzare chiunque non si piegasse ai suoi ordini, costretto ora a tacere se zittito dalla Corte, ad ascoltare pazientemente tutti i testimoni a carico, a difendersi da gravi accuse. A questo scopo il governo iracheno sta prendendo tutte le misure necessarie ad evitare che Saddam adotti la strategia di Milosevic, che, difendendosi da solo, ha trasformato il processo dell´Aia in una tribuna politica per attaccare i suoi avversari politici e i suoi giudici.

A Bagdad è stata appositamente cambiata una norma processuale, proprio per impedire a Saddam di difendersi da sé: potrà solo essere rappresentato da un avvocato di sua scelta.

In principio è giusto processare l´ex dittatore: fare giustizia risponde sempre a una esigenza legittima. Chi può però ignorare le molte ombre che gravano sul tribunale iracheno? Questo tribunale soffre di un male oscuro: la «sindrome di Norimberga». Norimberga, si sa, segnò una svolta nella storia contemporanea, perché per la prima volta nel 1945-46 leader politici e militari vennero sottoposti a giudizio per i loro crimini. Norimberga servì a documentare le atrocità naziste e il genocidio, ancora non abbastanza conosciuti nel dopoguerra. Servì a scuotere le coscienze di tutti i tedeschi che avevano colpevolmente taciuto o accettato. Servì anche, come fece notare al Presidente Truman il più eminente membro dell´accusa, l´americano Robert Jackson, ad aprire gli occhi agli americani che, non avendo visto la guerra da vicino, non ne avevano vissuto direttamente gli orrori. Ma tutti sanno che Norimberga si macchiò di una grave colpa: vennero processati e puniti solo i vinti. Uno dei 22 imputati riuscì a far parlare dei crimini degli alleati solo di sfuggita. L´ammiraglio Doenitz invocò il principio tu quoque per discolparsi dell´accusa di aver fatto colare a picco dai sottomarini tedeschi le navi commerciali delle Potenze alleate senza previo avvertimento, e di non aver salvato i naufraghi; egli dunque abilmente fece interrogare dalla corte l´ammiraglio statunitense Nimitz, il quale ammise che anche gli americani si erano comportati nello stesso modo. Nell´insieme però il processo finì per costituire il prolungamento giudiziario della vittoria militare, anche se poi i giudici pronunciarono sentenze eque. Lo stesso accadde a Tokyo con il processo dei maggiori criminali giapponesi.

Purtroppo questo vizio profondo si è sottilmente insinuato anche nei successivi tribunali internazionali ad hoc, quelli per l´ex Jugoslavia e per il Ruanda. A differenza di quello di Norimberga, essi sono composti da giudici che non hanno alcun legame con le parti ai rispettivi conflitti. Si mirava così ad assicurare un´assoluta imparzialità. Tuttavia, quando si è posto il problema di accertare se i militari della Nato avevano commesso crimini di guerra in Serbia nel 1999, il Procuratore dell´Aia ha preferito evitare l´apertura di investigazioni. Quando lo stesso procuratore ha cominciato ad indagare sui crimini imputati ai vincitori nel Ruanda, e cioè ai Tutsi attualmente al governo, i politici si sono mossi ed il procuratore è stato rapidamente sostituito dal Consiglio di sicurezza. Così la «sindrome di Norimberga» serpeggia nei due tribunali, e ne infirma la portata, malgrado i grandissimi meriti che hanno acquisito e il modo per altri versi esemplare in cui stanno amministrando la giustizia. Finora si salva la Corte penale internazionale, che peraltro non ha ancora svolto alcun processo, a tre anni dalla sua istituzione.

Quella sindrome è esplosa macroscopicamente nel caso dell´Iraq. Il tribunale per Saddam rappresenta un vistoso passo indietro. È un organo esclusivamente nazionale: istituito di fatto dalla maggiore potenza occupante, il 10 dicembre 2003, è composto solo da giudici iracheni, accuratamente selezionati dall´occupante (non venne accolta la proposta, che facemmo in molti, di internazionalizzare la corte includendovi eminenti giudici di altri paesi arabi). È anche un tribunale speciale, costituito quasi ad personam: la sua competenza si estende ai crimini commessi tra il 17 luglio 1968 (data dell´ascesa al potere di Saddam) e il 1° maggio 2003 (quando Bush proclamò la fine delle operazioni militari e la sconfitta del dittatore iracheno). Date scelte oculatamente! Tutto ciò che è avvenuto durante e dopo l´occupazione (compresi i crimini degli occupanti, degli insorti e dei terroristi) è escluso dalla competenza del tribunale: creato dunque solo per sottoporre a processo penale il passato regime.

Pensate che un tribunale così costituito possa fare giustizia in modo equo? Viene in mente quel che un generale statunitense disse nel 1946 a Röling, il membro olandese del Tribunale internazionale di Tokyo, a proposito di alcuni generali giapponesi: «Faremo loro un bel processo, un processo equo, e poi li impiccheremo». Bando dunque ai processi? No, vanno fatti, soprattutto contro i dittatori. Senza però che le strumentalizzazioni politiche vanifichino i nobilissimi fini della giustizia.

La legge scritta fu una conquista, nel mondo greco arcaico. Prima c’era il predominio di gruppi, aristocratici e sacerdotali, che "amministravano" una legge «atavica» di cui erano e si proclamavano i soli detentori ed interpreti; e la cui integrità testuale era incontrollabile. La legge scritta era stata dunque una conquista contro l’arbitrio di una «legge non scritta» promanante dall’alto e controllata da caste protette dal paravento della sacralità. Non è secondario che le «leggi non scritte» siano state sin dal principio fatte percepire come un bagaglio «primario» di principi fondamentali: in nuce una sorta di diritto di natura in cui sostanza comportamentale empirica ed alone di sacralità religiosa si fondevano.

Va da sé che lo sviluppo in direzione di una prassi democratica (decisioni condivise da un ampio corpo decisionale sulla base di norme, accettate e controllabili) è andato di pari passo con l’estendersi ed il consolidarsi della pratica della «legge scritta». Essa a sua volta si accompagna a una diffusione dell’alfabetismo, che non è facile definire e quantificare in modo puntuale ma che indubbiamente rientra, come componente, in questo quadro. S’intende che anche il non alfabetizzato può farsi leggere la norma alla quale intende richiamarsi, e che c’è - per esempio ad Atene - un mestiere che pertiene direttamente a questo ambito, una figura che «collega» i cittadini alla legge: i logografi (potremmo definirli anche, modernamente, avvocati).

Non deve perciò sorprendere che il maggiore statista dell’Atene classica, Pericle, sia rappresentato da uno storico suo contemporaneo e ammiratore (Tucidide) nell’atto di elogiare il sistema politico vigente nella città (che lui dice potersi definire faute de mieux, «democrazia») e di indicare nelle leggi scritte il baluardo della libertà individuale. Ma Pericle, in quel discorso solenne che forse pronunciò davvero all’incirca in quella forma in cui Tucidide lo fa parlare, dice anche tutta la sua considerazione per le «leggi non scritte» e lascia intendere che esse comportano, se violate, soprattutto una sanzione morale (lui dice «vergogna»).

Cos’era accaduto? Il grande fatto nuovo intervenuto tra l’albeggiare della democrazia e la matura età di Pericle era stato l’irrompere di un movimento di pensiero la cui ampiezza, pervasività, efficacia e capacità di fare immediatamente presa su larghe cerchie fu almeno pari a quella dell’Illuminismo: intendo la Sofistica. Forse la corrente di pensiero più influente, anche per i suoi effetti di lunga e lunghissima durata, di tutta l’età antica. La Sofistica aveva brandito una scoperta: che cioè la legge positiva, concreta, stabilita dalle varie città, è convenzione, mentre durevole e non di rado in contrasto con la legge convenzionale è quel nucleo profondo stabile e anche ben visibile e sempre riaffiorante (anche quando la si conculca) che è la natura. Di qui il proporsi di una antitesi legge/natura che però poteva avere gli esiti più diversi. Per un verso una rispettosa accettazione delle singole «convenzioni» (tolleranza, ai limiti avalutativa); per l’altro la pretesa di fare largo soprattutto alla natura, unica «vera».

Ma che idea alcuni di loro avevano, o suggerivano, della «natura»? Dall’esperienza avevano ricavato una visione realistica. Ed era difficile contrastare la veduta che apertamente affermavano che il rapporto di forza, la "naturale" prevalenza del più forte (nei più diversi campi, dalla politica al mondo animale) riflettesse appunto, e appieno, la fondamentale «legge di natura». Nel dialogo che lo stesso Tucidide immagina svolgersi tra Melii e Ateniesi, questi ultimi sostengono che tale legge vige anche tra gli dei, nel mondo degli dei!

Ecco dunque l’imbarazzo della città democratica di fronte a questa frastornante "rivelazione", ed ecco sorgere orientamenti di pensiero miranti a rintracciare altri fondamenti universali dell’agire (e del dover agire) umano non semplicemente regolati dalla ferina «naturalità» della forza. Tutto il socratismo fino alle sue propaggini moderne è stato impegnato in questo sforzo di superamento del possibile "baratro etico" aperto dalla Sofistica. Allo stesso fine, ma con risorse intellettuali arcaiche, mira la riscoperta, simboleggiata da Antigone, della «santità» delle leggi non scritte (ma "naturali").

E nel mondo della politica? Lì si produce, con lo sviluppo della democrazia radicale, una svolta inattesa, pur essa legata ai rapporti di forza. Sorge cioè col tempo all’interno della città democratica una polarità tra l’idea della superiorità della legge (nucleo di partenza della democrazia stessa contro il sopruso di casta) e l’idea, estrema, che il popolo è esso stesso al di sopra della legge. E’ quello che dicono i capipopolo, minacciosamente, durante la prima fase del processo dei generali vincitori alle Arginuse: «qui si vuole impedire al popolo di fare quello che vuole!».

L'immagine è tratta dalla bella rivista Sagarana.net

«L'esperienza americana in quanto grande democrazia multietnica ci fa sostenere la convinzione che i popoli di diverse tradizioni e fedi possono vivere e prosperare in pace». Così la lettera di un passo della National Security Strategy, contraddetta dallo spirito di tutto quel documento dell'autunno 2002 inaugurale non solo della strategia militare della guerra preventiva, ma della strategia filosofica del primo mandato di Bush il giovane. Strategia che all'individuazione del nuovo nemico esterno - il Male del terrorismo internazionale in lotta contro il Bene della democrazia e della libertà - accompagnava l'individuazione dei nuovi nemici interni agli Stati uniti: non tanto questo o quel gruppo etnico o culturale, quanto e prim'ancora la filosofia del multiculturalismo politically correct che aveva largamente informato l'America clintoniana. Bisognava farla finita con quella rispettosa coesistenza fra culture diverse che nel senso comune democratico aveva sostituito e proseguito il mito del melting pot, e rilanciare il totem perduto di un'identità angloamericana originaria, liberale, proterstante, basata sul culto del lavoro e della proprietà, egemone su tutte le altre identità impiantatesi nel nuovo mondo per successive ondate immigratorie. Il presidente texano che ostentatamente pronunciava Airaq invece che Iraq incarnava perfettamente questo passaggio dal politically correct multiculturale a un disprezzo per le diversità etniche e culturali mascherato di noncuranza wasp. Lungi dall'essersi esaurita, questa «spinta propulsiva» del primo mandato di Bush si è rafforzata nel secondo, a onta di quanti si ostinano a rintracciare fra l'uno e l'altro cesure promettenti e rassicuranti a fini geopolitici. Come ha sottolineato Rita Di Leo nel corso di un recente seminario del Centro studi per la riforma dello stato di Roma sui rapporti fra Stati uniti e Europa, il faro ideale della rivoluzione conservatrice di Bush è il nuovo mito del ritorno alle origini: «via dal New Deal, dalla Great Society, dalle affirmative actions, dal multiculturalismo, dal relativismo amorale del liberal», l'America del nuovo secolo ripudia quella degli anni 30, 60 e 90 del Novecento per lanciarsi in una sorta di ritorno al futuro, al «paradiso originario in cui l'individuo era libero di agire a profitto di se stesso pur vivendo dentro la comunità della sua religione, del suo lavoro, della difesa dai popoli indigeni», La ricchezza, la forza, la Bibbia erano le armi di quell'individuo delle origini tradito dal progressismo novecentesco e tornano ad essere le armi dell'individuo post-novecentesco. Stato sociale, cittadinanza, conflitti di classe made in Europe possono andare in soffitta: la rinascita del primato anglo-puritano non li prevede, nutrendosi più semplicemente di una casa di proprietà, di un piccolo o grande business, di un piano pensionistico personale. La proprietà individuale è la scelta vincente per l'integrazione sociale. I latinos impermeabili al sogno americano e all'inglese possono a buon diritto incarnare la nuova minaccia di destrutturazione di questo paradiso delle origini, come Samuel Huntington teorizza.

Tornare al paradiso delle origini significa dunque anche recidere il legame con l'Europa, o almeno con quell'Europa continentale che resta la culla dello stato sociale novecentesco e di una concezione della comunità basata sulla cittadinanza e non su valori «originari» e tradizionalisti. Da questo punto di vista, che conta più delle esche e dei ponti lanciati nelle visite ufficiali, i rapporti fra le due sponde dell'Atlantico appaiono tutt'altro che in via di risanamento. Salvo il fatto però la sponda europea non appare a sua volta in grado di contrapporre al «sogno delle origini» americano altro che le origini di un sogno che stenta sempre più a tradursi in una realtà politica efficace. Non si tratta solo della debolezza di iniziativa geopolitica che tanti commentatori abituati a ragionare solo in termini di politica di potenza attribuiscono al Vecchio continente. Il fatto è che la crisi dell'America degli anni 30, 60 e 90 sulla quale è cresciuta la pianta neoconservative assomiglia per troppi versi alla crisi in cui versano anche le società europee. L'esempio del multiculturalismo è uno dei più calzanti, perché su tutte e due le sponde dell'Atlantico esso era arrivato, a fine 900, a una soglia implosiva, sulla quale il rispetto per le diversità sconfinava in tendenza alla loro ghettizzazione autoreferenziale e incomunicante: come non ricordare il quadro disinncantato che ne dà Spike Lee nel monologo centrale de la venticinquesima ora ? Come non associare a quel monologo l'assassinio di Pym Fortuyn in Olanda? E come non vedere nella crisi del modello integrazionista francese l'altra faccia della stessa medaglia, che riporta il proiblema delle società multirazziali alle aporie originarie della costruzione dello stato moderno occidentale in tutte le sue varianti? Sempre più divise, le due sponde dell'Atlantico restano anche sempre più unite, non dalle prospettive sul loro futuro ma dalla crisi del loro passato.

Di Mohamed Daki , il marocchino che il ministro degli interni italiano ha espulso per «pericolosità» dopo che i giudici italiani lo avevano assolto in primo e secondo gardo dall'accusa di terrorismo internazionale, non si sa che fine abbia fatto una volta sbarcato a Casablanca e si teme che sia stato sbattuto nel carcere di Kenitra, a 200 km da Casablanca, tristemente noto per la durezza delle condizioni di detenzione. Il suo avvocato ricorda al nostro ministro che l'Italia non può consegnare nessuno a stati in cui il rispetto dei diritti umani non è garantito, ma il nostro ministro sa quello che fa, vanta «indizi e elementi probatori» insufficienti per la magistratura ma più che sufficienti per lui, ed è coperto dalle leggi speciali antiterrorismo che il parlamento ha votato qualche mese fa. E' coperto anche dal giudice di Milano che due settimane fa aveva assolto Daki, e che oggi dà il suo ok a mezzo stampa alla doppia corsia della via crucis di Daki: il potere giudiziario agisce valutando le prove e se le prove non ci sono deve assolvere, il potere esecutivo «previene» valutando la pericolosità in base a «parametri diversi», dio sa quali. Contraddizioni ordinarie quando l'eccezione diventa la regola, ovvero quando le leggi speciali e l'esecutivo prevalgono sulla Costituzione e la giurisdizione.

E l'eccezione, dopo l'11 settembre, è diventata la regola per ogni dove nell'Occidente che esporta democrazia e diritti. Si cominciò con Guantanamo, la «detenzione infinita» e le corti speciali dell'amministrazione Usa, e si sapeva che si sarebbe finiti chissà dove. Per ora siamo approdati alle extraordinary renditions, gli arresti sbrigativi dei sospetti terroristi e ai voli fantasma della Cia per portarli a destinazione in centri di detenzione segreti sparsi nei paesi dell'ex blocco sovietico, con Condoleeza Rice che giura e spergiura sulla Costituzione americana e sull'osservanza dei diritti fondamentali e richiama all'ordine i governi europei al grido di «siamo tutti nella stessa barca contro il terrorismo», spalleggiata dal consigliere della sicurezza Hadley che invita i governi europei medesimi a «non fare il gioco del nemico».

Regole violate? Costituzioni e costituzionalismo nella cantina della storia? Macché, «abbiamo solo salvato delle vite umane». Anche in Iraq, va da sé, il gioco del massacro continua per impiantare democrazia e salvare vite umane, anche se le vittime irachene sono ormai 30 mila e quelle americane 2140, conti di Bush alla mano, e si suppone che pure i seicento prigionieri perlopiù sunniti ammassati, denutriti, maltrattati e torturati (elettroshock, ossa spezzate, unghie strappate) scoperti in un campo di detenzione di Baghdad gestito da iracheni siano solo un incidente di percorso, l'ennesimo: Baghdad aprirà un'inchiesta, Bush garantisce che le mele marce pagheranno.

La guerra in Iraq intanto è diventata un gioco di società, The battle to Baghdad: the fight for freedom, in vendita in Internet, 29 dollari di cui uno viene devoluto alle famiglie dei caduti, dadi bianchi per i willing, dadi gialli per Saddam, perdite fino a 200 uomini con una autobomba e fino a 100 come penalità per eventuali torture inflitte ai prigionieri. Eventuali. Rick Medina, imprenditore edile dell'Oregon che s'è inventato il gioco, non ci trova niente di male, ha 33 anni, si è pure opposto alla guerra ma «come americano sono stato educato a pensare che dobbiamo fare affari con le idee che abbiamo». Il prossimo gioco potrebbe avere come scenario il mondo intero e chiamarsi Underground, come un vecchio magnifico film di Kusturicka che parlava di quello che viveva, rimosso, nei sotterranei reali e inconsci dell'impero comunista. Nelle segrete reali dell'impero democratico adesso vive, nascosta detenuta e torturata, e se aggiungiamoi i Cpt per gli ordinari migranti semplicemente ammassata, una popolazione intera di sospetti e di reietti, il rimosso dello stato d'eccezione che non turba i nostri sonni.

In pochi anni abbiamo assistito al graduale smantellamento di un'équipe, quella che componeva Radio Tre, che ci portava in tanti a vivere le nostre giornate accompagnate dai suoi programmi, con la radio sempre accesa.

Assistiamo a questa procedura perversa per cui quando una trasmissione ha successo, è seguita e amata, in breve viene sospesa e allontanati i redattori, gli animatori, quelli che ne avevano costruito la forma, il contenuto e il successo. Fatto sta che i migliori scompaiono. Il risultato è che l'intero palinsesto di Radio Tre ha perso senso.

Erano trasmissioni dietro le quali si sentiva la passione di un gruppo di persone capaci: ogni trasmissione sembrava legata all'altra da un progetto generale e vasto, ogni notizia si collocava all'interno di un discorso trattato via via da esperti, ma sempre con un occhio all'informazione puntuale, attuale, con riferimenti al mondo circostante.

Ora per esempio: la trasmissione Il terzo anello è diventata l'intelaiatura di tutta Radio Tre su cui si incastonano gli altri programmi, occupa fra gli altri il tempo prima dedicato alla musica classica da Mattino Tre. Questa trasmissione l'ascoltavo con vero piacere mentre guidavo per l'interminabile cammino verso Roma. Mi forniva un discorso musicale globale, un confronto fra musiche diverse, una storia della musica raccontata con i pezzi e con osservazioni intelligenti, che arricchivano l'ascolto, che si collegava a un discorso che sarebbe venuto dopo o era già stato fatto prima in un'altra trasmissione, c'era insomma una radio collegata nell'interesse e nella passione delle materie trattate che ne faceva un'unica lunga giornata radiofonica piena di significato. Ora si direbbe che c'è un disc jockey che annuncia senza alcuna partecipazione i pezzi che ascolteremo. Si direbbe che il concetto guida ora sia «Un pezzo bello è bello, quindi sta bene ovunque». Non c'è storia, non c'è preparazione, non c'è progetto, spengo la radio e metto i dischi che mi porto ormai sempre da casa. Direte: «Ma quanto pretende!». Radio Tre ci aveva insegnato a pretendere cose intelligenti perché ce ne dava in continuazione.

Questo modo di fare radio era contagioso, sembrava di assistere a una palestra attraverso la quale capitavi anche a partecipare e trattare argomenti che non erano del tuo specifico, quindi in qualche modo ti esponevi, e questo costituiva un continuo monitoraggio di cosa pensa la gente. Si direbbe (questa è l'impressione che ho) che ora la Radio Tre sia tutta registrata, non c'è il piacere dell'invenzione di programmi nuovi e se per caso qualcuno invece dimostra di essere all'altezza di farlo viene immediatamente allontanato.

Ci sono pure alcuni programmi specialistici, carini, chiusi nel loro ghetto di specialità, ma manca il senso dell'équipe che lavora gomito a gomito, inventa e produce idee. Si direbbe che oggi le idee diano fastidio.

Io continuo ad ascoltare Radio Tre Suite, Fahrenheit, Uomini e profeti, mi sembrano dei bunker di resistenza, mi sembra di fare il tifo «Restate, restate, cercate di farcela».

È un ascolto da disperata che invita questi, che oramai sono diventati voci amiche, che mi hanno accompagnato per anni, a resistere in un clima sicuramente difficile, una specie di campo minato dal quale sanno che prima o poi saranno cacciati, e quindi stanno lì nel fortino, sopravvissuti. Sembra deciso che Radio Tre diventi pedante, noiosa, scostante.

Stiamo forse assistendo senza reagire alla lucida messa in atto di un progetto di svuotare i programmi Rai e Radio di Stato da ogni contenuto, così come anche la scuola pubblica, in modo da incentivare le imprese private? Che peccato!

Il sito di Amici di Radio 3

Qualcosa di Giovanna Marini

La prolusione sul revisionismo storico al III Congresso del Partito dei Comunisti Italiani, Rimini, 20 – 22 febbraio 2004

Vorrei esordire ricordando una verità elementare: che cioè la storia la scrivono i vincitori. E poiché la lunga guerra europea e poi mondiale incominciata nel 1914 e sviluppatasi in più fasi e finita, dopo vari rivolgimenti, paci apparenti, cambi di fronte, con la sconfitta dell'Unione sovietica nel 1991, è evidente che per ora, e per lungo tempo ancora, la storia che prevarrà sarà quella scritta dai nemici dell'Unione Sovietica e quindi dell'antifascismo.

Non stupisca quel "quindi": l'antifascismo, anche non comunista, ebbe sempre una considerazione rispettosa della storia e del ruolo dell'URSS.

Non è casuale che un capofila del revisionismo storiografico come François Furet, nel suo troppo vezzeggiato pamphlet Il passato di un'illusione, abbia presentato reiteratamente l'antifascismo europeo come "l'utile idiota" di Stalin. E la sua opera non è rimasta senza seguito, ora che saldamente la grande stampa e salvo rare eccezioni la grande editoria stanno passando nelle mani di coloro che riscrivono la storia appunto nell'ottica degli ultimi vincitori.

Per l'Europa borghese, corresponsabile dell'agosto '14 e levatrice perciò della rivoluzione, fu appunto, sin da allora, il comunismo il principale problema. La nascita del fascismo, e poi dei fascismi, fu la risposta estrema e pienamente avallata dalle classi dominanti nei confronti di tale "grande pericolo".

Due scene tornano alla mente, emblematiche in questo senso:

- la sfilata delle camicie nere a Napoli pochi giorni prima della marcia su Roma e tra loro, in camicia bianca, Enrico De Nicola con il braccio levato nel saluto romano;

- e circa due anni dopo, Benedetto Croce, che vota la fiducia al governo Mussolini, pur dopo il delitto Matteotti.

Questo non è moralismo storiografico. Nei due casi che ho ricordato non c'era costrizione, quella costrizione o necessità che si invoca per giustificare la debolezza di tanti lapsi per salvare magari una cattedra universitaria. Era invece il segno chiaro dell'iniziale consenso della borghesia anche colta, anche illuminata, verso il fascismo visto come argine contro l'unico pericolo: la rivoluzione comunista.

Ecco perché è cruciale continuare a studiare l'esperienza del fascismo nella sua interezza e non limitandosi - come sarebbe più comodo - al suo infame crepuscolo. Perché solo studiandolo per intero sin dai suoi esordi si comprende che esso fu figlio legittimo delle classi dominanti. Le quali hanno fatto buon viso a tale mezzo estremo pur di mantenere l'ordine sociale costituito. Certo, col tempo, una parte si è tirata indietro, ma era ormai troppo tardi ed il fascismo, forte di un largo consenso, stava già portando il mondo intero alla guerra e alla rovina.

La domanda da porsi è dunque: Quali erano le fattezze del nemico contro cui si faceva ricorso ad un rimedio così estremo? Cos'era quel "comunismo" contro cui tutti, dal giovane De Gaulle al ministro di Sua Maestà britannica Winston Churchill, dalle armate polacche ad Ovest ai generali giapponesi ad est si scatenarono sin dal primo momento, in un attacco concentrico che rischiò di essere mortale?

Oggi che l'URSS è finita da un pezzo, lo sforzo dei vincitori è di dimostrare che quello fu il regno del male, della soprafazione, della smisurata e ininterrotta ecatombe. Il cosiddetto "Libro nero" è la Bibbia di questo sforzo senza soste. L'implicazione che va di pari passo con tali diagnosi è molto chiara: recuperare in larga parte un giudizio positivo sul fascismo che - si dice ormai apertamente - poneva rimedio (ipocritamente alcuni dicono doloroso rimedio) ad un male di gran lunga peggiore.

Questo è oggi il terreno di scontro in quell’ambito necessariamente, strutturalmente, "impuro" che è la storiografia. Dati i nuovi rapporti di forza, la partita è già largamente vinta dai grandi strumenti di informazione (grande stampa, tv, saggistica): ogni giorno viene ripetuto in modo martellante e ossessivo che quello, il comunismo, era il grande male, mentre si suggerisce talora scopertamente che il fascismo fu comunque un male minore o, a piacer vostro, una dolorosa necessità. Restano fuori dell'opera di salvataggio le leggi razziali, ma si tenta poi di far credere - ed è menzogna - che esse fossero effettivamente operative e micidiali solo con Salò.

La partita è dunque ardua. Si tratta di RECUPERARE LA MEMORIA di una fase storica - l'URSS e il socialismo: una memoria che resta positiva soprattutto nella mente di chi ne trasse vantaggio, per esempio i ceti ormai ridotti alla fame nella nuova Russia mafio-capitalistica. I quali però non hanno voce, men che meno voce storiografica. La loro voce è coperta dal fragore di una pubblicistica storiografica che dà con ogni disinvolta lettura l'immagine più fosca dell'impero del male.

Né vale opporre le testimonianze d'epoca, anche le più diverse, anche quelle che quantunque ostili, davano tuttavia ampio riconoscimento a quel mondo nuovo che faticosamente nell'entusiasmo di intere generazioni si cercò allora di costruire.

Certo, noi sappiamo di essere di fronte a una mistificazione, né ignoriamo che già con la rivoluzione francese si assistette alla medesima parabola storiografica. Dopo la sua fine, con la vittoria della Restaurazione, la sua immagine dominante fu solo quella di un cumulo insensato di crimini. Solo molto dopo la lettura di quel grande avvenimento cambiò: ma passò molto tempo e l'orientamento della storiografia mutò quando un nuovo movimento democratico risospinse indietro la lettura demonizzante divenuta dominante. Né manca ancora oggi chi della Rivoluzione francese parla con il tono e l'orrore del conte De Maistre. Pochi faziosi si ostinano oggi a credere che la Rivoluzione francese fosse soltanto Vandea e repressione, tribunale rivoluzionario e "ghigliottina a vapore", per dirla con un ironico poeta. Certo, la rivoluzione fu anche questo, ma fu soprattutto altro e durevole. Analogamente ci vorrà tempo perché sia dissipata la attuale forma mentis da libro nero. Io credo che lo storico del futuro, se onesto, non potrà non prendere atto del fatto che comunismo e rivoluzione coloniale su scala planetaria sono un unico gigantesco e positivo fenomeno che ha man mano messo in crisi nel corso del secolo ventesimo " il mondo di ieri". E già questo basterebbe, per ribaltare gli schemi oggi dominanti.

Per il momento la questione che ci sta di fronte può essere così espressa: pensiamo noi che un nuovo andamento della vicenda politica e sociale possa avviare - come già avvenne per la rivoluzione francese - quel riassestamento storiografico che permetta di leggere l'esperienza del socialismo nelle sue giuste dimensioni e in un'ottica non più demonizzante? Non è facile dare una risposta certa, anche se molti segnali fanno intendere che l'ondata di piena della mistificazione è ben lunge dall'essere passata.

L'importante è che sia chiara la posta in gioco. Il recupero storiografico di una parte più o meno grande dell'esperienza fascista e la contestuale demonizzazione martellante dell'esperienza comunista non sono un'operazione erudita: sono un'operazione politica con voluti effetti politici. Si tratta di travolgere la nozione positiva di antifascismo (concetto che assume il fascismo come male principale) e di fondare un ordine costituzionale conforme alle aspirazioni di quei ceti che a suo tempo non esitarono ad avvallare appunto il fascismo come rimedio.

Non ci lasceremo abbagliare dalla varietà degli argomenti e dei tentativi. Uno è il punto di partenza, uno l'obiettivo: ribaltare il giudizio che era consolidato nella coscienza degli italiani intorno all'esperienza fascista. Qualche professore in cerca di gloria o qualche supergiornalista dirà che non è vero: che c'è un ambito vastissimo in cui il revisionismo storiografico si è da sempre esercitato e continua ad esercitarsi. Ma questa ovvietà, che nessuno contesta, serve a mascherare il problema specifico. Esso riguarda il fascismo italiano e la sua sdramatizzazione in funzione della politica italiana.

Il ragionamento parte dalla cosiddetta scoperta del CONSENSO. Apparente scoperta. Apparente per un duplice motivo: perché l'intuizione di come il fascismo si fosse via via radicato, ferme restando le sue origini violente e soprafattorie in un consenso di massa, era il cardine delle fondamentali "lezioni sul fascismo" di Palmiro Togliatti, incentrate appunto sulla nozione del fascismo come "regime reazionario di massa"; e inoltre perché quel consenso - che non fu né costante né indiscusso - è stato per lo più documentato con il dubbio strumento delle ingannevoli perché corrive carte di polizia. E andrebbe dunque studiato in modo ben altrimenti critico.

L'implicazione di questa apparente scoperta è ben nota: trasformare il fascismo in regime normale, magari un po' paternalistico ma non repressivo. L'ulteriore corollario è la denuncia dell'età staliniana come unica vera esperienza totalitaria. Essendosi peraltro il fascismo proposto come antitesi frontale del bolscevismo, il corollario ulteriore è che qualcosa di molto buono vi doveva essere in tale "primo della classe" dell'anticomunismo. Coronamento del ragionamento è l'attacco alla nostra costituzione repubblicana ed ai suoi principi fondanti, per essere essa stata scritta anche dai comunisti e comunque da uomini che comunisti non erano ma che alcune delle istanze fondamentali del comunismo accoglievano e apprezzavano: a cominciare dall'esordiale indicazione (articolo 1) del lavoro come fondamento della Repubblica e dalla implicita identificazione tra cittadino e lavoratore, a seguitare con l'articolo 3, ed il suo impegno a "rimuovere gli ostacoli" di ordine sociale che impedivano e tuttora impediscono l'effettiva uguaglianza tra i cittadini.

Orbene qui non si intende sottrarsi alla sfida. Il "velen dell'argomento" ci è ben chiaro. Noi sappiamo che la principale battaglia che tutti i democratici hanno da affrontare è proprio la difesa della costituzione e in primo luogo dei suoi principi esemplarmente delineati nel capitolo primo. E sappiamo anche che il vulnus più profondo finora inferto alla costituzione è stata la modifica della legge elettorale, l'abbandono del principio proporzionale, unico istituto che rispetti davvero l'istanza del suffragio universale.

Tutto questo ci è chiaro, e la battaglia è ardua.

Ma il punto di partenza non ci sfugge , né intenderemo sfuggirvi, anzi lo dobbiamo affrontare di petto. È la questione del consenso. L'Italia sta scivolando verso un REGIME REAZIONARIO FONDATO SUL CONSENSO. Ed è sui modi in cui oggi, diversamente che nel 1922-1926, il consenso si consegue che le idee non sono sempre chiare.

Ma il processo è ormai molto avanzato. Le forme di creazione del consenso sono molto più capillari e sofisticate e irresistibilmente pervasive che non in passato: concomitanti con la radicale trasformazione del reclutamento stesso del personale politico-parlamentare - ormai prevalentemente abbiente e centrista -, dovuto appunto al meccanismo elettorale maggioritario.

Orbene lo studio del modo in cui davvero il fascismo pervenne - in capo a cinque lunghissimi anni dal 1921 (sua prima apparizione in parlamento) al 1926 (leggi eccezionali e messa fuori legge del PCI)- a dar vita ad un REGIME è forse oggi il più istruttivo dei compiti intellettuali.

Forse la sinistra (il centro-sinistra) si fa qualche illusione sulle prossime elezioni del 2006. A mio avviso, invece, la destra oggi al potere non cederà facilmente il timone, non attenderà passivamente il responso delle urne. Farà di tutto, ma proprio di tutto, per conservare il potere. Essi pensano di avere ormai in pugno l'Italia per un lungo tempo. Pensano di averla riplasmata sotto ogni riguardo. Noi non possiamo chiudere gli occhi su questa evidente verità.

Dal 1922 al 1926 il fascismo creò le premesse per restare al timone. Per prima cosa abrogò il sistema elettorale proporzionale poi creò un blocco, un listone unico nel quale imbarcò pezzi di tutte le formazioni politiche liberali e cattoliche delle più varie sfumature. Quindi ricorse alla provocazione. E mi riferisco non solo al rapimento di Matteotti. Ma alla provocazione imbastita contro il partito comunista (l'arresto dei "corrieri" sorpresi alla stazione di Pisa con volantini "eversivi" come prova della imminente "eversione comunista"): donde l'arresto di Gramsci e degli altri dirigenti; donde la creazione del tribunale speciale, donde il mostruoso "processone"; e alla fine l'attentato oscuro di Bologna e la sospensione degli altri partiti.

Questo crescendo è uno scenario che sembra arcaico ma è un modello ancora utilizzabile.

Ben venga l'invito a studiare come davvero il fascismo giunse al potere e si affermò. Non ne caveremo, come si vorrebbe, la tranquillizzante immagine di un regime tutto sommato "normale" (tenendo conto anche dei tempi perigliosi in cui nacque), ma l'allarmante scenario ancora ripetibile, mutati lo stile e gli strumenti, di come si demolisce una democrazia.

Da qualche giorno l'italiano non fa più parte del gruppo ristretto delle lingue stabili dell'Unione europea, nel quale restano solo l'inglese, il francese e il tedesco. Per decisione della portavoce di José Manuel Barroso, infatti, la nostra lingua è stata cancellata da tutte le conferenze stampa (salvo quelle del lunedì, unico giorno in cui è comunque garantita la traduzione nelle principali lingue dell'Unione) dei commissari della Ue. La notizia è di qualche giorno fa e ha suscitato sulla stampa nazionale grande scandalo e alti lai. Il presidente dell'Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, intervistato venerdì scorso dal Corriere della Sera che è stato il primo giornale a lanciare l'allarme, ne deduce che il prestigio dell'italiano è in picchiata e denuncia l'assenza di una politica linguistica dell'Unione e di una politica del governo italiano di sostegno all'italiano: stante che le lingue europee sono venti, la Ue, sostiene Sabatini, dovrebbe «compensare» quelle che non vengono usate nelle sedi ufficiali finanziandone l'insegnamento e le traduzioni, mentre il governo italiano dovrebbe investire nel sostegno della lingua nazionale all'estero. Gianfranco Fini gli ha risposto assicurandolo che la promozione della lingua e dell'identità italiana nella Ue e in tutto il mondo è in cima alle priorità del suo ministero e degli istituti di cultura all'estero, che l'italiano rimane una delle lingue usate nelle riunioni del Consiglio europeo, che la domanda di studio dell'italiano cresce ovunque nel mondo. Ma il problema ormai è sul piatto, e non riguarda solo le politiche di sostegno all'italiano: riguarda il rapporto fra lingua e identità nazionale per un verso, fra lingue e costruzione europea per l'altro. E spiace in verità che venga sollevato solo in termini di difesa identitaria e solo sulla base di un risentimento per l'esclusione della nostra lingua da una sede istituzionale. E' vero che, come ha scritto Raffaele Simone sul Messaggero, la cancellazione dell'italiano dalle lingue ufficiali dell'Unione rischia di depotenziare la comunicazione politica dei nostri rappresentanti; ed è vero che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corsera, quella cancellazione è segno di una perdita di peso politico dell'Italia nella costruzione europea, a vantaggio del peso della Gran Bretagna, della Francia e della Germania. In questa prospettiva, l'unica politica possibile per la nuova Europa sarebbe quella di un plurilinguismo sostenuto dai singoli stati e dalle istituzioni comunitarie, a garanzia di una Europa pluriculturale e pluriidentitaria, in cui la comunicazione, politica e sociale, resta affidata fondamentalmente a una continua opera di traduzione (che attualmente occupa un terzo dei laureati che lavorano nelle istiutuzioni Ue). Ma questa ipotesi non mancherebbe di sollevare, se non subito di qui a pochi anni, le obiezioni che già circolano oggi nei confronti dei modelli multiculturali anglosassone e olandese: troppe identità autoreferenziali, troppa poca mescolanza, troppo comunitarismo garantito dalle barriere linguistiche. C'è invece la possibilità di ribaltare l'ostacolo del plurilinguismo europeo in una opportunità di ibridazione e contatto fra culture e identità diverse?

Questa possibilità passa in primo luogo per il riconoscimento del problema. Il quale invece è stato, fin qui e malgrado l'anno europeo della lingua celebrato pochi anni fa, ignorato o rimosso, nel corso di un processo di costruzione europea ridotto alla pura dimensione istituzionale e costituzionale. Eppure, che l'esistenza di 11 lingue diverse, diventate 20 con l'allargamento ai paesi dell'est, fosse un problema difficilmente superabile nell'universalismo del linguaggio giuridico avrebbe dovuto essere chiaro. Come dovrebbe essere chiaro che nessuna politica protezionista e nessuna salvaguardia identitaria può reggere l'impatto con i processi sociali e culturali attraverso i quali una lingua si impone più di un'altra, o le giovani generazioni imparano più e meglio delle vecchie a comunicare in più lingue, via via che il romanzo di formazione europea si sostituirà al romanzo di formazione nazionale. Serve di più resistere a questi processi difendendo le barriere linguistiche e identitarie, o spingerli in avanti a costo di perdere ciascuno qualcosa, compreso l'agio della lingua materna? O meglio ancora, si può ripensare l'agio della lingua materna come qualcosa di irrinunciabile, ma a cui si può tornare per andare e andare per tornare, aprendosi al rischio della lingua dell'altro invece che rinserrandosi nella propria? Non è questa apertura, che passa anche e in primo luogo, l'unica strada per la costruzione di un'Europa aperta alla differenza, invece che arroccata sull'identità? Non vale la pena, per questo obiettivo, di correre qualche rischio di fraintendimento, invece di contare su un'intesa fredda garantita dagli esperti in traduzione?

Postilla – “Comunicare in più lingue”, comprendere più culture, far conoscere la propria (e quindi in primo luogo coltivarla) e insieme aprirsi a quelle altrui (e quindi in primo luogo difenderne l’esistenza e la pratica). Mi sembra l’unico modo per far crescere la civiltà umana. Ma è molto difficile, ed esige personale politico all’altezza di questa sfida. Il cui primo rischio è questo: la promozione del distacco tra alcune élites plurilingue e masse condannate all’idioma locale (quindi all’idiotismo), o all'esperanto del linguaggio pubblicitario (quindi all'idiozia). O no? (es)

Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui testo completo è stampato nelle pagine seguenti. Dopo questa solenne deliberazione, l'Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell'Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese, francese, inglese, russo e spagnolo.

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI

Preambolo

Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità, e che l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo;

Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione;

Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;

Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;

Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali;

Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;

L'ASSEMBLEA GENERALE

proclama

la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 2

Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

Articolo 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

Articolo 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

Articolo 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.

Articolo 6

Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

Articolo 7

Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Articolo 8

Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.

Articolo 9

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.

Articolo 10

Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.

Articolo 11

Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.

Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.

Articolo 12

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Articolo 13

Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.

Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.

Articolo 14

Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.

Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

Articolo 15

Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.

Articolo 16

Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.

Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.

La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

Articolo 17

Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.

Articolo 18

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.

Articolo 19

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Articolo 20

Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.

Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.

Articolo 21

Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.

Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.

La volontà popolare è il fondamento dell'autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.

Articolo 22

Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

Articolo 23

Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.

Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.

Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.

Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

Articolo 24

Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

Articolo 25

Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.

Articolo 26

Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.

L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.

I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.

Articolo 27

Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.

Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.

Articolo 28

Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.

Articolo 29

1 Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.

Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.

Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite.

Articolo 30

Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

Antigone, forse più di tutte le altre tragedie, è esempio di ricca messe di significati potenziali, che le generazioni di lettori nel tempo hanno costruito su un testo di classica semplicità e, insieme, di straordinaria complessità e fecondità. Ma che esista un nucleo di significato originario autenticamente sofocleo, dettato dalle condizioni della vita della città e indirizzato agli Ateniesi di quel tempo, si deve facilmente ammettere. In generale, tutte le rappresentazioni tragiche, per il loro carattere pubblico, ubbidivano a una funzione pedagogica ufficiale.

Anche la scelta degli argomenti, per lo più legati a figure e avvenimenti regali, sempre ripresi dagli Autori tragici in veri e propri cicli (di Oreste, di Edipo o di Tebe), mostra l´intento di promuovere e vivificare, di anno in anno, la discussione della città su temi vitali. In Antigone è evidente e pieno di insegnamento il cambiamento radicale - dall´elogio del tiranno all´elogio della saggezza - che si manifesta nella psiche del Coro, il Coro che rappresenta la città: all´inizio, tutto dispiegato a giustificare la decisione sovrana del re: «Certo tu hai il potere di adottare qualsiasi misura, sia verso i morti che verso i vivi» (vv. 212 ss.); e alla fine, attraverso dolorosi passaggi, tutto ripiegato a considerare l´insensatezza dell´arbitrio: «La saggezza è la prima condizione della felicità. Non si deve mai commettere empietà verso gli dei. Le parole superbe degli uomini arroganti scontano i colpi spietati del destino e in vecchiaia insegnano a essere saggi» (vv. 1348).

È questione della sepoltura di un cadavere e gli studi sul diritto funerario dell´epoca fanno pensare a contrasti sulla condizione giuridica delle spoglie di chi - come Polinice, il fratello di Antigone - avesse preso le armi contro la patria. Il tema del funerale è ritornante. Lo troviamo, ad esempio, in Aiace, dove in due circostanze (vv. 1130 e 1343) si tratta del dovere di seppellire i morti «secondo la legge degli dei», e in Supplici (vv. 524 ss. e 531 ss.) dove l´argomento è affrontato dal punto di vista della "legge dei Greci" o "legge panellenica". Si è anche congetturata l´esistenza di un´occasione specifica, i contrasti circa il ritorno in patria dei resti di Temistocle, il difensore di Atene, l´eroe di Salamina, datosi al re persiano e morto suicida, ciò di cui narrano Tucidide e Plutarco.

Il diritto funerario era collocato in un punto nevralgico del sistema giuridico del tempo, al confine tra il diritto del genos e il diritto del demos, il primo tradizionale e arcaicizzante, il secondo convenzionale e modernizzante. Il significato storicamente determinato di Antigone è dunque vasto. Le riforme di Pisistrato e l´inizio dell´esperienza democratica, fin dall´inizio del V secolo, stavano spostando l´equilibrio, in nome dell´isonomia, a sfavore del diritto arcaico, non scritto, di matrice aristocratica. Dato il potere del tiranno o la volontà della maggioranza, il rischio della legge arbitraria doveva essere oggetto di riflessioni preoccupate. Tanto più che si manifestavano i primi effetti disgreganti della compagine cittadina e del suo nomos determinati dalla critica di sofisti. Mettendosi in discussione le credenze tradizionali in vista della formazione, per così dire, dell´"uomo di cultura" e diffondendosi punti di vista relativisti, si finiva per esaltare il diritto come pura volontà, rischiando di assecondare le propensioni tiranniche della democrazia.

È chiaro, tuttavia, che, per le generazioni che si sono abbeverate alle fonti tragiche, l´essenziale non è il contesto storico di allora. Le innumerevoli Antigoni che dalla prima sono state tratte hanno trovato la loro verità non in una pretesa corrispondenza con un nucleo originario di pensiero autentico e storicamente determinato, consegnato al testo sofocleo, ma nella capacità sempre nuova di rappresentare lo specchio di permanenti contraddizioni dell´esistenza umana, ovvero nella possibilità di mettere in rilievo le vie che fatalmente portano all´epilogo tragico, per distogliere dall´imboccarle finché si è in tempo.

Questo è il legittimo "uso attuale" delle grandi figure del teatro classico: l´interrogazione dei testi a partire da domande concrete che cercano risposte in una riflessione generale e le trovano anche oltre quel che originariamente i testi intendevano significare, in relazione alle specifiche condizioni in cui furono scritti. In Antigone, tale fecondità di pensiero concerne le vicende del potere e della resistenza al potere. Così, quella che è stata definita la più filosofica di tutte le tragedie classiche si è dimostrata anche essere la più politica di tutte, anche se non immediatamente politica. Essa tocca i caratteri primigeni della politica ed è quindi sempre politicamente rilevante.

Delineando nel modo più netto la figura della coscienza pura che si ribella alla prepotenza del despota, essa è stata ed è esempio e sostegno di chi disobbedisce per ragioni morali e pone in discussione così la legittimità del potere che pretende obbedienza. Individuo e collettività: tra questi estremi stanno i problemi maggiori di ogni filosofia politica e sta, per l´appunto, la vicenda di Antigone. (...)

Al centro dello scontro tra Antigone e Creonte c´è un corpo, conteso tra pietà familiare e ragion di stato. Antigone, sorella, lo vuole sepolto; Creonte, re, insepolto. La prima fa valere la legge del sangue; il secondo, la legge della città. Per quanto lontani dalla pietas antica verso i defunti, neppure oggi potremmo sminuire il contrasto. Nella cultura antica, il defunto privo di onori funebri era destinato a vagare senza patria: non più quella dei vivi e non ancora quella dei morti. La profanazione del corpo di un morto è oltraggio a quanto c´è di più santo nell´identità di una famiglia. Lo spregio più odioso è la profanazione dei sepolcri. Il diritto funerario è fondamento di tutte le civiltà, dall´antichità più remota. Se noi meno ne avvertiamo l´importanza fondativa delle società dei viventi, se la sorte dei cadaveri è diventata quasi esclusivamente problema di spazi e igiene pubblici, è solo perché l´effimero mondo dei vivi è venuto ad assorbire ogni energia, speranza e attenzione.

Il ludibrio del corpo che marcisce insepolto è rituale di annientamento. Essere consegnati alle mani dei propri cari, dopo morti, è invece l´ultima difesa contro la disperazione, è tornare a casa, alla "terra nativa" (v. 1203) dove c´è pace e vita che continua nella pietà del ricordo. «Cara mamma», scrive un condannato a morte della Resistenza di 18 anni, «oggi 17 alle ore 17 fucilati innocenti. La mia salma si trova [notare il tempo presente] di qua dalla scuola cantoniera dove sta Albegno, di qua dal ponte. Potete venire subito a prendermi [notare: non a prenderla]. Mi sono tanto raccomandato, ma è stato impossibile intenerire questi cuori. Mammina, pregate per me, dite ai miei fratelli che siano buoni, che io sono innocente. Mentre scrivo ho il cuore secco, mamma e babbo cari venite subito a prendermi. L´anello datelo alla mia Maria, che lo tenga per ricordo».

Alle prese con un cadavere, carico di ricordi e significati simbolici e affettivi, è Antigone, una giovane donna di nobili natali (gli eroi tragici sono sempre tali, quasi che la gente semplice - come il nunzio nei vv. 223 ss. - non sia capace di sentimenti elevati), promessa sposa del figlio di Creonte stesso, Émone, anche lui una vittima. Fino ad allora, nulla diceva che fosse un´estremista, una ribelle. Non esistono, né in Antigone né in tutto il ciclo di Tebe, segni della predestinazione a un simile ruolo: anzi, i precedenti la mostrano fanciulla saggia, desiderosa di preservare sé e la sua famiglia da ulteriori sciagure decretate dal destino. I giovani devono sopravvivere alle maledizioni dei padri. Veniva infatti da una genia particolare e la maledizione di Edipo che, per i suoi inconsapevoli delitti, si era strappato dagli occhi (I sette contro Tebe, stasimo II), incombeva sui suoi figli-fratelli e sulle sue figlie-sorelle. L´Edipo a Colono preannuncia il conflitto mortale tra Eteocle e Polinice, figli di Edipo, per il governo di Tebe dalle sette porte. Antigone aveva cercato di dissuadere il fratello prediletto, Polinice, dallo scontro mortale, ma senza successo: «Nelle mani di dio, del nostro dèmone, sta l´essere e il mutarsi delle cose», questi aveva risposto (vv. 1849-1850). Levato un esercito di Argivi, l´aveva mosso contro Eteocle e Tebe. I due fratelli si erano affrontati in armi e si erano dati l´un l´altro la morte. Creonte, fratello della lor madre Giocasta, aveva assunto il potere e, come primo atto decretando funerali solenni per Eteocle, il difensore della città, e l´esposizione del cadavere alle fiere e agli uccelli rapaci per il traditore Polinice, ad ammonimento per tutti coloro che avessero tramato contro la città e il suo re. Chi avesse violato il divieto di sepoltura sarebbe stato messo a morte.

Capisco che la prescrizione d´un reato di strage come quello di Primavalle del 1973 (perché di questo si trattò, anche se nella sentenza fu derubricato a omicidio colposo) susciti emozione anche a trentadue anni di distanza. Ma un´emozione montata col frullatore mediatico, l´evocazione di memorie lottizzate e non condivisibili, la mobilitazione dei "talk show" televisivi, la chiamata di correi fisici e metafisici, il tutto servito ad un´opinione pubblica frastornata, in perenne ricerca di piatti ravvivati col pepe di Caienna, fa pensare. Di solito la moneta cattiva scaccia dal mercato quella buona. Nel caso in questione il rogo appiccato da un gruppuscolo di disperati, nel quale perirono carbonizzati i due giovanissimi fratelli Mattei, ha scacciato per qualche giorno dalle prime pagine argomenti di ben altro rilievo e attualità. Questo è un dato di fatto preliminare che merita d´esser considerato.

Dal frullatore mediatico sono emersi personaggi che avevamo dimenticato a giusta ragione; altri che nel frattempo avevano mutato pelle e colore assumendo con spregiudicata disinvoltura nuovi ruoli e nuove tribune e, insieme con loro, è riemersa un´atmosfera di violenza, di furore, di regolamento di conti, sapientemente stimolata, una vampata d´inferno artificialmente amplificata, un "horror" in piena regola popolato di attori tratti da una realtà remota: attori incanutiti, arrochiti, ma tuttora in cerca d´un qualsiasi palcoscenico dal quale esibire la propria rabbia e le proprie inaccettabili giustificazioni.

C´è una logica in questa follia? Sì, io credo che vi sia. Ma prima di parlarne cerchiamo di guardare il quadro con il distacco che il tempo consente a quanti furono allora testimoni di ciò che avvenne e possono dunque rendere ancora testimonianza scevra di faziosa partecipazione.

* * *

La contabilità dell´orrore si divide in due partite: quella dei singoli omicidi mirati e quella delle stragi.

Due partite di eguale efferatezza ma di assai diversa fattura. Redatte entrambe sulla bocca dell´inferno da demoni di natura opposta: rosi da passioni di tenebra i primi, gelidi e professionali i secondi; ma entrambi congiunti contro l´ordine costituito, contro il sistema democratico, contro lo Stato costituzionale.

Le persone della mia generazione ricordano bene quegli anni. Ricordano le prime vittime degli omicidi mirati, quelli caduti per mano dei gruppi di estrema destra e quelli caduti per mano dei gruppi di estrema sinistra.

E ricordano le stragi che segnarono l´inizio dei cupi anni di piombo: piazza Fontana del dicembre ?69 e poi Brescia e poi i treni e poi la stazione di Bologna e Peteano, e il punto culminante del mattatoio, il rapimento di Aldo Moro, la sua detenzione il suo omicidio, cui seguì ancora la lunga e sanguinosa scia fino a Roberto Ruffilli, con i truci "post scriptum" di D´Antona e di Biagi.

Faida tra opposte ideologie e comune invidia e disadattamento sociale? Certo. Opposti estremismi? Certo. Disegni eversivi e "golpe" minacciati per influire sullo svolgersi della politica? Certo.

Nel lungo articolo pubblicato sul "Foglio" di giovedì scorso in cui Lanfranco Pace abbozza una giustificazione peggiore del suo trentennale silenzio, c´è una frase, una sola, da cui traluce una scheggia di verità e di sincerità. Leggetela con attenzione quella frase, che spiega molti fatti di allora e molti successivi percorsi di quei personaggi che arrivano ai giorni nostri.

«Per noi [di Potere Operaio] l´antifascismo e a maggior ragione l´antifascismo militante non è mai stato nemmeno alla lontana una priorità. Lo scontro per noi, nelle fabbriche e nel territorio, era contro lo Stato e le sue articolazioni. Ed era contro il Pci, equivoco da sciogliere, ibrido da superare. Certo i fascisti c´erano e dovevamo prenderne atto. Ma controvoglia, come si fa con qualcosa che ti occupa la visuale e ti distoglie dal vero obiettivo».

Ammazzavano i fascisti e ne erano a loro volta ammazzati, ma per toglier l´ingombro che ostruiva la visuale e nascondeva gli obiettivi veri: il sistema, lo Stato, il Pci. Non a caso, quando arrivarono in campo le Br al culmine di quel percorso di confusa violenza, le forze che si opposero al terrorismo furono la Democrazia cristiana e il Partito comunista. E a quelle forze, guidate da Benigno Zaccagnini e da Enrico Berlinguer e sorrette compattamente dall´intera società italiana, si deve se il terrorismo fu sconfitto senza che la democrazia fosse stravolta e i diritti fossero indeboliti o addirittura confiscati.

La stampa fece allora interamente il suo dovere. Voglio ricordarlo perché da tempo è invalso l´uso di accusarla di volta in volta di faziosità e di conformismo. E poiché il nostro giornale si trovò anche in quell´occasione a raccontare e a testimoniare i fatti e la verità, dirò anche in che modo cercammo di adempiere al nostro dovere professionale. Cito da un editoriale di "Repubblica" pubblicato il 15 gennaio del 1979 con il titolo "Due morti che pesano sulla nostra coscienza".

«Tre giorni fa un agente di polizia in borghese ha ucciso il giovane Alberto Giaquinto con un colpo di pistola alla nuca. Cioè sparandogli da dietro mentre il giovane stava fuggendo. Poche ore dopo un "commando" di estremisti di sinistra ha ucciso a revolverate il giovane Stefano Cecchetti, "reo" di frequentare un bar dove si danno spesso convegno estremisti di destra. Sono entrambi, l´uccisione di Giaquinto e quella di Cecchetti, fatti gravissimi non solo perché due vite di giovani sono state falciate da una violenza barbara e inutile, ma anche perché hanno messo a nudo una verità sconcertante: noi giornalisti "democratici", noi opinione pubblica "democratica", abbiamo cercato inconsciamente di rimuoverli, di archiviarli al più presto e di dimenticarcene.

Fosse stato ucciso da un agente in borghese con un colpo di pistola alla nuca un giovane "democratico", noi giornalisti "democratici" e noi opinione pubblica "democratica" non avremmo dato tregua per giorni e giorni, avremmo chiesto conto in tutte le sedi di quanto era accaduto, avremmo invocato prevenzione e repressione e riforme. Ma nel caso di Giaquinto e di Cecchetti la nostra attenzione è stata distratta, la nostra protesta assente o flebile e passeggera.

Mi sono accorto di questo comportamento leggendo i giornali a cominciare da "Repubblica" e non esito ad affermare che si tratta d´un comportamento orribile, quello di pesare il valore della vita e le responsabilità della violenza secondo i colori di bandiera. Per la parte che ci compete ne faccio pubblica ammenda: perciò non rimuoveremo i due morti dell´altro ieri, come non rimuoviamo le cinque donne colpite nella stanza di Radio Città Futura. La sorte di tutti ci deve toccare e ci tocca allo stesso modo; e allo stesso modo, con la stessa ferma tenacia, dobbiamo condannare i responsabili ed esigere la loro punizione esemplare».

* * *

Una cosa ci è sempre stata ben chiara: l´attacco allo Stato democratico e alle forze politiche che in quegli anni ne assunsero la difesa non ebbe mai gli aspetti di una guerra civile. Fu, come sopra ho ricordato, l´attacco di bande terroristiche e prima ancora di estremisti di destra e di sinistra in cerca d´avventura, drogati di violenza e di inconcreti furori ideologici mentre, nello stesso tempo, professionisti del killeraggio organizzavano stragi contro innocenti per elevare la tensione pubblica e piegare la democrazia ai loro turpi disegni.

Personalmente ho sempre pensato che neppure lo scontro del '43-45 tra la resistenza partigiana e le bande di Salò abbia avuto natura di guerra civile.

Non ci fu, dalla parte di Salò, appoggio di popolo. Le milizie del governo fascista operavano come forze ausiliarie dell´armata tedesca di occupazione, senza alcuna partecipazione emotiva e tantomeno pratica della popolazione che dette invece alle formazioni partigiane tutto l´appoggio che si poteva dare in un paese occupato da truppe straniere.

Ci furono a guerra finita massacri odiosi effettuati da partigiani ancora in armi, e furono disonoranti per i valori di libertà in nome dei quali la Resistenza era insorta contro il nazismo.

Nel 1947, con opportuna saggezza, il governo e per esso l´allora ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, promulgò una generale amnistia per i reati di sangue commessi in quell´arco di anni.

Quell´atto di doverosa clemenza chiuse la guerra di liberazione. Restano intatti i valori che animarono (laddove ce ne furono) l´una e l´altra parte e resta intatto il giudizio, tante volte ripetuto da Carlo Azeglio Ciampi di quale sia stata la causa e la parte giusta e quale la causa e la parte sbagliata.

* * *

I conti sono dunque stati chiusi da allora e non li ha certo riaperti la violenza, lo stragismo e il terrorismo degli anni di piombo che furono e sono questione della magistratura ordinaria.

Qual è dunque la finalità che sta dietro al frullatore mediatico che ha montato l´"horror" del rogo di Primavalle con tutto il seguito (ultra-noto e ultra-analizzato) degli annessi e dei connessi? La probabile finalità non è la ricerca della verità, che per la parte ancora ignota spetta alla magistratura di ricercare oppure non sarà mai raggiunta. Si vuole invece riaprire il tema di Salò. Si vuole rimettere in discussione un punto fondamentale e cioè la base di legittimità su cui è nata la Repubblica e la Costituzione repubblicana. Si vuole metter mano, appena sarà politicamente possibile con la scadenza del settennato di Ciampi, ai principi enunciati nella prima parte della Costituzione, fondati sui valori della democrazia e dell´antifascismo.

Il primo passo su quella strada si chiama Salò. A chiudere quella questione l´amnistia del '47 non basta più. Si vuole il riconoscimento dello "status" di combattenti per le milizie fasciste e la loro completa equiparazione morale e materiale alle formazioni partigiane. Con il che non si cambia soltanto lo stato giuridico degli individui che militarono nella parte sbagliata e in difesa di valori negativi, ma (questo è il vero obiettivo) si vogliono cambiare i fondamenti dello Stato repubblicano, la sua identità e la sua legittimazione storica.

Temo (ma spero di sbagliarmi) che il sapiente montaggio dell´"horror" di Primavalle sia strumentalizzato (o strumentalizzabile) a questo fine, ben più gravido di conseguenze politiche e morali. Ma confido che la saggezza della pubblica opinione non cada nelle trappole del "trash" a tutti i costi e preferisca semmai gli "horror" di Dario Argento a quelli di Lollo e dei suoi compagni di crimine, più o meno ravveduti.

«Donna: una persona che si ritiene affidabile per mettere al mondo un figlio ma non per decidere se lo vuole o no». « Pro-life: chi dà valore alla vita umana fino alla nascita». Due esempi dal Dictionary of Republicanism che la Nation Books sta per pubblicare e di cui il sito di The Nation, storica rivista leftist americana, anticipa alcune voci. Un'iniziativa divertente di satira popolare del lessico neocon che sarebbe divertente importare come è stato fin qui importato il lessico neocon medesimo. Che è diventato, scrive su The Nation di questa settimana Katrina Vandel Heuvel (prestigiosa firma della rivista), «un vero e proprio codice cifrato, che distorce l'uso corrente delle parole per manipolare il pubblico ai fini dei Repubblicani». Una strategia lingusitico-politica studiata a tavolino con l'aiuto di appositi think-thanks della destra radicale, che consiste soprattutto nell'usare in senso reazionario parole che nel senso comune hanno un suono moderato, avvalendosi degli slittamenti semantici fra sinonimi, dell'uso pseudo-accademico di prefissi come neo-, della risemantizzazione di alcune espressioni (ad esempio la definizione di liberal trasformata in insulto).

Stufa di questo «programma orwelliano», The Nation ha deciso di darci un taglio combattendo le manipolazioni dei neocon con le armi della satira e i think-tanks con la gente comune, e ha raccolto per sei settimane le definizioni ironiche delle parole topiche della destra scritte dai suoi lettori. Eccone qualcuna: «Bancarotta: un crimine punibile quando è commesso da gente povera ma non quando è commesso dalle corporations». «Cambio del clima: il giorno benedetto in cui gli stati blu saranno ingoiati dagli oceani» (gli stati blu sono quelli che hanno espresso una maggioranza di voti per i democratici). «Creazionismo: pseudoscienza che sostiene che la somiglianza di George Bush con uno scimpanzé è una totale coincidenza». «Democrazia: un prodotto così largamente esportato che le scorte nazionali sono esaurite». «Fox News: faux (false) notizie». «Dio: consigliere anziano del Presidente». «Habeas corpus: termine legale arcaico non più in uso». «Crescita: la giustificazione per tagliare le tasse ai ricchi». «Onestà: menzogne dette in semplici frasi declanmatorie, tipo `la libertà è in cammino'». «Pigrizia: quando i poveri non lavorano; tempo libero: quando i ricchi non lavorano». «Liberals: seguaci dell'Anticristo». «Neoconservatori: idioti con il complesso di Napoleone». «11 Settembre: tragedia usata per giustificare qualunque norma dell'amministrazione, specialmente se non c'entra nulla». «Società dei proprietari: quella civiiltà in cui l'un per cento della popolazione controlla il 90 per cento della ricchezza». «Patriot Act: sciopero preventivo delle libertà americane che serve a evitare che i terroristi le distruggano, o anche l'eliminazione di una delle ragioni per le quali gli altri ci odiano». «Wal-Mart: lo stato-nazione del futuro».

Il gioco, si diceva, è esportabile come la democrazia e potremmo continuarlo noi. Esempi: «Multiculturalismo: le metropoli contemporanee trasformate in gironi infernali danteschi». «Relativismo: subdola strategia per impedire la libertà religiosa» (qui parla Ratzinger, o Pera che fa lo stesso). «Atto dovuto: trasparente strategia per dimostrare che le donne sono tutte potenziali assassine» (qui parla Casini, sul via all'indagine parlamentare sulla 194). «Centri di detenzione per sospetti terroristi: beauty farm con prodotti marca Rice», e qui torniamo negli Usa e il cerchio si chiude.

La lettera è stata publicata con il titolo “Quel giorno, tra i seguaci di bin Laden” dal Corriere della sera del 16 settembre 2001.Ora è in Tiziano Terzani, Lettera contro la guerra, Longanesi & C., Milano 2002

Il mondo non e più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l'occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, L’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino the ci ha portato all'oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell'umanità e stata in gioco.

Non c'è niente di più pericoloso in una guerra - e not ci stiamo entrando -- che sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni possibile ragione, definirlo «un pazzo”. Ebbene, la jihad islamica, quella rete clandestina ed internazionale che fa ora capo allo sceicco Osama bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell'allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, e tutt'altro the un fenomeno di “pazzia” e, se vogliamo trovare una via d'uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare e perchè.

Nessun giomalista occidentale e riuscito a passare molto tempo con Bin Laden e ad osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sua gente. A me capitò nel 1995 di passare due mezze giornate in uno dei campi di addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l'Afghanistan. Ne uscii sgomento ed impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e a tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell'Islam.

Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine che, con l'America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato era quella versione fondamentalista e militante dell'Islam. L'avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle repubbliche musulmane dell'Asia centrale ex sovietica;* l'avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri antiindiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - la mia prima - perché ci “imparassi qualcosa”.

Morto un papa, fatto l'altro, dispiegate forme e liturgie, usciamo dal grande spettacolo cattolico delle ultime settimane con molte domande aperte. Che non riguardano solo la figura controversa dell'ex cardinale Ratzinger, ma le forme che la religiosità sta assumendo dentro la Chiesa cattolica e fuori. E il rapporto fra religione e secolarizzazione nel mondo globalizzato. Col senno di poi, suona perfettamente calzante la diagnosi che Juergen Habermas azzardò nel suo discorso alla Fiera del libro di Francoforte un mese dopo l'11 settembre, quando disse che la prima conseguenza dell'attentato alle Torri gemelle sarebbe stata un ritorno di religiosità e di fondamentalismo non tanto nel conflitto fra Islam e occidente, quanto all'interno delle società occidentali secolarizzate. Previsione azzeccata, come il seguito della vicenda politica ha dimostrato negli Stati uniti, col trionfo dei neocons, e in Europa, con i contrasti sull'inserimento delle radici cristiane nella Costituzione laica dell'Unione. Giro la «profezia» di Habermas a Mario Tronti, per cominciare da qui a decifrare le tracce degli eventi visti in piazza San Pietro.

Tre anni dopo, ti pare una diagnosi confermata dai fatti?

Effettivamente era una bella profezia questa di Habermas, anche se suona un po' paradossale che venga proprio da un filosofo di matrice illuminista come lui. Centra il problema che queste ultime settimane ci hanno messo di fronte: l'eterno ritorno del circolo fra il sacro e il secolare. La modernità sembrava averlo risolto una volta per tutte, invece ecco che si ripresenta: non solo in seguito a eventi tragici o «apoocalittici» come l'11 settembre, ma anche in circostanze meno eclatanti. E più che conseguenza del cosiddetto «scontro di civiltà», sembra un esito della modernità e postmodernità della civiltà occidentale. A partire da qui possiamo leggere il passaggio dal pontificato di Wojtyla a quello di Ratzinger su uno sfondo più profondo e in una luce non contingente.

Il passaggio da un pontificato all'altro si può ritenere sempre un evento significativo? O il fatto che ci appaia significativo questo da Wojtyla a Ratzinger fa già parte del problema, segnala già il ritorno di una sensibilità verso il sacro anche fra laici?

Non so se sia stato significativo ogni cambio di pontificato, ma questo certamente esemplifica bene il ritorno del circolo fra sacro e secolare, e come tale va analizzato. Siamo stati appesi alla elezione del papa come qualche mese fa eravamo stati appesi all'elezione del presidente degli Stati uniti. Con la differenza che il presidente degli Stati uniti si elegge ogni quattro anni, mentre l'elezione del nuovo papa avveniva dopo ventisette: ecco la differenza fra i tempi della politica e i tempi della Chiesa. E i tempi lun ghi secondo me si addicono di più alla dimensione del pensiero.

Le prime reazioni all'elezione di Ratzinger non sono state positive, nella sinistra laica e anche fra i cattolici progressisti. Tu che valutazione ne dai?

Ho sentito effettivamente una certa preoccupazione fra i cristiani migliori che abitano la Chiesa ai margini e nelle pieghe. Anch'io lì per lì ero un po' diffidente e preoccupato. Poi, ascoltando l'omelia proeligendopontifice, ho cambiato idea. Intanto il passaggio da un papa polacco a un papa tedesco, e dall'attore di teatro a Cracovia al professore di teologia a Tubinga, è cosa seria e promettente. Anche la provenienza di Ratzinger dal ceppo agostiniano invece che da quello tomista di Wojtyla è una garanzia. Di contro, ad allarmarmi c'è l'entusiasmo degli atei devoti. Questa destra cosiddetta culturale che inneggia a Ratzinger dobbiamo cominciare a chiamarla col suo vero nome: una destra legittimista, mossa dalla nostalgia per un sovrano assoluto - legibus solutus, alla lettera - che sia anche una guida illuminata. Ha detto così il presidente Pera, «abbiamo bisogno di una guida, morale e spirituale», e l'ha detto all'aula del senato della Repubblica, non a un'assemblea di papa-boys. Uno scandalo, di cui troppo pochi si sono accorti.

Che cosa ti ha colpito dell'omelia?

L'incipit: quando Ratzinger riporta il brano di Gesù al Tempio che legge Isaia a proposito del giorno della misericordia, e nota che Gesù omette il versetto seguente di Isaia, laddove si ricorda che il giorno della misericordia è anche il giorno della vendetta. Ho visto in questa citazione di Ratzinger la fine di quello che potremmo chiamare, per parafrasi col politically correct, il «religiosamente corretto».

Cioè?

La riduzione del cristianesimo, e più in generale della religione, a etica delle buone intenzioni o dei buoni comportamenti che perdono il senso originario della fede. E mi pare che questa curvatura dell'omelia di Ratzinger vada messa in relazione con la sua ormai famosa critica del relativismo. Che è fondamentalmente una critica del pensiero debole, quello che sostiene che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. In sostanza, mi pare che Ratzinger riproponga la prospettiva di una fede forte. E qui bisogna intendersi: la fede forte è tutt'altro che una fede violenta: è quella che lui chiama «fede adulta», cioè non infantile, non superficiale, non esposta ai venti delle mode, delle ultime trovate del pensiero. Un accento alla Bonhoeffer, in cui a me pare di poter rintracciare anche l'impronta di Romano Guardini.

Però la questione della critica del relativismo secondo me è più ambivalente. Credo anch'io che si tratti di un problema serio, che del resto è ben presente anche al pensiero radicale più spregiudicato - penso alla critica di Zizek alla tolleranza liberale, o alla critica del pensiero della differenza al refrain postmoderno della danza delle differenze. Ma non sono affatto sicura che i termini in cui lo pone Ratzinger siano condivisibili. Nel libro sulle radici cristiane dell'Europa sottoscrive il Pera-pensiero, che vede le matrici del relativismo in Wittgenstein, Nietzsche e Derrida mettendo praticamente sotto accusa tutto il pensiero novecentesco. E anche nell'omelia pro eligendo pontifice, sotto l'etichetta del relativismo c'era di tutto un po', dal marxismo al pensiero post-conciliare. Infine dobbiamo tenere presente qual è l'uso politico che oggi si fa della lotta contro il relativismo, scagliando «la verità» dell'occidente contro «l'inferiorità» delle culture altre.

Infatti, la critica al relativismo non deve andare a finire in un neo- fondamentalismo. Su questo l'attenzione dev'essere vigile, nei confronti del nuovo pontefice. Secondo me però la «fede adulta» esclude una deriva fondamentalista. Proprio perché è adulta, non è una risposta superficiale, e non emargina la ragione ma la esalta. Ratzinger la esemplifica col rapporto fra verità e carità, che va nello stesso senso del rapporto fra vendetta e misericordia. Una carità intesa non come scelta morale ma come scelta di fede, il che impegna a difendere la propria verità sicuramente non con le armi né con la forza, ma forse proprio con un dialogo che sale di livello, che non rinuncia alle proprie posizioni ma le confronta con quelle degli altri. Senza cedimenti ma anche senza chiusure. Almeno, questo è quanto si vorrebbe da un papa grande teologo invece che grande comunicatore.

A proposito di comunicazione. Fra la morte di Wojtyla e l'elezione di Ratzinger c'è stato un dispiegamento di massmedia senza precedenti. Ha ragione chi ci ha visto solo un grande evento mediatico? Oppure il teatro e la liturgia di San Pietro esprimevano ancora una loro forza autentica? E se sì, che cosa dice questa forza alla politica secolarizzata?

La scenografia di Piazza San Pietro, sia nel giorno dei funerali sia in quello dell'intronazione, esprimeva tutta la potenza simbolica della Chiesa, una potenza simbolica intatta e grandiosa dopo due millenni di storia e dopo alcuni secoli di modernità secolarizzata. Questa sapienza divina nell'uso del simbolico, questo saper tenere insieme le masse e i prìncipi del pianeta, ci rimette di nuovo di fronte alla Chiesa come potenza politica. C'è un rapporto complesso fra eskathon cristiano e katechon della Chiesa, fra il futuro di salvezza che il cristianesimo offre all'umanità e la funzione di trattenimento della storia che l'istituzione-Chiesa svolge da sempre. E credo che bisognerebbe instaurare un rapporto preciso fra questa complexio oppositorum del cattolicesimo romano e le forze storiche della trasformazione. Dovremmo riconoscere alla Chiesa questa sua funzione di trattenere la modernità, di ritardare l'accelerazione dello sviluppo. C'è oggi una grande questione antropologica, che riguarda in primo luogo l'Occidente ma comincia a interessare anche il grande Oriente: il contrasto fra l'accelerazione impetuosa del tempo nella produzione, nei consumi, nelle comunicazioni, nell'uso di massa della tecnologia, e i tempi umani che non riescono ad assorbirla, fanno fatica a starle dietro, con tutte le conseguenze che ben conosciamo in termini di comportamenti di massa: assunzione superficiale dell'innovazione, accettazione leggera di tutto quello che passa il mercato, acquisizione volgare del benessere e della ricchezza. Una sinistra moderna dovrebbe farsi carico di questa contraddizione invece di mettersi al seguito della corsa.

Ed è qui che invece interviene il rapporto della Chiesa con il mondo. Dice Ratzinger: «più una religione si assimila al mondo più diventa superflua». Ha ragione, e la frase vale anche per la politica: più la politica si assimila al mondo, a ciò che è così com'è, più diventa superflua. La secolarizzazione rischia di essere questo semplice inseguimento dei tempi accelerati della produzione e della tecnica, senza forze di contrasto. E il sacro risulta l'unico elemento in grado di operare dentro questa contraddizione. Secondo me la ragione di fondo di ciò che chiamiamo crisi della secolarizzazione e ritorno del sacro sta precisamente qui. Molto spesso il ritorno del sacro va interpretato come bisogno di umanizzazione del rapporto dell'essere umano con il mondo che rischia di diventare un rapporto puramente tecnico-economico. Ed è un ritorno che ovviamente non riguarda solo la religione cattolica - anzi, se si esprime in forme religiose diverse tanto meglio.

Non so, qui tocchiamo un altro punto controverso. Molte analisi del fondamentalismo islamico dicono il contrario, lo leggono come uso armato della religione per competere sulla modernità, non per frenarla o trattenerla. E lo stesso vale per il fondamentalismo cristiano dei neocons, potente alleato del liberismo selvaggio.





Infatti sto parlando del sacro, non del fondamentalismo. Il fondamentalismo si allea facilmente con il mercato e con la tecnica. Ma l'alternativa al fondamentalismo non sta nell'accelerazione della secolarizzazione, sta anche in una riconsiderazione del sacro. Che non è solo dimensione religiosa, è dimensione umana, bisogno - lo dico nei termini della filosofia novecentesca - di declinare l'umano nei termini di una differenza irriducibile.

Hai detto finora della funzione di «katechon» della Chiesa. Ma alla politica della trasformazione non interessa anche la funzione escatologica? Ratzinger risponderebbe di sì. Una volta disse che preferiva il mondo di prima dell'89 a quello di oggi, perché il comunismo era sì un grande nemico, ma condivideva qualcosa del messianesimo cristiano. La sinistra di oggi non soffre anche della fine di questa dimensione?

Eschaton e catechon infatti vanno assieme. Nel linguaggio cristiano: devi trattenere il male e proporre il bene. Nel linguaggio politico: devi governare questa società e superarne la forma attuale. Le due prospettive non sono affatto in alternativa come nella vulgata di oggi, per cui o sei contro il capitalismo e non devi governarlo o lo governi e non vuoi più superarlo. Da questo punto di vista è interessante che il politico e il religioso rischino oggi la stessa deriva. Il politico che si affida soltanto all'innovazione non controlla più i tempi del rapporto sociale e ne viene travolto. E così il religioso che si affida a sua volta all'innovazione perde l'essenziale del rapporto di fede. Sarebbe interessante - ho in programma di provarci al Centro per la riforma dello Stato, nell'ambito di una ricerca su fede e secolarizzazione oggi - un'analisi del Concilio Vaticano II, che fu una grande rottura dello schema tradizionale di una Chiesa gerarchica e papista, ma nei decenni ha perso la sua carica propulsiva e ha facilitato l'approdo a una chiesa di credenti senza fede, con le piazze piene e le chiese vuote, a cui Ratzinger dice di voler reagire. Infatti nella prima omelia papale ha parlato di un Dio emarginato, oltre che di una Chiesa che fa acqua, usando quella bella metafora degli apostoli che tirano una rete piena ma strappata, da cui i credenti nella fede sono fuggiti, con la conseguenza dei «deserti interiori» che provocano «santa inquietudine». Una deriva ben visibile in quella piazza San Pietro piena di segni più profani che sacri, telecamere e telefonini e applausi. «Laddove irrompe l'applauso, si è di fronte al segno sicuro che si è del tutto perduta l'essenza della liturgia, sostituita da una sorta di intrattenimento a sfondo religioso», ha detto Ratzinger. Vale anche per la politica di oggi: grandi raduni ma pochissima intensità di visioni.

Infatti. C'è il sacro che rispunta nel secolare e c'è il secolare che rispunta nel sacro. Nel pontificato di Wojtyla non abbiamo visto chiaramente questo slittamento nella religiosità delle forme della crisi della politica?

Culto del capo e populismo: come nella destra di oggi, e nella sinistra che è costantemente tentata di imitarla. Cattiva secolarizzazione di elementi di religiosità, e cattiva traduzione religiosa di elementi della secolarizzazione. Un intreccio molto interessante da frequentare, se siamo capaci di farlo con rigore intellettuale.

I comunisti non mangiano i bambini, gli ebrei non li sacrificano al loro Dio, gli zingari non li rapiscono. Si sa che i pregiudizi sono proiezioni di timori irrazionali, personali e collettivi, e che, come diceva Einstein, "è più facile disintegrare un atomo che un luogo comune". Era dunque ovvio che la contestabile sentenza di Lecco avrebbe rilanciato l’ossessione e la leggenda della corte dei miracoli celebrata da Victor Hugo. Infatti i leghisti hanno affisso i loro manifesti elettorali "giù le mani dai nostri bambini" appropriandosi appunto del pregiudizio sul misterioso popolo dei ladri di neonati che, come insegnano i libri di storia, è addirittura un postgiudizio.

In Europa si cominciò a pensare già tra sei e settecento di assorbire il problema del nomadismo "eslege" togliendo l’acqua al mondo irregolare degli zingari, vale a dire sottraendo i loro bambini agli accampamenti diseducativi per affidarli ai contadini e alla dolce e soda cultura stanziale della zappa. In tutta l’Europa centrale, che registrava il tasso più alto di popolazione zingaresca, per ben tre secoli decreti e leggi furono emanati per "liberare" quei bambini dai loro genitori naturali, sino alla soluzione finale nazista e dunque all’internamento di adulti e pargoli, tutti irrecuperabili come gli ebrei. Ne furono sterminati più di cinquecentomila.

In questo nostro pregiudizio così antico e radicato c’è forse dunque un’astuta operazione di prestidigitazione storica per mettersi in pace con la propria coscienza puerofila e familistica. Insomma eravamo noi a rubare i loro bambini e invece nel fondo oscuro dell’immaginario collettivo da più di tre secoli sono loro a rubare i nostri.

La prima domanda da porsi è dunque: davvero gli zingari rubano i bambini? A Lecco il segretario provinciale della Lega ha denunciato "il tentativo di rapire una giovane padana". E nel manifesto della Lega c’è scritto: "leggerete il futuro nelle nostre manette", che è il contrappasso promesso alle zingare divinatrici le quali, mentre ti leggono la mano o i tarocchi o i fondi di caffè, non solo fregano i portafogli dalle tasche, ma anche i figli dalle culle. I leghisti che, a firma del ministro Castelli, hanno preparato un disegno di legge per lo sgombero dei campi, cavalcano dunque la leggenda dei camerieri di Dracula, le carovane del film di Francis Ford Coppola, delle streghe esotiche e delle saghe notturne, le femmine dei rapimenti demoniaci che organizzano il racket dei mendicanti, allevano schiavi e li nascondono nei loro accampamenti ai margini delle città come in una specie di Aspromonte imprendibile. Si sa che la Padania, quella di ricchezza recente, è tremebonda come i kulaki sotto il potere bolscevico ed ha bisogno di mostri e di capri espiatori. Sino a una generazione fa, era infilata nell’albero degli zoccoli, con un reddito inferiore a quello della Sicilia. Rapidamente opulenti, questi falegnami diventati mobilieri e questi scarpari evolutisi in calzaturieri appunto come i kulaki vedono bolscevichi dappertutto: nei meridionali, negli sloveni, nei croati, negli extracomunitari neri, e ovviamente negli zingari che sono il massimo del "bolscevismo" perché rubano i bambini e, magari, se li mangiano pure.

La Padania, tra le tutte le zone d’Italia, è la più esposta a cadere preda dei pregiudizi e degli umori razzisti. Ogni fenomeno illegale che sta dentro la fisiopatologia della modernità qui può diventare una minaccia apocalittica. Ecco perché il tentato rapimento della bimba di Lecco è il dettaglio che annuncia la calata degli Unni. Ed è una Attila "annebbiata dall’ideolgia marxista e buonista" il magistrato Cristina Sarli che a Lecco, con il rito del patteggiamento, per sottrazione di minore ha condannato a otto mesi e ha rimesso in libertà le due nomadi. Come si sa, una mamma le accusava del tentato ratto della sua bambina. Secondo i cronisti del quotidiano di Lecco La Provincia, che meglio di tutti hanno seguito la vicenda, né il giudice né il pubblico ministero e neppure l’avvocato difensore d’ufficio hanno potuto stabilire e provare con certezza che davvero si era trattato di un tentativo di sequestro. Non c’erano testimoni e, alla fine, il pubblico ministero, che si chiama Luca Masini ed è considerato molto severo, non ha creduto completamente alla versione un po’ confusa e contraddittoria della madre. Temendo dunque che al processo le due nomadi sarebbero state assolte, ha patteggiato la pena minore. E il giudice ha accettato il patteggiamento.Intendiamoci: questa sentenza non ci piace e ha ragione Castelli quando dice che bisognava o assolverle o condannarle severamente. La sentenza, con i suoi giochi di ombre, somiglia alla diagnosidi "quasi incinta". Era rapimento o non lo era? Non esiste il "mezzo rapimento". Ma le ragioni di Castelli si fermano qui. Che tra gli zingari ci siano abilissimi ladri di portafogli e svaligiatori di appartamenti è facilmente dimostrabile, ed è certo che sono dediti all’accattonaggio pietoso e spesso aggressivo. C’è anche una pessima retorica all’incontrario sugli zingari, sui ribelli, i banditi, la Carmen dionisiaca di Berlioz, le fisarmoniche, gli artisti, i coltelli. È la faccia concava dell’ottusità convessa, quella dei pregiudizi; fa il paio con la leggenda dei furti dei bambini. È la poesia dell’accattonaggio, la presunta bellezza esotica e imprendibile della maga Esmeralda che protegge il povero gobbo di Notre Dame... È insomma la retorica rovesciata dei miserabili, degli umili manzoniani, le "Anime perse" di De André, con l’idea che non bisogna chiamarli zingari ma Rom o Sinti, che i campi sono belli come accampamenti indiani nel bel mezzo delle metropoli, che i lori riti tribali sono gioia...

Gli zingari sono dei profughi apolidi, gente che non sta da nessuna parte. Non ci piace la retorica che li beatifica, ma non sono ladri di bambini. E anche se quelle donne di Lecco davvero avessero tentato di rubare quella bambina, non risulta che gli zingari siano il popolo che ruba i bambini. Nelle statistiche del ministero degli Interni non c’è un solo precedente. È vero che non esistono statistiche serie sui furti di bambini, che rimangono una specialità della malavita organizzata: per il commercio sessuale, per la prostituzione, per il traffico delle adozioni. In Italia c’è un’antica tradizione orale che attribuisce agli zingari tentativi di sequestri nei mercati, per la strada, dalle macchine. E c’è anche la leggenda che i rapimenti stiano alla base dell’industria di espianti e impianti di organi, con elicotteri a motore acceso e svelti camioncini adibiti a sala chirurgica volante per rapire e subito consumare. Non ci sono dati reali e non ci sono neppure sospetti sui nomadi nelle sparizioni che tutti conosciamo, quelle di Angela Celentano, Mariano Farina, Salvatore Colletta, Pasquale Porfida, Benedetta Adriana Roccia, Santina Renda... sino al caso recente di Denise Pipitone a Mazara del Vallo. Del resto, se gli zingari rubassero davvero bambini, nell’Italia che è la vera patria della sacra famiglia e che del Cristo iconograficamente stracelebra la puerizia, nell’Italia dove Dio è bambino... allora sì che diventeremmo tutti jihadisti cristiani. Perché tutto in Italia tolleriamo, anche Castelli e Borghezio, ma sui figli no, quelli sono "piezz ‘e core", e non solo a Napoli.

Nello scorso settembre l'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, organizzò un seminario intitolato «Politica e pratiche politiche. All'origine della questione morale», che rilanciava la questione del rapporto fra politica e pratica politica, già messa a tema nei mesi precedenti da alcuni editoriali di Critica marxista. L'ultimo numero della rivista pubblica adesso, precedute da un editoriale di Aldo Tortorella sulla sempre più accentuata separatezza e autoreferenzialità del ceto politico italiano, alcune relazioni a quel seminario, di Giacomo Marramao, Gianni Ferrara, Maria Luisa Boccia, Enrico Melchionda. La prima e la terza in particolare mi sembrano da segnalare per alcuni tratti che le accomunano. Il primo è il legame che stabiliscono fra crisi politica e crisi culturale della sinistra - o meglio, per dirla con Marramao, fra la crisi e la «deculturalizzazione» della politica. Il secondo è la capacità di leggere alcune dinamiche della crisi italiana con le lenti di alcuni classici - da Max Weber a Gramsci a Simone Weil e Hannah Arendt - , sottraendole così alla riduzione a fenomeni di breve periodo o dell'ultim'ora cui tende il chiacchiericcio politologico sulla transizione infinita. Il terzo è il legame fra politica, forme di vita e pratiche politiche che entrambi mettono al centro del discorso, e il rilievo che di conseguenza assumono, in una prospettiva di valutazione storica che abbraccia ormai più di un trentennio, il pensiero-pratica della differenza sessuale e il suo impatto, diretto o indiretto, sulla crisi e le trasformazioni della politica.

Punto di partenza è una diagnosi netta sullo stato di degrado in cui versa nell'Italia di oggi non solo la politica istituzionale, ma anche la vita civile: siamo fuori, e per fortuna, dalla retorica della contrapposizione fra una politica ammalata e una società civile che scoppia di salute. Tuttavia la responsabilità prima è della politica, e in specie, secondo Marramao, di quella tendenza della sinistra post-Pci a deculturalizzare la politica, così screditandola e rendendola una faccenda da ceto separato preoccupato soprattutto della propria autoriproduzione. Max Weber, con le sue due famose conferenze del 1918 sulla politica e la scienza come professione-vocazione, e Gramsci, con le note dei Quaderni sugli intellettuali e sul «moderno Principe», tornano utili da un lato per ripristinare il nesso fra lavoro intellettuale e pratica politica, conoscenza e potenza, azione trasformatrice e general intellect, specialismi e competenza politica. Dall'altro per ricondurre l'origine della «questione morale» italiana a dinamiche di lungo periodo, aggravate dalle ma non riducibili alle nefandezze craxian-berlusconiane: alla perdita di vocazione della professione politica, sì che a destra e a sinistra aumentano, secondo una distinzione weberiana, quelli che vivono di politica rispetto a quelli che vivono per la politica; e al fallimento di quella funzione di riforma intellettuale e morale del «moderno Principe» gramsciano, che doveva consistere nel promuovere l'«accumulazione etica originaria» in altri paesi aiutata dall'imperativo protestante ma mancata nell'ingresso dell'Italia nella modernità. Per ragioni storiche e interne alla sua stessa storia, dunque, la sinistra emersa dalle ceneri del Pci non può chiamarsi fuori dalla crisi della politica, ma ne è parte centrale e cruciale.

L'analisi dell'oggi non può perciò saltare quello snodo cardinale che fu, già negli anni Settanta, la crisi della forma-partito. Lì ritorna infatti Maria Luisa Boccia, anche lei a partire, sulla scia di Gramsci, del frammento hegeliano su politica e destino riletto da Mario Tronti e di Simone Weil, dal nesso fra politica e vita: la forma-partito regge finché realizza quel nesso, crolla quando lo perde o lo costringe in una organizzazione automatizzata e svuotata di passione, giacché, come Gramsci stesso segnalava, la passione politica organizzata deve diventare razionalità, ma la razionalità dev'essere a sua volta continuamente nutrita e «superata» da una passione che la eccede.

Quando questo circolo si spezza, il Pci finisce. Ma non di sole dinamiche interne: potente fattore di crisi è la scommessa femminista «di dare stabilità, continuità, forma all'agire singolare e plurale senza costruire un'organizzazione» e puntando sull'invenzione di nuove pratiche basate sul rapporto fra vita e politica. Fattore di crisi, e apertura di un'altra prospettiva: per Marramao, la «frattura longitudinale» introdotta dal femminismo della differenza è imprescindibile perché «insegnandoci a distinguere fra sfera pubblica e dimensione statuale ci ha indicato le vie di una politica diversa», che passa per quella pluralità di esperienze, pratiche e soggetti neutralizzati dalla logica della politica tradizionale. Anche se, sottolinea Boccia, il rischio del riconoscimento della rivoluzione della differenza è sempre lo stesso, ossia che se ne assumano alcuni contenuti prescindendo dalle sue pratiche. E tornando a separare la parola e la cosa, il discorso e l'esperienza, la politica e la pratica politica.

L'inno dell'Unione europea, eseguito in numerose manifestazioni pubbliche di tipo politico, culturale o sportivo, è di fatto la melodia dell'Inno alla gioia dall'ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, un vero «significante vuoto» che può stare per qualsiasi cosa. In Francia fu elevato da Romain Rolland, umanisticamente, a ode alla fratellanza di tutte le genti («la Marsigliese dell'umanità»); nel 1938 fu eseguito come momento culminante dei Reichmusiktage e in seguito per il compleanno di Hitler; nella Cina della rivoluzione culturale, mentre si bollavano i classici europei, fu rivalutato come parte della lotta di classe progressista, mentre nel Giappone di oggi è diventato un cult in quanto costituito di quello stesso tessuto sociale, per il suo presunto messaggio di «gioia attraverso la sofferenza»; fino agli anni Settanta, vale a dire quando le squadre olimpiche della Germania Ovest e della Germania Est dovevano gareggiare insieme formando un'unica squadra tedesca, l'inno suonato per le loro medaglie d'oro era l'Inno alla gioia e, contemporaneamente, il regime razzista bianco della Rodesia di Ian Smith - che alla fine degli anni Sessanta proclamò l'indipendenza per mantenere l'apartheid, scelse lo stesso motivo come inno nazionale. Persino Abimael Guzman, il leader (ora in carcere) dell'ultra-terrorista Sendero Luminoso, quando gli fu chiesto quale musica gli piacesse, citò il quarto movimento della Nona di Beethoven. Così possiamo facilmente immaginare una scena fantastica in cui tutti i nemici giurati, da Hitler a Stalin, da Bush a Saddam, per un momento dimenticano le loro rivalità e partecipano allo stesso momento magico di estatica fratellanza...

Una marcia turca

Ma prima di liquidare il quarto movimento in quanto «distrutto dall'uso sociale», come ha detto Adorno, osserviamo alcune caratteristiche della sua struttura. A metà del movimento, dopo che abbiamo sentito la melodia principale (il tema della gioia) in tre variazioni orchestrali e tre variazioni vocali, questo primo climax è seguito da qualcosa di inatteso che inquieta i critici da centottant'anni, ossia dalla sua prima esecuzione: alla battuta 331 il tono cambia completamente e, invece di progredire in modo solenne, come in un inno, il tema «della gioia» è ripetuto nello stile della «marcia turca», preso a prestito dalla musica militare per gli strumenti a fiato e a percussione che gli eserciti europei del XVIII secolo avevano adottato dai giannizzeri turchi. Il registro è qui quello di una parata popolare carnevalesca, di una farsa (alcuni critici hanno persino paragonato i suoni dei fagotti e della grancassa che accompagnano l'inizio della marcia turca a peti...). E da questo punto in poi tutto va male, la dignità semplice e solenne della prima parte del movimento non viene più recuperata: dopo la parte «turca» e in chiara contrapposizione con essa, in una specie di fuga nella religiosità più intima, la musica corale (liquidata da alcuni critici come «fossile gregoriano») cerca di rendere l'immagine eterea di milioni di persone che si inginocchiano abbracciate, contemplando timorose il cielo distante e cercando il dio paterno e amorevole che deve risiedere sopra un tetto di stelle («Über'm Sternenzelt/ Muß ein lieber Vater wohnen»). La musica però, per così dire, si inceppa quando la parola «muß», resa dapprima dai bassi, è ripetuta dai tenori e dai contralti, e alla fine dai soprano, come se questa ripetuta evocazione rappresentasse un tentativo disperato di convincere noi (e se stessa) di ciò che sa non essere vero, trasformando il verso «un padre amorevole deve risiedere» in un atto disperato seppure implorante, e attestando così che oltre il tetto di stelle non c'è niente, nessun padre amorevole è lì a proteggerci e a garantire la nostra fratellanza. Ma la cadenza finale è la cosa più strana di tutte: non sembra affatto di Beethoven, ma somiglia piuttosto a una versione più altisonante del finale del «Ratto del serraglio» di Mozart, combinando gli elementi «turchi» con il veloce spettacolo rococò. (E non dimentichiamo la lezione di quest'opera di Mozart: la figura del despota orientale vi è presentata come un vero padrone illuminato). Il finale è dunque uno strano miscuglio di orientalismo e regressione nel classicismo del tardo XVIII secolo, una doppia fuga dal presente storico, una silenziosa ammissione del carattere puramente fantasmatico della gioia della fratellanza che dovrebbe abbracciare tutti. Se mai è esistita una musica che letteralmente «decostruisce se stessa», questa lo è. Nessuna meraviglia se già nel 1826, due anni dopo la prima esecuzione, alcuni critici definirono il finale «una festa dell'odio verso tutto ciò che può essere chiamato gioia dell'uomo».

Qual è, allora, la soluzione? Per spostare l'intera prospettiva e problematizzare la primissima parte del quarto movimento: in realtà le cose non vanno male solo alla battuta 331, con l'inserimento della marcia turca. Vanno male fin dall'inizio. Dobbiamo accettare l'idea che nell'«Inno alla gioia» c'è qualcosa di insipido, di fasullo, sicché il caos che inizia dopo la battuta 331 è una sorta di «ritorno del represso», un sintomo di qualcosa che non andava sin dall'inizio.

Il sintomo del represso

E se avessimo addomesticato l'«Inno alla gioi»a eccessivamente? E se ci fossimo troppo abituati a considerarlo un simbolo di gioiosa fratellanza? Cosa avverrebbe se dovessimo considerarlo daccapo, scartando ciò che è falso?

Non è forse lo stesso, oggi, per l'Europa? Dopo avere invitato milioni di persone, dal più alto al più basso (il verme) ad abbracciarsi, la seconda strofa termina sinistramente: «Ma colui che non può gioire, si trascini via in lacrime» («Und Wer's nie gekonnt, der stehle/ Weinend sich aus diesem Bund»). L'ironia che l'«Inno alla gioia» di Beethoven sia di fatto l'inno europeo sta, naturalmente, nel fatto che la causa principale dell'attuale crisi dell'Unione è proprio la Turchia: secondo la gran parte dei sondaggi, quelli che hanno votato no ai recenti referendum in Francia e in Olanda lo hanno fatto principalmente perché erano contrari all'ingresso della Turchia nell'Ue. Il no può poggiare sul populismo di destra (no alla minaccia turca alla nostra cultura, no alla mano d'opera a basso prezzo dei migranti turchi) oppure sul multiculturalismo liberale (la Turchia non va fatta entrare perché nei confronti dei curdi non si mostra abbastanza rispettosa dei diritti umani). E la posizione opposta, il sì, è tanto falsa quanto la cadenza finale di Beethoven. La Turchia deve dunque essere ammessa nell'Unione, o deve «trascinarsi in lacrime via dall'Unione ( Bund)»? L'Europa può sopravvivere alla «marcia turca»?

E se, come nel finale della Nona di Beethoven, il vero problema non fosse la Turchia, ma la stessa melodia di base, il canto dell'unità europea come viene eseguito dall'élite pragmatica e tecnocratica, post-politica, di Bruxelles? Ciò che ci serve è una melodia totalmente nuova, una nuova definizione di Europa. Il problema della Turchia, la perplessità dell'Unione europea sulla Turchia, non attiene alla Turchia in quanto tale ma alla confusione sulla stessa natura dell'Europa.

Dove ci troviamo, dunque, oggi? L'Europa è in una grande tenaglia, con l'America da una parte e la Cina dall'altra. L'America e la Cina, viste metafisicamente, sono uguali: la stessa disperata frenesia di una tecnologia senza freni e un'organizzazione dell'uomo medio priva di radici. Quando il più remoto angolo del pianeta sarà stato conquistato con la tecnica e sarà sfruttabile economicamente; quando un qualsiasi incidente, ovunque vi piaccia, diventerà accessibile con la massima velocità; quando, attraverso le dirette televisive, potremo «vivere» contemporaneamente una battaglia nel deserto iracheno e un'opera in scena a Pechino; quando in un network digitale globale il tempo non sarà altro che velocità, istantaneità, e simultaneità; quando il vincitore in un reality show televisivo conterà come l'eroe di un popolo; allora sì, su tutto questo putiferio continuerà ad aleggiare come uno spettro la domanda: per che cosa? - per arrivare dove? - E poi?

Chiunque conosca minimamente Heidegger, naturalmente, riconoscerà facilmente in queste righe una parafrasi ironica della diagnosi di Heidegger sulla situazione dell'Europa a partire dalla metà degli anni `30 ( Introduzione alla metafisica). C'è effettivamente bisogno, tra noi europei, di ciò che Heidegger ha chiamato Auseinandersetzung (confronto interpretativo) con il passato, non solo degli altri ma anche della stessa Europa in tutta la sua ampiezza, dalle sue radici antiche e giudaico-cristiane all'idea, recentemente defunta, del welfare state.

Modelli a confronto

Oggi l'Europa è divisa tra il cosiddetto modello anglosassone - accettare la «modernizzazione» (adattamento alle regole del nuovo ordine globale) - e il modello franco-tedesco - salvare il più possibile del welfare state della «vecchia Europa». Sebbene opposte, queste due opzioni sono le due facce della stessa medaglia, e il nostro vero compito non è né tornare a un passato idealizzato - quei modelli sono chiaramente esauriti - né convincere gli europei che, se vogliamo sopravvivere come potenza mondiale, dobbiamo nel più breve tempo possibile adattarci ai recenti trend della globalizzazione. Né il nostro compito è l'opzione forse peggiore, la ricerca di una «sintesi creativa» tra le tradizioni europee della globalizzazione per ottenere quella che si è tentati di chiamare «globalizzazione dal volto europeo».

Ogni crisi è in se stessa un'istigazione a un nuovo inizio; ogni crollo di misure strategiche e pragmatiche a breve termine (per la riorganizzazione finanziaria dell'Unione, ecc.) una benedizione nascosta, un'opportunità di ripensare le stesse fondamenta. Ciò di cui abbiamo bisogno è un recupero attraverso la ripetizione ( Wieder-Holung): attraverso un confronto critico con l'intera tradizione europea, bisognerebbe riproporre la domanda «Cos'è l'Europa?» o, piuttosto, «Cosa significa per noi essere europei?», e così formulare un nuovo inizio.

Il compito è difficile, ci costringe a correre il grosso rischio di affrontare l'ignoto. Tuttavia la sua unica alternativa è una lenta decadenza, la graduale trasformazione dell'Europa in ciò che fu la Grecia per l'impero romano maturo, la meta di un turismo culturale nostalgico senza effettiva rilevanza.

Nelle sue Notes Towards a Definition of Culture («Note per una definizione della cultura»), il grande conservatore T. S. Eliot osservava che ci sono momenti in cui l'unica scelta è quella tra il settarismo e la non fede, quando il solo modo per tenere viva una religione è compiere una scissione settaria dal suo cadavere. Oggi questa è la nostra unica chance: solo per mezzo di una «scissione settaria» dall'eredità europea «standard», tagliandoci via dal cadavere in putrefazione della vecchia Europa, potremo tenere viva la rinnovata eredità europea.

Traduzione di Marina Impallomeni

L'immagine nella presentazione è di P.P.Rubens, Il ratto d'Europa. Quella nel testo è tratta da una cartolina russa di una bennypostcards/ collezione privata

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