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Con il numero di Febbraio 2019 della rivista Dialoghi Urbani, comincia una sezione dedicata al dibattito sempre attuale sulla rendita, e sul ruolo che essa ha nelle trasformazioni urbane e nel consentire o meno l'accesso di tutti alla casa, agli spazi pubblici, ai servizi necessari per una vita dignitosa.
La riflessione sulla rendita della rivista di Urbanistica - Architettura - Territorio - Società parte dagli scritti di Raffaele Radicioni, già assessore all’Urbanistica del Comune di Torino e rigoroso sostenitore della necessità di eliminare l'appropriazione privata della rendita urbana per rendere possibile la realizzazione di una città al servizio dei cittadini.

Raffaele Radicioni è scomparso nell'ottobre del 2017, si leggano le parole di Diego Novelli che lo ricorda come un uomo mite ma molto rigoroso che «rispondeva con pacatezza, punto su punto, anche alle accuse più grossolane che gli venivano rivolte, ad esempio, di voler ostacolare lo sviluppo della città, di essere un antiquato conservatore, contro la modernità e la crescita urbana e quindi anche economica.»

Testimonianza della fermezza e precisione di Radicioni sono le pagine di Edoardo Salzano tratte da Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto (Corte del Fòntego editore, Venezia 2010, pp.116-117) riprese sul sito di eddyburg, che riguardano la polemica scoppiata nel 1982 sull’Unità, tra Raffaele Radicioni e Maurizio Mottini, entrambi assessori comunisti, rispettivamente di Torino e Milano.

Segnaliamo inoltre un articolo di Radicioni scritto per eddyburg nel 2014 "La rendita fondiaria urbana oggi. Che fare" in cui vengono illustrati principi e direzioni di marcia per avocare alla collettività i valori della rendita urbana.

LA RENDITA FONDIARIA URBANA

Il testo che segue tratta i seguenti argomenti: :
1. Andamento del valore degli immobili: dei manufatti e del suolo.
2. Gli effetti sul sistema urbano: il mercato degli alloggi, il decentramento industriale, i luoghi centrali; in generale il trasferimento di ricchezza dalla mano pubblica a quella privata.
3. Le possibilità attuali di ICI, IMU;
4. Principi e direzioni di marcia per avocare alla collettività i valori della rendita urbana;
5. Considerazioni finali.

1. Andamento del valore degli immobili: dei manufatti e del suolo

I rilievi, raccolti in Italia (analoghe conclusioni si potrebbero trarre anche per paesi esteri) in varie epoche e da varie fonti, circa l’incidenza dei valori fondiari sul prezzo degli immobili urbani, riscontrano che i valori delle aree fondiarie urbane sopravanzano di gran lunga, il valore della moneta corrente. Questa tendenza costante al rialzo nel medio lungo periodo presenta indubbiamente andamento ciclico: la tendenza generale è caratterizzata da punte di incremento anche consistente dei valori, seguite da cedimenti, in corrispondenza di periodi di crisi economica o comunque di riduzione della domanda solvibile di beni immobiliari.

«L’analisi complessiva dei fattori di produzione, ai quali sono stati aggiunti gli oneri finanziari e i costi di commercializzazione e gestione, hanno evidenziato come la redditività di investimento nella promozione immobiliare possa passare dal 30% al 320%. Con punte nelle grandi città anche decisamente maggiori….Le maggiori redditività si ottengono nelle aree di maggiore concentrazione della domanda. La rendita fondiaria ha giocato un ruolo rilevante nel ciclo di accumulazione degli anni Duemila, favorita dal forte processo di espansione urbana dovuta ai flussi demografici (domanda primaria) e dal processo di sostituzione che hanno visto crescere il ruolo del venditore-compratore. In sostanza in molte aree del paese, certo in quelle di maggiore peso insediativo, i rendimenti sono stati così elevati da consentire di affrontare anche l’eccezionalità della caduta del prezzo e delle compravendite della crisi successiva….non si sono mai compravendute tante abitazioni – in dieci anni è stato compravenduto il 30% dello stock abitativo del paese - e non sono mai costate così tanto come nei primi dieci anni del XXI secolo…… Senza ombra di dubbio l’immobiliarista è stata la figura emergente degli anni Duemila insieme ai manager della finanza. Ma l’esuberanza non aveva solo basi irrazionali. Sono state quattro diverse tipologie di domanda crescenti e concomitanti a determinare il gonfiarsi della bolla speculativa degli anni Duemila: la domanda di case legata al boom demografico delle famiglie italiane e straniere (di cui pochi si rendono ancora conto); la domanda di qualità, dovuta a una sorta di “ascensore sociale” che famiglie già proprietarie hanno intrapreso con dimensioni diverse rispetto al passato…; la domanda dei “city users”, dei temporanei, che sempre più pesano sul mercato della casa delle città maggiori; la domanda speculativa di investimento.»[1]

Il Valore unitario Va di un fabbricato di nuova realizzazione (per metro quadrato utile, per metro cubo) è costituito dalle seguenti componenti:
Cc costo di costruzione, comprensivo di utili, di spese di costruzione, tecniche, generali, finanziarie;
Ct costo del suolo a valori di “libero mercato”, comprensivo delle spese tecniche, generali, finanziarie, relative al periodo necessario per la costruzione;
Cu costo eventuale delle opere di urbanizzazione, comprensivo delle spese tecniche, generali, finanziarie, relative al periodo necessario per la costruzione.
Quindi, il costo complessivo unitario del fabbricato è dato da: Va = Cc + Ct + Cu.

Il fabbricato, al termine del periodo di costruzione, è immesso sul mercato, per l’affitto o per la vendita. Alla prima vendita il costo e il valore del fabbricato tendenzialmente coincidono. Alla seconda..., all’ennesima vendita: delle tre componenti i valori di due (Cc e Cu) tendono a “decadere” (a ridursi), al pari di tutti i manufatti prodotti: le auto, le macchine strumentali, i natanti, i mobili, i cellulari, gli elettrodomestici, gli indumenti; a meno che non passino dalla categoria dei “beni a termine” alla categoria dei “beni artistici e storici”; in quel caso essi assumono valori di affezione a causa della loro rarità.

La seconda componente, Ct, il valore del suolo, ha un comportamento anomalo: se quella porzione di suolo, su cui insiste il fabbricato, è compresa in un ambiente urbano non in declino (il cui perimetro è difficile da delimitare a priori) denuncia nel medio lungo periodo valori costantemente crescenti.

Si tratta di una sorta di miracolo, sempre esistito, ma accentuatosi e divenuto decisivo per le sorti della città con l’affermarsi del capitalismo. Il miracolo è dato dal fatto che sia l’esistenza del sistema economico proprio della città, che tutti gli investimenti, i provvedimenti normativi, i valori ambientali, disposti dalla mano pubblica, si trasformano in un flusso di ricchezza continuo, sotterraneo, invisibile, che, assumendo il significato di “rendita urbana”, dalla collettività passa alla proprietà privata, a vantaggio dei singoli o delle società, eventualmente istituite nelle varie forme. Lì rimane, giacché nel nostro paese non esiste alcun provvedimento di restituzione, se non sotto forma d’imposizione fiscale, applicata (quando applicata) in modo saltuario, casuale, molte volte contradditorio: caso emblematico di disordine è rappresentato dalla vicenda, prima dell’ICI e poi dell’IMU.

La rendita a sua volta si compone di due entità:

La rendita assoluta, corrispondente all’aumento dei valori fondiari in un determinato intorno urbano, è indotta dall’esistenza del sistema economico, che caratterizza l’intorno stesso.

La rendita differenziale, conseguente agli investimenti, alle caratteristiche ambientali di luoghi “differenziati” della città. La rendita differenziale caratterizza, infatti, le località centrali della città, dove si addensano in particolare le funzioni di comando a “gerarchia non uniforme”: la finanza, l’amministrazione centrale, il commercio specializzato, la cultura, lo spettacolo, l’esposizione museale, ecc.

Quando in precise località della città, l’accumulazione dei valori di rendita, nella sua marcia irrefrenabile, assume valori unitari del suolo, tali, da superare il valore unitario “ad assiti e cemento” dei fabbricati soprastanti, si danno due effetti fra loro collegati:

1) La convenienza per la proprietà di ricercare destinazioni alternative, rispetto a quelle originarie, vale a dire: strati sociali dotati di maggiore capacità di spesa, o attività economiche (il terziario), in grado di sostenere il valore di rendita nella sua marcia incrementale; di qui l’allontanamento (l’escomio) o il trasferimento delle famiglie e delle attività, dotate di disponibilità economiche inadeguate: caso tipico è rappresentato dagli interventi nei centri storici, o comunque nelle località centrali, attraverso il manifestarsi di spinte continue, capillari, invisibili, affidate alla logica economica puntiforme, costante, tale da modificare in tempi, anche medio lunghi, la composizione sociale della popolazione insediata e la gerarchia delle attività economiche.

2) Il superamento marcato del valore unitario del suolo, rispetto al corrispondente valore unitario dei fabbricati sovrastanti. Tale condizione rappresenta l’obsolescenza, il degrado, in genere lo scostamento delle tipologie e delle dotazioni qualitative degli edifici originari, rispetto ai nuovi modelli edilizi, affermati nel settore delle abitazioni o delle attività economiche, che, nell’insieme, non garantiscono più la remunerazione attesa. Questo è il caso, in cui s’impone la demolizione dell’edificio o la sua radicale trasformazione, salvo che ad esso non sia riconosciuto un valore storico, artistico, ambientale. Quando si arriva, alla demolizione, con conseguente trasformazione (“la ristrutturazione edilizia o urbanistica”, come definite dalla normativa attuale), la ricostruzione comporta pressoché sempre l’aumento rilevante della densità edilizia, al fine di remunerare il valore unitario del suolo, che, grazie all’operazione intrapresa, libera incrementi anche consistenti di valore dell’incidenza del suolo su l’unità di nuova edificazione.

2. Gli effetti sul sistema urbano: il mercato degli alloggi, il decentramento, i luoghi centrali; in generale il trasferimento di ricchezza dalla mano pubblica a quella privata

Da quanto esposto emerge come la rendita costituisca un sistema decisivo per il governo della città: è funzionante e coinvolge tutti (famiglie e imprese) in termini assai concreti e stringenti.

La rendita costituisce un settore molto ampio del risparmio delle famiglie: specie dagli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo la proprietà della casa (anche sotto lo stimolo dell’equo canone) ha assunto percentuali elevatissime, in generale in Italia dell’ordine del 70, 80 per cento dell’intero patrimonio abitativo italiano, in particolare nelle grandi concentrazioni urbane. Quel fenomeno può definirsi come “risparmio e sicurezza, collocati nel mattone”.

Una parte consistente del risparmio, a garanzia degli istituti, che erogano le pensioni, è investito obbligatoriamente negli immobili. Da tale constatazione emerge quanto possa rivelarsi delicata la manovra, che eventualmente si intenda predisporre per avocare allo stato i valori di rendita.

Una quota consistente delle imprese grandi, medie e piccole si serve dei valori fondiari di proprietà per garantire, presso gli istituti finanziari, quote importanti del credito, eventualmente necessario per finanziare ammodernamenti, trasferimenti, potenziamenti dell’attività produttiva. Talvolta le risorse, ricavate dai valori fondiari (cioè dalla rendita urbana), sono impiegate per trasferimenti delle imprese (caso tipico a Torino il trasferimento in quel di Nichelino della Viberti) o per l’ammodernamento degli impianti. In questi casi a difensori delle risorse, derivanti dalla rendita a favore delle imprese, sono impegnati anche, se non in primo luogo, le organizzazioni sindacali, per ragioni collegate alla garanzia dell’occupazione: l’adagio delle proprietà non di rado è il seguente: “Ricavo risorse dalla vendita del suolo, su cui sorge l’azienda, quindi reinvesto e mantengo l’occupazione; poi se non avviene così pazienza”.

L’incremento della rendita è alla base dell’aumento del costo degli affitti; questo è proporzionale di nuovo a tre componenti (costo di costruzione e urbanizzazione, costo del suolo e costo di manutenzione), una delle quali, come si è detto, aumenta a ritmi elevati. Il mercato si adegua, anche se non immediatamente o totalmente, e quindi tende a elevare il prezzo dell’affitto in una situazione, nella quale rari e stentati sono gli interventi calmieratori della mano pubblica.

La rendita, specie per le grandi concentrazioni immobiliari costituisce una risorsa potente, con la quale intervenire sugli enti pubblici (da tempo soggetti al taglio delle disponibilità̀ finanziarie) per decidere dove, come, quando costruire o trasformare il territorio (un esempio: le aree già occupate dalla grande industria, la “Spina centrale” a Torino).

Il costo dei suoli urbanizzati per la piccola impresa, soprattutto artigianale, è d’impedimento o di ritardo per poter operare ampliamenti, ammodernamenti, trasferimenti. Caso indicativo è quello delle piccole imprese (ad esempio di manutenzione dell’auto), che spesso operano sistematicamente sul suolo pubblico, in scarsità di risorse, da destinare all’acquisto o all’affitto di spazi dedicati.

Intervenire sulla rendita significa in primo luogo operare concretamente in due direzioni, fra loro strettamente collegate: governare la formazione della rendita urbana da un lato, acquisire alla collettività la rendita stessa, valore economico che, in ogni caso, si forma nelle aree urbane, indipendentemente dai regimi politici in atto.

La formazione della rendita è funzione prevalente, se non esclusiva, delle scelte della collettività; quindi il governo della formazione si ottiene (o meglio si potrebbe perseguire) attraverso la pianificazione ai vari livelli: nazionale, regionale, provinciale (ove l’istituzione relativa possa ancora esistere), comunale. Negli ultimi trenta – quaranta anni la cultura della pianificazione è stata devastata; si è teorizzato con successo (e si teorizza tuttora), nella cultura e nella pratica, il caso per caso, la decisione estemporanea, spesso strumentale per fini non dichiarati, trasferendo di fatto e di diritto, in capo ai fruitori della rendita, il potere di decidere qualità e caratteri delle città.

L’acquisizione, a sua volta, si può ottenere in più modi, variamente graduabili. Qui si accenna a due modalità, ovviamente funzione delle finalità e delle possibilità politiche e culturali impiegate: l’utilizzo di strumenti ora esistenti, oppure la formazione in tempi non immediati e con strumenti operativi e culturali adeguati, volti al trasferimento, a favore della collettività, del valore della rendita urbana, al fine di conferire alle istituzioni democratiche uno degli strumenti decisivi per il governo delle aree urbane.

3. Le possibilità attuali di ICI, IMU

In Italia negli ultimi trenta – quaranta anni si sono sviate forme di prelievo della rendita, almeno quelle finalizzate in modo esplicito a tale scopo. Caso significativo è rappresentato dalla istituzione della imposta ICI e poi IMU (con variante TASI per l’abitazione in proprietà). Si tratta come ognuno ben sa, di imposta sul patrimonio e non sul reddito. Tuttavia lo scopo indubbio di tale imposta, specie nell’edizione IMU, istituita nel 2012 dal governo Monti, ebbe lo scopo principale di rastrellare in breve tempo risorse ingenti, per far fronte al pericolo, ritenuto imminente, di deragliamento del bilancio dello Stato; non certo per colpire i valori di rendita urbana.

In ogni caso, ove si volesse intervenire sulla rendita attraverso le imposte, per consentire agli enti pubblici (comuni e stato) oltre che di incamerare risorse, di governare, almeno in parte, i processi di trasformazione urbana, si dovrebbe graduare il prelievo impositivo, del tipo ICI o IMU, anche in funzione degli obiettivi, derivanti dalle scelte della pianificazione territoriale: questa scelta potrebbe significare ad esempio elevare le aliquote impositive nei confronti degli immobili, siti nelle località, nelle quali il piano intenda scoraggiare l’addensarsi delle centralità urbane; al contrario ridurre le aliquote, ove il piano voglia rafforzare le centralità (certo assieme ad altri provvedimenti, quali l’intervento massiccio sul sistema dei trasporti). Tale manovra ovviamente dovrebbe prendere le mosse dalla conoscenza dettagliata delle condizioni economiche e ambientali della città. Questo oggi non avviene in quanto, a parte le ragioni di cassa e non di governo, i provvedimenti impositivi non sono accompagnati da alcuna forma d’integrazione culturale e normativa fra pianificazione e governo dell’economia dello spazio.

4. Principi e direzioni di marcia per avocare alla collettività i valori della rendita urbana

Il fine dell’intervento qui delineato, è quello di avocare alla collettività il valore della rendita sui territori, investiti dall’espansione o comunque dalla concentrazione delle destinazioni urbane, con esclusione delle parti destinate, o meglio, occupate da attività di produzione agricola, parti che, specie se interessate da produzioni specializzate o di pregio, sono sottoposte a regimi specifici e comunque assai diversi, rispetto a quelli qui delineati.

Senza escludere che i modi, attraverso i quali perseguire il fine esposto ( e cioè governare la formazione della rendita urbana e acquisire alla collettività la rendita stessa), possano risultare differenti e numerosi, si elencano alcune linee di azione, che ovviamente richiederebbero integrazioni, anche importanti, di carattere tecnico.

I passi principali, che si propone di seguire, sono:

- Come già detto, il primo passo è costituito dal controllo sulla formazione della rendita, che deve essere ricondotta alla coerenza con i fini assegnati dall’attività di programmazione e pianificazione, che i vari livelli istituzionali dovrebbero perseguire.
- La manovra è fondata in primo luogo sull’uso generalizzato del Catasto urbano, aggiornato e integrato, anche nei vari settori territoriali, nei quali l’aggiornamento è tuttora incompleto. Tale operazione richiede tempi non brevissimi (3 – 5 anni?) e soprattutto l’adozione di strumenti tecnici aggiornati.
- Nella valutazione degli immobili è indispensabile introdurre la distinzione fra i due valori fondamentali: quello del suolo e quello degli edifici, o comunque dei manufatti (ove esistenti).
- Dalla data di avvio del provvedimento (tempo T0) è necessario congelare il valore stimato del suolo, da attribuire interamente alla proprietà (oltre ben inteso il valore del manufatto), al fine di non dare luogo alla confisca del bene, anziché alla sottrazione del valore di rendita, che come detto, continua ad accumularsi, almeno nel medio lungo periodo, nelle località non in declino.
- Ad ogni trasferimento del bene (in tempi cioè T1, T2,..Tn) è escluso, a vantaggio della proprietà, l’incremento reale del valore del suolo, formatosi, rispetto al valore reale, riconosciuto al tempo T0 di avvio del provvedimento; alla proprietà è imputata altresì la differenza (positiva o negativa se l’immobile è stato interessato da degrado fisico) fra valore reale dell’edificio, stimato al momento t0, e valore reale, stimato all’atto della vendita, documentando gli eventuali interventi di manutenzione straordinaria o di trasformazione, attuati fra T0 e T1, T2,.. Tn.
- Importanti e delicate sono entità e modalità di determinazione dell’ammontare dell’affitto, in quanto due elementi sono decisivi per la definizione di tale importo, relativo a ciascun immobile, compreso nell’area urbana di riferimento. Nell’ammontare dell’affitto si congiungono, infatti, seppure per quote parziali, le variazioni delle due quote di remunerazione dei valori fondamentali: del suolo e del fabbricato.
- La definizione dell’ammontare dell’affitto avviene con riferimento ai valori di mercato. In occasione dell’offerta in affitto del proprio immobile, il proprietario, definite le quote, corrispondenti alla remunerazione dei due valori fondamentali (suolo ed edificio), pubblicizza, nel modo più ampio, l’entità dell’affitto, che intende praticare. A data definita, fra i vari interessati il proprietario concorda l’ammontare dell’affitto, ritenuto più conveniente.
- Una quota, rappresentata dal valore reale del suolo, stimato al tempo T0, è attribuita alla proprietà; tale quota è integrata dal valore reale dell’edificio (o del manufatti). La quota di valore del suolo, corrispondente alla variazione, intervenuta fra T0 e il momento della maturazione della quota di affitto, è inviata all’ente locale o, come avviene per la riscossione dell’IMU, parte all’ente locale e parte allo stato. Eventuali scostamenti, che avvengano fra entità dell’affitto richiesta e valore definitivamente concordato, garantite le quote competenti agli enti pubblici percettori, se si manifestano sovrappiù questi competono alla proprietà.
- Pure lasciando alla proprietà (o ad enti terzi, professionalmente abilitati alla definizione degli ammontari sopra richiamati) è cura in ogni caso degli enti competenti svolgere gli opportuni accertamenti.
- Con analogo trattamento sono definite le quote, corrispondenti all’affitto, a carico di coloro, che occupano edifici in proprietà.

5. Considerazioni finali

Malgrado le preoccupazioni o le diffidenze, che questa proposta (come altre eventuali) possano suscitare in forze politiche, per la sottrazione di quote consistenti di valori di rendita, a carico di una proprietà immobiliare in Italia particolarmente estesa, si tratta di capire se la fase economica e sociale attuale possa rivelarsi quasi eccezionale, forse unica, almeno per qualche tempo, a favore di azioni politiche e culturali, volte al perseguimento del fine, enunciato nella presente nota. Questo perché l’azione congiunta della crisi economica e sociale in atto e dell’applicazione dell’IMU ha indotto l’attenuazione rilevante della domanda di acquisto e di affitto, con conseguente riduzione del rendimento degli immobili.

E’ appena il caso di notare in fine che, ove fosse applicato un provvedimento di trasferimento a favore della collettività del valore della rendita urbana, dovrebbe cadere ogni forma d’imposizione immobiliare, oggi esistente, di rilievo sia locale che nazionale


[1] Lorenzo Bellicini, “Immobiliare, debito, città:considerazioni sui primi dieci anni del XXI secoloin “Le grandicittà italiane. Società e territori da ricomporre” a cura di GiuseppeDematteis, Marsilio, 2011.

Altreconomia.it 19 settembre 2014

Il diritto a costruire non esiste, e i beni demaniali appartengono a tutti, sono inalienabili, anche se oggi in Italia esistono leggi che ne permettono la vendita. Quando parla Paolo Maddalena, giudice costituzionale dal 2002 al 2011, lo fa in punta di diritto, citando la Costituzione e le sentenze della Consulta. Le riflessioni di Maddalena, che dal 1971 al 2002 è stato magistrato della Corte dei Conti, sono raccolte nel libro Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014), nel quale il vice presidente emerito della Corte Costituzionale sposta la riflessione sui “beni comuni” sfruttando un lavoro di ricerca decennale sugli istituti proprietari, a partire da quelli del diritto romano.

«I romani considerarono tutte le res in publicu usi, le cose di uso comune, come beni appartenenti al popolo, ed extra commercium. Essi ci hanno insegnato che per tutelare un bene di uso comune, cioè in proprietà collettiva del popolo, occorre porlo fuori commercio. L’esempio moderno di questa concezione è dato dai beni demaniali, che sarebbero pertanto inalienabili, inusocapibili e inespropriabili. Questo principio è tuttavia oggetto di una serie di travisamenti, fino ad arrivare al decreto legislativo 85/2010, il cosiddetto “federalismo demaniale”, che ha trasferito i demani statali, idrico, marittimo, minerario e culturale alle Regioni, e disposto che queste -dopo aver valorizzato i beni- li possano vendere a privati. Quanto disposto è oggi in via d’attuazione, e noi vediamo che sono state vendute a privati quasi tutte le isole della Laguna veneta, che è in vendita il monte Cristallo sopra Cortina d’Ampezzo, che in Umbria è in vendita la tenuta di Caicocci. Questo provvedimento è palesemente incostituzionale, ma nessun soggetto deputato a farlo (le Regioni) ha fatto ricorso alla Corte ‘in via principale’».

In che modo il diritto romano può rafforzare la “dottrina dei beni comuni”?
Il territorio dal punto di vista fenomenico è un luogo, dal punto di vista della qualificazione giuridica se ne è parlato invece in dottrina di “bene comune”. La teoria dei beni comuni, che ha avuto un forte impatto sull’immaginario collettivo, non prende tuttavia in considerazione il fenomeno giuridico essenziale dell’appartenenza del bene, e si preoccupa solo della sua destinazione ad uso pubblico, dichiarando che non è importante stabilire se è in proprietà pubblica o privata. A me sembra, invece, che occorra partire dall’idea che l’intero territorio appartiene al popolo, a titolo di “sovranità”, e che la proprietà privata è una cessione di parti del territorio che il popolo sovrano fa a singoli soggetti.

Che cosa comporta questa sovranità popolare?
L’appartenenza del territorio al popolo implica che le leggi contribuiscano a una distribuzione equa dello stesso tra demanio diretto, ad uso pubblico della comunità, e territorio in proprietà privata. Oggi, invece, la proprietà privata è di gran lunga superiore a quella demaniale, e come se ciò non bastasse si provvede vorticosamente alla sdemanializzazione degli ultimi beni. Questo appare in contrasto con l’articolo 42 della Costituzione, che distingue la proprietà in pubblica e privata, intendendo con l’uso dell’aggettivo pubblico -come precisò l’illustre giurista Massimo Severo Giannini- proprio i beni demaniali.

Ciò significa che l’eventuale sdemanializzazione, riguardando un bene direttamente appartenente al popolo, potrebbe essere decisa volta per volta soltanto dal popolo, e non dovrebbe essere affidata in virtù di una legge al potere discrezionale della pubblica amministrazione. Esattamente come facevano i romani, che ponevano i beni comuni fuori commercio. Se non può esistere un matematico che non conosca Pitagora, non dovrebbe essere giustificato nemmeno un giurista che non conosce il diritto romano.
Esiste una connessione diretta, inoltre, tra appartenenza del territorio e sovranità popolare. Nel senso che la proprietà collettiva spetta al popolo a titolo di sovranità: questo si è realizzato in tutta la storia romana, ed anche in quella medievale, quando si distinse tra dominium eminens del sovrano, e dominium utile del coltivatore della terra. Si attribuì, cioè, al titolare della sovranità il potere di concedere l’uso del territorio a privati, mantenendo il potere sovrano di revocarlo attraverso l’esercizio di quel ‘dominio’ che il filosofo della politica tedesco Carl Schmitt definì la “superproprietà” del popolo.
In sostanza, il popolo conserva la proprietà diretta dei territori demaniali e la “superproprietà” sui territori ceduti in proprietà privata. Fu la rivoluzione borghese, con la restaurazione napoleonica, a operare la cesura tra sovranità e territorio: il Tomalis, che guidò la redazione del Code Civil del 1804, affermò il principio “al sovrano l’imperio, al privato la proprietà”. In questo modo, la proprietà sfuggì al dominium eminens, o alla “superproprietà” del popolo, e divenne diritto originario inviolabile del singolo proprietario.

Poi, però, l’Assemblea costituente ha modificato questa situazione: in che modo?
Questa scissione, foriera di danni incalcolabili per la collettività, è stata ricomposta dalla Costituzione repubblicana, la quale all’articolo 42 riconosce la proprietà collettiva demaniale, e si preoccupa di condizionare alla funzione pubblica la proprietà di quei beni che producono utilità eccedenti le strette necessità individuali e familiari. Sicché, oggi, la Costituzione riconosce come inviolabili soltanto i diritti di proprietà privata cosiddetti personali, come il diritto ai vestiti, alle scarpe, ad una utilitaria, alla prima casa, alla minima unità colturale, alla coltivazione diretta, mentre la grande proprietà privata -quella dell’industria e quella agricola- che produce utilità eccedenti i bisogni individuali resta sottoposta a una “funzione sociale”, cioè alla necessaria redistribuzione di utilità fra tutti i cittadini. Ciò è ribadito anche dall’articolo 41, che afferma che l’iniziativa economica privata è libera, ma non può essere in contrasto con l’utilità sociale né recare danno alla sicurezza alla libertà e alla dignità umana.

È da sottolineare che l’articolo 42 si esprime con queste parole: «La proprietà privata è riconosciuta dalla legge... allo scopo di assicurarne la funzione sociale». È il caso degli immobili abbandonati, dalle industrie che delocalizzano alla ricerca di maggiori profitti e poi pretendono il cambiamento di destinazione d’uso dell’area abbandonata in Italia, per trasformarla magari in una zona residenziale o commerciale. Dimenticano che l’articolo 42 concede tutela giuridica soltanto se si persegue la funzione sociale, e che venuta meno questa viene meno ogni diritto. Per cui, Costituzione alla mano, le aree in questione dovrebbero passare immediatamente al patrimonio comunale, senza nessuna possibilità di indennizzo, perché l’indennizzo espropriativo è dovuto ai diritti di proprietà che hanno una tutela giuridica, e non riguardano quelli che l’hanno persa.

La tutela giuridica, poi, non c’è per un “diritto a costruire” che non esisterebbe proprio. La maggioranza dei cittadini è convinta che la proprietà privata abbia come contenuto del suo diritto uno ius edificandi, che però è falso. Poiché il diritto di modificare un territorio costruendo, cementificando e impermiabilizzando spetta a chi ne è proprietario, cioè è uno dei poteri sovrani del popolo, di fronte alla distruzione del paesaggio ogni cittadino può opporre la propria azione popolare sovrana.

Si sono pronunciate in questo senso negli ultimi anni tre sentenze della Corte di Cassazione, tra cui una del 2011 sulle valli di pesca della Laguna veneta, che sono state considerate beni inalienabili anche se non formalmente classificate come demanio, nonché la Consulta, la quale con la sentenza numero 1 del 2014, quella relativa al “Porcellum”, ha riconosciuto la legittimazione ad agire di cittadini singoli e associati per far valere un diritto spettante a loro come “parti strutturali dell’intero popolo”. Il popolo italiano può far valere questi diritti indipendentemente dal diritto comunitario e dal diritto internazionale, poiché la tutela dei diritti umani resta propria dell’ordinamento giuridico italiano, e non può essere limitata o ceduta ad altri soggetti, come dimostra la “teoria dei contro limiti”, espressa in alcune sentenze della Corte Costituzionale che evidenziano come in materia di diritti umani è ferma la competenza della Consulta sulle materia cedute all’Ue.

Tema al centro dell'azione del Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio, che il 20 settembre si riunisce a Roma per la terza assemblea nazionale

Riferimenti

Sull'argomento si veda su eddyburg la recensione al libro di Paolo Maddalena Il territorio bene comune degli italiani, di Francesco Erbani , Quel bene di tutti chiamato paesaggio. Inoltre Il consumo di suolo e la mistificazione del ius aedificandi e Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria.Contributo alla teoria dei beni comuni di Paolo Maddalena.

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