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1. Il primo obiettivo della gestione territoriale dev’essere quello di conservare e migliorare il funzionamento ecologico della matrice territoriale intesa come un tutto e non unicamente quello di conservare una serie di spazi naturali isolati o di specie singolari ed emblematiche. Questo principio, che dovrebbe condizionare tutti gli altri usi delle risorse naturali al mantenimento del suo buon stato ecologico, è già stato accettato, almeno sulla carta, dalla Direttiva quadro per l’azione comunitaria in materia di acqua dell’Unione Europea nel 2000. Sebbene nello stesso anno sia stata lanciata a Firenze la “Convenzione Europea del Paesaggio”, ispiratrice in alcuni paesi o regioni europee delle prime leggi sul Paesaggio, come per esempio quella approvata nel 2005 dal Parlamento della Catalogna, questo criterio non è riuscito tuttavia ad aprirsi una strada nella gestione e ordinamento del territorio. Affinché ciò accada bisogna spingersi molto più in là di una mera condizionalità paesaggistica superficiale, situando la salute degli ecosistemi come priorità reale di tutte le decisioni che riguardano il territorio (dai piani di bacino idrografico,con la delimitazione e l’inventario delle masse d’acqua, ai piani di portata della nuova politica idrologica; dai piani quadro di politica forestale, con le direttrici di connettività ecologica, le strategie di salvaguardia della biodiversità o la rete Natura 2000, passando per una politica globale dell’agricoltura e della pastorizia, per la progettazione delle infrastrutture e di qualsiasi altro provvedimento della pianificazione territoriale: dalle politiche abitative fino ai Piani Regolatori o alla valutazione ambientale strategica dei piani e dei programmi urbanistici). Dobbiamo renderci conto che le risorse e i servizi territoriali sono un patrimonio comune insostituibile, con una capacità limitata che non potrà mai sostenere una crescita illimitata, né tantomeno venire rimpiazzata una volta subiti danni irreversibili.

2. Così come afferma la “Convenzione Europea del Paesaggio” del 2000, da cui deriva la legge catalana recentemente approvata, tutto il territorio è paesaggio: dagli spazi urbani e periurbani, ai poligoni industriali e le infrastrutture, fino agli spazi naturali protetti, passando per i mosaici agricoli, orticoli e forestali. Gli uni e gli altri devono potersi combinare e convivere secondo una scala diversificata della presenza e dell’intervento umano, mantenendo il funzionamento dei sistemi naturali di tutto il territorio in un buon stato ecologico al fine di garantire la continuità dei servizi ambientali che ci forniscono. Perciò qualsiasi azione settoriale che concerne il territorio deve porsi come primo obiettivo il mantenimento e la miglioria del suo buon stato ecologico (includendo sia gli aspetti intangibili, come per esempio la bellezza, sia quelli più materiali e tangibili).

3. Le politiche dirette alla conservazione della natura sviluppate nell’ultimo mezzo secolo in tutto il mondo sono giunte a un vicolo cieco. Questo cul de sac obbliga a mettere in discussione due idee fondamentali, una implicita e l’altra esplicita alla filosofia tradizionale della conservazione ambientale. La prima idea che bisogna abbandonare è la erronea convinzione secondo la quale la protezione degli spazi deve consistere nel ritiro di qualsiasi forma d’intervento o di presenza umana negli stessi, col fine di restituirli a un ipotetico stato “naturale” primogenito. La seconda è un effetto perverso, e chiaramente non desiderato da chi durante molti anni ha abbracciato onestamente questa filosofia della conservazione: il presupposto che, oltre la frontiera degli spazi “naturali” protetti, le azioni umane sul resto del territorio possono svilupparsi senza limiti né precauzioni, dato che la “preservazione” della diversità biologica è già garantita. La Strategia Mondiale della Conservazione già dal 1980 fa distinzione tra un concetto di mera “preservazione” del tipo guardare ma non toccare e il vero concetto di conservazione che implica invece un uso sostenibile, prudente e responsabile delle risorse e dei servizi ambientali del territorio. Tuttavia questa filosofia della conservazione non è ancora giunta ad essere pienamente compresa da chi assume le decisioni politiche pubbliche dei paesi e delle regioni europee, e ancor meno ad essere messa in pratica come si dovrebbe. Il superamento di queste vecchie convinzioni che l’esperienza pratica della gestione ambientale, e l’elaborazione teorica dell’ecologia del paesaggio, hanno dimostrato essere profondamente erronee, ci porta a porre come nuovo obiettivo della conservazione il mantenimento e la miglioria del buon stato ecologico del territorio come un tutto.

4. L’indicatore più chiaro del buon stato del territorio è la salute dei suoi ecosistemi e la biodiversità che possono accogliere. Tuttavia non è facile capire che cos’è la biodiversità, troppo spesso confusa con una specie d’inventario patrimoniale ex situ della diversità biologica. Ciò che più importa non è solo quante specie diverse si trovano in uno spazio, ma come queste si combinano in diverso modo e interagiscono tra di loro in ogni luogo concreto. Così come la ricchezza della comunicazione non proviene solo dal numero di lettere dell’alfabeto ma dalla loro combinazione in parole diverse che acquisiscono significati diversi, la ricchezza della biodiversità sorge dalle combinazioni della diversità biologica che danno differenti espressioni al territorio, generando una gran varietà di paesaggi. È per questo che la biodiversità va strettamente correlata con la diversità dei biotopi o con la molteplicità di ecotoni. La chiave per favorire e conservare la biodiversità risiede nella struttura e nella connettività eco-paesaggistica dell’intera matrice territoriale. Per mantenere il buon stato ecologico del territorio è necessario che la struttura del suo mosaico di pezzi o tasselli diversi offra un habitat a un ampio ventaglio di specie animali e vegetali, e che la loro ricerca di opportunità alimentari e di interazione non venga ostacolata da barriere insormontabili che ne isolino le popolazioni.

5. Tra i due estremi rappresentati dalle zone urbane o industriali da un lato e gli spazi naturali protetti dall’altro, sono gli spazi agricoli e forestali a occupare una proporzione maggiore della matrice territoriale. La moltitudine di specie considerate emblematiche che trovano rifugio negli spazi protetti per nidificare e riprodursi sono responsabili di un intenso sfruttamento trofico degli spazi agricoli, orticoli e forestali umanizzati, dove vivono e si riproducono anche molte altre specie. Dallo stato dei mosaici agroforestali dipende pertanto la qualità ecologica della matrice territoriale come un tutto.

6. Una delle difficoltà più gravi per sviluppare una nuova cultura del territorio, orientata a mantenere e migliorare il suo buon stato ecologico, risiede nel fatto che l’agricoltura, la pastorizia e la silvicoltura sono diventate nei paesi sviluppati attività economiche sempre più residuali, che generano troppo poco valore aggiunto al mercato e che offrono una occupazione remunerata a una popolazione lavoratrice sempre più ridotta e invecchiata. Allo stesso tempo però lo stato attuale e futuro della maggior parte del territorio continua a dipendere da una popolazione attiva agraria rimpicciolita e impoverita. Non si tratta solo di una perdita di braccia o di “attivi”, ma del pericolo di estinzione di molte subculture agricole, pastorizie e forestali tradizionali, con una grande diversità di conoscenze empiriche e pratiche o di professioni che si svilupparono per tentativi ed errori durante la millenaria coevoluzione delle differenti agricolture nelle diverse bioregioni del pianeta. Ma proprio quando le vecchie culture contadine sono più necessarie a un mondo sottoposto a un cambiamento globale incerto, esse si trovano in serio pericolo d’estinzione. Questa è una delle contraddizioni più profonde di un mondo sottoposto a un processo di globalizzazione mercantile insostenibile, come denunciano le piattaforme delle organizzazioni rurali, recentemente anche in Spagna con la Declaración de Somiedo sobre culturas campesinas y biodiversidad (Dichiarazione di Somiedo sulle culture contadine e biodiversità). Nella Convenzione sulla Biodiversità e nella Convenzione dell’UNESCO del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si parla della necessità di conservare le “conoscenze ecologiche tradizionali” delle vecchie pratiche e mestieri. Il World Heritage Center dell’UNESCO ha dato vita infatti a una Banca Mondiale dei Saperi Tradizionali (World Bank on Traditional Knowledge) per promuovere la preservazione e lo scambio fra quelle vecchie culture agrarie diventate sagge nella gestione ambientale del territorio. Parchi agricoli come quello approvato in Catalogna nel Baix Llobregat o quello del Gallecs nel Vallès (Barcellona) sono solo l’inizio di un gran movimento che dovrebbe abbracciare tutto lo spazio agricolo per dare futuro e vitalità al mondo rurale. I nuovi approcci della politica agraria e dello sviluppo rurale dell’Unione Europea potrebbero favorirlo sempreché vengano intesi come un vero cambiamento di paradigma e non solo come un mero complemento accessorio di certe pratiche agricolo-pastorizie insostenibili.

7. Il degrado delle qualità ambientali del territorio proviene da un lato dalle dinamiche che intensificano gli usi umani su una piccola parte dello stesso infarcendolo di spazi urbanizzati, attività industriali, infrastrutture e attività agricole e pastorali intensive fino a limiti insostenibili. Mentre dall’altro lato tale degrado è originato dalle dinamiche socio-ambientali derivate dall’abbandono del mondo rurale nella maggior parte del territorio. Il degrado ambientale proviene quindi sia dall’ecceso come dal ritiro dell’intervento umano nel territorio. Ciò è particolarmente rilevante per i paesaggi mediterranei.

8. Per gli effetti sugli accidentati rilievi di determinate precipitazioni e di certi corsi fluviali molto irregolari, combinati a una forte insolazione, i paesaggi mediterranei si caratterizzano in modo naturale per una elevata diversità di cellule territoriali ed ecotoni o zone di transizione differenti, sottoposte a forti variazioni nello spazio e nel tempo. Il solatìo contrasta con l’abacìo, le pianure con le montagne, i fiumi con i torrenti intermittenti, le piogge torrenziali e le grandi piene con i periodi di intensa siccità e così via. Questo è il segreto dell’elevata biodiversità di questa particolare regione della Terra. Nel corso dei millenni l’attività agraria tradizionale ha lavorato con questo tratto distintivo della matrice territoriale mediterranea, e ha imparato per tentativi ed errori a coevolvere con essa cercando diversi equilibri dinamici tra sfruttamento e conservazione attraverso la localizzazione nello spazio di anelli o tasselli di presenza e attività umane territorialmente diverse. Il risultato è stato la magnifica varietà di mosaici agro-forestali che hanno configurato i nostri paesaggi tradizionali nel Mediterraneo, in cui l’intervento umano nell’ambiente ha teso generalmente a incrementare o mantenere l’agrodiversità e la biodiversità come garanzia di stabilità.

9. Ma la grande trasformazione sperimentata dall’agricoltura con quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde”, diffusa su grande scala dopo il 1950, ha generato una gravissima scompensazione territoriale dell’attività agraria che ha portato alla fine della vecchia gestione integrata del territorio. L’allevamento intensivo ingrassa razze di animali allogene mediante mangimi importati e inquina gravemente molti dei paesi dalla Catalogna con un eccesso di escrementi. La produzione agricola e ortofrutticola si concentra in una parte limitata del territorio più facile da meccanizzare, dove l’applicazione massiva di fertilizzanti sintetici, irrigazione, pesticidi ed erbicidi, e certe sementi ad alta produttività, acquistati alle imprese multinazionali e funzionali allo sfruttamento monocolturale, ha trasformato l’agricoltura in una importante fonte d’inquinamento diffuso (mentre agricoltori e pastori si trovano sempre più prigionieri delle catene agro-alimentari industriali che accaparrano la maggior parte del valore aggiunto vandendo loro semi, fertilizzanti e agro-chimici da un lato e commerciando i loro prodotti dall’altro). Il resto dell’antico spazio agrario ha perso ogni tipo di funzione economica dando luogo a un processo di riforestazione frutto dell’abbandono delle antiche agricolture di versante. L’architettura del paesaggio pazientemente costruita dal lavoro contadino, con una infinità di terrazzamenti sostenuti da muri a secco e un esteso reticolo di sentieri di ogni lunghezza, spesso molto ben disegnati, dà forma a un patrimonio culturale che sembra condannato a sparire in un tempo così breve da non consentirne la mappatura, l’inventario e la catalogazione.

10. Lo scompenso territoriale dei flussi materiali ed energetici che muove questa attività agraria sempre più insostenibile, ecologicamente ed economicamente, e che nonostante tutto continua a occupare la maggior parte del territorio, ha originato una drastica semplificazione dei paesaggi agricoli e forestali. L’antico mosaico agro-forestale mediterraneo è stato sostituito nelle pianure da appezzamenti sempre più grandi ed uniformi di monocoltivi intensivi, dove appaiono fattorie industriali d’allevamento all’ingrasso territorialmente disintegrate, mentre lungo le pendenti dei versanti proliferano masse continue e uniformi di boschi giovani, monospecie, eccessivamente densi, molto vulnerabili e non sfruttati.

11. Questa duplice dinamica di intensificazione e abbandono è all’origine di due delle tre patologie ambientali più gravi del nostro territorio: il degrado in quantità e qualità delle acque superficiali e sotterranee —che in Catalogna per esempio riguarda l’insieme dei bacini interni e il tratto finale del bacino dell’Ebro— da un lato, e dall’altro la crescente diffusione di incendi forestali che —di nuovo in Catalogna ma come in tanti altri luoghi d’Europa e del Mediterraneo— hanno la loro principale origine nel fatto che attualmente ci sono quasi più boschi che in qualsiasi altro periodo del millennio precedente, ma si tratta tuttavia di un bosco lasciato a se stesso per la sua mancanza di redditività economica, poiché quasi tutti gli usi legati alla raccolta multipla tradizionale sono spariti (l’unica rilevante eccezione in Catalogna è costituita dai funghi, in quanto il valore economico di quelli che crescono nelle superfici forestali supera il valore della vendita del legname e della legna da ardere, senza che i proprietari o i comuni ne ricevano alcun beneficio). I pochi boschi cedui maturi che restano alla Catalogna si sono trasformati nell’unica fonte di reddito, anche se il loro sfruttamento può comportare una grave perdita della biodiversità che custodiscono.

12. Molta gente continua a credere erroneamente che il bosco aumenta la disponibilità d’acqua, senza rendersi conto che pure ne consuma. I boschi hanno certamente un ruolo importante nella protezione del suolo, nella stabilità dei versanti, nella regolazione dei bilanci idrici e nella riduzione dei rischi idro-geologici delle piene (che costituiscono di gran lunga il primo rischio naturale del nostro paese). In questo senso, molti boschi di montagna sono protettori nel senso più letterale del termine. Però è altrettanto vero che in molti casi l’aumento della evapotraspirazione cui dà origine la crescita del bosco può eguagliare o superare gli effetti che ha sull’incremento delle precipitazioni e sulla regolarizzazione del corso d’acqua nel bacino. Perciò, —e specialmente nella bioregione mediterranea— avere più boschi può voler dire, molto spesso, avere meno acqua. Parte della perdita di molte delle antiche fonti ha infatti questa origine, così come la riduzione della capacità di molti fiumi e torrenti (in Catalogna parte di questa perdita nel Delta del Ebro non può essere imputata all’incremento delle estrazioni dei poligoni di irrigazione, alle città o agli usi industriali lungo il corso del fiume).

13. Lo stress idrico che caratterizza la bioregione mediterranea implica inoltre che a causa della mancanza di umidità le popolazioni di microrganismi o di insetti saprofiti non possono scomporre tutta la biomassa morta che genera la crescita del bosco. Le parti legnose secche con maggior contenuto di legnina tendono infatti ad accumularsi nelle superfici forestali, finché un lampo, o qualsiasi altra fonte incendiaria, provoca la loro scomposizione attraverso il fuoco. Questa è la ragione ambientale per cui il fuoco è sempre stato un fattore della dinamica evolutiva dei boschi mediterranei ed anche delle forme tradizionali di adattamento umano a questo ambiente. Le culture contadine tradizionali della Catalogna hanno fatto per esempio un ampio uso della pratica dei «formiguers» e delle «boïgues». Con i «formiguers» si raccoglieva nei boschi le frasche per bruciarle nei campi in pile ricoperte di terra per poi fertilizzarli con le ceneri ottenute. Le «boïgues» catalane, o «rotes» di Maiorca, aprivano invece nei boschi delle radure in cui venivano piantati vigneti o seminati cereali come coltivazioni temporanee e, una volta completato il ciclo, il terreno veniva restituito al bosco. I fitti boschi attuali sono farciti di «sitges» o «places» (NdT piazze da carbone o ial) dove nel corso dei secoli erano bruciate svariate carbonaie. Si è dato anche un abbondante consumo del sottobosco o strato arbustivo specialmente in forma di fascine d’erica arborea e corbezzolo, e di «costals de brancada» chiamati anche «torrat de pi», (NdT fascine di rami e tronchi di pino) che per la loro forte infiammibilità costituivano gli acciarini abituali di tutti i focolari domestici e di tutti i forni: quelli per il pane, le ceramiche, le terracotte, le tegole e piastrelle, ecc. Inoltre lo sfruttamento dei pascoli naturali per il bestiame locale o transumante e l’uso dei tratturi mantenevano aperte molte radure in spazi forestali non sempre a forestati.

14. Per molti secoli i boschi mediterranei sono coevoluti con le pratiche delle «boïgues» e dei «formiguers» catalani, con il taglio del legname o la fabbricazione di carbone, la raccolta di fascine, la pastura di ghiande, l’estrazione del sughero e la raccolta della legna, delle castagne e delle pigne, delle piante medicinali, degli asparagi selvatici, dei funghi o del fogliame impiegato come fertilizzante, oltre a tutti gli altri molteplici usi che la cultura contadina faceva del bosco e che richiedeva il mantenimento di una infinità di sentieri aperti. Questi usi agro-forestali e pastorizi includevano anche un certo ricorso selettivo e puntuale al fuoco per mantenere la frontiera tra lo spazio forestato e il pascolo. L’origine del carattere epidemico degli incendi forestali è quindi la combinazione dell’abbandono di tutti quegli usi multifunzionali del bosco della cultura contadina tradizionale, con una crescita disordinata delle masse boscose sempre più grandi, uniformi e abbandonate a loro stesse. Sempre più esperti affermano che l’alternativa ai fuochi incontrollati è il ritorno al “fuoco verde”, controllato e diretto a riaprire radureper stabilirci uno sfruttamento pastorizio estensivo che aiuterebbe inoltre allo sviluppo della biodiversità (così come ha già cominciato a fare il Centre de la Propriété Forestière nella zona mediterranea della Francia e come raccomanda il Nuovo Piano Direttivo di Politica Forestale della Generalitat de Catalunya).

15. L’agricoltura e la pastorizia ecologica sono i primi grandi alleati della nuova cultura del territorio, che deve trovare soluzioni integrali alle gravi disfunzioni ambientali di un modello agro-pastorale diventato totalmente estraneo all’ambiente che utilizza e che è ecologicamente ed economicamente insostenibile. Le tecnologie agricole di quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde” hanno fatto il loro corso e il loro superamento ci conduce a un punto di svolta decisivo. Le “soluzioni” transgeniche che vogliono imporre le stesse imprese multinazionali, che già controllano una gran parte della catena alimentare mondiale, non presuppongono altra cosa che dare un altro giro di vite a un modello agro-pastorale insostenibile, indifferente nei confronti del territorio, tale da distruggere la diversità agraria e minare la biodiversità. Se la volontà democratica della cittadinanza e la ribellione dei consumatori e consumatrici consapevoli non sbarra il passo all’imposizione dei prodotti transgenici, non ci potrà essere futuro nemmeno per una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche che ritornino a lavorare con la natura attraverso sistemi territorialmente integrati.

16. Le disfunzioni ambientali che il territorio soffre e la risoluzione dei conflitti che esse generano richiedono soluzioni integrali. Se non apriamo la strada a opzioni territorialmente sinergetiche, ogni problema parziale trattato in modo isolato non potrà trovare valide vie d’uscita. Mentre sussiste ancora un discorso che afferma che il Mediterraneo in generale, e la Catalogna in particolare, è un paese povero in risorse energetiche, e che per tanto è necessario importare elettricità nucleare francese o prolungare la vita utile delle centrali nucleari del nostro territorio, la maggior parte dei boschi che crescono negli antichi spazi agrari abbandonati rimangono senza nessun tipo di sfruttamento e mantenimento. Una buona gestione ambientale del territorio, orientata a migliorarne lo stato ecologico e a fomentarne la biodiversità, reclama recuperare la vecchia pratica della «boïga» riaprendo radure e cammini di accesso al bosco, e approfittare del disboscamento selettivo come una fonte addizionale di energia rinnovabile attraverso piccole piante di biomassa integrate con i paesi vicini. Quando il discorso ufficiale afferma ancora adesso che non esistono alternative a una pastorizia intensiva scollegata funzionalmente dallo spazio coltivato, e che solo ricerca soluzioni in extremis al problema dell’accumulo d’escrementi, quegli spazi del bosco selettivamente aperti potrebbero accogliere una nuova pastorizia ecologica estensiva che offrra al mondo rurale nuove opportunità per generare valore aggiunto fornendo alimenti di qualità insieme al miglioramento dello stato ambientale del territorio. Mentre le politiche agrarie ignorano ancora l’immenso patrimonio dei versanti terrazzati a fasce e ronchi, o affermano che il loro mantenimento è economicamente insostenibile, un buon ordinamento del territorio dovrebbe aprire prioritariamente radure proprio dove si trovano le terrazze e i sentieri da recuperare. Quando molta gente identifica ancora lo sviluppo eolico o lo sviluppo degli orti solari con il degrado del paesaggio, una ricerca di soluzioni territorialmente sinergetiche può trovare nelle zone ventose un luogo adeguato per gli aereogeneratori e per i pannelli fotovoltaici in molti di quei nuovi spazi dediti alla pastorizia o agro-forestali diradati dove si dovrebbero aprire nuove vie d’accesso o, ancora meglio, recuperare quelle antiche andate perse. Sbloccare questo falso conflitto tra lo sviluppo delle energie rinnovabili e il mantenimento di un buon stato ecologico dev’essere una priorità della nuova cultura del territorio. Dobbiamo trovare soluzioni integrali basate nella sinergia territoriale.

17. Le masserie e le comunità rurali hanno portato avanti per molti secoli una accurata gestione integrata del territorio indotta dalla necessità: dipendevano dagli animali per ottenere concime e forza da traino, e solo attraverso una ragionevole integrazione dell’allevamento del bestiame con gli altri usi agricoli e forestali del territorio era possibile contrarrestare la considerabile perdita energetica che comportava la loro alimentazione. Facevano un uso efficiente del territorio proprio perché erano poveri di energia e di materiali di origine inorganica. Con l’arrivo del consumo di massa di combustibile fossile e di fertilizzanti chimici, la gestione integrata del territorio ha smesso di essere una necessità. Ma la fine di quella necessità doveva essere anche la fine delle sue virtù? La risposta è: non necessariamente. Una pianificazione e gestione ordinata del territorio avrebbe potuto rilevarla.

18. Non è un caso che la pianificazione regionale e urbana sia stata una scoperta che si è avuta, in Catalogna come in tutta Europa, nello stesso momento storico in cui le vecchie culture agrarie cominciavano a perdere la loro millenaria capacità di gestire il territorio in modo integrato. Se nel nostro paese abbiamo patito fino a oggi un vuoto così grande nella pianificazione territoriale e un eccesso così sproporzionato nello sfruttamento del suolo a fini speculativi, tutto ciò ha molto a che fare con la mancanza di democrazia o con il basso livello di quella che abbiamo conosciuto realmente. Per rendersene conto basta attraversare i Pirenei e confrontare i paesaggi rurali e urbani che troviamo in direzione nord con il grave disordine del nostro territorio. Dai grandi e innovatori urbanisti come Ildefons Cerdà (1815-1876) e Cebrià de Montoliu (1873-1923), fino a Nicolau Rubió i Tudurí (1891-1981) e Santiago Rubió i Tudurí (1892-1980) o il GATCPAC (1928-1939) (NdT gruppo d’archittetti della Barcellona repubblicana ispirato ai principi di Gropius e Le Corbusier), in Catalogna circolavano proposte molto chiaroveggenti e innovatrici circa la pianificazione urbana e l’ordinamento territoriale. È stata proprio la mancanza delle libertà politiche e l’enorme impoverimento culturale durante la dittatura di Franco a creare un gravissimo vuoto di pianificazione, tale da lasciare una impronta molto visibile nel degrado di tutto il litorale, delle città, dei quartieri, dei poligoni industriali, delle zone turistiche o delle aree rurali abbandonate. È ora ormai che i piani territoriali parziali e i piani direttivi urbanistici integrino tutte le richieste e i condizionanti di una valutazione ambientale strategica rigorosa.

19. Dopo tre decenni di istituzioni democratiche, l’ordinamento territoriale è ancora una questione irrisolta e lo sfruttamento del suolo a fini speculativi continua a imporsi troppo spesso sulla volontà cittadina e sugli interessi generali del paese. Il vuoto di pianificazione territoriale ha ancora molto a che fare con il basso livello di democrazia derivante da una transizione politica post franchista niente affatto esemplare. L’avanzata di una nuova cultura del territorio, che ponga il mantenimento del buon stato ecologico al centro dell’ordinamento degli usi del suolo, ha bisogno di una democrazia più partecipativa e di maggior qualità deliberativa di quella attuale.

20. Il compito più urgente dei movimenti sociali che si sono sollevati contro la speculazione privata del suolo e la mancanza per molti anni di politiche pubbliche di regolazione del territorio all’altezza delle circostanze è stato ed è ancora quello di bloccare i nuovi progetti di edilizia residenziale e turistica nelle zone del litorale già saturate fino a estremi assurdi, di nuove autostrade e strade in aree già circondate da grandi arterie al servizio del trasporto motorizzato, di campi da golf, di linee d’alta tensione o di altre infrastrutture aggressive, spesso innecessarie o persino controproducenti per il nuovo modello territoriale di cui abbiamo bisogno. La cultura del “qui no”, di cui si lamentano molti poteri di fatto, non è altra cosa che la reazione a questa mancanza di deliberazione, partecipazione e pianificazione democratica del territorio. Allo stesso tempo, per avanzare realmente verso un nuovo modello territoriale che mantenga in buono stato il suo funzionamento ecologico è necessario che la protesta venga accompagnata alla proposta di soluzioni innovatrici e coerenti del problema dal punto di vista socio-ambientalmente a tutti livelli (locale, regionale, nazionale, statale, europeo e globale). Queste soluzioni devono essere territorialmente sinergetiche. Cioè devono contemplare allo stesso tempo tutti i versanti correlati della questione (rurale e urbana, energetica ed eco-paessagistica, materiale e culturale, tangibile e intangibiile, ecc.).

21. La terza gran patologia ambientale del nostro territorio è fatta di cemento e asfalto e consiste nell’avanzata forsennata di una urbanizzazione speculativa. Per effetto della moltiplicazione della rete viaria pubblica al servizio di automobili e camion privati, le regioni metropolitane di Barcellona, Girona e Tarragona stanno sperimentando un processo di conurbanizzazione dispersa che invade alcuni dei migliori terreni del territorio annullandone le funzioni ambientali, distrugge spazi liberi e possibili connettori biologici, tende a segregare socialmente le persone nello spazio a seconda dei livelli di reddito e/o dell’origine sociale o culturale, incrementa la distanza tra luogo di residenza e lavoro o servizi, e moltiplica esponenzialmente la dipendenza dall’automobile, la produzione di residui urbani, la spesa energetica, il consumo d’acqua e le emissioni disperse di gas serra per abitante. Una nuova cultura del territorio deve avere come massima priorità frenare questa febbre costruttrice di suburbi dispersi, e riorientare la crescita urbana verso un altro modello basato su una rete di città e centri più densi, misti e polifunzionali, socialmente integratrori, dove diventi possibile far la pace con la natura.

22. In molte province ha preso piede un discorso sommamente ambiguo che attribuisce “alla città” o “a Barcellona” tutti i mali di cui soffre il territorio. Questo discorso mette sotto silenzio, in primo luogo, le patologie ambientali originate da un modello agricolo e pastorale insostenibile, che è divenuto una delle principali fonti del degrado paesaggistico e dell’inquinamento diffuso. In secondo luogo, nasconde che anche nelle altre province non barcellonesi la maggior parte della popolazione vive e lavora in città e centri dove il consumo di energia e di acqua per abitante e le emissioni di gas serra sono uguali o spesso superiori a quelle degli abitanti delle regioni metropolitane. Tuttavia l’errore più grave di questo discorso è non capire che la città dev’essere una parte sostanziale delle soluzioni alle disfunzioni ambientali che soffriamo. Solo l’alleanza tra una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche, e una rete di città, villaggi e paesi realmente impegnati nella sostenibilità, potrà rendere fattibile una nuova cultura del territorio.

23. Per l’ecologia umana la città è stata una gran scoperta evolutiva poiché permette di moltiplicare le opportunità di interazione, riducendo al minimo possibile le necessità di trasporto e di consumo del suolo. Ampliando le capacità di scelta della gente, la città può diventare uno spazio molto importante per lo sviluppo umano. Le città vere, basate su una densità e mescolanza adeguate agli usi, possono venire anche concepite come una risorsa rinnovabile in cui la ristrutturazione dei tessuti già esistenti può diventare una alternativa al consumo orizzontale del territorio. Purtroppo però le nostre città attuali non realizzano questo sviluppo umano sostenibile. La prova più evidente di ciò è rappresentata dalle gravi difficoltà di accedere a un alloggio degno ed economico, che nell’attuale boom della speculazione immobiliaria pregiudicano gravemente un numero sempre più grande di giovani o di famiglie con lavori precari e bassi redditi. Questa privazione del diritto più elementare alla casa e alla città è uno degli ingranaggi dell’attuale esplosione metropolitana sotto forma di conurbazione dispersa, che segrega socialmente le persone nello spazio e moltiplica l’impronta ecologica del suo metabolismo sociale. Fermare la speculazione e garantire realmente il diritto costituzionale alla casa per tutti sono compiti urgenti e prioritari di una nuova cultura del territorio, che deve andare di pari passo con il cambiamento in direzione di tipologie costruttive di minor impatto ambientale. Né le città attuali né tantomeno i suburbi dispersi a bassa densità, sono in grado di soddisfare le necessità della gente in modo sostenibile: ovvero senza compromettere lo sviluppo umano delle altre persone o dei territori del presente o delle generazioni future. Ma il suo fallimeno circa la capacità di promuovere lo sviluppo umano o la sostenibilità ha a che vedere con il modello imperante di città. La conurbazione dispersa deteriora il funzionamento ecologico del territorio distruggendo allo stesso tempo la propria città. Non è quindi la città il problema ma il suo stesso fallimento.

24. Ben lungi dal comportare un qualche tipo di riequilibrio territoriale, l’attuale processo di dispersione della popolazione dalle attuali concentrazioni metropolitane fino ad anelli concentrici sempre più lontani moltiplica esponenzialmente tutti i problemi socio-ambientali del territorio. Il principale riequilibrio territoriale di cui ha bisogno adesso la Catalogna, come tante altre regioni dal Mediterraneo, riguarda la riduzione dei dislivelli dell’attuale gerarchia urbana all’interno della rete reale di città e paesi che inglobano tutto il territorio. Ciò significa incrementare il peso relativo delle città piccole e medie in detrimento dei grandi centri metropolitani di Barcellona, Girona e Tarragona già troppo saturate. Bisogna fare nuovi ampliamenti nelle città intermedie, come si fece un secolo e mezzo fa a Barcellona o Sabadell. L’alternativa a una estensione disordinata delle conurbazioni disperse è quella di costruire una rete basata sul reticolo urbano tradizionale che il territorio catalano ha ereditato dal passato di città e paesi densi, polifunzionali e socialmente integranti, uniti da un sistema efficiente di trasporto ferroviario o collettivo e separati da diversi cinturoni o anelli verdi di spazi orticoli, agricoli e forestali vivi che, insieme al sistema di spazi naturali protetti e uniti da corridoi biologici viabili, mantengano un buon funzionamento ecologico di tutta la matrice territoriale.

25. Per avanzare verso un modello territoriale che sia localmente e globalmente più sostenibile le città, cittadine e paesi della Catalogna —come di qualsiasi altro luogo del mondo sviluppato— devono ridurre significativamente l’impronta ecologica del loro metabolismo collettivo. Oggi tutte le città, cittadine e paesi del nostro paese devono importare materiali ed energia da luoghi molto lontani. Tutti vivono in un luogo del territorio, ma nessuno vive in modo esclusivo del piccolo territorio in cui abita. I criteri d’efficienza, sufficienza e giustizia ambientali devono applicarsi alla ricerca di soluzioni a tutto tondo tenendo conto della molteplice dimensione, locale, regionale, nazionale, statale, europea e internazionale del problema.

Queste 25 idee, e gli orientamenti e proposte che ne derivano, possono riassumersi in una sola nozione centrale: il paesaggio è la percezione umana del territorio, e la sua configurazione diviene l’espressione territoriale del nostro metabolismo sociale. Per una nuova cultura del territorio tutti i paesaggi devono venir intesi come uno specchio che riflette la gamma di relazioni che la nostra società mantiene con la natura. Se non ci piacciono i paesaggi che abbiamo, dobbiamo cambiare la nostra forma di vivere e convivere.

L’autore è direttore del Dipartimento di storia ed istituzioni economiche dell’Università di Barcellona, membro del Consiglio di redazione della rivista Global Environment

Mi sono assunto il compito di riferire, in questo Convegno, sulla legge in difesa delle bellezze naturali, che è in vigore da più di otto anni -e la cui applicazione mi è stata affidata per ragioni di ufficio. Voi ne conoscete le disposizioni, che sono ben poche in verità: tuttavia ho bisogno di richiamare alla vostra memoria - e ciò per chiarire quel che sto per esporre - l’articolo lo nella sua completa formulazione:

“Sono dichiarate soggette a particolare protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche”.

Si venne così a stabilire una netta distinzione fra le cose immobili, che hanno un’entità propria ben definita, e quindi identificabili nei loro particolari, e le bellezze panoramiche, o meglio il paesaggio, che sfugge ad una precisa identificazione e quindi mal si presta ad essere raggiunto dalla stessa norma legislativa, quanto meno dalla stessa norma legislativa dettata per le cose facilmente individuabili nei loro confini e nelle loro caratteristiche.

Se non si tien bene in mente questa sostanziale distinzione, non si può comprendere l’economia di tutta la legge e non si possono neppure comprendere le difficoltà - non poche e non lievi - che s’incontrano nella sua applicazione. Giacché è per le cose immobili aventi i caratteri voluti dal primo comma dell’articolo l°, e cioè per le bellezze naturali propriamente dette, che la legge impone le notificazioni, che devono essere trascritte agli uffici ipotecari affinché i terzi ne abbiano conoscenza; e quindi tutti, a cominciare dal proprietario, devono sapere che quel tale immobile è sottoposto alla tutela, che chiameremo artistica, per intenderci - mentre per tutelare le bellezze panoramiche essa non concede che un intervento volta per volta, caso per caso, quando nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori (non si parla di piani di ampliamento) possono danneggiare l’aspetto e lo stato di pieno godimento del paesaggio. Non è facile identificare gl’immobili che hanno carattere di bellezze naturali. L’Italia ha una superficie di 313 mila chilometri quadrati; e per la sua conformazione, principalmente montuosa; per le sue lunghe riviere sulle quali digradano ultime propaggini appenniniche, aspri promontori e verdi colline, spesso tagliate da valli e da burroni profondi; per la sua antichissima storia che ha impresso in ogni angolo, su ogni pietra, su ogni zolla la poesia dei ricordi, è ricca, come nessun altro paese di Europa, di singolarissimi aspetti, di curiosità geologiche, di cose interessantissime, poste in siti spesso remoti, viventi di una vita propria, concluse in confini determinati, che permettono di apprenderle in uno sguardo, di descriverle con pochi tratti, di misurarle talvolta.

La loro dovizia è tale che sgomenta chi ha il compito di difenderle dalle insidie degli uomini. Tuttavia in otto anni, e precisamente sino al 31 dicembre ultimo, abbiamo fatto 4662 notificazioni di notevole interesse pubblico, vincolando 728 immobili. Un altro centinaio è in corso; e si attende che siano restituite dai podestà o dagli uffici delle ipoteche. Non sono molte ma quando ci si renda conto delle difficoltà da superare, specialmente nella ricerca dei confini e dei numeri catastali di ciascun immobile, e degli scarsi mezzi posti a disposizione dell’ufficio, si dovrà riconoscere che del lavoro se n’è fatto, Si pensi anche che ogni notificazione dà diritto al privato di ricorrere contro di essa al Governo del Re, che i ricorsi sono stati e sono moltissimi, e che per accoglierli o respingerli è necessario sentire il Consiglio Superiore delle Belle Arti e il Consiglio di Stato. Il che impone una vigile attività amministrativa.

Gl’immobili notificati non possono essere modificati senza il consenso del Ministero; e quindi per ogni lavoro, che su di essi si voglia fare, è necessario inviare il relativo progetto al Ministero medesimo che lo fa esaminare dal Consiglio Superiore delle Belle Arti. Ed è qui, su questo punto, anzi in questo momento, per dirla con un’antipatica frase burocratica, è in questo momento della pratica, che si determina il più vivo contrasto fra gli interessi pubblici e quelli privati. Mi permetterete di non scendere a particolari, anche per non essere troppo prolisso. Dirò solo quali sono le deficienze della legge, che in codesto contrasto dovrebbe dar man forte al Ministero e invece lo lascia inerme e indifeso. In due modi si può determinare il contrasto: modificando l’immobile notificato senza chiedere il consenso del Ministero o chiedendo il consenso per poi infischiarsene e fare il proprio comodo. Si modifica l’immobile, vanandone o distruggendone i caratteri essenziali che lo rendono di pubblico interesse, il che può farsi in mille modi facilmente immaginabili e si disubbidisce al Ministero, eseguendo integralmente quei progetti di lavori che, presentati all’ufficio per il suo esame e consenso, sono stati respinti o limitati.

Inquesti casi che può fare il Ministero? Può denunziare il contravventore all’autorità giudiziaria perchè sia punito con l’ammenda da L.300 a L.1000! (quando una benigna amnistia non lo abbia in precedenza lavato d’ogni colpa). Una pena, come vedete, ridicola: una specie di spaventa-passeri, che non preoccupa nessuno.

Si può, oltre questo, secondo l’articolo 6, ordinare la demolizione delle opere abusivamente eseguite; ma quali opere? Le costruzioni evidentemente, le opere, cioè, che si sovrappongono all’immobile e lo disarmonizzano. Ma non sono sempre le costruzioni che offendono un immobile dichiarato bellezza naturale; si può offenderlo aprendo nel suo seno una cava di pietra, una cava di pozzolana, di trachite, aprendo delle trincee, abbattendo degli alberi, spesso potandoli cosi eccessivamente da provocarne la morte si può offenderlo, insomma, in tanti e tanti altri modi consimili.

Mi sono prefisso di tenermi sulle generali, di non fare nomi né di località né di persone: ma sappiate che sotto le mie parole ci sono i fatti. Ora, di questi deplorevoli casi noi siamo costretti a constatare il danno e fare, se mai, delle vane proteste; poiché la legge non ci dà; il diritto di obbligare il proprietario dell’immobile a rimettere tutto in pristino, o, non potendosi più far questo, imporgli almeno di pagare una indennità equivalente al danno. Ci resta sempre, è vero, quella famosa ammenda da L.300 a L.1000; ma io ho il buon gusto di non provocarla mai ... È qui opportuno osservare che la legge parla di contravventori e di ammenda: il che vuol significare che le violazioni alle disposizioni di essa sono considerate contravvenzioni. Errore grave, contro il quale la Direzione Generale delle belle arti si è battuta invano: quando, come avvenne delle offese alle bellezze naturali, la volontà di frodare la legge è manifesta, ed è evidente la lesione del diritto pubblico, sono chiari ed inequivocabili gli estremi di un vero delitto, la cui sanzione non può certamente essere l’ammenda.

La difesa poi del paesaggio. la quale non è e neppure assistita da questa mite pena contravvenzionale, è tutta imperniata nell’art. 4 della legge: in virtù di questo articolo, il Mi nistero, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori può prescrivere distanze, misure ed altre norme, necessarie perchè le nuove opere non danneggino l’aspetto e il pieno godimento delle bellezze panoramiche. Or nessun mezzo preventivo ha il Ministero per far giungere a tempo la sua azione tutelativa: esso deve attendere che gli sia indicata la nuova opera. Ma spesso quest’opera è così avanzata che le provvidenze da prendere (distanze, misure, altezze, ecc.) si trovano di fronte ad uno stato di fatto che ha già compromesso la vista del paesaggio. Ciò accade perchè, non vigendo per la difesa delle scene panoramiche il sistema delle notificazioni, il privato ignora o finge di ignorare che la sua opera, iniziata o che sta per iniziare, offende qualcosa che interessa il pubblico godimento anzi, egli ignora che quel luogo su cui egli svolge la propria attività è un luogo degno di essere protetto per la sua bellezza paesistica. Né è possibile immaginare che si possa adottare il sistema delle notificazioni poiché il paesaggio è una parte di territorio, i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco o estetico a causa delle disposizioni e delle linee, delle forme e dei colori, e nel suo insieme è costituito da migliaia di particelle (immobili) appartenenti ad altrettanti proprietari. Di guisa che l’ufficio si trova quasi sempre in grande imbarazzo. I casi in cui il suo intervento raggiunge la nuova opera allo stato di progetto sono rari mentre sono frequenti i casi in cui l’opera è già iniziata, quando non è quasi per metà compiuta. E allora non abbiamo altra risorsa che di far sospendere i lavori e chiedere il progetto, perchè sia esaminato dai nostri corpi tecnici. E di sospensioni, infatti siamo costretti ad ordinarne parecchie. Che cosa accade dopo, lo lascio immaginare a voi: raccomandazioni, proteste, aggiramenti, minacce di suicidi ... Certo il danno di un tale procedimento non è da negarsi: e potete credermi se vi dico che il primo a dolersene sono io. Ma quale altro è possibile? Abbiamo pensato a varii espedienti : per alcuni luoghi di maggiore responsabilità sono stati pregati gli uffici periferici di raccoglierne i nomi dei proprietari, i confini, i numeri catastali degli immobili compresi in una scena panoramica: naturalmente centinaia, ed abbiamo proceduto a centinaia di notificazioni. Esempio, la nuova via Manzoni a Napoli, la quale si svolge dal Corso Vittorio Emanuele lungo la cresta della collina di Posillipo e scopre a destra i Campi Flegrei, a sinistra Napoli ed il Vesuvio con Torre del Greco, Resina, Pompei, Castellammare, Sorrento, e, dietro la Punta Campanella, Capri: un paesaggio ammirabile di cui forse uno più bello, e direi più spirituale per i grandi ricordi storici che racchiude, non esiste al mondo. La speculazione aveva già cominciato a deturparlo in vari punti, ed era necessario correre alla difesa. Qualcuno venne a dirmi che con tutte quelle notificazioni avrei fatto insorgere Napoli, ma la insurrezione non scoppiò - e le costruzioni su quella incantevole via sono regolate dalla Sovrintendenza. Potrei parlarvi di altri luoghi in cui abbiamo all’Arte Medioevale e Moderna della Campania adoperato lo stesso sistema. Ma voi comprenderete che esso è faticosissimo; che non può ad esempio, essere applicato alla Riviera Ligure, ai territori in mezzo ai quali splendono come gemme i laghi Maggiore, di Como, del Garda Ed allora, abbiamo escogitato un altro espediente: l’emanazione di decreti ministeriali, decreti in forma di dichiarazioni, che potrei qualificare moniti, avvertimenti, da tenersi affissi per sei mesi all’albo pretorio dei Comuni interessati. Permettetemi di leggervi uno;di questi decreti: quello emanato per salvare Capri dalle frequenti deformazioni delle singolarissime caratteristiche del paesaggio caprese: “Considerato che il territorio dell’isola di Capri, famosa nel mondo per la bellezza del suo paesaggio, è tutto sottoposto alla legge 11 giugno 1922 n. 778, e che urge provvedere, affinché le scene panoramiche, che ivi sono universalmente ammirate, non siano ostruite o in qualunque modo offese da opere non in armonia coi luoghi o in assoluto contrasto col godimento di essi;

“visto l’art. 4 della legge anzidetta, che dà al Ministero della pubblica istruzione nei casi di nuove costruzioni e ricostruzioni le facoltà, ecc..;

“atteso che è fermo proposito del Ministero medesimo di servirsi nel modo più rigoroso delle facoltà: di cui sopra, affinché la tradizionale bellezza di Capri non sia ulteriormente manomessa; e d’altra parte è interesse degli abitanti dell’isola che di tale proposito siano pubblicamente informati, affinché la provvida e legittima azione governativa non sia da essi prevenuta con opere che, per essere eseguite in dispregio della legge, dovrebbero essere abbattute;

“Il Ministero della P. I. notifica:

“Art. 1 - Nel territorio dell’Isola di Capri non si possono sopraelevare muri; innalzare cancelli, piantare cortine di alberi, fare sbarramenti di roccia e sterri, o compiere qualunque altra opera che ostruisca, modifichi o deteriori in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che ivi si godono.

“Nello stesso territorio non si può eseguire nessuna costruzione, né modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna della Campania, alla quale dovranno essere presentati i relativi progetti.

“Art. 2 - La presente notificazione sarà a cura di S. E. l’Alto Commissario della Provincia di Napoli pubblicata all’albo pretorio del Comune di Capri per un tempo non minore di sei mesi”.

Un decreto consimile fu emanato anche per Taormina, celebre meta turistica internazionale e già deformata da grandi alberghi, alcuni di uno stile arabo normanno che fa paura, e azzannata in punti delicatissimi da ben sette cave di pietra che la stavano divorando. L’efficacia di questi due decreti io ho modo di constatare giorno per giorno; ed avrem mo intenzione di ripeterli per altri luoghi anche di maggiore estensione.

Non credo però che questo espediente, suggeritomi dalla necessità di difendere, in difetto di più efficaci disposizioni legislative; alcuni punti di grande sensibilità paesistica, possa essere applicato ai grandi agglomeramenti di abitanti, alle città, quali Genova, per esempio, o Napoli, o Milano, a quelle che sono in continuo accrescimento, costrette a sbandare fuori delle antiche cerchie e invadere i dintorni. La rete degli interessi è più fitta lì che altrove, le esigenze della vita, e della vita moderna, sono più imperiose, e tutte raggiunte dai tentacoli della speculazione; della quale anzi non è possibile fare a meno. Mentre in questi luoghi, fra questo coacervo di bisogni, di desideri, di avidità, che di giorno in giorno si ingrossa sempre di più e preme da tutte le parti, e dire che qui non si possono compiere opere che ostruiscano, modifichino e deteriorino in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che vi si godono, né eseguire costruzioni nuove, o modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione del Ministero, significherebbe mettere in pericolo quell’azione di tutela paesistica che ci sta a cuore e per il cui maggiore sviluppo siamo qui riuniti. D’altra parte, stare in sull’attenti in perpetuo, per avvistare il caso in cui sia obbligatorio il nostro intervento, è cosa, come potete comprendere, angosciosa, spesso non utile, sempre piena di sorprese e d’inquietudini. Si vuole costruire, mettiamo, lungo un lido su cui digradano verdi colline: località panoramica di primo ordine, degna della più alta speculazione, in una città ricca ma stretta fra il mare e il monte, e in continuo lievito di accrescimento. Si allestisce alla chetichella un sommario piano di ampliamento, si dimenticano i necessari accertamenti di legge, si trascura di avvertire i Ministeri interessati; ed ecco già creato sotterraneamente un trust di sfruttamento delle aree. I primi sbancamenti di antiche ville cominciano, si allivellano poggetti deliziosi, sorgono i primi casoni come per incanto. Chiediamo il piano di avviamento: non c’è. Preghiamo che si faccia subito: non si risponde. Insistiamo: si mena il can per l’aia. Intanto, le costruzioni avvampano. Ne sospendiamo alcune. E comincia la tragedia. Perché sospendete? Perché vogliamo vedere il progetto di costruzione, prestabilire le misure, le distanze, le altezze (art. 4). - Ma il progetto è stato approvato dalla Commissione Edilizia! - Non basta: la legge di tutela del paesaggio è indipendente dalle decisioni dei Comuni. - Ma insomma che cosa volete? -Vogliamo che su questo punto non si costruisca, che su questo altro l’edificio occupi una superficie minore, o non superi i due piani. - Ma questo è impossibile: abbiamo pagato l’area a 500 lire il metro quadrato! - Ma ciò non ci riguarda. Non vi riguarda? Espropriateci, pagateci il prezzo dell’area e fate quel che vi aggrada. - Lo Stato non ha questi obblighi: l’imposizione di una servitù di diritto pubblico non comporta indennizzi. - Ma questa servitù la imponete proprio ora? Se io l’avessi preveduta non avrei acquistato, o avrei acquistato a prezzo minore. - E allora? allora, egregi signori, ci si trova impigliati in una serie di compromessi, di transazioni, di mezze misure, che non risolvono nulla, quando non aggravano le condizioni di ambiente. In tutti i casi il beneficio della legge è frustrato, se non in tutto, almeno in parte; e il prestigio dell’autorità è in iscacco.

Quale il rimedio a questo stato di cose così penoso? Poiché, come abbiamo visto, non è possibile adottare il sistema preventivo delle notificazioni, né quello dei decreti uso Taormina e Capri, sembra che unico, previsto dalle nostre leggi, sia il sistema dei piani regolatori e di ampliamento, studiati seriamente prima che un decreto reale li renda esecutivi.

Ed eccoci giunti casi al punto centrale di questa mia non lieta disamina.

Non è qui il caso di dire quale sia l’importanza di un piano regolatore dal lato della viabilità, dell’igiene, dell’estetica e anche dell’educazione cittadina. Sono cose note, e nelle quali voi tutti qui presenti siete maestri. E neppure credo di dovervi rassegnare le disposizioni di legge che lo riguardano, e le discussioni cui esse han dato e danno argomento nella dottrina giuridica, specialmente in occasione della divisata riforma di espropriazione per pubblica utilità. Penso che nessuno di voi creda ancora che un piano regolatore debba consistere unicamente nel “tracciare delle linee (leggo la definizione che ne dà la legge del 1865) da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato dove occorreva rimediare alle viziose disposizioni degli edifici”. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, troppi bisogni son nati, troppe esigenze, allora neppur sospettate, oggi premono imperiosamente: e l’edilizia pubblica, allora semplicista e di origine prettamente francese, è ora una scienza che ha trovato e trova quotidianamente nelle antiche città italiane materia di studio e di originale applicazione. Al tempo in cui fu approvata la legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, due bisogni cittadini preoccupavano i governanti: quello della salubrità e quello del traffico; e l’art. 86 di quella legge lo dice chiaramente. A provvedere a questi due bisogni doveva tendere il piano regolatore. Il quale, perciò, nella pratica, si riduceva a un piano di allineamento, e quindi a un tracciamento di linee a qualunque costo pur di raggiungere quei due intenti. E dati questi principi non è da meravigliarsi che in un vecchio piano regolatore di Roma, a furia di tracciare linee, gl’ingegneri incaricati non si fossero accorti che buttavano giù la bella chiesa del Priorato di Malta sull’Aventino.

Ora, nonostante che la legge sia la medesima, si va più cauti, o almeno ci si sente avvolti in un’atmosfera in cui giungono, senza bisogno di radio, preoccupazioni e moniti, proteste e consigli, che rendono pensosa quella beata innocenza, per cui un piano regolatore si riduceva al famoso segno di matita colorata. Non fu ascoltato quindici anni or sono Gabriele D’Annunzio, che insorse per difendere Bologna, “minacciata di sacrilegio da uomini mercantili ben più aspri di quelli che frequentavano la bellissima loggia vicina”, ma oggi, che una pericolosa irrequietezza edile ha invaso le amministrazioni delle città italiane, non è più possibile non comprendere l’alto significato di queste parole di Marcello Piacentini, dell’ architetto che più lavora in Italia, da Messina a Brescia, e al quale certo non si può negare esperienza e modernità: “Le nostre cento città sono dei valori come non esistono altri, ricchezze cui nessun’altra può paragonarsi. Sono la nostra storia ed il nostro orgoglio. Sono la immagine esatta della nostra razza o dei nostri ideali. Attraverso ad esse il mondo apprende la nostra civiltà. In esse riconosciamo noi stessi e la varia e molteplice espressione dei nostri temperamenti regionali. Come le fisionomie dei membri di una stessa famiglia, esse si compongono in un atteggiamento di reciproco affetto e di mutua comprensione. Ebbene, questo tesoro unico ed inestimabile dev’essere da noi gelosamente conservato. Quante cure non abbiamo per minuti oggetti: per pianete o reliquie celate nelle sagrestie delle chiese, per quadri che custodiamo riverenti nelle gallerie, mentre le città sono molto spesso abbandonate a sé stesse, facile preda di faccendieri e d’incompetenti reggitori! Prenda maggiormente il Governo sotto le sue cure speciali le città italiane: esse costituiscono la più bella ricchezza nazionale. Esse sono, tutte insieme, la Patria. E la civiltà fascista deve salvarne il passato e curarne lo sviluppo avvenire”.

Salvare il passato e curare lo sviluppo avvenire: parole d’oro che dovrebbero essere epigrafe di ogni piano regolatore. Ma salvare il passato non significa per noi perpetuare nei fetidi vicoli oscuri il drappeggio dei cenci alle finestre; e quando dei troppo corrivi demolitori, in mancanza di argomenti, e credendo di fare effetto sugl’ingenui, lanciano contro di noi la stupida accusa di misoneisti, amanti della vecchia sporcizia, abbiamo ben ragione di protestare. Salvare il passato significa ben altro per noi: significa non distruggere, senza una inderogabile assoluta necessità, gli edifici che l’antichità ci ha tramandati intatti, e soprattutto non disambientarli, perchè allora tanto varrebbe distruggerli; ed in quanto a curare lo sviluppo avvenire delle città non significa irrompere fuori le mura per lottizzare ville monumentali, abbattere pinete, sbancare colline; poiché questo non è sviluppo, è devastazione.

Da ciò la necessità, riconosciuta universalmente, e del resto dalla nostra legislazione prevista, di sentire sui piani regolatori i pareri, non solo dei corpi tecnici superiori, ma anche del Consiglio Superiore delle Belle Arti che è, in materia d’arte, un corpo tecnico anch’esso. Donde la conseguenza che nessun piano regolatore possa dirsi approvato senza che il parere di tale Consiglio sia stato sentito. Non sono cose peregrine queste ch’io dico, lo so, ma sono necessarie, perchè io pervenga, su questo punto, a una conclusione, che è frutto di lunga esperienza.

La procedura per giungere all’approvazione di un piano regolatore è quanto mai complicata; e appunto perchè cosi complicata, invece di dare la massima garanzia nell’esame di tutte le questioni tecniche, sanitarie, economiche, artistiche, monumentali; riduce spesso cotesto esame a una parvenza formale senza sostanza. Si crede, in buona fede, che tutto sia esaminato, discusso approfondito, sulla base del piano già studiato dall’ufficio tecnico del Comune; ma in realtà non ostante i pareri dei corpi superiori consultivi, è sempre questo che prevale nelle linee-base originarie. E non può essere diversamente.

Gli organi, attraverso cui passa un piano regolatore, sono: il Genio Civile ed il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici per la parte tecnica; la Giunta provinciale amministrativa, il Ministero dell’Interno e il Consiglio di Stato per la parte giuridica e amministrativa; la Commissione provinciale sanitaria per gli aspetti igienici; la Soprintendenza ai Monumenti e il Consiglio Superiore delle Belle Arti nei riguardi artistici. “Bisognerebbe - disse S. E. il Ministro dei LL. PP. recentemente - che non funzionassero tutti questi congegni o ci fosse il partito preso di voler dichiarare guerra ad oltranza al passato e di voler alzare i gagliardetti dell’avvenire più o meno futuristico, per non sentire sufficientemente tutelato il patrimonio artistico e storico della Nazione”. Ebbene, Signori, io non dico che non funzionino codesti congegni: funzionano certamente, ma spesse volte come tante ruote che girano a vuoto. E i primi a dolersene sono gli eminenti uomini chiamati a cotali funzioni. Quali le cause? Non le cause, ma la causa: è una sola. Essa consiste nel fatto che tanti elevati corpi tecnici sono chiamati ad esaminare delle carte non delle cose; a esaminare, uno dopo l’altro, dei bei tracciati sulla carta, tenendo per guida la relazione dell’ufficio compilatore del piano, non a giudicare di questo sulla faccia dei luoghi. Sono rari i casi in cui un corpo tecnico superiore si sposta per un esame di questo genere; ma quand’anche i casi fossero frequentissimi, il risultato è sempre infelice. Poiché non una breve visita dei luoghi può dare la visione esatta delle conseguenze di un piano regolatore; e d’altra parte se la visita dovrà prolungarsi per tanto tempo quanto è necessario per uno studio particolareggiato del piano stesso, le difficoltà della lunga permanenza di un corpo tecnico superiore in una città diversa dalla propria sede diventano insormontabili.

Sono argomenti, lo so, terra terra; ma purtroppo certi fatti, che ci sembrano inesplicabili, hanno appunto queste umili cause. Ma ce n’è una meno umile: ed è la mancanza di un esame totalitario ed unitario di tutte le questioni edilizie, che si connettono a un piano regolatore, esame da farsi in un sol tempo e in contradizione con tutti gli interessi di un giuoco. Mettere in discussione il lavoro di un ufficio, che è costato mesi e mesi di fatiche, metterlo in discussione a gradi, sottoponendolo ora ad un corpo tecnico, ora ad un altro, è la cosa più illogica e inconcludente. Illogica, perchè ogni corpo tecnico, che voglia fare sul serio, deve rifare alla sua volta lo studio integrale del piano, e quindi vi porterà in aggiunta i propri criteri che spesso non si armonizzano coi criteri dell’altro corpo tecnico che lo esaminerà dopo; inconcludente, perchè, a voler far bene, sarebbe necessario sviluppare codesti criteri, spesso contraddittori, sulla carta a correzione del piano in esame, apportando così una complicazione tale che, per evitarla, si cercano tutti i mezzi per eluderla.

Questo c’insegna la pratica: e questo ho voluto dire, per giungere alla conseguenza che, sino a quando l’esame dei piani regolatori non sarà fatto da un corpo tecnico unico, in cui siano rappresentati tutti gl’interessi da tutelare, l’interesse economico, monumentale, paesistico, di viabilità, d’igiene - posti questi interessi sulla stessa base d’importanza - si avranno sempre a deplorare inconvenienti, tanto più gravi in quanto, dopo la approvazione del piano, sono irrimediabili. Si chiede, insomma, quel che il Capo del Governo volle per Roma. Vero è che nulla vieta ai Podestà di nominare delle Commissioni speciali, come quella di Roma, per l’esame dei piani regolatori delle rispettive città; ma, a prescindere che esse, di natura discrezionale del podestà, non evitano l’esame dei corpi superiori tecnici, di cui abbiamo discorso, nessuno vorrà negarmi che codeste Commissioni, se fossero prestabilite per legge, avrebbero ben altra autorità e sarebbero assai meglio costituite e più rispondenti ai varii interessi in giuoco. Sono convinto che, presto o tardi, si dovrà giungere a ciò.

Ma intanto l’Ufficio che ha, come quello a me affidato, la grave incombenza di applicare la legge in difesa del paesaggio italiano, non può non preoccuparsi di questo stato di cose in fatto di piani regolatori. Esso si trova spesso di fronte a precostituite posizioni di diritto, che non è possibile smontare. Una di queste posizioni formidabili è, come ho già detto, la presa di possesso delle aree. Si ha un bel dire: applicate rigorosamente la legge, e fate che un edificio, destinato a essere di cinque o sei piani per compensare il prezzo elevatissimo dell’area, sia ridotto a due, oppure che là dove erano stabilite costruzioni intensive sorgano invece dei villini, o non venga costruito affatto. Le opposizioni, fondate su uno stato di diritto qual’è quello che nasce da un piano regolatore approvato, sono assai più gravi di quel che non si pensi. E poiché è innegabile in esse un certo contenuto di moralità e di economia sociale, è assai difficile far prevalere la nostra azione fondata su d’un principio di estetica. Io mi sto studiando di evitare queste opposizioni o di ridurle al minimo, facendo studiare, là dove ancora è possibile, dei piani regolatori paesistici, nei quali siano già preventivate (mi si perdoni questa parola prettamente commerciale) le provvidenze in favore delle bellezze panoramiche della città. Un primo tentativo stiamo facendo a Genova, dove sono stati inviati dalla Direzione Generale delle Belle Arti due giovani architetti, che lavorano a tale scopo d’accordo col Comune e sotto la direzione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna del Piemonte e della Liguria. Siamo in viva attesa. Ma intanto mi giungono voci di contrasti derivanti dal regolamento edilizio. Anche questa del regolamenti edilizi è questione grave che sarei tentato di trattare dinanzi a Voi. Ma il discorso sarebbe troppo lungo; ed ho già la sensazione di avervi stancati. Sarà piuttosto opportuno toccare brevemente qualche altro punto assai delicato della difesa del paesaggio; e poi chiedervi venia. Esso sta nella mancanza di coesione fra le varie Amministrazioni dello Stato, in tal guisa che spesso una agisce in senso contradittorio all’altra, punto sospettando il danno che ne deriva all’interesse pubblico. Ne abbiamo dato da tempo l’allarme, insistendo in vario modo sul fatto che i maggiori pregiudizi nei riguardi della conservazione delle bellezze naturali si sono verificati e si verificheranno, assai più che per il capriccio e l’avidità di lucro dei privati, per la esecuzione di grandiose opere pubbliche progettate e concretate con la sola preoccupazione del punto di vista tecnico ed economico, e trascurando completamente le esigenze della bellezza del paesaggio. Alludo non soltanto alle opere di spettanza diretta dello Stato o di altri enti pubblici (quali, ad esempio, le strade ordinarie, le bonifiche, le sistemazioni dei bacini montani, ecc. ecc.) ma altresì quelle lasciate alla iniziativa di persone o di enti previsti, ma sottoposte per il loro grande interesse politico-sociale a concessione o ad autorizzazione amministrativa (si pensi soprattutto alla materia delle concessioni di acque pubbliche e di aree demaniali). Pure qualcosa la nostra insistenza ha ottenuto: ed è da mettere all’attivo nel bilancio di questi otto anni in cui la legge paesistica è in vigore.

Avveniva, infatti, che nelle concessioni di aree demaniali, i Comandanti delle Direzioni Marittime e delle Capitanerie di Porto permettessero il sorgere sulle spiagge di troppi stabilimenti balneari di cemento armato, di caffè, di Kursaal, che ingombravano sconciamente bellissime passeggiate littoranee e ostruivano la vista del mare. Ebbene abbiamo ottenuto da S. E. il Ministro Ciano una circolare del 10 agosto 1927 che impone di chiedere il parere delle Sovrintendenze ai monumenti nei casi di concessioni di aree demaniali per costruzioni di carattere stabile. Contiene codesta circolare limitazioni e condizioni, che potevano essere trascurate; ma ad ogni modo è sempre qualcosa che avvicina a quella collaborazione delle Amministrazioni interessate, che fu sempre nei nostri voti. Una simile circolare ottenemmo da S. E. Giuriati, già Ministro dei Lavori Pubblici, a proposito delle derivazioni d’acque in rapporto specialmente agl’impianti idro-elettrici. Varrebbe la pena di leggerla, ma non è breve. Dico soltanto che è diretta ai Provveditori alle opere pubbliche, agli Ingegneri capo del Genio Civile, a S. E. l’Alto Commissario per la città di Napoli e provincia, e per conoscenza al Presidente del Magistrato delle acque e all’Ispettore per la Maremma Toscana. Si dispone con essa che nelle ordinanze per l’istruttoria di domande di derivazioni di acque pubbliche sia, di regola, inserito l’inciso che l’ordinanza debba essere comunicata in copia alla locale Soprintendenza ai monumenti, affinché questa, conosciute le caratteristiche essenziali dei progetti e la data per le visite locali, possa, ove lo creda, prendere visioni degli atti depositati e intervenire agli accertamenti sopraluogo. Come vedete, siamo ben lontani dal giorno in cui la nostra azione era considerata con diffidenza e tale da evitarsi in tutti i modi. Non abbiamo potuto ancora ottenere nulla di simile dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste; ma credo che già ci siamo vicini. Intanto la Milizia Forestale non ci ostacola, anzi devo dire che in molti casi ci ha favoriti dimostrando di comprenderci. Si tratta ora di giungere ad una piena cooperazione. Ed io non dispero di giungervi.

Non ho bisogno d’intrattenermi su questi due punti importanti della tutela paesistica: acque e boschi; poiché persone più competenti di me hanno assunto l’impegno di portare in questo convegno il prezioso contributo della loro esperienza. Dico solo che negli ultimi cinque anni lo sfruttamento intensivo del nostro paesaggio ci ha molto preoccupati.

[...]

E qui fo punto - chiedendovi scusa se troppo ho abusato della vostra pazienza. Sarei ben felice - e certamente voi con me - se da questo Convegno fossero per derivare delle pratiche utilità. Le discussioni serene e amichevoli, animate dal solo spirito di bene, sono le sole, che possano condurre a ciò.

Ordine del giorno votato all’unanimità in seguito alla discussione della relazione Parpagliolo:

Il Comitato Nazionale per la difesa dei monumenti e del paesaggio, riunito dal Touring Club nella sua sede il 1° febbraio 1931, fa voti che la legge 11 giugno 1922 N. 778 sia resa più rispondente all’altissimo fine della protezione della singolare bellezza paesistica d’Italia, e quindi modificata in quelle disposizioni che durante gli otto anni in cui è in vigore; si sono manifestate inefficaci”.

IMPORTANZA DELLA STORIA DEL TERRITORIO IN ITALIA

Partiamo da una domanda semplice e fondamentale. Perché è importante, in Italia, la storia del territorio? Certo, l’utilità di una tale storia vale ovviamente per qualunque altro Paese. Ma in Italia le ragioni della sua rilevanza rivestono un carattere del tutto peculiare. E questo, innanzi tutto, per motivi che riguardano il nostro passato millenario.Tuttavia, prima di svolgere le mie considerazioni debbo confessare di utilizzare con un certo disagio e insoddisfazione il termine territorio. Certo, si tratta di una parola polisemica, dunque utile, che ogni disciplina curva in maniera più consona agli aspetti che vuol trattare. Ma è un lemma che appare ormai inadeguato a designare il complesso di fenomeni che con esso tentiamo di abbracciare. La nozione di territorio, infatti, non si limita soltanto a designare il suolo, il terreno, ma comprende anche le acque, il clima, il regime delle piogge, la flora, la fauna. Nel territorio non ci siamo solo noi, esso non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema. A tal fine il termine habitat, che intercaleremo, come sinonimo, si presta forse meglio a togliere unidimensionalità a una parola che oggi appare, del resto, troppo logorata dall’uso.

L’Italia è un Paese profondamente riplasmato dall’azione umana, artificiale. In Europa è comparabile solo con i Paesi Bassi, che hanno dovuto lungo i secoli strappare la terra al mare attraverso il sistema dei polders. Ma nel nostro Paese il processo di civilizzazione è più antico e le forme della manipolazione dell’habitat più varie e complesse. Sereni, nella sua Storia del paesaggio agrario italiano ha ricordato come già Goethe avesse osservato, nelle sue peregrinazioni in Italia, la marcata originalità dell’impronta romana sulla Penisola. Una civilizzazione – fatta di ponti, acquedotti, cisterne, strade, porti, cinte murarie, ecc - che durava e operava sul nostro territorio come una "seconda natura".

L’Italia, d’altra parte, è stata per eccellenza una terra di bonifiche: vale a dire il teatro di quelle opere volte a prosciugare paludi, arginare fiumi e torrenti, colonizzare pianure. Tutte le popolazioni che si sono insediate nel tempo nei vari siti della Penisola hanno operato trasformazioni territoriali per fondare e sviluppare le loro economie ed edificare gli abitati. Gli Etruschi, com’è noto, hanno operato nell’Italia centro-settentrionale, i Romani nella Valle del Tevere – ma poi in tutti gli altri territori dove è giunto il loro dominio – i coloni greci nell’Italia meridionale. In età medievale la bonifica è stata il motore di vaste trasformazioni ambientali che hanno mutato il volto di intere contrade e dato impulso allo sviluppo dell’agricoltura. Nella Valle del Po i monaci Benedettini hanno promosso un’opera grandiosa di prosciugamento di paludi, dissodamento di boscaglie, conquista di terra fertile grazie alla capacità di attrazione delle rade popolazioni contadine tramite contratti vantaggiosi che implicavano la bonifica territoriale. Non dobbiamo dimenticare che nel Medioevo la pianura padana era ben lontana dall’avere l’aspetto attuale. Molte terre erano coperte dalle acque e le popolazioni si spostavano più facilmente in barca che per le vie di terra. Il Po non era un corso d’acqua disordinato e mutevole ed sondava in innumerevoli bracci, insieme a tanti altri fiumi alpini, per la grande pianura.

In questo stesso ambiente è stato d’altra parte avviata un’opera davvero grandiosa di utilizzazione delle risorse idriche. Sin dal Medioevo, soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte, sono state realizzate grandi canalizzazioni finalizzate al trasporto, ma anche all’uso dell’acqua per scopi di irrigazione .Nel XII secolo venne realizzato il Tesinello, cioè il Ticinello (poi Naviglio Grande) e nel secolo successivo il canale della Muzza, il più grande costruito in Europa fino al XVIII secolo. E un numero davvero notevole di canali, rogge, fontanili, sono stati costruiti nella Bassa Pianura in tutti i secoli successivi, toccando il culmine con la costruzione del Canale Cavour, in Piemonte, all’indomani dell’unità d’Italia.Per la sua costruzione si misero allora in piedi e si associarono ben 20 mila consorzi di proprietari. Tutte queste opere, indirizzate alla manipolazione e all’uso dell’acqua, hanno dato un grande impulso all’agricoltura, all’industria – grazie all’erogazione di forza motrice - e al commercio.Al punto che un grande ingegnere idraulico, ancora negli Trenta del XX secolo, ha potuto scrivere: "Ogni provincia dell’alta Italia guarda ai fiumi come alle leve maggiori della produzione ". Ma naturalmente questo secolare processo di derivazione delle acque fluviali ha impresso caratteristiche peculiari al territorio, e al tempo stesso ha plasmato anche la cultura delle popolazioni.Esse sono state obbligate per secoli a forme di cooperazione – come quella dei Consorzi, sorti fin dal Medioevo – per realizzare le grandi opere necessarie all’espansione delle attività produttive e del commercio.Naturalmente, anche nel’«Italia appenninica» lo sforzo delle popolazioni di attingere l’acqua e di impiegarla a scopi produttivi è stato intenso e continuo nel tempo, anche se ha prodotto modificazioni meno vistose nel territorio.D’altra parte, bisogna comprendere che nell’Italia centro-meridionale non dominavano i grandi fiumi alpini, ma i corsi appenninici, di natura prevalentemente torrentizia.

Tanto le bonifiche che i lavori idraulici hanno naturalmente interessato il nostro territorio per tutta l’età moderna e contemporanea. E in tutte le regioni d’Italia. Nel Regno di Napoli,ad esempio, soprattutto nel corso del XIX secolo, sono state realizzate importanti esperienze di bonifica ed elaborati studi e leggi di notevole modernità che sono stati poi ripresi e nella prima metà del XX secolo . I vari Stati preunitari, infatti, hanno continuato, con vario impegno e fortuna, l’opera avviata nel medioevo. Ma anche il nuovo Regno unitario dopo il 1861 ha avviato un sempre più incisivo processo di bonificazione soprattutto a partire dalla Legge Baccarini del 1882. Naturalmente qui non è possibile entrare nel merito di questa vicenda, che ha conosciuto successi e insuccessi nei vari ambiti della Penisola, ma su cui ha impresso un’impronta profonda e spesso – non solo nel bene –irreversibile. Quel che si vuole invece sottolineare è la straordinaria continuità del processo storico. Chi scrive ha potuto ricostruire tante opere di bonificazione realizzate in età contemporanea nelle varie regioni d’Italia grazie agli scritti (opuscoli, perizie, progetti, ecc) degli ingegneri impegnati in prima persona nei lavori di bonificazione. Ebbene, si può dire che non c’è scritto, di bonificatori attivi in Italia tra il XVIII e il XX secolo che, operando su un determinato sito, non contenga notizie storiche sulle bonifiche realizzate in passato in quella stessa area. Non c’è ingegnere che non si senta obbligato a fare un po’ di storia sulle attività che hanno preceduto la sua opera. Anche perché spesso, nel lavoro di scavo capitava di rinvenire le tracce delle opere precedenti, più o meno antiche. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, non solo della dimensione di lunga durata delle bonifiche sul nostro territorio, ma della ininterrotta stratificazione della manipolazione umana su di esso.

Bene, sin qui si è parlato di storia. E a questo punto – se ci fermassimo qui - qualcuno potrebbe dedurre che conoscere la storia del nostro habitat è importante per ragioni meramente culturali e morali: perché su di esso sono state realizzate grandi opere che è giusto non far cadere nell’oblio.Le giovani generazioni devono conoscere gli uomini e le vicende che hanno portato il paesaggio che hanno attorno ad assumere le attuali fattezze. In realtà non si tratta solo di questo, che già sarebbe tanto. Conoscere il passato senza fini utilitaristici è, infatti, un grande esperienza culturale formativa. E,’ prima di ogni altra cosa, un’opera di "bonificazione della mente", che, nella nostra epoca, è ormai piegata a considerare importante solo ciò che presenta una evidente utilità strumentale.

In realtà, la conoscenza del nostro passato è importante anche per ragioni civili e politiche rilevantissime che investono il nostro presente. Se così lunga e continua è stata l’opera di rimodellamento dell’habitat italico ciò non è dipeso soltanto dalla vetustà degli insediamenti umani e dall’operosità delle popolazioni, ma anche dalle caratteristiche fisiche del nostro territorio. Tante opere di bonifiche sono state necessarie perché l’orografia, la natura del suolo, la morfologia delle terre, il sistema idrografico le hanno rese necessarie. Il nostro è, infatti, un Paese geologicamente giovane, in continua evoluzione. Ricordo che l’Italia è il solo Paese d’Europa ad avere ben 4 vulcani attivi. E quindi il suo è un suolo di recente formazione, ancora instabile, segnato e funestato da una intensa periodicità di eventi sismici. Quasi la metà del territorio nazionale è soggetto in grado elevato alla funesta ricorrenza di tali fenomeni. E qui entriamo in un area di problemi nella quale l’importanza della storia del territorio appare in tutta la sua ovvia evidenza. Infatti, è solo grazie alla paziente ricostruzione della storia dei terremoti che noi disponiamo di una carta sismica con cui conosciamo anche la "storia sotterranea" del nostro suolo. E’ la ricostruzione del passato che ci informa sulla fragilità e instabilità di alcune aree, ci suggerisce le necessarie strategie dell’edificazione, i moduli di costruzione degli abitati e dei manufatti.

Ma il suolo peninsulare è segnato anche da molti altri elementi di fragilità. Abbiamo fatto cenno alle bonifiche nella Pianura padana. Ebbene, è il caso di ricordare che tale area ospita forse il più complesso sistema idrografico d’Europa.La presenza di molteplici fiumi e affluenti in uno stesso territorio espone queste terre a grandi esondazioni delle acque, in caso di piogge prolungate. Memorabile è stata l’alluvione del Po del 1951 ma anche in tempi recenti, nel 1994 e nel 2000 Ancora oggi, d’altra parte, in quest’area del Paese si estendono vaste superficie di terre ad altimetria negativa, vale a dire sotto il livello del mare, che necessitano della diuturna opera delle macchine idrovore per mantenersi asciutte. E’ il caso di rammentare che in quest’area si concentrano numerosi e molteplici insediamenti urbani e buona parte del complesso industriale del Paese. La conoscenza della sua storia, dei suoi caratteri e della sua trasformazione è dunque imprescindibile per governarne l’evoluzione, per tutelarne la sicurezza. E dovrebbero bastare questi pochi cenni per comprendere quanto la risorsa suolo sia preziosa in questa regione strategica del Paese. Essa dovrebbe essere tutelata, messo al riparo dalla frenesia del cosiddetto sviluppo che vorrebbe divorarlo con un’attività costruttiva senza fine.

Non meno esposta appare la vasta area dell’Italia peninsulare. Quella, per intenderci, dominata dalla dorsale appenninica. Come ben sapevano già alcuni tecnici dell’Ottocento, l’Appennino costituisce un immenso campo di forze in continua attività. Non si tratta di terremoti, ma di fenomeni più lenti e meno clamorosi, che operano tuttavia con continuità. Dagli Appennini, infatti, discendono innumerevoli corsi d’acqua che trascinano materiale d’erosione verso valle lungo i due opposti versanti della Penisola. Da millenni, questa dorsale è soggetta a un colossale processo di erosione che naturalmente si è accelerato in epoca storica, con i diboscamenti e il denudamento delle pendici montane e pedemontane.Sabbia, fango, ciottoli, massi, sono stati trascinati verso il piano dalle acque torrentizie dando luogo alla formazione delle cosiddette maremme. Così sono state storicamente denominate quelle boscaglie costiere, punteggiate di stagni e paludi, formate per l’appunto dai torrenti appenninici che a un certo punto non riuscivano più a sfociare in mare a causa dei materiali da essi stessi trascinati, che occludevano la foce. Molti dei laghi costieri dell’Italia centro-meridionali si sono formati grazie a questa dinamica territoriale. Tale vicenda fa comprendere almeno una delle regioni del carattere storicamente continuo dell’opera di bonifica lungo le nostre pianure litoranee. Ebbene, è il caso di ricordare che, almeno a partire dal Basso Medioevo fino agli anni Sessanta del Novecento, questo gigantesco processo erosivo è stato almeno in parte controllato e filtrato dalle popolazioni contadine insediate nelle colline poste fra la montagna e il mare. Le famiglie mezzadrili, che per secoli hanno operato in Toscana, Umbria, Marche e ai margini di altre regioni non hanno solo provveduto a produrre derrate agricole per sè e per i loro padroni, ma hanno compiuto al tempo stesso un’opera tanto oscura quanto preziosa di manutenzione del territorio. Sono stati, infatti, i contadini a creare e tenere sgombri fossi e canali per il deflusso dell’acqua piovana, a erigere e riparare muretti di protezione, a piantare alberi, a controllare frane e smottamenti.

Anche in questo caso la storia ci informa di una rilevante novità. Queste figure sociali che facevano manutenzione quotidiana del territorio, questi controllori del nostro habitat collinare non esistono ormai più da decenni. Tutta la vasta area delle colline interne è abbandonata a se stessa. Dunque, un elemento in più di fragilità si è storicamente aggiunto negli ultimi decenni. Non cè bisogno di spendere altre parole per sottolineare la portata strategica, per l’avvenire delle nostre stesse pianure, di una consapevolezza storica su questa grande area dell’Italia peninsulare.

Naturalmente, per un Paese come l’Italia, l’importanza della storia del territorio non risiede soltanto nella consapevolezza della sua vulnerabilità e fragilità. Esiste un passato del nostro territorio che è importante conoscere anche per altre e più positive ragioni. Senza una conoscenza storica profonda come si fa a operare in una «terra di città» quale l’Italia è stata ed è, in maniera originalissima e dominante ? Come si può essere urbanisti, in Italia, senza essere al tempo stesso storici? Tutti i manufatti urbani di cui è disseminata la Penisola e le isole, frutto di molteplici stratificazioni di epoche e civiltà, non sono governabili né tutelabili senza la conoscenza storica della loro formazione nel tempo. Nel loro passato, dunque, e nella coscienza civile dei contemporanei si racchiude il nucleo del loro valore. Quel valore che dovrebbe stare a cuore a ogni cittadino e motivarlo alla sua custodia. Ma questo dovrebbe ormai essere ovvio. Per lo meno per chi è ancora in grado di pensare.

Bibliografia essenziale.

E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari 1961

P.Bevilacqua, M.Rossi-Doria, Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, Laterza, Bari-Roma 1984

P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazioni e trasformazione dell’agricoltura tra Sette e Novecento, in P.Bevilacqua ( a cura di ) Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I. Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989

P.Bevilacqua,Tra natura e storia.Ambiente,economie, risorse in Italia, Donzelli Roma, 1996

AA.VV: Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980.Istituto Nazionale di Geofisica, Storia Geofisica Ambiente (SGA), Bologna 1995.

P. Bevilacqua, Sulla impopolarità della storia del territorio in Italia, in P.Bevilacqua e P.Tino ( a cura di ) Natura e società. Studi in memoria di Augusto Placanica, Donzelli, Roma 2005.

F. Cazzola, Il Po da risorsa delle popolazioni padane a fonte d’inquinamento, in « I frutti di Demetra», 2005, n. 8

Titolo originale: A New Park – Ricerche, editing, traduzione, a cura di Fabrizio Bottini

Speriamo che gli sforzi per realizzare un nuovo grande Parco nella nostra Città siano coronati dal successo. È una delle cose di cui New York ha bisogno, di cui ha assolutamente bisogno. Possiede quasi tutto il resto. Le sue dimensioni fisiche iniziano a sfidare e competere con quelle delle più popolose città d’Europa. Lo spirito dei tempi è con lei. Disdegna i ritmi lenti della normale crescita, balzando in avanti nella corsa alla ricchezza e grandezza, quasi fosse sospinta dal vapore e dall’elettricità. Apre le sue porte ai figli vagabondi della terra, che qui trovano la loro casa. Preme sulle acque che la imprigionano e spinge la propria strabordante popolazione a cercar casa nelle vicine contee e stati. Importuni, uomini e imprese bussano alle porte del Common Council per il permesso di trasportare lontano a dormire il nostri concittadini, e riportarli poi la mattina per le faccende della giornata.

L’Isola che occupa è troppo piccolo per lei. Invade I fiumi, e ha ricavato nuove strade nei loro letti. L’eccesso delle navi che si affollano lungo i suoi numerosi moli, trova approdo nelle acque di Long Island o New-Jersey. Nuove, popolose città le crescono attorno, formate da chi viene sospinto oltre i suoi confine, e che può legittimamente considerare parte di sé stessa. Da un lato, un continente in crescita riversa in lei ricchezza e popolazione; dall’altro, il mondo contribuisce alle sue risorse. La situazione instabile del Vecchio Mondo, pure contribuisce alla sua crescita, accelerando e moltiplicando le prue delle navi che puntano verso il suo porto. Le sue strade si affollano sino a soffocare. Tra le ruote che scorrono, il pedone è a rischio. Su due lati del triangolo isoscele si è raggiunta la massima possibilità di crescita. In queste direzioni non è più possibile espandersi, a meno di non superare gli instabili confine del mare. Può solo crescere verso l’alto. Nuovi imponenti edifici si infittiscono, troppo numerosi per contarli. Masse solenni si ergono nel sole. Opulenza e solida grandezza si fanno sempre più visibili, giorno dopo giorno. Il nostro commercio si alimenta della linfa vitale di tutte le nazioni della terra.

Nel pieno di questa fiera lotta per la ricchezza, di questo intenso scontro commerciale, c’è il rischio che si possano dimenticare alcune delle piccole gioie e amabili aspetti dell’esistenza: quelle influenze meditative che nutrono e calmano l’anima. Siamo soprattutto alla ricerca del primato negli affari. Facciamo in modo che non sia solo così. Per quanto gloriosa sia la supremazia commerciale, per quanto indice di grandi vantaggi e poteri, ricordiamoci quanto è dovuto alla bellezza e al riposo: che esistono altri aspetti della mente da coltivare, oltre al calcolare centesimo per centesimo; qualità che il nostro successo ci consente, se lo vogliamo, di coltivare ancor meglio.

Pensiamo che, se il progetto di costituire un nuovo, grande e magnifico Parco si porterà a termine con successo, si sarà realizzato un passo importante nel distogliere l’attenzione del pubblico sul solo svolgimento degli affari: verso l’apprendere che queste attività non sono l’unico fine e scopo della vita.

Questo luogo di piacere eserciterà un’influenza benefica sulla salute della Città. Non c’è forse altra città al mondo che si collochi in una posizione tanto salubre quanto New York: affacciata sul mare su ogni lato, con due grandi fiumi che la lambiscono sui fianchi e soffiano una brezza salutare attraverso le strade, mentre l’Oceano ci permea della sua atmosfera salina, frizzante della fragranza delle onde. Nondimeno, qui esiste una grande concentrazione di umanità. Più di un milione di polmoni lavorano di continuo, giorno e notte, a respirare l’aria della città, molti dentro a vicoli affollati sino all’eccesso, a edifici colmi sino a traboccare. Non abbiamo uno spazio adatto per poter respirare. Se un uomo ci prova, a respirare a fondo, sulla Broadway, si ritrova a boccheggiare polvere, anziché ossigeno. Si può annusare un po’ di brezza sulla nobile Battery, ma ci sarà il costante viavai di carri e omnibus tutto attorno. Il commercio ha usurpato tutto lo spazio. La gloria della Battery è sparita. I nostri concittadini non la frequentano per la sosta, e per tutto ciò che riguarda salute e divertimento, un’onda si abbatte su antiche mura, invano.

Quanti pochi comparativamente i bambini che, dopo aver aperto gli occhi nei confini cittadini, riescono a sopravvivere! Non abbiamo tabelle statistiche a portata di mano, ma possiamo supporre che la gran maggioranza, prima di raggiungere il decimo anno, sia portata alla tomba. Migliaia di vite umane che, nell’aria pura della campagna sarebbero sopravvissute per contribuire alla ricchezza, al sapere e all’onore della nazione, sono così prematuramente perdute. Certo, senza alcun dubbio è vero che questa mortalità sia attribuibile a una grande varietà di cause. Ma per rimuoverle, dobbiamo combatterle una alla volta. Dobbiamo spezzare la fascina bastone per bastone. Messi tutti insieme, sono troppo resistenti per la nostra forza. Non ultima, fra queste cause, è l’aria corrotta, la reclusione all’interno degli edifici a cui sono costretti i nostri bambini. Carcerati dentro casa. Se si avventurano all’esterno, il pericolo di incidente per loro è maggiore di quanto non siano I più lenti rischi della reclusione. Quale possibilità ha un piccolo, quando sono in pericolo gli uomini più forti e attivi, dentro il flusso tonante di una legione di carri e omnibus lanciati? Vogliamo spazi pubblici per la quiete, dove possa circolare aria pura senza alcuna interferenza, che i nostri concittadini possano frequentare a scopo di ricreazione e piacere.

Infondiamo un po’ più di Campagna nella nostra Città. Lasciamo che i nostri occhi gioiscano nel soffermarsi su qualcosa di diverso dalle interminabili facciate di mattoni e pietra. Facciamo sì che nasca un luogo di bellezza naturale, verdeggiante, nel mezzo dell’attuale aridità – che accolga nel suo grembo fitto fogliame, pieno d’aria fragrante che ci distolga dai nostri troppo assorbenti affari – ben tenuto e curato; ed entro questi confine ombrosi, le magnifiche creazioni artistiche – dove il genio porta le sue offerte, e Natura e Arte si mescolano ad evocare immagini di placida e serena bellezza – egualmente aperte al ricco e al povero – a contribuire alla gioia e all’elevazione del sano e del malato, dell’uomo contemplativo come di quello d’azione.

Non abbiamo un Parco, ora, degno di questo nome, o di dimensioni commensurate a quelle della città e dei suoi bisogni. Certo ci sono alcuni giardini, che potrebbero sparire dalla sera alla mattina, se non ci fossero leggi contro i piccoli furti: graziose gemme, magnifici, squisiti. Ma New-York dovrebbe avere un Parco di dimensioni e magnificenza proporzionate al proprio rango e popolazione, e con riferimento particolare al futuro che l’aspetta. Perché New-York è così parsimoniosa con la propria terra? É forse il Mondo Occidentale troppo piccolo per i Parchi? È possibile che l’Inghilterra, con la sua popolazione tanto più densa, compressa al suo interno dall’Oceano su tutti i lati, riesca a destinare nella propria Capitale spazi pubblici consacrati al riposo, in quantità tanto maggiore di quanto non accada nel nuovo Continente?

Se il Parco di cui abbiamo valutato la possibilità non si realizza in fretta, potremmo non averlo mai più. La crescita della città è così rapida, che esso sarebbe presto occupato in ogni possibile localizzazione, gli isolati costruiti a rendere impossibile la conversione del terreno su cui si trovano a prato e verzura. Ogni momento che passa, aumentano i valori delle aree. Ogni giorno di ritardo va a serio detrimento dell’impresa. Si deve agire subito, o rinunciare per sempre.

Nota: come precisato nell'occhiello, questo dal New York Times è soltanto uno dei tanti editoriali attraverso i quali l'opinione pubblica più avanzata della città cerca di spingere l'amministrazione ad agire in favore del Parco. Un processo iniziato con una serie di interventi del poeta e intellettuale William Cullen Bryant sulle pagine dello Evening Post nel 1844, a cui si aggiungeranno altre figure di grande prestigio, fra cui il fondatore della landscape architecture moderna, Andrew Jackson Downing. Indipendentemente dal suo specifico valore nella storia del parchi urbani, il Central Park ha anche un ruolo fondativo per quanto riguarda l'urbanistica moderna: rappresenta infatti una vistosa correzione del piano esclusivamente "di mercato" per Manhattan del 1811, sottraendo all'edificazione per tempo una grande superficie baricentrica all'insediamento, e considerata all'epoca di valore relativamente contenuto a causa dell'asperità del terreno e della presenza di alcuni impianti tecnici e militari. La valorizzazione, nelle forme che conosciamo ancor oggi, avverrà alcuni anni più tardi, dopo gli espropri e il concorso bandito dalla Commissione per il progetto generale di allestimento. Questo concorso per il Parco verrà vinto dal gruppo formato da Frederick Law Olmsted (che subentra a uno degli ispiratori originari: Andrew Jackson Downing) e Calvert Vaux; un ampio estratto della loro Relazione, pubblicato dal New York Times il 1 maggio 1858, è disponibile sul Mall nella sezione Antologia (f.b.)

here English version

Per inquadrare il potenziale ruolo innovativo degli usi civici nella riqualificazione dei territori rurali, introduco una definizione generale di “territorio” come ilbene comune per eccellenza. Il territorio è il prodotto di lunga durata di processi di civilizzazione e di domesticazione della natura che si sono susseguiti nel tempo trasformando il medesimo ambiente fisico in un evento culturale (il paesaggio urbano e rurale) attraverso relazioni coevolutive fra insediamento antropico e ambiente. Quando si parla di sostenibilità come insieme di risorse da trasmettere alle generazioni future, parliamo innanzitutto del patrimonio territoriale che ereditiamo da millenni di processi di territorializzazione. In Toscana l’impianto infrastrutturale che utilizziamo è principalmente etrusco e romano, il paesaggio che viviamo è quello del fitto reticolo di città medio-piccole medievali e rinascimentali, il paesaggio agrario storico che ammiriamo è quello mediceo-lorenese.

Questa immensa opera d’arte vivente (prodotta e mantenuta nel tempo dalle “genti vive”, come le ha nominate Lucio Gambi), il territorio appunto, deve essere considerato bene comune in quanto esso costituisce l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, un valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo, finalizzato alla competizione sul mercato globale.

Mettere al centro delle politiche pubbliche il bene comune “territorio” consente di perseguire la dimensione qualitativa, non solo quantitativa, dei singoli beni che lo compongono: acqua, suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e cosi via. La soluzione delle più importanti crisi ecologiche – ecosistemi, energia, salute, clima, alimentazione, relazioni città-campagna, impronta ecologica– passa attraverso la difesa e la valorizzazione dei caratteri peculiari di ogni luogo, nelle sue componenti urbane, naturali e agroforestali, perché è nella specifica modalità di interrelazione di queste tre componenti che si fonda in ogni luogo la forma puntuale della riproduzione della vita umana materiale e sociale.

L'insieme dei beni comuni che connotano ogni luogo e la sua specifica identità, dovrebbe costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e dei diritti dei cittadini rispetto ai singoli beni che lo costituiscono.

I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere preceduti e coerenti con un corpus statutario socialmente condiviso che definisce, con riferimento a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici.

Ma quali elementi del territorio possono iniziare un percorso di reidentificazione collettiva come beni comuni, non privatizzabili e non alienabili? Molti sono gli elementi in via di privatizzazione e sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: le riviere marine, lacustri e fluviali, molti paesaggi agroforestali recintati, molti spazi pubblici urbani (sostituiti da supermercati e mall), gli spazi aperti interclusi della città diffusa, delle villettopoli e della disseminazione dei capannoni industriali, le gated communities e le città blindate, i paesaggi degradati e anomici delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via.

In questo quadro di processi di deterritorializzazione, va sottolineato il potenziale ruolo innovativo che possono assumere gli spazi aperti agroforestalinella produzione di beni e servizi pubblici per la riqualificazione della qualità dell’abitare il territorio e la città. Ruolo che può richiamare, con forme e attori sociali nuovi, le complesse e integrate funzioni storiche di governo pubblico dei beni comuni (nella classificazione estensiva richiamata da Giovanna Ricoveri[1]), dei beni demaniali e di uso civico come classificati più specificamente, ad esempio da Pietro Nervi[2]: Inoltre diviene fondamentale il ruolo degli spazi agroforestali nella rideterminazione di equilibri sinergici fra città e territorio, e nell’elevamento del benessere delle città (l’agricoltura periurbana, i parchi agricoli multifunzionali, ecc).

Molte di queste funzioni di produzione di beni e servizi pubblici si fondano potenzialmente su microimprese a valenza etica (in campo ambientale, agricolo e sociale), in grado di riappropriarsi di saperi produttivi, artigiani, ambientali, artistici per la cura del territorio.

E’compito dei municipi, delle province e delle regioni[3], favorire l’insediamento di questi attori negli spazi agroforestali agevolandone le attività produttive, le forme associative, (contro il dominio esogeno della grande industria agroalimentare), promuovendo forme sperimentali di ripopolamento rurale nelle quali le attività di produzione di “ beni comuni” siano riconosciute per agevolare il ritorno dei giovani (incentivi per il recupero e la riqualificazione dell’edilizia rurale, dei piccoli centri urbani e delle infrastrutture storiche come i terrazzamenti, le piantate, i fossi, i canali; remunerazione delle attività di cura ambientale e del paesaggio; servizi tecnici alle aziende; agenzie locali di sviluppo; promozione di forme associative e cooperative; promozione del microcredito, tutela degli interessi dei titolari dei diritti di uso civico, ecc).

In queste linee di rinnovamento delle politiche municipali sugli spazi agroforestali, i beni demaniali e gli usi civici residui, invertendo la deriva in atto dell’alienazione e della privatizzazione[4], potrebbero essere valorizzati, in questo contesto più generale, come laboratori sperimentali per forme collettive di ripopolamento rurale; il tema della proprietà collettiva degli usi civici si potrebbe trasferire in forme associate e pattizie fra enti pubblici e produttori/abitanti per la gestione delle terre.

L’azione di ripopolamento con queste caratteristiche di uso sperimentale degli usi civici e dei beni demaniali potrebbe avere l’obiettivo di ricostrurire comunità locali consapevoli dei beni comuni e forme comunitarie per la loro cura e gestione, attivando sinergicamente funzioni produttive, energetiche, paesistiche, economiche, e di elevamento di qualità della vita delle città, rivalutando il ruolo degli agricoltori quali fornitori di beni e servizi pubblici.

In questa prospettiva che, a partire dai laboratori sperimentali dei territori gravati da usi civici, dovrebbe riconsiderare il ruolo generale degli spazi agroforestali, non è più sufficiente considerare il territorio non edificato come bene pubblico (che lo stato, le regioni e gli enti locali possono vendere per far cassa, come sta avvenendo per molti beni demaniali); occorre che sia considerato come un bene comune, che non può essere venduto né essere usucapito, alla stregua delle terre civiche storiche. Occorre pertanto ricostruire la geografia delle terre civiche e di quelle comunitarie, da usare come laboratorio di un modello di sviluppo locale alternativo, ecologicamente sostenibile.

Attivando queste politiche è possibile superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio e dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di molte componenti territoriali: innanzitutto riconoscendone il valore di bene (o fondo) comune dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici; e individuando forme di gestione attraverso processi partecipativi di cittadinanza attiva che consentano di riprendere il senso (non necessariamente la forma storica[5]) degli usi civici: la finalità non di profitto ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e, più in generale, beni e servizi di utilità pubblica generale; la comunità costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività territoriale, che in qualche modo si associano per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali della società locale; questo uso, essendo collettivo, conforma le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, la salvaguardia e valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e sostenibili (autoriproducibilità della risorsa), sviluppando forme di autogoverno responsabile delle comunità locali.

Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza è infatti che non si può dare una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi individuali in una società individualistica di consumatori[6]. E’ necessario dunque che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo, ovvero che sia agevolato un cambiamento politico-culturale (che ho denominato coscienza di luogo [7]) attraverso processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali , solidali e comunitarie[8].

La coscienza di luogo si sviluppa anche come attivazione (e riattivazione) di saperi per la cura del luogo: conoscenza densa e profonda dei valori patrimoniali dal punto di vista ambientale, estetico, culturale, economico; capacità di distinguere le trasformazioni coerenti con la loro tutela e valorizzazione da quelle distruttive; capacità di attivare saperi e tecniche per la loro trasformazione (riappropriazione di saperi ambientali, territoriali, produttivi, artistici, comunicativi, relazionali)

L’introduzione di questo terzo attore comunitario (attraverso la proprietà collettiva di beni comuni) nella gestione e governo del territorio, favorirebbe una trasformazione politica generale, nel senso di contenere i processi di privatizzazione e mercificazione di beni comuni e di riattribuire all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione del patrimonio civico; favorirebbe inoltre la ricostituzione di momenti comunitari di gestione delle risorse favorendo la crescita di economie solidali nel campo alimentare, ambientale, paesistico, turistico, artigianale, culturale, formativo

[1] “una prima categoria include l’acqua, la terra , l’aria, le foreste e la pesca e cioè i beni di sussistenza da cui dipende la vita….saperi locali, spazi pubblici, biodoversità;…spazi di autorganizzazione delle comunità locali; una seconda categoria comprende i beni comuni globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace… su cui non esistono diritti comunitari territoriali; una terza categoria è quella dei servizi pubblici: acqua, scuola, sanità, trasporti…”

G. Ricoveri, “Il passato che non passa” in: G. Ricoveri, Beni comuni fra tradizione e futuro,EMI, Bologna 2005

[2] a) produzione di beni: forestali legnosi e non legnosi, pascoli, frutti, selvaggina, prodotti dl sottobosco, qualità e tipicità alimentare, risorse del sottosuolo; reti corte di produzione e consumo, produzione energetica locale; b) produzione di servizi naturali finali: salvaguardia idrogeologica e valorizzazione dei sistemi fluviali, produzione di equilibri ambientali, conservazione della biodiversità, fruizione escursionistica, caccia e pesca, funzioni culturali (informazioni ecomuseali), funzioni estetico-paesaggistiche ; c) base territoriale di risorse naturali e antropiche trasmissibile alle generazioni future: il carattere intergenerazionale del demanio e degli usi civici ne determinano il carattere “costituzionale” di autosostenibilità nella riproduzione temporale delle risorse. In: Pietro Nervi, “La gestione patrimoniale dei demani civici fra tradizione e modernità” in G. Soccio (a cura di), Terre collettive ed usi civici , Edizioni del Parco del Gargano, Foggia 2003

[3]“In questo spirito, invitiamo gli Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) a salvaguardare e difendere gli usi civici presenti nel loro territorio, garantendone in primo luogo l’inalienabilità e la proprietà collettiva, contro il moltiplicarsi degli abusi e delle usurpazioni di interesse esclusivamente privato che oggi vi allignano e, d’intesa con i legittimi proprietari e le comunità locali, a favorire e promuovere forme innovative di gestione associata e cooperativa di questo patrimonio ai fini della salvaguardia e valorizzazione ambientale ed ecologica del territorio” (appello contro la privatizzazione degli usi civici promosso dall’associazione Ecologia Politica, 1995)

[4] “La Regione Toscana ha proceduto alla messa in vendita del patrimonio agricolo e forestale, attraverso la legge 9 del 29 gennaio 1997. Dopo avere reso disponibile ciò che fino a qualche anno prima faceva parte del demanio pubblico, gli enti locali hanno fatto un inventario dei loro beni individuando quelli suscettibili di vendita. La cultura della privatizzazione risulta ben evidente dal titolo stesso della legge dove si parla di “valorizzazione ed alienazione”: non può esistere valorizzazione senza appropriazione da parte di soggetti privati. Con questo orizzonte culturale, la legge ha permesso la vendita, in due successivi bandi, di circa 345 beni, comprati in parte dai concessionari (40%) e da soggetti stranieri (5%)”.

Riccardo Bocci, La privatizzazione delle terre pubbliche in Toscana , Relazione al Seminario:”Terra e usi civici in Italia”,Ecologiapolitica. Ricerche per l’Alternativa, in collaborazione con la Rete del Nuovo Municipio, Terra Futura, Firenze l’8 aprile 2005.

[5] ..”le comunità titolari dei diritti civici non esistono più, talora fisicamente – perché i vecchi contadini sono morti o sono emigrati lontano, in città – talora culturalmente – perché non sanno e non sono interessati a sapere dei diritti che pur potrebbero esercitare. La proposta che Ecologiapolitica avanza in proposito è quella di mantenere ferma la destinazione d’uso e il vincolo di incommerciabilità dei demani civici e insieme di iniziare a ricostituire le comunità proprietarie, associando in tutte le forme possibili i soggetti che vi hanno titolo – affidando per esempio la coltivazione delle terre e la manutenzione dei boschi a cooperative concessionarie, garantendo loro tutti i finanziamenti reperibili ed i servizi minimali: la casa, mediante l'acquisizione e il restauro degli abitati abbandonati; le strade, che vanno di regola risistemate e non solo per le gite domenicali; le scuole, che vanno riattivate, ecc., in modo che su queste terre si possa condurre una vita civile, traendone reddito ed assicurando nel contempo una gestione conservativa dell'ambiente”. In: G. Ricoveri, relazione al seminario Terra e usi civici in Italia, seminario Terra Futura cit.

[6] “fondamentali sarebbero, ove venisse attuato il ruolo della pianificazione paesistica, la tutela e la valorizzazione della proprietà collettiva….sono proprio le terre collettive a evidenziare che nessun funzionamento, normativa, azione di controllo, riuscirebbero a gestire correttamente l’uso sociale del territorio in assenza di consapevolezza da parte dei residenti e quindi di impegno da parte delle amministrazioni comunali” Pietro Federico, “Usi civici e ambiente” in Serafina Bueti (a cura di ) Usi civici, Grosseto, 1995

[7] vedasi il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000

[8] Il processo partecipativo deve consentire di avviare processi di trasformazione di produttori alienati e atomizzati, consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva, in cittadinanza attiva in grado di associarsi per la gestione e la produzione dei beni comuni, di decidere sul futuro delle città, di ricomporre le figure di produttore, abitante e consumatore ricostruendo identità comunitarie e relazioni sociali capaci di autogoverno e di pensare collettivamente futuro e di praticarlo.

L’homo civicus si da in una società civile che si associa e si occupa, attraverso un patto fra individui, gruppi, rappresentanze di interessi, della cosa pubblica.

Ambiente e paesaggio sono la stessa cosa, perché comprendono lo stesso complesso di elementi che normalmente chiamiamo oggetti, e che di fatto include quasi tutto quello che vediamo. Allo stesso tempo sono cose profondamente differenti. I logici direbbero che sono termini che hanno lo stesso significato, ma non lo stesso senso, perché si riferiscono a maniere differenti con cui le medesime cose si presentano. Nel mondo astratto della geometria non vi è però spazio per la storia, e tutto è sempre osservato con lo stesso sguardo. Al contrario, storia e ambiente sono diversi pur essendo la stessa cosa perché quel che è storicamente mutato è proprio la maniera di guardarla.

Che esista l'ambiente non è per nulla scontato.

L'ambiente non è affatto la natura. Perché questa diventi quello, è necessario che l'elemento umano, si chiami fuori e si opponga al resto, si isoli in posizione frontale rispetto all'insieme circostante, si riconosca una specificità che possa fondare il proprio eccezionale statuto. Il passaggio dalla natura all'ambiente presuppone insomma la stessa rivoluzionaria separazione che in pittura, con la prospettiva, riguarda la sistematica distinzione, in precedenza sconosciuta, tra primo piano e sfondo. Oggi per noi essa è abituale, ma prima del Quattrocento, cioè prima dell'inizio della riduzione del mondo ad un unico gigantesco spazio, non lo era affatto.

Il paesaggio viene applicato come modello conoscitivo quando ci si rende conto che la conoscenza dell'ambiente è molto più complessa, sotto il profilo politico e sociale, di quanto oggi normalmente si riesca a ricordare.

L'artefice di tale operazione si chiamava Alexander von Humboldt, lo scienziato berlinese che nella prima metà dell'Ottocento riuscì con i suoi libri a convincere l'intera borghesia europea (ma anche quella russa ed americana) ad abbandonare la propria attitudine contemplativa nei confronti della natura e a dotarsi invece di un sapere finalmente in grado di garantirle la conoscenza e il dominio del mondo. La strategia politico-culturale di Humboldt, figura-chiave dell'Europa ancora alle prese con il potere di marca aristocratico-feudale, si fondava sul riconoscimento del carattere fondamentalmente estetico della cultura in possesso dei rappresentanti della società civile, fino ad allora esclusi, specie in Germania, dal sapere di governo, dalla conoscenza delle discipline necessarie al controllo delle formazioni statali. È proprio a questo pubblico, di cui ancora prima di Baudelaire Humboldt riconosce la pigrizia, che egli si rivolge parlandone lo stesso linguaggio, quello dei lettori dei romanzi di Bernardin de Saint Pierre o di Chateaubriand e delle opere dei poeti e, appunto, dei conoscitori delle opere pittoriche dei paesaggisti olandesi e italiani. Il suo scopo era di trasformare tale cultura, di matrice letteraria e pittorica, in cultura scientifica, mutandone insomma dall'interno il significato. E proprio per questo il paesaggio (che per Humboldt era quello dei dipinti dell'Everdingen e del Ruysdael, oltre che dei Carracci) venne concepito come il primo stadio della conoscenza dell'ambiente, e come schema del mondo inteso come un'armonica totalità di tipo estetico-sentimentale, espresso attraverso un'originaria impressione sull'animo e cui è estranea ogni analisi razionale.

Con Humboldt il paesaggio entra dunque a far parte dei modelli conoscitivi della cultura occidentale soltanto sulla base di un vero e proprio processo di politicizzazione del dato estetico, funzionale al passaggio dall'assetto aristocratico- feudale a quello borghese o civile che si voglia dire del quadro europeo. Ed è urgente ricordare adesso tutto questo perché oggi avviene esattamente l'oppo- sto: dalla politicizzazione dell'estetico si è passati, nei confronti dell'ambiente e della sua analisi e gestione, all'estetizzazione del politico, con il conseguente rovesciamento dell'impostazione ottocentesca e la riduzione dell'ambiente al paesaggio stesso (cioè alla forma del prescientifico modello adoperato all'inizio per tentare di afferrare la complessità di quest'ultimi).

Prova ne sia la Convenzione Europea del Paesaggio adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 19 luglio del 2000, la cui filosofia ispiratrice è appunto basata sulla dichiarata sostituzione del paesaggio al territorio e all'ambiente come ambito per l'applicazione di politiche di salvaguardia, riqualificazione, gestione e progettazione all'interno dei singoli Stati. Il problema al riguardo consiste nel fatto che l'idea di paesaggio si fonda sul concetto di equilibrio, di armonia, sulla pacifica coesistenza degli elementi e sulla coerenza dei loro rapporti. Al contrario oggi l'ambiente è sottoposto a pratiche sempre più squilibranti, violente e distruttive che si traducono in effetti disastrosi. Si pensi soltanto alla crescente scarsità delle fonti energetiche e insieme ai sempre più evidenti cambiamenti climatici: entrambi sono dovuti alla globalizzazione, che per il momento non è nient'altro che l'estensione all'intero pianeta della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra un paio di secoli fa, e fondata sull'uso di combustibile fossile. Come dunque pensare il collasso, la crisi, il disastro? Aveva ragione Gregory Bateson: l'ecologia è qualcosa che prima di tutto riguarda la nostra mente, i modelli di pensiero con cui tentiamo di venire a patti con il mondo. E oggi abbiamo un disperato ed urgente bisogno di modelli nuovi.

Postilla

Il testo riassume la lectio magistralis svolta nell'ambito delle manifestazioni di Scienza e Ambiente, nell'aula absidale di Santa Lucia a Bologna. Al termine di due ore di rara intensità culturale, Franco Farinelli - allievo di Lucio Gambi - ha discusso coi presenti riprendendo i suoi rilievi alla Convenzione Europea del Paesaggio (punto di riferimento ormai acriticamente generalizzato delle attuali legislazioni in materia). In essa la sostituzione del "territorio" col "paesaggio" rimanda ad una valenza ideologica pericolosa che espunge la politica delle relazioni e della realtà a favore dell'estetica e della percezione individuale. In questo rovesciamento assoluto rispetto ad Humboldt (e a Kant...), il modello del paesaggio appare 'debole' dal punto di vista cognitivo, in quanto non adeguato ad interpretare e quindi anche a fornirci strumenti contro le alterazioni dell'ambiente e i disastri sul territorio.

Al termine, un'esortazione per tutti: " Il maggiore pericolo per la sopravvivenza dell'umanità sta nella nostra mancanza di coraggio di pensare cose nuove. Ci vuole rigore, fantasia...insomma quello che una volta si chiamava passione."

Giovanni Astengo, Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali, in Per la Salvezza dei Beni Culturali in Italia. Atti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del Patrimonio Storico, Archeologico, Artistico e del Paesaggio, Casa Editrice Colombo, Roma 1967, Vol. I, pp. 488-504

[…]

PRINCIPÎ PER LA TUTELA ELA VALORIZZAZIONE DEI BENI AMBIENTALI

1. - Nella prospettiva critica dei diversi atteggiamenti assunti nel tempo dall'uomo verso il suo ambiente - volta a volta contestato od assunto ad immagine di civiltà, guastato o custodito, abbandonato al disordine dell'agire indiscriminato ovvero ordinatamente strutturato per la vita comunitaria - è possibile, al di là di ogni singolo atteggiamento, una fondamentale continuità storica di coscienti attribuzioni di significato. In primo luogo, i rapporti uomo-ambiente si pongono, per la condizione medesima dell'umana presenza, in termini “culturali” elementari permanenti, intuitivi, consci ed inconsci, e per ciò stesso dotati della massima generalità, prima ancora d'ogni ulteriore apporto di specifici significati semantici e simbolici personalmente o collettivamente “aggiunti”. Paesaggio naturale, paesaggio umanizzato, paesaggio urbano: tutto ciò appartiene di fatto alla storia, nelle forme più disparate dei singoli apporti, in ragione della presenza stessa dell'uomo.

Presenza tuttavia non sempre qualificante. Se incontestabile appare il senso “storico” dell'agire umano nell'ambiente di natura, non sempre “civile” può dirsi il risultato dell'opera. Interviene qui, come successivo e complesso apporto di significato dotato di validità scientifica, la fondamentale revisione cui l'uomo è capace di sottoporre il proprio operato, nella sua qualità di soggetto di conoscenza, e conoscenza critica: al di là dei possibili errori di giudizio, e contro i sempre rinnovati tentativi di sopraffazione, i risultati dell'agire storico nella natura - gli ambienti “umanizzati” nell'accezione più estesa - possono essere riconosciuti come valori “civili”, e tendere così a tradursi gradualmente in, “beni culturali”, e cioè in patrimonio comune, in apporto testimoniale d'ampiezza universale -ovvero, contestati, ridursi ai meri valori economici ed emozionali della loro materiale consistenza in incessante divenire.

Ed è necessario notare come complesso ed articolato sia il contenuto di “civiltà” di cui tale processo è capace: poiché civile è certamente il Bene riconosciuto, in ragione del valore spirituale di cui esso è fatto testimone, ma altrettanto civile ne è la condizionante premessa intellettiva di conoscenza scientifica e di giudizio sistematico, come civili, ed in definitiva generatrici dell'intero processo, sono le conseguenze operative della tutela e della acquisizione culturale e spirituale alla disponibilità comune. Questi tre momenti appartengono indissolubilmente ad una unica ispirazione e valgono ad un medesimo intento, che appunto è il Bene culturale; nella fattispecie, l'ambiente civile, testimone della storia e dello spirito umano, e come tale riconosciuto, custodito, comunicato.

In questo senso si deve qui insistere sul significato preminente e prioritario che assume, a premessa di ogni decisione operativa, il riconoscimento della validità del concetto unitario di ambiente civile inteso come manifestazione culturale coerente della presenza umana; al di sopra delle pur innegabili e profonde differenze strutturali, dei contenuti eterogenei, delle diverse origini, finalità, tendenze specifiche, gli ambienti trasformati dall'opera dell'uomo, come del resto, negli stessi termini, i luoghi rimasti o restituiti, allo stato di natura, che l'uomo conosce e le cui suggestioni egli sa tradurre in immagine fantastica - tutti questi ambienti, già per se riuniti dalla loro mera continuità spazio-temporale, possono venir qualificati in sistema razionale unitario, se si riconosce la loro appartenenza ad un omogeneo tessuto di apporti testimoniali della cultura umana, che l'uomo operando ha impresso nell'ambiente e che può, ad un dato momento, riconoscere e valutare. E tale unità culturale del Bene d'ambiente deve identicamente affermarsi, non solo per ciò che è testimonianza di civiltà storica d'antica origine, ma anche per il significato culturale del nostro quotidiano intervenire nell'ambiente civile, le cui espressioni assumono quindi, come devono, il valore di segni del nostro tempo per il futuro.

2. - In tale prospettiva, l'ambiente civile si presenta come primo incontro, conoscitivo e critico, d'ogni uomo con la propria civiltà: bene culturale e testimonianza per eccellenza, dunque, di immediata e del tutto generale capacità di comunicazione.

Poiché esso si struttura, tuttavia, nei suoi termini di evidenza materiale e di, condizionamenti operativi, come un contesto organizzato con preminenti fini e valori economici, ogni riconoscimento scientifico di significato culturale, in quanto procede da motivi ispiratori e tende a finalità specifiche di ordine essenzialmente diverso, non può, a condizione di ridursi all'inutile, non essere dotato di strumenti efficaci d'acquisizione, tutela e comunicazione anche ove ciò richieda, come in effetti richiede, l'attenuazione e la subordinazione di ogni altro diverso e pur anche legittimo godimento. In altri termini, l'interesse culturale per un ambiente deve potersi manifestare con efficacia nei confronti d'ogni interesse diversamente finalizzato.

3. - Si deve qui subito precisare che, nei suoi termini concettuali, una struttura giuridica d'intervento nei confronti dei Beni d'ambiente, che sia realmente atta a disciplinare ogni uso a fini della disponibilità comune, deve necessariamente delinearsi come sistema complesso, capace di agire con provvedimenti eterogenei, in tempi diversi, con estensioni d'efficacia “cautelare”, in grado di operare anche nei confronti di altre normative in atto.

Occorre, come è ovvio, poter predisporre con assoluta efficacia ed immediatezza interventi per la tutela di un Bene ambientale una volta che esso sia stato criticamente riconosciuto ed ufficialmente dichiarato; sia a divieto di ogni alterazione proposta, che a ripristino integrale nei confronti delle manomissioni effettuate, che infine per il risanamento sociale, non meno che tecnico, delle strutture degradate nel tempo; ed a tali fini occorrerà anche intervenire con adatti strumenti di incentivazione o di storno nei confronti dei diversi interessi in gioco, onde orientarne e disciplinarne preventivamente le tendenze. E deve essere altrettanto evidente che tale azione, nei suoi aspetti sia repressivi che operativi, si estenderà con eguale efficacia, oltre il perimetro proprio degli eventuali Centri focali d'interesse storico, paesistico, artistico, all'intero tessuto connettivo ambientale che li accoglie ed in definitiva li determina spazialmente. Ma l'azione di tutela, oltre ad esercitarsi per la custodia del Bene riconosciuto, deve poter investire e sostenere l'intero articolato processo, sia nel preliminare momento del riconoscimento scientifico di valore culturale che nella conseguente azione comunicatrice.

Troppo sovente, infatti, si è dovuto assistere impotenti alla repentina deturpazione, quando non alla totale distruzione di ambienti di evidente ed incontestabile significato culturale, soltanto perché le procedure giuridiche per l'istituzione dei vincoli di tutela non consentivano interventi di tipo “cautelare” durante il loro faticoso svolgersi; in termini di paradosso, si potrebbe anche sostenere che tali deturpazioni venivano affrettate, se non determinate, appunto dalla manifesta intenzione di istituire essi vincoli, e dalla conseguente “corsa ai ripari” dei singoli interessi che ne sarebbero risultati in qualche modo disciplinati. Si è anche constatato, che non meno sovente neppure la presenza di un Piano regolatore vigente è valsa ad esercitare una simile protezione “preventiva” dei valori ambientali e ciò (a parte ogni errore di valutazione dei beni da proteggere, od ogni riposta intenzione di allentare le maglie della protezione), in ragione della insufficiente correlazione stabilita tra le due normative.

Si deve dunque affermare che se la tutela del “Bene culturale e ambientale” vuol essere conseguita, questa deve anche essere per sua stessa natura, preventiva, e come tale non soltanto esercitarsi sul bene già riconosciuto e dichiarato per conservarlo, ma con egual efficacia anche proteggerne l'integrità, con salvaguardia cautelare, durante l'intero momento del suo riconoscimento scientifico e giuridico; ed inoltre, nei casi in cui tale riconoscimento avvenga in presenza di altre normative già in atto, anche nei confronti di queste essa dovrà potersi esercitare, come conseguenza del principio della priorità assoluta degli interessi culturali su ogni altra qualità propria o attribuita ai Beni d'ambiente. Infine, anche per quegli altri ambienti di notevole interesse culturale, per i quali i procedimenti di riconoscimento scientifico e di dichiarazione non siano ancora stati istituiti, dovrà egualmente predisporsi la possibilità di una difesa efficace, sulla premessa transitoria di uno studio globale delle caratteristiche ambientali, e della promozione della procedura per il loro riconoscimento come Beni culturali. Non meno necessaria appare infine l'esigenza di una estensione operante del sistema di protezione al momento finale della più generale comunicazione del Bene riconosciuto e ufficialmente dichiarato. Si pongono qui problemi di ordine diverso: l'azione di salvaguardia cautelare ha ormai esaurito il proprio compito e la tutela, espressa come difesa, conservazione e incentivazione è in atto; e tuttavia l'intero processo finora svolto è valso soltanto a costituire un Bene culturale isolato, chiuso al libero godimento, od al più offerto ad esso per unilaterali e precari accordi o concessioni. In questi termini, l'acquisizione del bene dovrà dirsi ancora sostanzialmente inefficace, in quanto non raggiunta rispetto al suo fine istituzionale di divulgazione culturale. Occorre dunque che l'efficacia dell'intervento proceda oltre, e, provvedendo con priorità alla tutela dei Beni d'ambiente, determini al tempo stesso le condizioni per l'acquisizione permanente e l'uso a fini della libera disponibilità comune e del pieno godimento pubblico. Non si vuole qui sostenere che tale acquisizione debba significare solo passaggio di proprietà, bensì, nella generalità dei casi, istituzione di vincoli d'uso. Anche a tale riguardo ci si può dunque, in definitiva, esprimere in termini di “azione tutelare”, se pure esercitata a fini non più di conservazione fisica, bensì di disponibilità d'uso del Bene ambientale. A ciò si potrà anche provvedere, oltre e meglio che con l'eventuale corresponsione di indennità compensative per eventuali vincoli, con la predisposizione di incentivi economici coerenti con la disponibilità al libero accesso, tra i quali potrebbero ricordarsi, in particolare, per gli ambienti naturali ed urbani l'adeguamento delle infrastrutture ;per l'ospitalità, la sistemazione delle strutture viarie storiche e così via; restando il provvedimento dell'effettiva acquisizione in proprietà riservato ai Beni di eccezionale interesse, oltre che alla legittima rivalsa nei confronti degli inadempienti.

4. - Si deve dunque riconoscere che un rapporto operante che si intenda stabilire verso un ambiente umano di dichiarato valore civile e testimoniale, ovvero, in altri termini, che la tutela dell'immagine storica di Bene culturale che l'uomo scientificamente riconosce, impressa dal suo stesso ordinato operare, nell'ambiente della sua vita civile, non può esprimersi efficacemente se non in termini di diritto positivo, con assoluta priorità d'intervento, senza eccezioni a nessun titolo, e con estensioni della più ampia portata.

Ma un tale rapporto, nella misura in cui si vuole che sia vivo e fecondò, e cioè non solo formalmente efficace, ma anche non mortificatore d'uso, non può non tenere in conto la complessa natura anche economica propria delle realtà ambientali riconosciute come bene - e conseguentemente, pure nell'operare ogni inevitabile attenuazione o negazione di godimento che contrasti con gli obiettivi della disponibilità al godimento pubblico non deve, per conseguire tale disponibilità contestare il contenuto di viva umanità del bene. In altri termini, la tutela del bene non riesce ad esprimersi in misura adeguata attraverso l'imposizione, essenzialmente inerte di differenti vincoli, singolarmente imposti sulle cose ma al di fuori di esse, tanto più che un tale procedimento, quando anche riesca nonostante tutto a”congelare” l'ambiente, ed inevitabilmente ogni cosa in esso, troppo sovente ne contesta il significato e lo rende “inutile”, senza con questo accentuarne come dovrebbe la libera comune disponibilità. Tutto ciò si traduce pertanto, in ultima analisi, in una irrimediabile passività volta al lento disfacimento, e dà luogo all'equivoco, non a torto temuto, secondo il quale non è possibile salvare e trasmettere se non i beni culturali “inutili” alla civiltà del momento: gli ambienti abbandonati, le città degradate, i paesaggi incolti, i”monumenti” isolati, tutto ciò, insomma, che “non serve più all’uomo operante nella realtà presente.

5. - Ben diversi devono essere il significato ed il peso della tutela sulle realtà ambientali riconosciute come bene di interesse comune. L’azione di tutela, per quanto categorica debba essere, deve inserirsi senza violenza, ma con fermezza nella stessa natura delle cose, consentendone anzi -ma, ad evitare ogni sopraffazione, preordinandone essa stessa - l'uso adatto a fini specifici compatibili con la tutela. In concreto, ciò può ottenersi se il vincolo imposto sull'ambiente, o meglio inserito in esso, non contesta ma disciplina le positive tendenze di sviluppo, ordinate razionalmente in programma, che nell'ambiente si manifestano, o che in esso ci si propone di inserire e di volontariamente suscitare con specifici atti. In tal senso, soltanto l'intervento territoriale pianificato nei suoi termini globali rende realmente possibili ed operanti la imposizione e l'esercizio di correlativi vincoli di tutela, quale che possa essere la procedura istituzionale di questi, nella misura in cui consente alle attenuate facoltà d'uso e di godimento singolo le necessarie e misurate alternative od integrazioni ai fini di un godimento comune. Ancora, soltanto la formazione e l'attuazione di un Piano consente l'esatta commisurazione del vincolo tutelare e di fissarne i caratteri e i limiti come pure di individuare eventuali alternative di sviluppo socio-economico che dalla stessa tutela del bene traggano ragion d'essere, sia in rapporto alla realtà dell'ambiente che all'esigenza finale della disponibilità comune. E del resto, l'esperienza insegnacome ogni altra normativa settoriale, sancita a sé, risulti di fatto sempre “sfuocata”, anche e soprattutto in presenza d'un Piano, per quanti tentativi si possono fare dall'esterno per rendernela compatibile: conseguenza inevitabile di procedure separate, di poteri ognuno autonomo nel proprio ordine, di finalità diverse quando non contraddittorie, e conseguentemente di compromessi abborracciati per il meno peggio a favore di tutti, e sopra ogni altro i del bene culturale stesso, pertanto deboli ed inefficaci, e di agevole sopraffazione e decadenza.

6. - Da questo punto di vista assume poi rilievo ed efficacia del tutto particolari la già accennata capacità, insostituibile, del Piano ad inquadrare in visione unitaria e finalizzata tutti gli eterogenei provvedimenti che con diversi intenti si rendono necessari per attuare una scelta razionale di sviluppo socio-economico e conseguentemente la correlativa disciplinata trasformazione del territorio: nella prospettiva di una ordinata gestione urbanistica con cui il piano abbia continuità di esecuzione, infatti, trova la più opportuna sede, e la più valida garanzia di validità operativa, il principio del rispetto dei significati e contenuti culturali dell'ambiente. Ben sappiamo infatti come le disposizioni di legge, i programmi, le incentivazioni per lo sviluppo delle attività industriali, per l'espansione delle aree residenziali destinate all'edilizia popolare, per gli insediamenti d'interesse turistico, per le infrastrutture primarie e secondarie ed in generale per tutte le opere “pubbliche” , diano quasi inevitabilmente luogo, nel loro attuarsi, ad incongruenze, contraddizioni, sproporzioni faticosamente conciliabili, o del tutto inconciliabili, sia quando l'inconsistenza delle norme in atto, ovvero la carente volontà di osservarle, offrano via libera al disordine delle iniziative singole, sia anche quando il Piano, pur presente ed operante, di fatto urti contro questioni di competenza, di contraddizioni in contenuto ed in termini, di prestigio, o peggio; e ciò anche ove ogni provvedimento, ogni norma, ogni incentivo di per sé fossero buoni ed utili: di fatto, tutti si manifestano insufficienti a considerare in visione globale la realtà dell'ambiente oggetto della loro disciplina d'intervento.

Ciò in generale: ove poi l'ambiente, in cui tale sovrapposizione di iniziative si attua, manifesti quei valori paesistici, naturali o di civiltà che lo costituiscono in Bene culturale, un disordine come quello sopra descritto si tradurrebbe inevitabilmente come ampiamente si è tradotto in molti luoghi in vera e propria distruzione del bene stesso. Anche da questo punto di vista occorre dunque, positivamente, non un vincolo di mera conservazione allo status quo, inevitabilmente destinato ad essere deriso, combattuto e sopraffatto, riducendosi infine alla protezione accanita di qualche muro e di qualche riposta valletta; non questo, ma una gestione urbanistica globale degli interventi, che in presenza di un Piano finalizzato anche, ed anzi prevalentemente, alla tutela dei beni ambientali, sappia tradurne le prescrizioni e le indicazioni in una successione di atti operativi coerenti.

Ciò posto, ne consegue che solo il Piano urbanistico è lo strumento effettivamente in grado di regolare la tutela, la destinazione, l'uso e la divulgazione dei beni culturali nel contesto globale del programma di sviluppo territoriale, e diventa quindi obbligatorio strumento operativo a tali fini, quali poi che possano essere le procedure specifiche e la fonte di promozione dei beni culturali. Recependo le indicazioni di carattere generale espresse nella dichiarazione ufficiale dei Beni, il Piano darà ad esse configurazione operativa, non solo, ma le assumerà al tempo stesso come principi condizionanti per la totalità degli interventi di sviluppo sul territorio. Conseguentemente i Piani dovranno essere analiticamente studiati e predisposti, come meglio si dirà in seguito, sia per l'acquisizione di una documentazione scientifica e critica sulla consistenza dei beni culturali esistenti, sia dal punto di vista della correlata normazione degli interventi, che dovrà essere, conviene qui insistere su tale fondamentale concetto, già a livello dei Piani generali programmata e progettata in termini esecutivi. In una parola, l'attuale scissione, giuridica, concettuale ed operativa tra Piani generali che investono obbligatoriamente l'intero territorio e piani particolareggiati la cui formazione è facoltativa e comunque localizzata ad episodi singoli, deve essere contestata e superata: sulla premessa di un programma di gestione, il Piano generale si deve attuare esclusivamente attraverso Piani esecutivi, e dunque non altrimenti che tramite essi si determina e struttura, superando ogni fase intermedia di norme, autonome e sufficienti, di tipo “regolamentare”. Il programma di gestione poi implica necessariamente il concetto dell'attuazione programmata nel tempo e nello spazio, cioè attraverso una coordinata successione di interventi pubblici e privati, nell'ambito di aree, e di esse sole, prescelte per l'urbanizzazione o per operazioni di ristrutturazione, o di risanamento conservativo, o comunque di opere di piano (quali i rimboschimenti, i parchi e i giardini), così come di strade, impianti e servizi: il tutto coordinato con la redazione di programmi annuali o poliannuali di esecuzione.

7. - Considerazioni come quelle che finora si sono svolte attestano, nel loro insieme, che i beni d'ambiente contengono ed esprimono significati tali da trascendere, per la loro complessità, sia l'ordine materiale della realtà che in ogni aspetto li costituisce, che anche ogni eventua1e attribuzione di valore “culturale” che si volesse considerare in astratto come simbolo di accezione idealistica, come “categoria del bello”, immaterialmente distaccata per il godimento estetico; e conseguentemente, si conferma l'insufficienza istituzionale d'ogni normativa specifica che non sia anche coerente con una visione e una disciplina globali dell'ambiente, considerato nei suoi termini reali di spazio umanizzato, di contesto d'attività economiche e di luogo per la vita civile.

8. - A corollario di tale affermazione si constata la inadeguatezza di certi provvedimenti, a qualsiasi titolo istituiti, che esprimono idealmente la tutela dell'ambiente in termini unicamente “geometrici”, dimensionali, in una parola formali: l'eventuale definizione di distanze, di coni visuali, di perimetri di rispetto o di altri caratteri tecnici della medesima categoria, appare di per se non più che secondaria ai fini d'una operante disciplina che non si proponga soltanto la “difesa passiva” del Bene d'ambiente. Non possiamo non riconoscere a questo, sia esso unità ecologica allo stato di natura o struttura insediativa umanizzata, ed anche soltanto, in essi, ad ogni oggetto o gruppo d'oggetti di singolari caratteri, una complessità che ne trascende dimensioni ed attributi spaziali propri; lo spazio culturalmente rilevante d'una struttura urbana, ad esempio, non si limita nelle città storiche, ad alcuni momenti archi- tettonici di respiro “monumentale”, e neppure al contesto edilizio ambientale, detto da taluni “minore”, in cui questi si inseriscono: nella città storica il tessuto architettonico complessivo si inserisce, determinandola si, ma solo fisicamente, in una continuità di spazi “vuoti” la cui qualificazione culturale tuttavia, autonomamente ed originalmente, lo trascende assumendo forza e caratteri propri: strade, piazzette, giardini, orti, porticati, aperture di visuale al paesaggio agricolo o verso la penombra dei cortili, quasi come a fondali e “quarte pareti”, continuità di passaggi pedonali attraverso i risvolti delle cortine murarie, e poi alberi, muretti, fontane, pavimentazioni, fino al più minuto corredo di questo spazio inedificato -ininterrottamente il significato culturale è qui impresso e testimoniato e si svolge e si muta in discorso continuo.

Discorso poi che prosegue oltre la cerchia delle mura, e certo non si esaurisce in una qualche parziale estensione visiva geometricamente determinabile, ma che è costituito dalla struttura delle vie storiche che collegavano la città al territorio agricolo, e da questo stesso, almeno nella misura in cui è sopravvissuto alla distruzione delle disseminazioni sub-urbane indiscriminate; dalla connessa struttura, difensiva e produttiva, degli abitati minori sparsi nel territorio, e così via; in una parola, dall'intero ambiente naturale gradualmente trasformato per la vita civile. Ora in tale visione non vi è definizione geometrica di vincolo tutelare, non vi è provvedimento di difesa passiva preso a se che valga a proteggere l'ambiente civile nel suo pieno significato culturale e testimoniale, e che valga quindi a restituirgli la pienezza del suo valore di Bene offerto all'arricchimento spirituale di tutti; e ciò anche soltanto per il fatto che di per sé ogni sezionamento protettivo operato sul territorio, per quanto rigido ed efficace, ne distrugge l'unità non soltanto culturale, ma anche socio-economica, determinando, con la disciplina ed i limiti spaziali instaurati, sproporzioni ed errori di insediamenti e di sviluppo.

Non si vuole qui certo contestare l'utilità di simili accorgimenti tecnici e disciplinari, ma soltanto restituire loro l'esatto significato di strumenti operativi “secondari”, settoriali, di un più ampio programma globale; le scelte e le definizioni di luoghi, perimetri, visuali e così via, è l'estrema conseguenza disciplinare non solo di una lettura conoscitiva e critica di carattere scientifico, che al più ne giustificherebbe le dimensioni ma non ne qualificherebbe il contenuto positivo, bensì soprattutto della formazione d'un programma organico d'uso dei Beni medesimi - in una parola, d'un Piano - nel contesto della realtà geografica, economica, umana e di natura in cui essi si allogano e che essi contengono, e dalla quale viene loro la giustificazione ultima dell'essere Beni, culturali e testimoniali, e cioè storicamente presenti, al di là della semplice consistenza materiale di cose fatte e trasformate con pregevoli tecniche, e di aggraziato aspetto.

9. – Tali considerazioni valgono espressamente, come è evidente, per gli ambienti naturali, umanizzati od urbani, cui siamo abituati ad attribuire significato “storico” in ragione del permanere in essi di strutture originarie non trasformate od il cui processo di modificazione siasi arrestato nel tempo, sia di forme d'organizzazione produttiva, di costume, di tradizioni d'antica immutata origine civile. Non possiamo tuttavia non ammettere che l'esigenza di tutela ambientale, in termini di analogia, non debba programmaticamente estendersi alla realtà dei nuovi insediamenti ed ad ogni altra trasformazione ambientale in atto o futura. Non si tratta qui della salvaguardia dei valori culturali d'un ambiente esistente, bensì, si potrebbe dire “inversamente”, dell'attribuzione di significato culturale e civile ad ambienti futuri: opera non più “conservatrice” ma creatrice, che trae tuttavia, com'è evidente, la sua ispirazione da un medesimo intento di promozione culturale. Si può dire che la qualificazione delle nuove strutture insediative, come degli ambienti, il cui ritorno allo stato di natura sia in atto, come dei nuovi paesaggi umanizzati, è impegno coerente della nostra civiltà che in essi trova, come si è detto all'inizio, il suo primo incontro conoscitivo e critico con l'uomo: “bene culturale e testimoniale per eccellenza di immediata e del tutto generale capacità di comunicazione” e, pertanto, si deve aggiungere, insostituibile. Ma vi è di più: se è ovvio che ogni intervento ammesso in ambienti di interesse culturale debba apportarvi con la propria elevata qualificazione un contributo positivo all'integrazione dei valori tra cui esso si inserisce, non meno ogni nuova struttura insediativa che venga ad occupare un ambiente ancora culturalmente indeterminato è indispensabile che insieme alla propria determini la qualificazione di esso, che trasformandosi l'accoglie; come del resto insegna la storia di certi paesaggi italiani “minori” nei quali attraverso i secoli la sapiente opera umana, su un supporto di natura talvolta indifferente, mentre ne utilizzava per la vita sociale ed economica le risorse, perseguiva al tempo stesso con costante e coerente gradualità l'attuazione d'una cosciente immagine trasfigurata.

Il nostro tempo testimonia, per contro, i brutali interventi, di deturpazioni e distruzioni massicce ed indiscriminate, operate nella fr~tta, si direbbe con deliberata volontà di calpestare ogni eventuale attribuzione di significati culturali: valga per tutti l'esempio ormai illustre della Riviera ligure; ma si potrebbero proporre, ad un attento esame, altre immagini di strutture insediative di recente formazione, soprattutto a destinazione turistica, nelle quali certo più sottile, ma in definitiva non meno perfido è il tentativo di snaturare l'ambiente, con inserimenti non più di volumi di volgare brutalità, ma di false scenografie di vaghi valori pittorici, di pseudo ricostruzioni di folklore, non meno estranei in definitiva all'ambiente originario di natura che li accoglie, ed altrettanto lontani da ogni intento di qualificazione culturale: come le coste sarde testimoniano con “illustri” esempi. ; Si direbbe quasi che la nostra civiltà abbia saputo esprimere la propria più autentica ispirazione culturale proprio nei settori di intervento che a prima vista meno apparirebbero capaci di determinare la qualificazione culturale degli ambienti di natura: si vuole qui alludere alle infrastrutture per la grande viabilità, agli insediamenti produttivi altamente specializzati, sia per le attività primarie che secondarie; ed in generale alle “grandi opere”: tra i numerosi inserimenti sforzati od insignificanti, quando non errati, si trovano pur esempi di sapiente organizzazione delle nuove strutture nel paesaggio, e talvolta anche di coerente rielaborazione ambientale all'intorno.

Occorre dunque rifarsi a rinnovati approfondimenti culturali e tecnici, integrare i grandi programmi d'espansione, preordinare conseguentemente nuove norme, affinché in ogni nuovo insediamento la ricerca degli equilibri economico-sociali non vada disgiunta dalla cosciente assunzione di inerenti significati culturali. In tali nuovi indirizzi programmatici e giuridici non può non assumere preminente ruolo ordinatore il principio dell'attuazione integrata delle nuove strutture insediative: alla progettazione dei Piani esecutivi globali, atti cioè a determinare tema e programma in ogni loro aspetto tecnico, economico, sociale, formale, dovrà seguire una attuazione non più dispersa per iniziative singole di arbitraria estemporaneità, ma ordinatamente svolta secondo le priorità e i tempi stabiliti, con precedenza assoluta all'attuazione dei sistemi infrastrutturali e procedendo poi per nuclei omogenei alla formazione di unità socialmente qualificate per la residenza, il lavoro, la vita di relazione. A parte la doverosa qualificazione formale cui i singoli contributi sapranno dar luogo nell'attuazione dei programmi, un simile processo integrale dovrebbe, se sistematicamente adottato, offrire le più adatte garanzie di qualificazione culturale, fondamentalmente perché esso stesso già costituisce apporto di fondamentale rilievo scientifico e metodologico.

10. - Questi beni ambientali, antichi o nuovi, riconosciuti, dichiarati e organicamente protetti sono poi, in definitiva, destinati alla conoscenza scientifica ed al godimento comune. Si pone dunque il problema; già accennato, della loro disponibilità concreta, che può essere nella fattispecie dei beni ambientali, di semplice “visione” dall'esterno, ovvero piuttosto di più intima e vissuta partecipazione che presuppone la concreta possibilità d'accesso e di libera disponibilità. Nella misura poi in cui i beni ambientali sono generalmente parte del territorio abitato dall'uomo, si pone la distinzione tra l'utilità culturale, almeno in parte resa possibile dal fatto stesso della loro presenza per gli abitanti, e le possibilità concrete di offrire ad altri utilità dello stesso tipo: là distinzione non è oziosa se vale a precisare che l'intento divulgativo si esprime nell'offrire una disponibilità dell'ambiente simile a quella che consentirebbe l'abitarvi, con il risultato di una partecipazione intima e totale, di un godimento d'ogni più minuto aspetto, di un abbandono alla suggestione ed alle analisi più approfondite che la sensibilità e la cultura personali sanno proporre.

Tutto ciò, a parte il problema di singole iniziative di carattere scientifico, pone i termini programmatici per una più estesa e generale valorizzazione dei Beni ambientali riconosciuti e tutelati; in ultima analisi, per l'abbandono delle superate posizioni del Bene gelosamente conservato ed esposto per dovere, frettolosamente, alla visione del pubblico, ed una ulteriore affermazione dell'esigenza di godimento comune per ogni bene culturale.

Programma di estrema complessità, ove si pensi anche soltanto agli infiniti esempi in cui l'indiscriminato abbandono di alti valori ambientali al godimento privatistico ne ha prodotto la irreparabile compromissione; ove si avverta come la spinta degli interessi particolari, e tanto più negli ambienti qualificati ai quali è più intensa l'aspirazione di partecipazione, riesca di fatto a travolgere e spezzare le più ferree prescrizioni disciplinari; ove si rifletta che l'accessibilità diretta, dall'interno, ai Beni ambientali comporterebbe già di per se l'esigenza di profonde trasformazioni nell'uso tradizionale dei Beni medesimi, e nella loro stessa realtà spaziale. Anche da questo punto di vista, dunque, se non esiste disciplina di “difesa passiva” capace anche soltanto di contenere l'urto di questo violento impadronirsi del Bene ambientale per goderlo se non per sfruttarlo, se per contro la disciplinata disponibilità è appunto obbiettivo finale dell'intera opera di recupero e di tutela del Bene, consegue la necessità di non provvedere alla difesa soltanto con provvedimenti passivi che al grado massimo della loro efficacia ne produrrebbero l'isolamento, ma di formare programmi e piani che nella doppia prospettiva della più qualificata tutela e della disponibilità comune producano preventivamente e con gradualità nel medesimo contesto ambientale le premesse per un accesso collettivo non sconvolgente, ma integrativo o sostitutivo di precedenti equilibri, ed apportatore di nuovi incentivi di sviluppo disciplinato.

Ma contemporaneamente dovrebbe provvedersi ad una graduale “educazione” al godimento dei beni ambientali: sia nei termini più elementari del rispetto e della cura nell'avvicinarli, sia soprattutto nel senso sopra accennato di un ampliamento ed approfondimento di visuale e di capacità conoscitiva, per cui la disponibilità del Bene non venga di fatto goduta soltanto con frettoloso riferimento ai momenti salienti, eccezionali, ma come graduale appercezione dell'intero tessuto connettivo ambientale, nei suoi tratti minori, nei suoi saporiti risvolti di spontaneità artigianale, nelle sue articolazioni di percorsi storici dimenticati.

(E merita qui un accenno particolare il tema della disponibilità comune dei beni archeologici: salvo meritorie eccezioni, la norma è la concessione in visione di beni archeologici mobili strappati alla realtà dei con testuali ambienti, essi pure, e prima ancora dei singoli oggetti, beni culturali ambientali. Per contro appare incontrovertibile che anche per i beni archeologici si provveda alla divulgazione, conservandoli nel contesto storico, civile e territoriale da cui trassero origine e ragion d'essere, portando invece ivi, come le infrastrutture, i sistemi di trasporto e gli strumenti di comunicazione sociale oggi consentono, la presenza conoscitrice ad ogni livello - e lasciando poi alla riprova dei fatti la ipotesi, che qui si intende sostenere, che la “lettura” di tali apporti culturali nel loro ambiente nativo riuscirebbe ben più efficace ed agevole a quanti, anche senza la dote di singolari specializzazioni scientifiche, vi si potrebbero in tal guisa liberamente accostare).

Proseguendo le considerazioni più sopra svolte, pare a questo punto che si debba affermare, come loro conseguenza, la necessità di un decentra-mento infrastrutturale nell'ambiente: sia per le umane dimensioni storiche delle strutture viarie e degli spazi urbani ed umanizzanti negli ambienti d'interesse culturale, la cui integrità è premessa d'ogni intervento, sia per l'assoluta esigenza di non produrre sconvolgimenti nei loro equilibri socio-economici e formali con l'inserimento di massicce strutture dimensionate alla domanda, ma sproporzionate alla misura della realtà d'ambiente, sia infine per gli intenti “educativi” sopra accennati, il sistema delle infrastrutture necessarie per l'accesso e la libera disponibilità in dimensioni idonee dovrebbe articolarsi nell'intero contesto ambientale, utilizzando a tal fine non soltanto le maggiori strutture insediative, ma gli abitati minori, restaurati e riqualificati anche socialmente, nell'assoluto rispetto delle forme e dei più intimi valori d'ambiente; i casolari sparsi, le reti viarie ed i manufatti storici, in modo da portare già nell'intimo dell'ambiente stesso le possibilità d'accesso, di visione di partecipazione.

11. - Considerata dai punti di vista sopra esposti, la realtà dei diversi ambienti d'interesse culturale esige molteplicità di concetti, di metodi e di norme per ogni momento dell'intervento di tutela.

E così, se per i Beni ambientali paesaggistici ed urbanistici la disponibilità per il godimento è certamente comune finalità della loro dichiarazione, le tecniche per il loro conoscimento scientifico evidentemente si differenziano. Per gli ambienti paesaggistici avranno preminente significato, nell'analisi conoscitiva, innanzitutto la definizione dell'unità ecologicamente coerente, sia per gli ambienti allo stato di natura che per i territori trasformati dall'uomo in paesaggio tecnico-artistico; in secondo luogo, si procederà alla definizione dei caratteri tipici, nel complesso contesto delle formazioni secondarie sempre presenti; ancora, avrà rilievo la determinazione dei dati di economia e socialità prevalenti, ed insieme delle loro carenze e deformazioni strutturali; dovranno essere individuati i”centri focali” d'interesse paesistico e di convergenza socio-economica, nonché le aree di possibile intervento correttivo, evolutivo o del tutto innovatore per il raggiungimento di nuovi equilibri; si analizzeranno i sistemi infrastruttuali in atto, correlati al loro significato storico e paesistico, ma insieme alle presenti strutture produttive ed insediative del territorio, ed a future possibilità di adeguamento a condizioni diverse, a diversi pesi di presenza umana permanente o transitoria; e così via.

Con diverso metodo dovrà invece affrontarsi la realtà degli ambienti urbanistici; in essi la complessità delle componenti sociali e produttive, gradualmente trasformantisi all'interno di strutture rimaste alle, dimensioni originarie, e commisurate pertanto a tipi di equilibrio socio-economico generalmente diverso, assume significato prevalente nell'analisi conoscitiva, ove si tenga conto delle finalità, non di mera conservazione fisica, ma di tutela in termini di vita civile integrata e risolta, che caratterizzano nelle proiezioni operative i procedimenti di riconoscimento dei Beni culturali d'ambiente.

L'indagine della realtà “civile” degli ambienti urbanistici, si vuole qui ribadire il concetto, è inseparabile da ogni tentativo di conoscimento scientifico di essi; ciò premesso, basterà ricordare per il resto come le tecniche oggi disponibili, di rilevazione grafica, fotografica, aerofotografica, di elaborazione meccanografica e così via, offrano adatti strumenti per una annotazione integrale e sistematica delle forme, estesa dai “centri” tradizionali . d'interesse storico alla continuità dei loro ambienti nella minuta consistenza del loro tessuto “corrente”. Contro ogni equivoco, si deve qui insistere infine sul fatto che il rilievo scientifico d'un ambiente urbanizzato è significativo nella misura in cui è integrale; in esso devono dunque trovar luogo e manifesta denuncia critica anche le deturpazioni, le sovrastrutture sbagliate, gli inserimenti contrastanti ed ogni altro; e ciò sia al fine di ottenere l'immagine dell'ambiente nella sua integrale continuità di spazio, sia al fine di una critica sistematica con intento operativo progettuale e disciplinare.

12. - Indagini così complesse., si deve dire, assumono pieno significato ed efficacia soltanto a. condizione di essere strettamente finalizzate. Occorre evitare l'equivoco della raccolta indiscriminata e compiaciuta, praticamente illimitata, di dati e nozioni “non orientati” ; anche se si deve ammettere la obbiettiva difficoltà di un simile preventivo dimensionamento.

Inoltre, se è vero che il conoscimento scientifico dei Beni ambientali è correlato ad interventi attivi di tutela nel quadro d'un programma globale di sviluppo nel territorio, la raccolta dei dati e la loro elaborazione deve poter fornire conclusioni tempestive a tal fine; si pone dunque l'esigenza di predisporre lo svolgimento già in sede di formazione dei Piani regolatori, od al più a partire dalla loro adozione per le operazioni successive di intervento particolareggiato; così da consentire, in sede progettuale, una esatta commisurazione degli interventi e delle discipline giuridiche da instaurare alla realtà degli ambienti oggetto di tutela; ed in sede poi di gestione urbanistica dei Piani approvati, la loro graduale articolazione operativa in funzione dei pro- grammi periodici di attuazione. A tal fine converrà orientare le ricerche e le indagini alla compilazione d'un inventario completo dei Beni ambientali, con schede predisposte anche alla sintesi meccanografica, ed in funzione di codici di generale validità, in modo da ottenere per ogni intervento in programma una immediata e sistematica conoscenza critica dei caratteri culturali condizionanti; a pena, altrimenti, di sfasature sistematiche dei tempi d'intervento rispetto ai programmi, e di faticosi recuperi; ed in modo anche da ottenere schede raggruppabili tra diversi Inventari al fine di verificare le connessioni esistenti tra Beni ambientali sostanzialmente coerenti, ma di complessa articolazione amministrativa; nonché infine per ogni particolare eventualità di elaborazioni scientifiche a fini speciali.

13. - Con analoga, e maggiore, complessità si pone l'esigenza d'una molteplicità di concetti di norme, di metodi per gli interventi di tutela. Una prima affermazione, che qui si vuole ribadire, presenta tuttavia carattere di assoluta generalità: i vincoli di tutela, ed i conseguenti interventi, devono avere portata “cautelare” e cioè devono poter manifestare piena efficacia preventiva: in altri termini, gli interessi culturali devono essere difesi anche durante le procedure istituzionali; se non anche, in qualche modo, prima di esse.

Ciò premesso, venendo ad un esame più specifico dei tipi di intervento per i diversi ambienti, pare che, quanto agli ambienti paesaggistici, naturali od umanizzati, debba assumere particolare evidenza anche a fini di tutela la connessione, identificata nel momento conoscitivo sopra descritto, tra significato culturale dichiarato e contestuale realtà socio-economica. Occorrerà, in sostanza, provvedere alla “copertura” delle unità territoriali con sistemi di vincoli protettivi e, in particolare, al di sopra di ogni eventuale ripartizione amministrativa interna dell'area ecologicamente coerente. E poiché l'immagine paesistica protetta è in definitiva, almeno per gli ambienti umanizzati, la risultante di processi storici mossi da intenti produttivi e sia pure arricchiti da articolazioni. fantastiche, la tutela dovrà avere riguardo al recupero degli equilibri sociali ed economici che avevano consentito le primitive strutturazioni. Discorso questo da intendersi in termini di analogia, rispetto alle attuali condizioni di vita civile; e che richiederà pertanto complessi sistemi di incentivazioni, sovvenzioni, interventi di restauro a spese pubbliche, impianto di nuovi sistemi di irrigazione, di sfruttamento colturale dei terreni “marginali” e così via - se si vuole che il paesaggio protetto non sia destinato all'immobilità, all'abbandono ed in definitiva al ritorno ad uno stato selvatico.

14. - Quanto agli ambienti urbanizzati, l'esigenza del vincolo cautelare si manifesta necessaria e inderogabile nei confronti di abbattimenti, ricostruzioni e d'ogni altro intervento di grandi dimensioni; ma forse più ancora verso le deturpazioni minute, verso cioè quegli interventi, che ancora oggi si sogliono considerare di “ordinaria amministrazione” e sono benevolmente accolti e spesso affidati all'esame di commissioni “minori”: chiusura di portali e finestre., apertura od allargamento di vani esistenti nelle cortine murarie ; apposizione di nuove insegne, troppo spesso “luminose”; taglio di archi; rifacimenti in stile di elementi costruttivi alterati; rifacimento delle coperture con tegole nuove, accompagnato, come sovente avviene, da sopraelevazioni parziali al fine di utilizzare gli originari sottotetti; copertura degli orti con bassi fabbricati; nuovi accessi carrai e apertura di garage e laboratori nelle cortine murarie di contenimento dei terrapieni; e così via, indefinitivamente. A tali minute alterazioni, tollerate ed indiscriminatamente ammesse, se non favorite “per il decoro e l'ornato urbano”, si deve purtroppo la sistematica squalificazione degli ambienti urbani storici che caratterizza il tipo di “tutela” oggi vigente; tutela, la meno culturalmente impegnata che si possa pensare, in definitiva ipocrita, e che costituisce la più adatta premessa per successivi cospicui e definitivi interventi di rifacimento integrale nel tessuto, ormai in tal modo degradato.

Ancora, particolare efficacia occorrerà attribuire alle estensioni di tutela fuori delle unità urbanizzate di interesse culturale, nel loro ambiente insediativo; e ciò sia al fine di conservarne. i caratteri ed i sistemi infrastrutturali originari, in quanto sopravvissuti, sia per contenere ed ordinare le nuove espansioni fuori le mura, per le quali è indispensabile che, già a livello di Piano regolatore generale, si provveda allo studio, alla stesura ed all'adozione di Piani particolari con articolazione ed efficacia esecutive, poiché l'esperienza ha dimostrato che non solo nelle città storiche senza Piano, ma anche là dove il Piano, operante, si limitava a prescrizioni di zonizzazione, di indici regolamentari, e simili, le espansioni urbane hanno frantumato oltre che tali generiche resistenze, l'intero ambiente, costituendo cinture suburbane di infima qualificazione.

Le specificazioni prescritte dovranno giungere alla definizione completa e categorica dei volumi ammessi, degli spazi urbani, dei materiali costruttivi d'impiego obbligatorio, dei programmi di attuazione e delle stesse tecniche d'impianto ed esercizio cantieristico. L'attuazione dovrà procedere gradualmente per nuclei aggruppati, evitando ogni disseminazione e dando luogo prima di tutto alla formazione delle infrastrutture, il cui costo sarà ripartito fra gli utenti nella misura dell'entità di loro utilizzazione; il che pone, tra l'altro, l'esigenza di piani finanziari esecutivi, quindi di programmi, e, in definitiva, di gestione.

In questo senso si può notare che il vincolo “cautelare” conserva la propria validità per l'intero periodo di attuazione dei Piani, al fine del coordinamento degli interventi nel tempo.

15. - Si è già detto sopra quanto incida sui problemi di tutela l’esigenza finale della divulgazione dei Beni ambientali. Basterà qui aggiungere, a generale conclusione, che non può esistere interruzione tra i diversi momenti dell'intervento tutelare verso gli ambienti di interesse culturale; per conseguenza, ogni insufficienza, ogni inefficienza per quanto limitate possano apparire, sono destinate a condizionare negativamente l'intero processo. La realtà ventennale di progressiva distruzione del patrimonio culturale negli ambienti italiani testimonia, attraverso appunto tutta una serie di insuccessi delle normative volta a volta proposte e tentate con le più sincere intenzioni, e sempre sconfitte, che la tutela della cultura, in ogni sua manifestazione, si può proporre soltanto in termini di cultura, e cioè con azione sistematica e cosciente di conoscimento, di normazione, di intervento, di comunicazione.

Pare che le regioni, gli enti locali e perfino gli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali, “zitti, zitti, piano, piano”, serenamente ignorino, nell’esercizio delle competenze loro affidate in merito al controllo dell’osservanza delle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici, buona parte delle relative norme dettate dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e incisivamente modificato e integrato con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (d’ora in avanti: “Codice”). Per accertare l’effettiva sussistenza ed entità del fenomeno, occorrerebbe verificare, regione per regione, la legislazione, gli atti amministrativi regolamentari, gli altri atti amministrativi, gli strumenti di pianificazione, direttamente o indirettamente attinenti alla tutela del paesaggio, nonché i concreti comportamenti del sistema regionale-locale e degli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali nell’effettuazione delle verifiche della rispondenza delle proposte di trasformazione interessanti beni paesaggistici alle relative disposizioni, nonché nel rilascio dei conseguenti atti abilitativi.

Questo scritto non si propone un siffatto obiettivo, ma soltanto quello, estremamente più limitato, di ricostruire ed esporre le norme, attualmente vigenti, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, distinguendo, secondo una fondamentale opzione del “Codice”, quelle destinate a trovare applicazione “a regime” e quelle destinate invece ad applicarsi “in via transitoria”.

Preliminarmente, è il caso di rammentare che la Corte costituzionale ha chiarito, con ormai assai numerose pronunce, che il “Codice” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione).

Si sarebbe tentati di ricondurre alla prima categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione esclusiva dello Stato, aventi di conseguenza efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, proprio, essenzialmente, le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, e di ricondurre alla seconda categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione concorrente, aventi efficacia di “principi” da rispettare nella produzione legislativa regionale (all’entrata in vigore della quale ultima peraltro resta subordinata la precettività erga omnes e l’operatività dei “principi” stessi), essenzialmente, le norme afferenti ai contenuti, ai procedimenti formativi e alle efficacie della pianificazione paesaggistica. Ma sarebbe una terribile semplificazione. Infatti, anche alcune delle norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici palesemente richiedono, per essere pienamente applicabili, l’assunzione di determinazioni da parte delle regioni, che non si vede come non possano (o debbano) essere espresse nella forma di legge (regionale).

Per esempio, le regioni devono, ai sensi dell’articolo 148 del “Codice”, promuovere l’istituzione e disciplinare il funzionamento delle commissioni per il paesaggio, “di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica”, in assenza delle quali non potrebbero essere rilasciabili, per l’appunto, le autorizzazioni paesaggistiche, mentre diverse opzioni sulla loro composizione e sul loro funzionamento comportano diversificate conseguenze sui procedimenti di rilascio.

Ancora per esempio, le regioni, ove non intendano esercitare direttamente la funzione autorizzatoria paesaggistica, ma delegarne l’esercizio, devono farlo nell’osservanza del comma 3 dell’articolo 146 del “Codice”, essendo quindi tenute a effettuare tale delega “alle province o a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all'uopo definite […], al fine di assicurarne l'adeguatezza e garantire la necessaria distinzione tra la tutela paesaggistica e le competenze urbanistiche ed edilizie comunali”. E’ bensì ammesso che le regioni possano “delegare ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche”, ma ciò soltanto nel caso in cui la pianificazione paesaggistica (ovvero la disciplina paesaggistica dettata dalla pianificazione ordinaria) sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti (il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio), “e a condizione che i comuni abbiano provveduto al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici”. Si soggiunge che “in ogni caso, ove le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, il parere della soprintendenza […] resta vincolante” (fermo restando, ritengo si debba intendere, che dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, d’intesa con le predette amministrazioni statali specialisticamente competenti, può derivare la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento delle speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata).

Non risulta che in alcuna regione presentemente vigano disposizioni sulle deleghe della funzione autorizzatoria paesaggistica pienamente aderenti agli ora esposti dettati del “Codice”, talché ogni regione deve ritenersi impegnata a rivedere, più o meno profondamente (ma tendenzialmente in termini assai incisivi) la propria legislazione in argomento. La qual cosa, per il vero, non pare essere granché problematica, stante che quella che dianzi si è chiamata disciplina “a regime” dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici è previsto (comma 1 dell’articolo 159 del “Codice”) entri pienamente in vigore soltanto dopo il 1° maggio 2008, ovvero dopo la data, se antecedente, di approvazione di piani paesaggistici conformi alle relative disposizioni del medesimo “Codice”, o di adeguamento a tali disposizioni dei piani paesaggistici in essere. E nessuna regione si accinge ad approvare, in tempi brevi o anche soltanto medi, piani paesaggistici conformi alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, o varianti di adeguamento a tali disposizioni dei propri pregressi piani paesaggistici.

Anche l’unica regione che ha avviato, con grande solerzia ed eccezionale impegno culturale e politico, una propria pianificazione paesaggistica dopo l’entrata in vigore del “Codice”, attenendosi, seppure grazie a interpretazioni creative di rimarchevole intelligenza e saggezza, alle sue pertinenti disposizioni (ci riferiamo alla Sardegna), non potrà dirsi dotata in tempi brevi di un piano paesaggistico “concernente l’intero territorio regionale” (come esige il comma 1 dell’articolo 135 del “Codice”, con un disposto a cui la giurisprudenza della Corte costituzionale ha riconosciuto piena la dignità e la forza di principio fondamentale della legislazione dello Stato), avendo operato la scelta (sacrosanta!) di sottoporre prioritariamente e in tempi brevissimi a pianificata disciplina di tutela le parti più mortalmente a rischio del proprio territorio, cioè le fasce costiere e adiacenti.

Per cui i legislatori regionali possono tranquillamente procedere a rivisitare la vigente normativa delle proprie regioni, in argomento (anche) di procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attenendosi pienamente ai precetti del “Codice”, e quindi, tra l’altro, subordinando alle dianzi indicate condizioni la vigenza della disciplina destinata a trovare applicazione “a regime”, e differenziando da questa la disciplina destinata piuttosto ad applicarsi “in via transitoria”. Invece, tra i suddetti legislatori regionali, non è mancato chi (errando, ed errando gravemente) ha preteso di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” (nella sua versione originaria) come destinata a trovare applicazione “a regime”, prescindendo dalla condizione essenziale della vigenza di una pianificazione paesaggistica conforme a quella prefigurata dallo stesso “Codice”, e trovandosi oggi ancora più “spiazzato” (in conseguenza di alcune rilevanti innovazioni introdotte dal d.lgs. 157/2006).

Esposte queste corpose, ma necessarie, notazioni preliminari, è possibile dare conto assai sinteticamente (e omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza) delle norme, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attualmente vigenti, ma destinate a trovare applicazione soltanto “a regime”.

E’ stabilito (articolo 146 del “Codice”) che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo” di beni paesaggistici “hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni [nel rigoroso rispetto del comma 3, dianzi riportato e commentato, dello stesso articolo che si va ora esponendo] i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l'autorizzazione a realizzarli”. Che “l'amministrazione competente, acquisito il parere della commissione per il paesaggio […] e valutata la compatibilità paesaggistica dell'intervento […] trasmette al soprintendente la proposta di rilascio o di diniego dell'autorizzazione, corredata dal progetto e dalla relativa documentazione, dandone comunicazione agli interessati”. Che “il soprintendente comunica il parere entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data di ricezione della proposta”, e che tale parere, come già è stato detto, “è vincolante”, salvo il caso in cui la pianificazione paesaggistica sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, e sia intercorso l’adeguamento a essa degli strumenti urbanistici comunali (ma comunque non qualora le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche). Che “decorso inutilmente il termine per l'acquisizione del parere, l'amministrazione competente assume comunque le determinazioni in merito alla domanda di autorizzazione”. Che, decorsi inutilmente i termini stabiliti, “è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione alla regione, che provvede anche mediante un commissario ad acta”, e che “laddove la regione non abbia affidato agli enti locali la competenza al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la richiesta di rilascio in via sostitutiva è presentata alla soprintendenza competente”. Che “l'autorizzazione costituisce atto autonomo e presupposto del permesso di costruire o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.

Gli ultimi commi dell’articolo che si è appena sopra sunteggiato, riguardanti il divieto di rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria e le relative eccezioni, l’impugnabilità delle autorizzazioni paesaggistiche, le speciali disposizioni dettate in relazione alle attività minerarie e a quelle di coltivazione di cave e torbiere, richiederebbero, ognuno, resoconti e commenti di entità pari a quella di tutto il presente scritto, per cui ci si guarda bene dall’inoltrarvisi.

Anche per procedere a esporre, altrettanto sinteticamente (e anche in questo caso omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza, nonché disposizioni che richiederebbero peculiari e corposi commenti) le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che è prescritto trovino applicazione “in via transitoria”, fino al termine temporale di cui già precedentemente s’è detto, oppure al realizzarsi delle condizioni che pure già si sono precedentemente rammentate.

E’ stabilito (articolo 159 del “Codice”) che “l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti” e che “la comunicazione è inviata contestualmente agli interessati”. Che “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […], può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione” (formulazione che, alludendo espressamente a una valutazione “di merito”, palesemente vuole riproporre nel contesto del nuovo regime costituzionale e legislativo la possibilità di tale valutazione, la quale era stata negata nel previgente regime dalla giurisprudenza, che aveva sempre affermato essere il sindacato statale sulle autorizzazioni limitato ai profili di legittimità). Che “l'autorizzazione è rilasciata o negata entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla relativa richiesta e costituisce comunque atto autonomo e presupposto della concessione edilizia o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Che “decorso il termine di sessanta giorni dalla richiesta di autorizzazione è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione stessa alla soprintendenza, che si pronuncia entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricevimento”.

Come si è precedentemente fatto presente, stante la presente situazione della pianificazione paesaggistica in tutte le regioni italiane, non v’è dubbio che quella ora sunteggiata, e puntualmente sancita dall’articolo 159 del “Codice”, è la disciplina dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che dev’essere applicata. E oserei sostenere che, trattandosi di disciplina da un lato riconducibile a “materia” appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, e quindi, almeno potenzialmente, avente efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, e da un altro lato non richiedente, fattualmente, per trovare applicazione, l’assunzione di determinazioni regionali, è essa disciplina che presentemente dovrebbe essere fatto obbligo di osservare e praticare da parte delle amministrazioni presentemente riconosciute (dalle regioni, in base alla legislazione previgente) competenti al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche. E ciò anche laddove il legislatore regionale abbia preteso, come si è fatto presente dianzi, di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” come destinata a trovare applicazione “a regime”.

Stando a quanto si sente dire in molti e vari luoghi d’Italia, sembra invece che le diverse amministrazioni agiscano nei modi più diversi, ma raramente in quelli che sinora si sono sostenuti corretti.

Non soltanto a fini di accertamento conoscitivo di tale complessa fenomenologia, ma anche, e soprattutto, allo scopo di esercitare le irrinunciabili funzioni statali di coordinamento e di indirizzo, e di perseguimento e concorso alla garanzia del rispetto della legalità nell’azione amministrativa da parte di ogni soggetto istituzionale, sarebbe altamente auspicabile che il Ministero per i beni e le attività culturali attivasse quella generale e puntigliosa verifica che si è prospettata e auspicata nel primo capoverso di questo scritto.

Per non rassegnarci all’ormai famosa battuta per cui, nel nostro Paese, di legale resta soltanto l’ora. E per non confermare il destino dell’Italia d’essere “non donna di province [oggi di regioni], ma bordello”.

Piero Bevilacqua, Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli editore, Roma 1996, pp. 9-14

La natura che è protagonista nei quattro capitoli qui proposti non rappresenta ovviamente il mondo fisico dei naturalisti e neppure la realtà polisemica e ambigua dei filosofi, per i quali essa è a un tempo il sostrato fisico su cui poggia la società, l'universo, la totalità dell'essere e altre cose ancora. Più semplicemente, essa è la natura degli storici: vale a dire l'ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso. Si potrebbe dunque dire che il senso prevalente del termine si riconosce nella parola - propria del lessico europeo contemporaneo - di ambiente, il quale trova i suoi corrispettivi fedeli nei lemmi di Umwelt, environment, medio ambiente, environnement'[1]. Più decisamente, tuttavia, di quanto non succeda nella letteratura ambientalista, o di quanto non accadeva nella ricerca storica tradizionale, l'ambiente non è solo il contenitore fragile e vulnerato della pressione antropica, né l'inerte fondale su cui campeggiano le magnifiche azioni degli uomini. Esso costituisce al contrario un soggetto indispensabile e protagonista, la controparte imprescindibile dell'agire sociale nel processo di produzione della ricchezza. Prima di ogni cosa la natura è l'insieme delle risorse date: acque e clima, suolo e piante, aria e animali, irradiazione solare ed energia. Sotto forma di pianure e colline, di fiumi e torrenti, di piantagioni e di boschi, di macchie e agricolture, tali risorse si presentano tuttavia a un tempo come forze naturali e prodotti storici, risultati del lavorio millenario dell'azione umana che ha piegato il mondo fisico ai propri bisogni.

Natura domesticata, dunque, fatta servire a compiti produttivi dalle società che hanno di volta in volta calcato il pianeta, e che da tempo è diventata, essa stessa, un elemento del processo storico, una componente interna alla vita sociale degli uomini. Tutto ciò fa parte ormai del fondo più ovvio della nostra cultura, soprattutto di quella italiana, così lungamente intessuta di idealismo storicista, di umanesimo retorico, e comunque di negazione del mondo naturale. Meno ovvio appare oggi riconoscere a questo prodotto storico che è la natura una sua relativa autonomia rispetto all'azione degli individui, una produttività indipendente dalle sollecitazioni del lavoro, una esistenza dinamica, libera e preesistente agli stessi condizionarmenti della tecnica. E invece proprio tale dato costituisce oggi lo stacco più netto rispetto alle convinzioni dominanti, alle elaborazioni ciel passato, per alcuni aspetti alle stesse culture ambientaliste.

La natura, dunque, come il secondo soggetto, il partner attivo, insieme al lavoro umano, nel processo di produzione della ricchezza. Sicché l'economia cessa di apparire l'edificio solitario dell'uomo tecnico, poggiato sulla base di un mondo fisico inerte, e viene a riproporsi quale attività di cooperazione fra lo sforzo muscolare e mentale degli uomini e le risorse dei pianeta. L'albero che cresce e dà frutti non è solo il risultato dei coltivatore che pianta il sente, fornisce il concime e cura lo sviluppo, ma è anche l'esito dei lavorio oscuro delle radici e della chimica del suolo, del libero e gratuito irraggiamento dei sole, del vento e della pioggia. E il seme piantato dal coltivatore, passato di mano in mano, trasformato e reso irriconoscibile rispetto alle sue origini, è stato rinvenuto millenni addietro sulla superficie della terra, spontaneo dono della natura. Dunque, anche sotto questo aspetto, i dati naturali, manipolati nel corso dei tempo dagli uomini, e perciò divenuti storici, sono protagonisti attivi della produzione materiale.

E non si creda che l'esemplificazione sia limitabile al mondo agreste, quello che più agevolmente ancora oggi facciamo coincidere con la realtà naturale meno contaminata dalla tecnica. In realtà, la natura fa la sua parte produttiva anche all'interno della fabbrica contemporanea. I metalli scavati nelle miniere e trasformati in materie prime dalla manipolazione industriale - e dal linguaggio degli economisti - continuano a svolgere decisivi compiti produttivi in virtù delle proprie caratteristiche naturali, valorizzate dalla tecnica, di durezza, flessibilità, resistenza. Anche nel mondo più vaporoso dei gas, che prendono parte a tanti processi dell'industria chimica, la natura è signora, o quanto meno è partner cooperante, grazie al comportamento naturale di quegli elementi, regolato da leggi fisiche, possibilità combinatorie, che gli uomini hanno scoperto e manipolano , ma non creano da sé. E così dicasi per i campi di forza e le energie, e fra queste il dio petrolio, cavato dalle viscere della terra e diventato il cuore pulsante che oggi agita il pianeta.

Forse anche queste verità ora incominciano ad apparire un po' ovvie, o per lo meno non tanto clamorose quanto un tempo. Pure, esse sono rimaste per alcuni secoli sepolte sotto il peso di giganteschi edifici culturali che le hanno rimosse o addirittura cancellate. Primo fra questi, per ampiezza di influenza intellettuale, l'edificio del pensiero economico classico, che almeno da Adam Smith a Marx ha di fatto consacrato il lavoro umano come unico protagonista del processo di valorizzazione, e perciò stesso come il solo responsabile della creazione di ricchezza[2].

E tuttavia l'intento, lo spirito informatore dei saggi qui presentati non è semplicemente volto a ridare visibilità al mondo fisico, a ricollocare la natura al centro della vita produttiva. Noti si tratta soltanto di ricordare agli storici che ricostruiscono le economie del passato quale ruolo abbiano avuto le risorse disponibili, il legnarne dei boschi, l'acqua, il carbone, nel favorire o deprimere il corso della crescita e dello sviluppo dei singoli paesi, come faceva, inascoltato, Karl Wittfogel oltre sessant'anni fa`[3]. Certo, anche tale obiettivo rientra nelle intenzioni perseguite da chi scrive. Riconoscere nel processo di produzione materiale della ricchezza l'esistenza e il ruolo dell'altro, di una realtà esterna all'uomo, non vincolata ai rapporti sociali vigenti, di valore collettivo e di portata universale, è davvero l'inizio di tana rivoluzione culturale appena avviata. E la ricerca storica potrà fornire ad essa un contributo non marginale.

Pure, agli storici è offerta la possibilità di andare anche oltre la ricostruzione del ruolo protagonista del mondo fisico nello svolgimento dei fenomeni economici. Il rapporto degli uomini con le risorse non si limita a produrre beni e merci: esso costituisce in realtà il centro dello svolgimento storico e perciò coinvolge l'insieme delle relazioni sociali, le culture delle popolazioni, le regolazioni del diritto, la politica. È anche questo più vasto mondo che si vuole dunque esplorare da un punto di vista inconsueto alla cultura dellOccidente.

Un primo obiettivo delle ricerche storiche che seguono è perciò quello di sottrarre il lavoro umano alla sua astratta solitudine. Non è solo dallo sforzo fisico e dall'abilità tecnica del lavoratore o della macchina che nascono i beni, ma da uno scambio manipolatorio di questi con il inondo fisico. È noto che Marx - ricorrendo a una terminologia medico-biologica - aveva dato un nome suggestivo a tale rapporto, lo aveva chiamato Stoffwechsel, scambio (o ricambio) materiale o organico. Sotto la pressione del lavoro la natura viene trasformata, cambiata in oggetti materiali che poi entreranno nella circolazione sociale della ricchezza. Ma la ricostruzione storica - così come tutta la complessiva rappresentazione culturale della società - ha dato normalmente conto solo di questa successiva vicenda: raccontando il processo di appropriazione dei pezzi di natura ormai divenuti merce, e i rapporti di produzione e politici fra le classi ai fini del possesso e della distribuzione di queste merci. Al contrario, la storia effettiva dello scambio, del duro rapporto fra uomini e risorse non è stata mai intrapresa: la sua rappresentazione culturale ha illuminato solo la faccia sociale del lavoro, perché alla natura non è stato riconosciuto alcun ruolo produttivo. Eppure, nella rimozione storica della realtà fisica si condensa una pratica molteplice di oscuramento. Perché da un lato è la ricchezza, diventata potere sociale, politico, e culturale che tende a far perdere le sue tracce, a cancellare la propria provenienza, a nascondere il meccanismo di dominio sugli uomini di cui è all'origine. Ma per altri versi è la natura sfruttata dal lavoro urgano, attraverso rapporti sociali determinati, che viene del tutto oscurata: realtà di cui non si dà storia e svolgimento, essendo ogni processo di crescita, sviluppo, differenziazione, rappresentato come interno alla società, che parla solo di sé come di una realtà semovente. Una presunzione ormai millenaria, che i costruttori della rappresentazione sociale - i ceti colti che hanno avuto diritto di parola e che ancora costituiscono una sorta di sfera separata e posta in alto, lontana dai luoghi sporchi e monotoni in cui quotidianamente la natura si trasforma in merce - hanno collaborato a far crescere. È anche attraverso il loro specifico sapere, prevalentemen e umanistico e retorico, che è venuta imponendosi una rappresentazione dell'universo sociale che ha messo in ombra e quasi cancellato dalla storia il sapere tecnico, le conoscenze applicate, la sapienza empirica accumulata: quelle forme di manipolazione originaria della natura che si sono espresse nel lavoro dei campi, nell'uso delle acque, nell'adattamento del territorio, nella cura delle piante, nello scavo delle miniere, nella fabbricazione dei manufatti.

A Marx, per la verità, non era sfuggito - com'è stato di recente ricordato - che il lavoratore, cambiando la natura, cambia al tempo stesso la propria natura (verändert zugleich seine eigene Natur)[4]. E dunque da quel rapporto, dalla specifica qualità di quello scambio, egli viene trasformato, reso diverso dalla nuova forma di dominio e di sfruttamento che impone alla realtà fisica, dai mezzi tecnici dispiegati, dalla natura delle risorse che utilizza. Ma oggi noi possiarno vedere che tale trasformazione costituisce un intero universo sociale, un mondo assai poco esplorato e quasi ignoto, assai più esteso e rilevante nelle società del passato, e che rischia ormai di uscire dall'orizzonte della nostra stessa capacità di percezione, a causa del carattere sempre più tecnicamente mediato dei beni materiali con cui entriamo in contatto. Pure, quel rapporto di scambio che cambia gli uomini, costituisce il motore primari(- di ogni società, per quanto estesa e complessa possa essere la schermatura di quella natura irriconoscibile che è la tecnica. Ma proprio per tale ragione, in un'epoca nella quale l'industria ha ornai cancellato la presenza della natura nelle merci, il sapere storico incomincia a fornire i suoi antidoti, riscoprendo in profondità le relazioni primarie nel processo di produzione della ricchezza. Esso è peraltro in grado di rammentare che da quella relazione originaria sorge la prima e più profonda forma di cultura: quella che gli uomini, per l'appunto, sono costretti a elaborare, e a innovare continuamente, per piegare i dati materiali alle necessità della propria sopravvivenza. Osservazione empirica, invenzione tecnica, coordinamento organizzativo, gerarchia delle relazioni sociali e loro codificazione, procedono da questo impulso originario.

Certo, per sventare ogni trappola deterministica non bisogna mai dimenticare che il meccanismo della vita sociale e la costruzione delle classi, le loro dinamiche ed evoluzioni, non si esauriscono in quella relazione primaria. Esiste una storia degli uomini tra loro che costituisce il continente forse più vasto e più ricco delle umane vicende, e che può tranquillamente dimenticarsi dei suoi legami e della sua dipendenza dalla natura. E la storia, per l'appunto, come già si è accennato, al pari degli altri saperi sociali si è fondata, per così dire, su questa dimenticanza: come se la società altro non fosse che un'edificazione autonoma, un continuo processo di accumulazione sui propri dati costitutivi, svincolata da ogni legame e dipendenza dalle condizioni materiali su cui continuamente, in realtà, essa si riproduce. E non è certo difficile capirne il perché. Come è accaduto nel passato, e come continua ad accadere a tutt'oggi, esistono gruppi sociali e classi capaci di creare e godere prosperità comandando e pagando il lavoro altrui, lo scambio materiale con le risorse realizzato da ceti sottoposti, o sfruttando risorse che appartengono a paesi lontani, semplicemente facendo viaggiare beni, uomini e merci. La vicenda del commercio mondiale è stata in buona parte questa: ed essa non ha mai costretto i mercanti delle città a sporcarsi le mani nella terra o nelle miniere. È sufficiente d'altronde richiamare alla mente una verità sociale ben nota. Che cosa è la ricchezza se non il possesso, l'accumulazione e l'uso di beni prodotti da altri, quei beni che i ceti operai e contadini sono obbligati, essi sì, a produrre tramite il loro duro e diuturno scambio con la natura? E quanta storia autonoma è stata prodotta dall'alto di quel dominio sociale! La storia, per l’appunto, che gli storici si sono incaricati di raccontare, disincarnata da ogni legame con le oscure origini materiali del possesso e ciel potere.

E tuttavia quell'ambito per così dire primario della realtà sociale conserva un rilievo davvero non marginale per illuminare con nuova ampiezza i processi del passato, per aprire nuovi spiragli nella comprensione dei meccanismi della vita associata, dei processi di trasformazione materiale e di doininio. La necessità di produrre ricchezza in un delimitato territorio determina infatti l'elaborazione di forme specifiche di cultura, che marcano poi profondamente i saperi tecnici locali, le mentalità diffuse delle popolazioni, i loro comportamenti prevalenti, dando spesso vita a norme non scritte, a regole, patti, istituzioni che fanno poi la stoffa del processo storico. Si tratta di un ambito di realtà materiali c culturali, che hanno durate lunghe, difficili da rilevare e da misurare, che subiscono continuc rielaborazioni e adattamenti per effetto di eventi successivi e dell'incontro con altre culture, c che spesso compongono, nel loro sviluppo temporale, un arcipelago di durate diverse, stratificate. Tutte, a ogni modo sono produzioni storiche: e perciò deperibili e soggette a distruzione, come gli edifici e le civiltà.

L'Italia, nella sua straordinaria e antica varietà regionale mostra un campionario di grande interesse di tali realtà. E la loro esplorazione offre l'opportunità di portare nuovi punti di vista, contributi inediti alla storia e alla cultura nazionale.

[1]Una vasta ricognizione storico-semantica del termine è in L. Spitz, Milieu and ambiance an assay in historkal semantics, in «Philosophy and Phenomenological Research», iii, 1942-43.

[2]Si veda la radicale demolizione teorica che di quell'edificio ha compiuto, privilegiando il ruolo rimosso della natura, H. Immler, Natur in der ökonomisthen Theorie, Opladen 1955. Sul ruolo cooperativo della mura nel processo economico cfr. dello stesso autore Vom Wert dei Natur. Zur ökologischen Reform von Wirtschaft und Gesellschaft, Opladen 1990. Del primo dei due testi ho dato conto nel mio articolo :Natura e lavoro. Analisi e riflessioni intorno a un libro, in «Meridiana" 1994, 20.

[3]Cfr. K. A. Wittfogel, Die natürlichen Ursachen der Wirtschaftgeschichte in «Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1932, 67.

[4]Cfr. G. Böhhme-J. Grebe, Soziale Naturwissenchaft Uber die Wissenschaftliche Bearbeitung des Stoffwechsels Mensch-Natur, in Soziale Naturwissenschaft. Wege zu einerErweiterung dei Okologie a cura cli G. Böhme e E. Schramm, Frankfurt a. M. 1954, p. 30. Sullo sviluppo storico del concetto, M. Dencke, Zur Tragfähigkeit des Stoffwechselbegriffs, ivi. pp. 42 sgg.

Titolo originale: Progress hits Home – Traduzione di Fabrizio Bottini

NON POSSO FARCI NIENTE se voglio vivere nel passato: quel tempo di quarant’anni fa, quando c’erano ancora grandi spazi aperti per metterci i sogni, e sopra di essi un po’ di tenebre, la notte. C’era tranquillità, diritto di nascita per tutti noi animali, e in qualche modo c’era più tempo, in una giornata, di quanto non ce ne sia oggi. Il mondo apparteneva alle persone che lo abitavano.

Noi nostalgici marciamo arditi verso la battaglia, ansiosi di schierarci contro i carri armati della storia umana che avanzano. Le nostre primaverili inclinazioni a credere nel lieto fine ci hanno sempre impedito di vedere la putrida carcassa della verità che ci stava di fronte: “progresso” è solo un altro modo per dire ladrocinio. Ora i nostri cuori sono pieni della forza della rettitudine. Leviamo le braccia, pronte: le nostre spade di plastica multicolori luccicano verdi e rosse al sole. Le corrispondenze di guerra dal fronte interno ci fanno ridere del nostro funesto narcisismo. Non lo sapete, che non è possibile vincere? E poi, perchè vorreste? Noi non siamo come tutte le altre specie che hanno abitato la medesima nicchia ecologica per centinaia di migliaia di anni senza aver bisogno di case da otto stanze dove ne bastavano tre. Solo noi non trasmettiamo quei misteriosi feromoni che rallentano la procreazione quando si è raggiunto il limite di sostentamento della terra.

I nostri percorso cerebrali sono stati formati da milioni di anni di esistenza in comune coi nostri simili, dove i quotidiani incontri e riti e preghiere ci hanno fatto quel che siamo, una sola cosa. Poi qualche anno fa, uno più uno meno, hanno tirato fuori la feticizzazione della proprietà privata, e l’automobile, il mettere la produzione proprio in cima alla catena dei diritti, e il gioco è fatto: niente più spazi per trovarsi e niente più passeggiate e respirare l’aria e guardare il cielo e fabbricare miti a spiegare queste esperienze. Adesso si guida dentro a un viscido parcheggio e poi si entra circospetti da Walgreens per il giornale e qualche Rolaids e poi si fa retro marcia dopo aver rassicurato il premuroso addetto (in fondo l’ha chiesto) che oggi va tutto bene, egualmente preoccupati per il suo benessere psicologico (dopo tutto, l’abbiamo chiesto). Ci si allontana da quel posto che un tempo era un marciapiede molto usato di fronte a una banca, un caffè, un negozio di scarpe, dove i nostri genitori che non avevano un’automobile ma abitavano qui vicino, venivano a piedi. Mani invisibili sono arrivate, hanno spostato tutto come pedine su una scacchiera, e non si sa con chi prendersela. Nessun altro sembra essersene accorto.

Questa zona si chiamava Montrose. Nel 1973, capitò che la Interstate 77 venisse collegata alla Route 21, e la testa della gente cominciarono a girare pensieri. “Non c’era niente lì, era tutto vuoto”, ha spiegato con orgoglio uno di questi primi pensatori a un giornale. Vuoto: solo spazio, erba, niente che la gente potesse comprare. Centocinquanta ettari di inutilità. A suo tempo, più o meno in sei giorni, fu creato il mondo. Fra il 1970 e il 1990 la quantità di metri quadrati commerciabili – progettati, approvati, realizzati – a Montrose è aumentata, da diecimila a cinquecentomila. Le previsioni per la fine del primo decennio del nuovo secolo sono per altri trecentocinquantamila. (“ Le imprese non hanno né corpi che possano essere puniti, né anime per sentirsi responsabili, e quindi fanno quello che vogliono”; Edward Thurlow, Lord Chancellor, 1731-1806). Dall’argilla, perfettamente modellati, saltano su la West Market Plaza, Rosemont Commons – un nome adeguato per quella perfetta menifestazione degli ideali comuni, il Wal-Mart della città – Shops of Fairlawn, Builders Square, e Market Square, un centro commerciale costruito dietro a un altro centro commerciale, Sam’s Club, Bed, Bath & Beyond, Super Kmart, Cost Plus World Market (proprio così), Cellular One, Pier 1, Borders, T.J. Maxx, MC Sports, Old Navy, Pet Fair, Comp USA, Sears, The Home Depot, Taco Bell, Chipotles, Red Lobster, Romano's Macaroni Grill, Cracker Barrel, Boston Market, Bob Evans, Ruby Tuesday, Friendly's, Baja Fresh, sempre di più e di più sin quando si stramazza, sazi, col cuore che batte debole, inconsapevoli del cielo che sta sopra o della terra che sta sotto o di qualunque altra cosa, salvo strisciare ancora verso Camry e aspettare che il semaforo sulla Cleveland-Massillon Road segnali svolta a sinistra per poter arrancare fino a casa, e infine trasportare il contenuto di un paio di dozzine di borse di plastica dentro la casa, che in qualche modo assorbirà il tutto.

La mia generazione è schiacciata da una tristezza che non sa di provare. La promessa è stata sussurrata melodiosamente nelle nostre orecchie in qualche momento dopo il piacere dei grandi tesori nascosti sotto la pellicola dei cibi precotti e prima il profondo velluto del sonno nelle soffici tutine dei nostri pigiami. La realtà, come abbiamo ormai scoperto, non è come ci avevano garantito. La differenza è così geologica che rischiamo di romperci il collo tentando di vedere l’intero torreggiante aggeggio. La velocità del cambiamento si è presa qualcosa: non possiamo più disprezzarla come storia vecchia e decrepita. Ciò che è andato perso stava qui solo trenta o quarant’anni fa, e dunque sta scritto nelle pagine della nostra vita. Ma ancora non si sa cosa si potrebbe fare. Ogni annuncio arriva già confezionato nel fatto compiuto: questo se ne va, questo arriva, guarda qui, guarda là, piangi in solitudine, è tutto fatto. Il campo da golf, la strada, i negozi, tagliare, trapanare, strappare. Il tuo villaggio in New England giusto di fianco alla nuova città che cresce sempre più alta, sempre più larga. Il tuo centro cittadino che perde un’altra casa vecchia di un secolo e guadagna un altro drugstore superfluo in fondo a quel parcheggio che sembra un Oceano Indiano. Vecchie fattorie con appesi i cartelloni di quanto verrà: quaranta enormi case in stile architettonico Frankenstein disancorate dal paesaggio che galleggiano sull’assenza di alberi. L’antica cima della montagna ora centro turistico e seconde case. L’ufficio postale in stile Beaux Arts sostituito da Popeyes Chicken and Biscuits. Un venerabile campo di battaglia fertilizzato dal sangue umano, ora un centro commerciale. La strada sterrata asfaltata. Quella asfaltata a due corsie ora ne ha quattro; quella che ne aveva quattro, sei. L’incrocio senza semaforo ora ha la sua segnaletica. La marcia dei tempi avanza, le sue armate più numerose ogni giorno che passa.

Qualunque cosa fosse qui all’Alba del Tempi alla fine riceve il suo benservito, a favore di qualcosa che qualcuno possa trasformare in soldi. Ha preso le forme di un’assuefazione: non possiamo resistere. Alla fine ricadiamo, la testa che pulsa sorda, cifre e parolacce incomprensibili che ci colano giù dal mento: l’America ha asfaltato 6,3 milioni di chilometri di strade, l’equivalente di 157 giri attorno all’equatore; per ogni 5 nuove auto costruite, viene ricoperto d’asfalto un pezzo di terra grande come un campo da football; ogni anno in questo paese si edificano 1,2 milioni (sì: milioni) di ettari di spazio aperto; si perdono terre agricole al ritmo di un ettaro al minuto; una persona che ha appena raggiunto la mezza età cresciuta, diciamo, nella Rockland County, New York, viveva in un posto con 7.000 ettari di terre agricole, ora ce ne sono 100: ma provate a riguardare le statistiche fra qualche minuto. Possiamo solo compilare statistiche e levarci di torno, sconcertati. Nessuno sa cosa farci. Non c’è niente da fare. I giornali si riempiono di storie di avvenimenti incredibili; a quanto pare nessuno le legge. Ogni tanto c’è il resoconto di qualche monumentale battaglia davvero vinta, che è costata anni di sudati sforzi, e il premio consiste in una edificazione un po’ ridotta, una fattoria salvata, qualche ettaro che non sarà disboscato, un campo di battaglia della Guerra Civile tutelato, anche se con qualche concessione da fare, un Wal-Mart cancellato. Nel frattempo, altrove vengono su file di case, centri salute, ospedali, supermercati, e altri 2.378 Wal-Mart.

Questi grossi numeri entrano nel cervello solo da una parte, e di fatto è impossibile elaborarli. Siamo fatti per roba più piccola: quello che vediamo nei pochi metri che ci stanno attorno, quello che ci comunica sensazioni. Lo spazio emotivo per prendere il fiato, l’appartamento libero che potrebbe essere affittato a qualcuno che ci faccia grosse cose artistiche, gli angoli quietamente nascosti della città che non sono da un giorno all’altro venduti e passati di mano una mezza dozzina di volte nelle settimane successive, prima di essere trasformati nell’ennesimo quartiere alla moda per ricchi: c’è solo la sensazione che queste cose se ne siano andate per non tornare mai più, ma la nostra tristezza non cerca le ragioni. Cos’è, se non uno sguardo alle galassie lassù, incapace di capire davvero le distanze, di sapere che quel pianeta sta aumentando di altri 3 miliardi di persone? E non è molto più facile tentare di capire anche solo cosa sarà questo paese con 120 milioni di persone in più, anche se ce li immaginiamo tutti in gara per il nostro parcheggio davanti all’ufficio postale. Non parliamo del fatto che non potremo mai più visitare l’adorata spiaggia della nostra infanzia, dato che è diventato impossibile avvicinarsi (e inoltre no, non è semplice nemmeno pensare ai 2 milioni in più di sgattaiolanti esseri umani che presto si asfalteranno il loro pezzettino di Gran Bretagna, o i 3-8 milioni aggiunti all’Australia; né, di certo, i 300 milioni destinati all’India). Forse l’unica cosa che chiunque fra noi può cogliere, è la vista delle ruspe giù in fondo alla strada, che spianano l’ex campo da fieno per iniziare ad evocare la visione da sogno di trentasette nuove “case” color grigio talpa con finiture bianche e aperture sbadiglianti per parecchie auto. È qui che possiamo cominciare a vedere il futuro. È fatto di lutto costante e infelice abitudine.

C’era una volta, quando solo il re poteva mettere le sue fortificazioni sul crinale più alto; ora qualunque re in possesso di un fuoristrada può fare lo stesso. Sembra una cosa che va contro natura, ma ultimamente ce ne sono un sacco. Non credo che avrò mai la soddisfazione di acciuffarne uno, di questi ego-in-cima-a-un-palo che pensano di farsi una dimora fuoritaglia sulla collina che fu il mio conforto, ma se potessi lo prederei a cazzotti con un pezzo di Alan Devoe, da Phudd Hill, 1937:

Tanto verdi queste colline, così tonde, così tante, che fanno pensare ad enormi tumuli per una dimenticata e antica razza di uomini. Ci ho camminato sopra ed estratto da quella terrosità senza tempo la pace più profonda che sia possibile conoscere.

Io ci andavo continuamente, e ci ho riprovato l’altra sera, mentre l’oscurità scendeva nel suo antico modo su una terribilmente fredda giornata d’inverno. Su per un vecchio sentiero di taglialegna, nessuna impronta sulla neve salvo quelle dei roditori e del cane che mi stava appena davanti, ma la vista del crinale da cui sono stati strappati tutti gli alberi incombeva troppo insistente e ho avuto uno sprazzo di memoria da due anni fa. Ero salita, con un tempo migliore, su fino in cima al crinale sul lato opposto rispetto alla mia casa, dove è molto più ripido di qui, e una volta arrivata mentre mi stavo chiedendo come avrei fatto a scendere senza rompermi una gamba, ho trovato un collare da cane. Era la prova schiacciante che un altro alieno aveva sfidato questa quota, che sembrava appartenere solo a sé stessa. Ora in quello che pensavo fosse il sicuro crepuscolo di un gelido gennaio, un’auto mi attraversava il campo visivo mentre guardavo verso l’alto. Eravamo in una categoria diversa, rispetto al vecchio collare. Mi ha scosso nel profondo. Era il guardiano, nel giro di controllo – contro quale tipo di incursioni non posso nemmeno immaginare – della “proprietà”, perché è quello che è diventato, questo maestoso posto che si possedeva da sé. Non c’era ancora niente che avesse bisogno di protezione lì, solo terra grattata e le linee di confine che avevano consentito a vari successivi compratori di passarsi l’un l’altro appezzamenti di sedici ettari con vista su due catene di montagne per somme di denaro sempre più stravaganti. Dopo l’altra sera, ecco un altro posto dove non andrò più. Quando cominceranno a costruire, l’antica oscurità della notte sul fianco della collina sarà spazzata via da luci rumore e scarichi dei motori. La “ Proprietà Privata” vince “ la pace più profonda che sia possibile conoscere”.

Mi agito un po’, tanto per la forma. Il responsabile comunale per l’edilizia mi informa che non ci sono norme particolari per le costruzioni sui pendii, nessun obbligo di valutazione di impatto ambientale per alloggi unifamiliari. Non ho risposte intelligenti da dargli, e l’unica cosa che mi viene, sorda, è “Bene, questa è l’America, per voi”. Si agita: “Non vorrete che qualcuno vi venga a dire cosa dovete fare col vostro terreno, no?”. Sospetto che non gli piacerebbe la mia idea secondo cui a dire il vero lo vorrei; mi è venuto in mente che non esiste una cosa come “la tua terra”, non più di quanto non ci sia un punto in un maglione che si può levare senza conseguenze. È buffo, come il rumore di un’escavatrice di pozzi annunci la scomparsa di una galassia. Noi siamo tra i fortunati, ad avere ancora lì la Via Lattea quando usciamo nel portico sul retro, ma ci resterà solo ancora per un po’. Solo qualche casa in più lungo la via, solo qualche quartiere in più nella città vicina, e se ne sarà andata, dopo miliardi di anni. In pratica, potete cominciare a contare i giorni.

here English version

Prima di indicare le linee generali, di contenuto e di metodo, per avviare la costituzione di un Catalogo generale del paesaggio agrario italiano ritengo opportuno precisare alcune questioni preliminari, al fine di rendere più chiaro e culturalmente ben motivato l’intero progetto. Tenterò quindi di andare alle radici di questa impegnativa proposta rispondendo ad alcune domande tanto elementari quanto necessarie.

1)Perché oggi un Catalogo del paesaggio agrario?

A questa domanda saranno date risposte molteplici nel seguito di queste note. Ma intanto sottolineiamo una ragione rilevante, abbastanza evidente e comprensibile. Dopo oltre mezzo secolo di agricoltura industriale che ha trasformato profondamente le nostre campagne, dopo decenni di PAC, che ha reso esasperata la pressione produttiva sul suolo, è diventato urgente fare un bilancio, delineare un quadro di insieme di quel che resta di uno dei paesaggi agrari, più vari, diversificati e suggestivi dell’intero pianeta.D’altro canto, è il caso di ricordare che dalla fine degli anni Ottanta la Politica Agricola Comunitaria, sia attraverso le cosiddette Quote Latte, sia attraverso i piani di set aside - cioè la messa a riposo dei terreni meno produttivi - limita e regolamenta l’uso del suolo e le sue trasformazioni culturali. La corsa alla produttività illimitata è finita da quasi un ventennio. Dopo secoli di dissodamenti di nuove terre, e di sfruttamento intensivo delle campagne, un potere sovranazionale esorta e impone la limitazione dell’uso agricolo dei fondi. Dunque l’Italia, come gli altri Paesi del Vecchio Continente, si trova all’interno di un quadro normativo sovranazionale che regola, limita e controlla l’evoluzione delle coltivazioni secondo un disegno politico generale.E’ perciò sempre meno immaginabile l’azione solitaria di imprenditori agricoli che manipolano il territorio secondo le proprie esigenze individuali. Il paesaggio agrario può evolvere solo all’interno di un ampio disegno continentale.

Ricordo a tal proposito che uno degli effetti della stessa agricoltura industriale è stato quello di ridurre la superficie agraria utilizzata, lasciando così estesi territori fuori da ogni sfruttamento produttivo, fissati nei loro caratteri tradizionali, anche se non sempre ben conservati. Infine, nel momento in cui l’Unione Europea pone il paesaggio come uno dei beni originali del Vecchio Continente, da regolare e da tutelare (Convenzione europea del paesaggio, 2000) appare più che urgente apprestare una ricognizione che fissi in un grandioso inventario, come in un regesto di beni artistici unici e irriproducibili, il patrimonio che ereditiamo nelle campagne e nelle aree rurali del Bel Paese.

2)A che serve ?

Il primo fine risponde a una necessità di censimento. Il nostro paesaggio agrario è - come vedremo meglio più avanti - un patrimonio complesso e inscindibile di bellezze storico-artistiche e naturali, e come tale va tutelato e conservato, per quanto possibile, nella sua integrità. A tal fine diventa indispensabile un inventario delle sua estensione, delle sue caratteristiche, varietà, distribuzione, ecc. in grado di fornire alle istituzioni predisposte alla tutela la mappatura vivente, in tutte le sue articolazioni, di tale sterminato patrimonio.

Un Catalogo, com’è facile intuire, faciliterebbe un’opera attiva di difesa e valorizzazione. Ad esempio, consentirebbe di conoscere le aree più degradate e bisognose di ripristino di equilibri ambientali più congrui e stabili. Al tempo stesso potrebbe consentire il sostegno pubblico ad agricolture tradizionali, soprattutto nelle colline interne e nelle aree montane, che incarnano ancora oggi forme di paesaggio agrario di valore storico, presidi di conservazione della biodiversità agricola, di difesa degli equilibri idrogeologici del suolo. Un Catalogo infine consentirebbe una più consapevole e attiva politica di coinvolgimento dei cittadini nelle fruizione dei beni molteplici del nostro paesaggio agrario.

E’ appena il caso di ricordare che un tale strumento potrebbe inoltre costituire un importante argine culturale per incominciare a difendere con altra lena e severità civile il nostro patrimonio paesaggistico dalle aggressioni incessanti e vandaliche degli infiniti fautori del cosiddetto « sviluppo». Conoscere il paesaggio con le sue peculiarità naturali e storiche, espressione di vicende e soluzioni tecniche originali, di culture e saperi profondamente stratificati e sedimentati nel tempo, dovrebbe rendere il nostro territorio come «sacro», un immenso sito di archeologia rurale: non modificabile e manipolabile senza un consenso generale.E intorno alla difesa del paesaggio agrario italiano possono trovare ragioni di impegno quanti si oppongono a una cultura che assegna valore alle cose solo se trasformabili in merci, solo se generatrici di profitto.

3)Che cosa intende illustrare?

La prima risposta da dare a questa domanda è che il Catalogo intende sottolineare e documentare il carattere storico del paesaggio agrario italiano.Il termine storico è in sé, per la verità, semanticamente poco significativo. Tutti i terriori che risultino antropizzati da qualche decennio possono definirsi segnati da una impronta storica. Ma l’Italia, com’è noto, va ben oltre questa generica soglia di caratterizzazione.Ciò che infatti distingue la complessità dei caratteri storici del paesaggio della Penisola - rispetto ad es. ai paesaggi europei - è la molteplicità e stratificazione delle impronte che così tante e distinte civiltà hanno lasciato nel territorio e nelle forme delle nostre campagne.Pensiamo alle modificazioni impresse dall’azione delle bonifiche ad opera dei colonizzatori greci, degli Etruschi, dei Romani, degli Arabi. Queste stesse civiltà, d’altro canto, hanno fornito nel corso del tempo alle nostre campagne un contributo così incomparabilmente ampio di nuove piante, tecniche di coltivazione, forme di piantagioni e di recinzione della terra, modi di captazione e uso dell’acqua, costruzioni e manufatti, che il carattere storico del nostro paesaggio assume un valore del tutto particolare rispetto agli altri Paesi europei. Va d’altra parte ricordato che così come il paesaggio fonde in una sintesi originale la bellezza del sito o della piantagione con il carattere storico del loro uso e della loro manipolazione a fini economici, allo stesso modo i manufatti sparsi nelle nostre campagne, incastonati dentro gli habitat più diversi, esprimono una documentazione di passate civiltà del lavoro agricolo e al tempo stesso costruzioni di valore artistico, opere ammirabili per pregio estetico, per grandiosità e genialità edificatoria. Fanno parte del nostro paesaggio agrario - in parte similmente a quanto avviene in alcune campagne europee, ma con una varietà e ricchezza incomparabile - non solo la centuriatio romana e il disegno geometrico di tante strade e territori, ma anche opere invisibili che spesso sfuggono alla nostra rilevazione immediata e che solo di recente la ricerca archeologica è venuta scoprendo. Si pensi alle briglie montane e collinari con cui già i romani imbrigliavano i corsi alti dei torrenti e rimodellavano il territorio.Alcune di queste - come la briglia di Lugnano in Teverina, in Umbria, continuano ancora oggi a svolgere la loro funzione di difesa del suolo.Ma il nostro paesaggio racchiude nel suo seno una infinità di manufatti che talora costituiscono già isolatamente dei beni artistici meritevoli di specifica tutela. Si pensi agli acquedotti romani, ai ponti, alle strade, ai canali, alle cisterne, alle fontane, ai pozzi appartenenti a diverse epoche. La stessa architettura rurale, espressione di forme molteplici di organizzazione della vita agricola, offre un repertorio di estrema ricchezza e varietà: cascine chiuse e aperte, fattorie, ville, casali, masserie, mulini, frantoi, stalle,ecc.

Infine, ma non certo ultimo in ordine di importanza, un aspetto decisivo dell’originalità del paesaggio agrario italiano. Emilio Sereni distingueva il nostro definendolo verticale, rispetto all’orizzontalità che domina nei paesaggi europei, segnati dall’estesa presenza delle pianure. E in effetti i terrazzamenti e le varie forme di utilizzo delle aree collinari hanno a lungo dato una fisionomia di «agricoltura arrampicata» alle nostre coltivazioni. Ma non c’è dubbio che l’unicità delle forme delle nostre campagne è legata alla varietà incomparabile del habitat naturali che la Penisola ospita nel suo seno. Dalle Alpi alla Sicilia una continua e degradante diversità di climi, di morfologie, di suoli, ha imposto alle diverse civiltà agricole che vi si sono insediate di esprimere in forme molteplici le proprie culture di modellazione degli spazi naturali e di organizzazione degli insediamenti.Ma ha dato ad esse anche l’ opportunità di utilizzare un patrimonio biologico di piante di incomparabile ricchezza - frutto degli apporti secolari di diverse e talora lontane culture agronomiche - con cui hanno saputo valorizzare la varietà dei climi e delle vocazioni ambientali locali che la Penisola offriva.

Come costruire il Catalogo?

E’ questo indubbiamente l’interrogativo a cui è più difficile rispondere. Probabilmente, per ciò che riguarda il punto di partenza, la soluzione più semplice, ma anche quella più fedelmente aderente alla geografia e alla storia del nostro paesaggio, è iniziare dai caratteri naturali dei diversi habitat. Le regioni geografiche della Penisola possono costituire i grandi quadri di insieme all’interno dei quali si sono storicamente collocate le diverse forme di organizzazione dei campi e delle piantagioni, l’uso degli spazi, i moduli costruttivi. I quadri naturali, dunque, come grandi contenitori all’interno dei quali si ritrovano diverse espressioni di paesaggio agrario, magari contigue, che possono essere individuate e analizzate attraverso un processo di progressiva e sempre più ravvicinata focalizzazione. Il Catalogo, in una impostazione siffatta, dovrebbe procedere come per cerchi concentrici, partendo da ampie delimitazioni spaziali per mirare a ricognizioni analitiche sempre più circostanziate. Tale impostazione consentirebbe di concepire il lavoro di costituzione del Catalogo come un processo incrementale. Una volta delineate le macro-aree in cui il paesaggio appare contenibile, e individuate le forme più tipiche e meglio note di esso, occorrerà riempire di indagini sempre più ravvicinate - condotte da rilevatori che operano sul campo - gli schemi generali, in grado di fornirci un censimento significativo dello stato attuale del nostro patrimonio. Va da sé che i quadri di insieme, geografici e storici, del paesaggio dovrebbero trovare una prima e importante espressione e sistemazione, in grado di circolare tra il pubblico, in una edizione cartacea.Un grande atlante del paesaggio agrario italiano che renda visibile e percepibile la vastità e ricchezza dei beni censiti. Ma ad esso dovrebbe seguire un lavoro autonomo destinato a proseguire nel tempo e finalizzato a riempire i quadri generali con le ricognizioni analitiche condotte sul campo. Dunque un catalogo elettronico che si arricchisce continuamente nel tempo e che sarà in grado di fornirci l’archivio generale del paesaggio agrario italiano.

A nessuno sfugge l’interesse e l’importanza di un simile patrimonio conoscitivo.Esso costituirebbe uno strumento prezioso per controllare alterazioni e manipolazioni arbitrarie e per tutelarlo. D’altra parte occorre anche ricordare che il paesaggio agrario non è un museo di reperti chiusi nelle loro teche di vetro. Esso è sede di economie in corso, quindi di uso e frequentazione quotidiana.La geometria delle aziende capitalistiche di pianura è in continua evoluzione. E qui si pone tra l’altro un problema che andrà al più presto affrontato. Una parte cospicua dei territori di pianura è oggi occupata dalle agricolture industriali, che hanno formato anche’esse, una forma nuova di paesaggio agrario: un paesaggio molto regolare e geometrico, fatto di coltivazioni nettamente ripartite, ma che negli ultimi anni, attraverso la plastica bianca delle serre, sta gravemente alterando il profilo e l’estetica delle nostre campagne. Anche per tale ragione un Catalogo, quindi, un «catasto» del nostro patrimonio storico, si rende necessario al fine di fornire alla regolamentazione legislativa i supporti imprescindibili di conoscenza.

Quali paesaggi?

Si potrebbe iniziare, procedendo da Nord verso Sud, dalla Montagna alpina. Qui, dove la natura impervia ha scoraggiato l’intrapresa agricola, fanno tuttavia paesaggio originale i territori a pascolo, dove si svolgeva l’alpeggio del bestiame in estate e le costruzioni delle malghe, in legno o in pietra, per ricoverare uomini e bestie.Ma, sempre in queste aree, più precisamente lungo le valli, un modulo di sfruttamento agricolo originale appaiono oggi i vasti terrazzamenti a viti, degradanti lungo i costoni, che sono così tipici, ad esempio, in Valle d’Aosta.

Più a Sud abbiamo l’Area delle Prealpi, vale a dire il vasto territorio collinare di Lombardia, Piemonte e Veneto. Qui è l’area tradizionale della piccola proprietà, contrassegnata soprattutto dalla presenza del vigneto e di piante fruttifere resistenti al clima continentale. Siamo di fonte a una policoltura collinare inframmezzata da abitazioni sparse e da borghi che andrebbe analizzata nelle sue particolarità e varianti locali. Ma un’attenzione particolare meritano in queste zone anche i boschi misti di rovere, lecci, faggi, ecc, e i residui castagneti, esito di più o meno antiche riforestazioni.

La Pianura padana andrebbe analizzata in due grandi sezioni abbastanza distinte: l’alta e bassa pianura, la Padana asciutta e la Padana irrigua. Nella prima sezione, dove a lungo ha dominato il contratto mezzadrile e la bachisericoltura la coltivazione tradizionale dei cereali si è inframmezzata con diverse forme di piantata: aceri o pioppi a cui far arrampicare la vite, ma spesso gelsi con cui alimentare i bachi da seta.Vari anche qui sono stati i moduli e le soluzioni costruttive dell’archittettura rurale. Più a Sud il paesaggio diventa molto più vario, differenziato e complesso. I campi sono intersecati dai canali, rogge, fontanili: tutti elementi di una agricoltura intensamente irrigua. In tali aree il paesaggio è dominato da campi pianeggianti geometrici, propri delle vaste aziende capitalistiche, in cui si levano, in diverse forme e dimensioni le cascine: piccole cittadelle nel cuore della campagna, dotate spesso di porte e di mura di cinta, in cui viveva e trovava collocazione un manipolo di lavoratori fissi, il bestiame, le derrate, gli attrezzi da lavoro. In questo stesso habitat, ma più decisamente umido, sorge il paesaggio delle risaie, che costituisce una specificazione ulteriore dell’agricoltura irrigua. Più a oriente, verso il vasto Delta del Po, questo paesaggio conserva ancora i caratteri di una vasta terra di bonifica, dove dominano le grandi aziende cerealicole mentre le idrovore, le «chiuse» le cascine e i canali punteggiano i vasti campi coltivati.

La regione dell’Appennino costituisce un ambiente a sé. Qui siamo in un’area dominata dal paesaggio forestale: boschi, soprattutto di castagni, che caratterizzano in maniera particolare alcune zone(Toscana, Lazio settentrionale), ma anche di quercie e lecceti. Siamo di fronte a un territorio punteggiato di borghi e da popolazione rada che ha plasmato il proprio habitat anche con il pascolo, la macchia, i piccoli orti, ecc .

Più a Sud incontriamo la vasta e variegata area delle colline preappenniniche, nelle quali le popolazioni contadine hanno elaborato nei secoli molteplici forme di paesaggio.Un’ area che conserva una propria impronta originale è quella che potremmo definire dei terrazzamenti mediterranei della Liguria: vale a dire le coltivazioni «verticali» delle colline costiere a viti ed ulivi. Il paesaggio delle Cinque Terre è quello meglio noto e più caratteristico di quest’area.Nelle terre interne di tale regione geografica occorrerebbe delimitare e censire il paesaggio dell’incastellamento - frutto del ripiegamento difensivo delle popolazioni nel Medioevo - cosi’ caratteristico, ad esempio, di tante campagne del Lazio.

Più in basso, verso l’area delle colline dell’Italiacentrale, dominio secolare del podere mezzadrile, si distende il bel paesaggio della policoltura contadina, che conosce le sue espressioni più note e pubblicizzate nelle campagne toscane e umbre. Ma anche all’interno di un paesaggio così fortemente caratterizzato occorrerebbe delineare habitat ancora più specifici e distinti, come ad esempio il paesaggio delle crete senesi o dei calanchi volterrani. In questa stessa fascia dell’Italia centrale si rende inoltre necessaria la ricognizione di quell’area - oggi profondamente trasformata dalla bonifica - che per secoli è stata occupata dalla maremma, vale a dire dalla boscaglia, dalle colture e dagli acquitrini che hanno segnato le terre della costa tirrenica dalla Toscana fino al Lazio.

Il paesaggio del Mezzogiorno, nella dorsale appenninica, continua quello dell’Italia centrale.Tuttavia, al suo interno, si rintracciano elementi di novità importanti. Uno di questi è dato senza dubbio dalla presenza di due grandi foreste storiche, come la Sila in Calabria e la Foresta umbra in Puglia. E anche il paesaggio di alcune montagne, sede di insediamenti radi e di attività economiche, e oggi ricadenti nell’ambito di importanti parchi, fanno caso a sé. Penso, in questo caso alla montagna del Pollino e all’impervio e complesso habitat dell’Aspromonte, all’aspro paesaggio montano della Sardegna. Più a valle, nelle aree submontane, sussistono ancora ampi frammenti di quel paesaggio relativamente nudo, utilizzato a pascolo o a seminativo, che Manlio Rossi-Doria definiva il latifondo contadino.

Ma è il paesaggio degli alberi l’impronta più profonda e originale che connota le campagne del nostro Sud. Qui occorre, tuttavia, distinguere e delimitare l’insieme in varie declinazioni locali e tecniche. Nel Sud abbiamo il paesaggio arboricolo misto, che possiamo considerare una tarda evoluzione del giardino mediterraneo: piantagioni di viti, ulivi, mandorli, fichi, noci, fruttiferi vari. In tale ambito credo che una attenzione specifica occorrerebbe dedicare ai terrazzamenti: esistono ancora, infatti - per esempio sulle alture di Scilla, in Calabria. o lungo il Gargano, vertiginosi terrazzi che ospitano vigne o stenti mandorleti, i quali testimoniano un’ età davvero eroica del lavoro contadino. Veri musei dell’agricoltura a cielo aperto che non dovrebbero essere perduti. Ma, accanto ad essi, troviamo le vaste aree dell’arboricoltura specializzata: oliveti e giardini di agrumi. In alcuni casi abbiamo oliveti storici che fanno caso a sé: ricordo la foresta di ulivi giganteschi della Piana di Gioia Tauro. Allo stesso modo gli agrumeti costituiscono un paesaggio unico, ma articolato in modelli alquanto vari di coltivazione: si va dai terrazzamenti della Costiera amalfitana, del Gargano, o di Ciaculli (Palermo), agli impianti per colmata lungo le fiumare calabresi, alle più ampie aziende agrumicole di pianura della Calabria e soprattutto della Sicilia, ma anche della Sardegna. Nelle isole minori, come ad es a Pantelleria, tanto le forme delle coltivazioni che l’architettura rurale formano un disegno così originale del paesaggio mediterraneo da meritare una specifica ricognizione.

Naturalmente all’interno di tali ambiti è possibile rinvenire frammenti di paesaggio ancora più specifici e caratterizzati: penso ad esempio all’agricoltura dei muretti a secco, la campagna della piccola proprietà recintata con pietre che connota così originalmente il territorio intorno ad Alberobello e in altre aree della Puglia contadina.

Nelle zone di pianura e di bassa collina il Sud conserva anche un paesaggio radicalmente diverso da quello degli alberi: è l’habitat del latifondo tipico, un territorio generalmente nudo, punteggiato qua e là da qualche masseria, rade delimitazioni con muretti a secco, ecc che testimonia un utilizzo millenario della terra a coltivazione estensiva alternata al pascolo. Un paesaggio siffatto trova manifestazioni di grandissimo fascino nelle Murge e nel Tavoliere delle Puglie, nel Crotonese, in Calabria, nelle Campagne di Enna e in tante altre aree della Sicilia. Esso ci appare oggi come un mondo inquietante e lunare, lontano dai rumori e dalle velocità del presente, superstite testimonianza paesaggistica di una millenaria pratica di lavoro contadino ormai scomparsa.

La necessità di perfezionare le armi per la difesa delle bellezze naturali italiane, che è la difesa del sacro volto della patria, si è manifestata in questi ultimi tempi sempre più urgente e viva man mano che la vita moderna ha reso più intenso il suo ritmo in due ben diverse, ma tra loro complementari, manifestazioni: man mano cioè che lo sviluppo urbanistico, gli impianti di officine, la formazione di vie, di cave, di muri di sbarramento, gli invasi di acque per utilizzazione di forza motrice e simili altre opere hanno creato problemi nuovi e suscitato formidabili interessi economici; man mano che, d’altro lato, quasi come reazione contro questa vita meccanica, si è sviluppato vivace nel popolo il sentimento della natura, il desiderio del ritorno alla visione serena delle cose belle e grandi prodotte da Dio.

È stato detto che questa nuova tendenza dell’anima umana a comprendere il linguaggio, or semplice ora arcano, delle bellezze primitive della creazione - la poesia dei monti e dei mari, degli aperti orizzonti o delle rupi paurose, degli alberi e dei prati fioriti - sia stata un prodotto del romanticismo del secolo scorso; e si citano i passi del Goethe, del Byron, del Novalis, dell’Hölderlin, del Ruskin e di tanti altri. Io non lo credo, e penso piuttosto che la letteratura siasi sostituita col suo artificio alla spontaneità del sentimento naturale, quasi direi dell’istinto, che era proprio dei periodi precedenti. Me ne persuadono i confronti con le altre arti, come l’architettura e la pittura. La prima ha trovato sempre, fino all’Ottocento, nelle case, nei palazzi, nelle ville, senza che occorressero leggi e sanzioni, i diretti rapporti con l’ambiente, come se gli edifici fossero cosa naturale, sorti insieme con le colline, con le rupi ed i boschi. E quanto alla pittura, non è assai più vivo e sentito il paesaggio dipinto quando nei quadri di Sandro Botticelli, di Leonardo o di Giorgione o del Francia, forma sfondo luminoso alle figure, quasi a compenetrarsi col soggetto, che quando acquista valore a sé di accademia paesistica e diventa o inadeguata composizione o inadeguata copia?

In un egual modo lo spirito moderno è intervenuto a definire, ad analizzare col raziocinio quello che era dapprima intuitivo ed a dare forma filosofica ai rapporti che legano le concezioni dell’uomo al mondo esterno che lo circonda, alla natura lieta o triste in cui vive, all’atmosfera che respira. Ma il sentimento del popolo non si è formato per questa via ed è rimasto schietta aspirazione dell’animo, acuita dalle restrizioni della vita cittadina.

Carton de Viart, l’eroico presidente dei ministri della resistenza belga dell’ultima grande guerra, così ebbe mirabilmente a dire [1] in un suo scritto intitolato Le droit à la joie: “Quando gli uomini pensano alla patria, non ad una grande assemblea di uomini neri e rumorosi gesticolanti sotto i lampadari parlamentari essi rivolgono il pensiero, ma alle vaste estensioni di campi e di boschi, alle ondulazioni delle colline, alle acque correnti, ai villaggi sparsi sulle strade, al fumo dei casolari che sale nella pace della sera. A questi segni sensibili si riannoda quasi istintivamente l’amor della patria, il ricordo delle sue glorie e delle sue sofferenze, il rispetto delle sue tradizioni. Più la visione sembrerà bella, più cara sembrerà la patria di cui è l’immagine”.

Così la carità del natio loco si unisce al sentimento della bellezza per determinare una vera religione dei caratteri naturali del patrio suolo. E gli artisti ne sono i più diretti sacerdoti, a qualunque tendenza appartengano, da qualunque ismo siano definiti, nella comprensione e nell’affetto verso quelle che sono le fonti pure ed inesauribili del genio artistico sono essi tutti concordi.

Non dunque in ragioni ideali la difesa delle bellezze naturali trova seria antitesi, ma spesso nelle esigenze positive, di cui si è testé dato cenno, della meccanica civiltà moderna; e queste sono talvolta così essenziali da determinare la necessità di transazioni od anche di ripiegamenti, come di un assediato che si riduce a difendersi in una cittadella - così, ad esempio, quando una città si sviluppa ed invade necessariamente la campagna circostante, o quando la utilizzazione dell’energia idraulica porta a sopprimere od a limita,e cascate d’acqua od a chiudere valli con dighe di sbarramento. Assai più spesso il contrasto è con la ignoranza, con la superbia c la neghittosità di tecnici che non voglion studiare soluzioni più agili e vive e talvolta anche più utili, con l’interesse privato di speculatori di terreni, i quali non sentono, o fingono di non sentire, che quello che conta nella vita moderna, quello che il nuovo Codice fascista esprime nel suo primo articolo, è l’interesse collettivo, di contro al quale il jus utendi et abuttendi va limitato od addirittura escluso. Nella mia opera trentennale di difensore del patrimonio di Arte e di bellezza del nostro paese, quante volte mi è riuscito di conciliare quello che sembrava inconciliabile, mutando opportunamente la posizione di un bacino montano, facendo spostare fabbriche progettate che avrebbero chiuso visuali o distrutto alberature, dando diverso ordinamento di planimetrie e di altezze a gruppi edilizi, suggerendo adatte colorazioni di pareti e di tetti, od anche mascheramento mediante piante rampicanti! Talvolta modesti espedienti, e talvolta avviamento verso un nuovo ordine di utilizzazione, hanno potuto salvare e perfino maggiormente valorizzare bellezze naturali di alto interesse, le quali, a veder bene, non sono soltanto elementi di un mirabile patrimonio nazionale, caro allo spirito, ma anche materia prima di quella nostra grande industria che è il turismo.

Tutto questo tuttavia richiede di avere le possibilità di revisione e di veto date dall’autorità di una legge.

Ma io penso che non ci possa essere in tutto il giure un argomento più arduo a tradursi in disposizioni positive e ad avere regolare applicazione di questo, che vuol definire come oggetto preciso ciò che spesso è indefinibile (ricordate l’aforisma dell’Amiel per cui “il paesaggio è uno stato dell’anima”) e deve non limitare più di quanto sia necessario il sacro diritto di proprietà, e fa capo nel giudizio a due entità che nessun legislatore e nessun ufficio può inquadrare sistematicamente; cioè il buon senso, fatto di comprensione e di discrezione, ed il senso di Arte, mosso da fervore di affetto e da una ragionata previsione di effetti particolari e di effetti d’insieme.

Nel 1922, forse perchè il ridesto sentimento di patria aveva fatto maturare la nuova coscienza della sua bellezza; o perchè intanto maggiormente si avanzavano gli attentati e le offese, - alla pineta di Ravenna, alla cascata delle Marmore, ai boschi del Casentino, alle rupi dei Campi Flegrei, - si ebbe alfine la Legge fondamentale, che ha durato fino ad oggi rendendo, occorre riconoscerlo, inestimabili servigi, anche se taluni punti di essa si sono dimostrati manchevoli ed inefficaci.

Questa legge del 1922 può quindi considerarsi come un importante esperimento, nel suo complesso felice. Essa ha vagliato le possibilità di adattamenti con le esigenze legittime dell’industria e della vita cittadina, e dagli stessi progressi dell’Urbanistica (come quelli del piano territoriale e delle divisioni per zone) ha tratto mezzi per una giusta distribuzione di attività fabbricativa; ha saggiato le resistenze degli interessi privati; ha determinato e raffinato lo studio della consistenza prospettica delle bellezze naturali ed in particolare di quelle panoramiche, e conseguentemente dei mezzi per difenderle efficacemente con cognizione sicura.

È merito di S.E. il Ministro Bottai di aver ora compiuto, con illuminata energia, il secondo passo, promuovendo il rinnovamento della legge mediante la preparazione di un nuovo progetto, che con rapidità fascista è passato attraverso le commissioni e gli uffici ministeriali ed ha avuto la definitiva approvazione parlamentare, ed è ora la Legge 29 giugno 1939-XVII.

Di essa riassumerò ora le principali caratteristiche. Voi vorrete perdonare se il mio commento non sarà quello del giurista, ma di un architetto, abituato bensì a contemperare la visione d’Arte con la cognizione concreta delle cose, ma non tanto da giungere ai necessari, sottili provvedimenti di uno schema legislativo.

La legge[2] comincia col definire in modo chiaro e preciso l’oggetto della protezione, ed in ciò presenta un grande progresso sulla legge precedente, in questa parte fondamentale sommaria ed incerta. Ed occorre riportare per intero il primo articolo:

“Sono soggette alla presente legge a causa del loro notevole interesse pubblico:

1° le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;

2° le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza;

3° i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;

4° le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali, e così pure quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.

Come si vede, è nelle prime parole e nelle ultime di questo articolo riaffermato il principio che debba essere insito nella cosa immobile che si vuol tutelare un notevole interesse pubblico; il che, mentre stabilisce i limiti della sua applicazione, viene a determinare il diritto collettivo al godimento della bellezza naturale prevalente su ogni interesse privato.

Dei quattro tipi di bellezze naturali specificate nell’articole [3] i primi due si riportano a quelle che la relazione ministeriale chiama bellezze “individue”, gli altri due alle bellezze “d’insieme”. Bellezze individue son quelle che hanno una entità propria e sono perciò identificabili nei loro confini e nei loro particolari: ed ecco gli elementi singoli che quasi potrebbero dirsi monumenti naturali - alberi di singolare grandezza, cascate d’acqua, gole di monti, grotte, rupi - ed ecco le singolarità geologiche - conformazioni geometriche di basalti, correnti laviche, piramidi di terra, calanchi, pietre oscillanti, le cosidette marmitte dei giganti - che al valore di bellezza uniscono quello d’interesse scientifico e che colpiscono la fantasia nella loro testimonianza delle vicende cosmiche; ed ecco infine i giardini e le ville, in cui l’attività promotrice ed ordinatrice dell’uomo è entrata sì da fare opera di ridente bellezza, ma non con tali caratteri di grande architettura da farli rientrare nelle cose tutelate dalla legge fatta per le opere di interesse artistico e storico.

Su questo punto occorre ancora indugiarsi in un breve commento, per ricordare che parallelamente a questa legge per le Bellezze naturali anche l’altra, testé indicata, riguardante il patrimonio d’Arte e di Storia, è stata riveduta e rinnovata, e la materia legislativa è stata organicamente divisa tra le due leggi secondo il prevalente carattere che essa riveste. Così, ad esempio, alla legge di tutela monumentale sono state rinviate “le cose immobili che presentano un notevole interesse pubblico a causa della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”; e, per proseguire nella esemplificazione, lo scoglio di Quarto da cui salparono i Mille, la rocca di Cuma cantata da Virgilio, i carducciani cipressetti avanti San Guido, non vanno catalogati (brutta parola burocratica, ma necessaria a determinare elementi a cui si applica una legge) tra le cose tutelate a causa della loro bellezza naturale.

Così pure pei parchi e pei giardini. A seconda che in essi prevalga il carattere di composizione monumentale -e numerosissime sono quelle disegnate da architetti insigni, da Giuliano da Maiano a Giulio Romano, al Vignola, al Ligorio, al Della Porta, al Le Nôtre -ovvero il carattere dato dalla bella vegetazione rigogliosa, la tutela ne spetta all’una od all’altra delle due leggi parallele. Ed è questo un passo decisivo, finché non giunga l’auspicata legge urbanistica fascista a stabilire nelle nostre città un sicuro ordine di sanità e di bellezza, per raggiungere la difesa di quelle zone verdi poste nel nucleo dell’abitato o nel suburbio, che le generazioni passate hanno costituito per la gioia della vita, e che quelle del nostro tempo tendono, per la malsana speculazione sulle aree edilizie, a distruggere proprio quando nell’enorme ampliamento cittadino esse rappresenterebbero provvidenziali elementi di pubblica utilità.

Vengono poi quelle che son state dette bellezze di insieme, e sono essenzialmente le panoramiche. Pur nella impossibilità di definirle in modo preciso, poiché, come dice la relazione ministeriale, “è in esse tanto di incertezza quanto ve ne trasferisce il concetto stesso di bellezza”, ha tuttavia la legge voluto chiaramente distinguere i due casi che potrebbero dirsi dal fuori verso il dentro e da1 dentro verso il fuori; cioè il quadro naturale in se stesso e le visuali dai punti o dalle linee di bel vedere accessibili al pubblico. Comprende il primo il vero carattere paesistico dei luoghi, ampio e talvolta quasi indefinito; il secondo il panorama nel senso comune della parola, che si gode da particolari località e che non deve essere offeso ed obliterato da costruzioni oda elementi invadenti. Esempi classici del primo tipo quasi tutta la chiostra alpina, e la pineta tirrena, e la marina di Amalfi, e la collina di Posillipo, e Capri e Portofino e Taormina e la penisola dell’Argentario; esempi di prima grandezza del secondo il viale dei Colli ed il piazzale Michelangelo sopra Firenze, il Gianicolo per Roma, il piazzale della Madonna di S. Luca per Bologna, le vie che salgono al Vomero per Napoli, la passeggiata a mare di Nervi, i risvolti della via delle Dolomiti al Pordoi ed a Falzarego.

Accanto a queste bellezze naturali 1a legge contempla (ed è interessante novità) i “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto estetico e tradizionale”. .La frase è un po’ troppo generica e richiede un qualche chiarimento. Qui, con un ardito passaggio, si intende comprendere nella tutela anche le cose che sono opera non della natura ma del lavoro umano, quando abbiano assunto nel tempo e nella inquadratura degli elementi circostanti, talvolta nel mimetismo con l’ambiente naturale, un valore paesistico di bellezza e di tradizione: dai panorami delle grandi città, con le torri e le cupole che si stagliano nel cielo, alle vedute di villaggi sorti con l’umile spontanea energia rurale, come se le casette liberamente aggruppate fossero alberi di un bosco o cristallizzazione delle rupi sottostanti. Enormi grattacieli in un caso, sguaiati villini dalle torrette merlate nell’altro altererebbero tutta un’armonia di linee e di colori e produrrebbero , danni irreparabili che debbono essere evitati; e la legge, interpretata con ampia veduta e con discreta saggezza, offre appunto le armi. L’identificazione di queste così diverse bellezze, naturali o quasi naturali, presenta, in un paese di diffuso e vario e mirabile carattere paesistico quale è il nostro, difficoltà forse insormontabili. La legge tenta provvedervi con la istituzione di Commissioni provinciali, composte di persone di coltura e d’arte, a cui si uniscono, come è giusto in regime corporativo, i rappresentanti delle categorie interessate; le quali commissioni avranno un duplice compito: quello, organico ed ampio (art. 2) di compilare gli elenchi delle località e degli elementi soggetti alla legge, e quello contingente (art. 8 e 9) di convalidare le notifiche direttamente fatte dal Ministero dell’Educazione Nazionale.

Sulla efficacia pratica di dette commissioni potrebbe in vero elevarsi qualche dubbio sia nei riguardi della quasi impossibilità, e talvolta della superfluità, di una definizione a priori, non delle bellezze individue ma di quelle d’insieme (che talvolta si avvertono quando vengono aggredite), sia per la complessità di funzionamento cinematico di codesti gruppi di valentuomini che dovranno spostarsi in ogni punto delle singole province e vagliare con una bilancia precisa e con pesi ben uguali la equazione tra bellezza e legge. In Francia il sistema non ha fatto buona prova; ma occorre dire che i vi il parlamentarismo ha invaso col suo macchinoso artificio anche questo tema che pur sembrerebbe da esso il più lontano, e lo ha soffocato tra le commissioni pletoriche e le discussioni interminabili. Nell’Italia Fascista diverso è il clima, adatto per la rapida attuazione adeguata, per gli accordi tra interessi contrastanti subordinati a quello grande ed augusto del Paese, come pure per le eventuali revisioni di ordinamenti sulla base dell’esperienza.

Alla identificazione delle bellezze naturali seguono le minute norme procedurali perchè i singoli proprietari siano edotti del vincolo ed abbiano modo di presentare i loro ricorsi o di richiedere che i termini ne siano ben precisati; e sono norme di grande importanza affinché la proprietà privata sia salva da arbitri e da applicazioni esagerate, e si stabilisca una vera unità di criteri. Le notificazioni personali vanno poi trascritte alle Conservatorie delle ipoteche, per dar loro efficacia anche per i successivi aventi causa.

Le servitù così create recano ai proprietari l’obbligo di non alterare l’aspetto esteriore delle bellezze da loro possedute; il che tuttavia non rappresenta immobilità dello stato attuale altro che in casi di eccezione. Lavori, talvolta importanti ed organici, possono essere consentiti, ma i loro progetti debbono venire preventivamente approvati dalla competente Soprintendenza; la quale può, esercitare il suo diritto di esame e di veto anche nei casi di pubbliche opere in prossimità di bellezze individue o in vista di bellezze d’insieme, purché, come avverte saggiamente la legge, “si tenga in debito conto la utilità economica dell’intrapreso lavoro”. Una delle innovazioni di maggior importanza è quella che contempla (art. 5) la possibilità da parte del Ministero dell’E. N .di preparare o di promuovere un piano territoriale paesistico delle vaste località in cui si riconoscano i caratteri di bellezza d’insieme. La disposizione-sarà salutata con gioia dagli urbanisti italiani, che vedono in essa una prima applicazione di quei piani regionali, o territoriali, o intercomunali, destinati a coordinare lo sviluppo non di un solo Comune, ma di più vaste entità, aventi stretti rapporti, od addirittura unità di carattere, di viabilità, di funzione edilizia, od estetica, o turistica o industriale.

Nel piano paesistico vanno adottati, pur (per così dire) grandemente diluiti, i criteri urbanistici ormai acquisiti nei piani regolatori cittadini; cioè la redazione di un azzonamento e di un regolamento edilizio schematico, volti a graduare, e talvolta ad escluderei le possibilità fabbricative, sostituendo una disciplina edilizia al disordine liberista, una concezione sociale al diritto di arbitraria utilizzazione delle aree non costruite [4].

Saprà in tal modo ciascun proprietario quale sia la potenzialità fabbricativa del proprio terreno e potranno su quella basare i loro calcoli gli eventuali acquirenti; difficili e rare saranno le frodi; un criterio organico investirà tutta una regione, sostituito al carattere inuguale, arbitrario, aleatorio del caso per caso.

Eppure molte obbiezioni si appuntano contro questa concezione di ordine; ed occorre esaminarle brevemente. Si dice: Non risulterà troppo meccanica ed artificiosa la nuova forma del paesaggio futuro così immaginata, quasi in collaborazione della creazione umana con quella divina, tanto più grande ed augusta? Non esistono tante deliziose borgate o tante case campestri sparse sui colli e nelle valli, che danno al paesaggio vita e bellezza anziché nocumento? Non ci sono talvolta anche grandi costruzioni isolate di palazzi di ville, di monasteri (e gli esempi della villa Mondragone a Frascati, del convento benedettino di Montecassino, di Castel del Monte in Puglia si presentano alla nostra mente) che quasi concentrano il carattere paesistico in poli monumentali, quasi mirabile cristallizzazione architettonica?

A tutto questo rispondono, sia pure incompiutamente, le considerazioni sul mutare dei tempi e sul carattere della vita e dell’architettura moderna, sempre più lontana dalla natura. Un albergo disegnato a tavolino da un archi tetto e fabbricato con ossatura di ferro o di cemento armato, un quartiere di villini voluto da speculatori che dividono il terreno in lotti regolari, nulla hanno a vedere col carattere naturale e spontaneo, quasi mimetico, di un vecchio villaggio costruito secondo le sperimentate esigenze del clima, coi materiali stessi del luogo, con la libera ed ingenua forma data dagli artigiani locali; un edificio monumentale, che rappresenta in forma d’arte un’idea prima che una funzione utile, ha in sé elementi di massa e di dignità che acquistano valore dominante, ma anche per esso i rapporti con l’ambiente, quando nel procedimento architettonico creativo non sono più, come per il passato, stabiliti dall’istinto debbono esserlo dalla ragione; ed ecco determinarsi la necessità di contrapporre lo studiato artificio dell’ordine alla libertà edilizia, che si è allontanata dalla naturalezza con le deformanti espressioni egoistiche di una civiltà meccanica ed utilitaria. Dovrà, certo, esser cura di coloro che si accingeranno all’arduo compito di far sì che le norme e le remore non siano troppo rigide e non escludano una elasticità di applicazioni. La regola potrà a vere le sue eccezioni; ma soltanto ad esse potrà limitarsi la norma del “caso per caso”.

Già negli ultimi anni alcuni di tali pialli regolatori paesistici sono stati, per singole iniziative, compilati: così per una parte dell’isola di Capri, per la regione di Monte Cavo e della via dei Laghi nei colli Laziali per la zona adiacente alla via Appia presso Roma, ed anche (in forma più negativa che positiva) nei grandi Parchi nazionali del Gran Paradiso, dell’Abruzzo, della Sila. I criteri seguiti son stati quelli, non solo di difendere energicamente la integrità dei punti di belvedere e delle linee principali del paesaggio, ma anche di stabilire in alcune zone rapporti tra area fabbricata ed area occupata da singoli lotti, e limitazioni di masse e di altezze tali da assicurare l’assoluto prevalere dèi valori naturali, pur consentendo in alcune designate località la formazione di nuclei compatti che possano costituire armonici aggruppamenti, pieni elementi di vita umana in mezzo alla natura. Questi studi precursori rappresenteranno un utile esperimento e troveranno nella nuova legge ufficiale consacrazione e regolare sviluppo [5].

Per alcune località italiane la preparazione di questi piani paesistici è di un’urgenza assoluta per evitare danni irreparabili, sia che trattisi di bellezza di eccezione, come pel promontorio di Portofino, per l’isola d’Ischia, per i dintorni di Taormina, per la nuova Cervinia, sia che i pericoli siano imminenti, ed inevitabili le transazioni con le altre ragioni essenziali dei piani regola tori d’ampliamento, come nei dintorni delle grandi città, alcuni dei quali, come a Torino, a Venezia, a Genova, a Firenze, a Roma, a Napoli, a Palermo, a Cagliari, sono di una bellezza incomparabile, che deve rimanere ad inquadrare la vita nuova che s’avanza.

Altre provvide disposizioni della legge sono (art. 15) quelle che disciplinano l’apposizione di cartelli e di altri mezzi di pubblicità, che troppo spesso con le targhe dai colori sgargianti, con le enormi bottiglie, con le figure dall’aria spiritata, occupano i posti migliori e rovinano con la loro invadente volgarità i paesaggi più belli; e quelle che danno facoltà al Ministro dell’Educazione Nazionale d’ordinare che nelle zone paesistiche, “sia dato alle facciate dei fabbricati, il cui colore rechi disturbo alla bellezza dell’insieme, un diverso colore che con quella armonizzi”, poiché giustamente si è notato come, in questo tema, in cui l’individuo-edificio va subordinato all’ambiente, la intonazione cromatica abbia assai maggiore importanza della linea architettonica, che si perde nel vasto spazio.

Gli altri articoli della legge si riferiscono. (art. 15) alle sanzioni comminate ai trasgressori, efficacissime perché li colgono nell’effettivo interesse finanziario; o alla possibilità da parte del Ministero dell’ E. N. di intervenire (art. 16) con speciali sovvenzioni a favore di proprietari danneggiati da assoluti divieti; o al diritto di detti proprietari alla revisione nei riguardi dell’estimo catastale (art. 17); e sono disposizioni non solo provvide, ma essenziali pel carattere positivo che ogni legge deve avere, le quali tuttavia escono dai limiti di ordine artistico posti alla presente trattazione.

Questa dunque è la nuova legge che la vigile esperienza degli organi preposti affinerà e renderà organica nelle sue applicazioni ed adegua ta alle esigenze spirituali e materiali della nazione.

Per essa si traduce in atto il comandamento del Duce, che nello scorso anno nel ricevere i Soprintendenti alle Belle Arti di ogni parte d’Italia, li richiamò ad un’assoluta intransigenza nella difesa delle bellezze naturali: “Il volto della Patria, egli disse, deve essere salvo dagli attentati di coloro che solo si preoccupano dei loro interessi affaristici. Il nostro paese è il più bello del mondo, e deve rimanere ad ogni costo integro nella sua bellezza”.

Nota: sulle origini della legge approvata descritta da Giovannoni, si veda anche in Eddyburg/Urbanisti e Urbanistica il saggio "anticipatore" del 1931 di Luigi Parpagliolo (f.b.)

[1] Questo passo è tratto dal libro di Luigi Parpagliolo, La difesa delle bellezze naturali d’Italia, Roma 1923

[2]La Commissione ministeriale che ha preparato il disegno di Legge era così composta: Gustavo Giovannoni (presidente), Marcello Piacentini, Marino Lazzari, Orazio Amato, Michele Di Tommaso, Enrico Parisi e Gino Cianetti (rappresentanti la Confederazione della proprietà edilizia). Carlo Aru, Mario Bcrtarelli, Valentino Calligaris, Giuseppc Pedrocchi, Leonardo Severi, relatorc. Nel corso dei lavori si sono aggiunti Luigi Biamonti, Luigi Parpagliolo, Bernardo Genco e Virgilio Testa

[3]Questo commento si giova della relazione della Commissione ministeriale redatta dal dott. Leonardo Severi, consigliere di Stato, e dell'articolo di L. ParpagIiolo “La protezione delle bellezze naturali”, comparso nelle Vie d’Italia, settembre 1939-XVIII. E qui mi piace nuovamente citare questo benemerito apostolo che tanto ha scritto ed operato per la difesa del carattere paesistico d’Italia

[4]Cfr. su questo argomento G. Giovannoni, “Piani regolatori paesistici”sulla rivista Urbanistica, 1938 (XVI), 5.

[5]A questi magnifici temi dovranno, insieme con la progressiva applicazione della nuova legge e con la rispondente formazione della nuova coscienza nazionale, essere atti con sicura competenza i giovani architetti: ed è da auspicare la preparazione, nelle Facoltà di Architettura, di architetti paesisti, analoghi agli architectes paysagistes francesi ed agli inglesi Landscape Architects.

Ci sia consentito, per sola comodità di ragionamento, di iniziare dalla constatazione, così ovvia da sembrare ormai assolutamente superflua, che il “problema del paesaggio” occupa un posto preminente tra quelli di estrema attualità.

Da qualche tempo la sua urgenza preme e si impone da ogni parte, sia dal punto di vista spirituale che da quello pratico, poiché è accaduto, come di solito accade per tutti i fenomeni che giungono a maturità nel campo sociale, che le esigenze culturali e la conseguente evoluzione del gusto sono state, per così dire, concretizzate e portate alla ribalta dell’attenzione pubblica non pure dal verificarsi bensì dall’esasperarsi di una situazione di fatto già denunciata e deprecata fin dagli inizi del nostro secolo: il decadimento delle sedi umane per l’irrazionale espansione degli antichi nuclei urbani all’esterno, la caotica congestione all’interno ed il derivante affollarsi del traffico nell’insufficiente schema stradale. Non è il caso di enumerare qui, ancora una volta, le cause; ampiamente investigate ed ormai generalmente note, di questa catastrofica situazione che trova la sua ragione d’essere nell’evoluzione del pensiero scientifico e nell’enorme sviluppo di mezzi tecnici, e, quindi, nelle mutate condizioni di vita della società umana.

L’accerchiamento eccessivo ed incomposto dei vecchi centri è passato dal depauperamento ad una vera e propria soffocazione delle loro funzioni vitali; anzi, l’esuberanza del tessuto neoplastico ha fatalmente fatto degenerare la natura di quest’ultimo, mutandolo in una formazione cancerosa, metastasi nociva ad ognuna ed a tutte le parti dell’organismo su cui era venuto ad inserirsi, si trattasse dei tessuti urbani, creati e perfezionati attraverso il tempo, o extra urbani, o meglio rurali, preservati e potenziati con una non meno assidua cura ed abilità. L’uomo, in altre parole, ha visto minacciato di inevitabile distruzione ciò che aveva costituito la sua fatica ed il suo orgoglio secolare: il frutto della sua lunga opera tesa a soddisfare i suoi bisogni materiali di esistere e di stare, nonché le concretizzazioni di tale opera che, nella loro riuscita armonia di esecuzione, lo riattaccavano al passato in un processo storico di unitarietà, esaudendo il suo bisogno spirituale di realizzarsi nel tempo. E si trattava, per di più, di una distruzione che non lasciava nemmeno intravedere una creazione completamente nuova, dettata da esigenze mutate, che potesse sostituire in pieno, con nuovi valori spirituali, quelli inestimabili su cui sembravano poggiare le strutture della sua civiltà. È in questo momento, nel nostro momento, che il problema del paesaggio si è espresso attraverso varie voci; ne è sintomo, tra i più evidenti e vivaci, un vasto movimento di rinascita di gusto archeologico che, pur ricordandolo, va assumendo proporzioni più ampie e radicali di quello, anch’esso imponente, che, apparentemente culturale intimamente politico-sociale, iniziatosi nella seconda metà del secolo XVIII come un nuovo culto del classicismo, traeva origine, insieme all’incipiente nostalgia romantica dell’atmosfera medievale, da un medesimo spirito di ribellione contro le forme care al dispotismo monarchico del Seicento e si esprimeva in un bisogno di riattingere alle fonti antiche. Ma il nostro problema, ce ne siamo tutti resi ben conto, non consiste nella sola ricerca di nuovi valori spirituali; esso si presenta prima di tutto, e materialmente, con l’urgenza di rinnovare le forme naturali e costruite, di vivificare il tessuto dei nostri stessi insediamenti e di equilibrare, mediante una oculata pianificazione, strutture nuove e preesistenze antiche, in un’opera organica di inserimento. E questa è solo la causa scatenante della crescente ondata di interesse che va dilagando fuori dall’ambiente dei tecnici e investendo tutti gli stati della pubblica opinione. Le altre cause determinanti, se pure meno catastroficamente evidenti, non sono tuttavia di minor peso nella formulazione del problema e nella necessità di un’urgente soluzione di esso. L’analogia della presente situazione urbanistica con quella che caratterizzò l’inizio dell’Età meccanica ci è d’aiuto nella comprensione, pur con le dovute varianti, di un certo numero di esse, particolarmente di quelle attinenti alla necessità del rinnovamento delle sedi per ragioni igieniche, economiche e sociali. Se ci fosse concesso di valerci della qualifica di pianificatori, necessariamente portati, quindi, a considerare l’effetto economico di ogni manifestazione della vita sociale, chiedendo venia della nostra concezione razionalistica che non vuole, tuttavia, essere rudemente meccanicista, ci piacerebbe presentare il complesso di tali determinanti sotto la forma di una equazione economica in cui il volume della domanda e la qualità della offerta hanno il loro inevitabile peso nella determinazione del valore di esso fenomeno. Che l’offerta della merce “paesaggio”, sia come bellezza naturale che come persistenza archeologica, si presenti, nel nostro paese, eccezionale particolarmente dal punto di vista qualitativo oltre che da quello quantitativo, non v’è alcuno che possa dubitarne, e, con buona pace dell’amico Detti, non crediamo che in questa considerazione ci aberrino miraggi di “esoso sfruttamento”. La bellezza, sotto i vari aspetti in cui si presenta, è una materia prima di cui l’Italia abbonda, è una delle merci principali che essa è tra le nazioni più qualificate ad apportare al fondo comune, ora che i previsti intensificati scambi, non solo di prodotti, ma anche di idee, porteranno ad un aumento di correnti turistiche. E pertanto la riabilitazione di buona parte delle nostre zone depresse del Mezzogiorno, così ricche invece di patrimonio naturale ed archeologico, potrà, in mancanza di un difficile sviluppo industriale, basarsi proprio sulla valorizzazione di quelle.

Ben più difficili ed imponderabili sono gli elementi determinanti della domanda, la quale, come è facile osservare, è veramente notevolissima. Oltre alla natura, ai precedenti culturali e allo spirito di curiosità ancora inesperta ed insoddisfatta in questo campo, che costituiscono le principali caratteristiche del grosso dei visitatori che affluiscono nel nostro paese, ansiosi di evadere dalle tumultuose metropoli industriali e di rituffarsi in un bagno di più sana interpretazione dei valori essenziali dello spirito, v’è da parte di noi tutti, figli di questa tormentosa età, una nuova, strana nostalgia dell’armonia naturale o artistica che è sola capace di restituirci a quella serenità di vita che va ormai scomparendo nel ritmo rapido della civiltà moderna. È, il nostro, uno di quei fatali ciclici ritorni, non rari nella storia dell’umanità, in cui, raggiunto uno stato estremo di tensione tra spirito e materia, tra bellezza ed espressione, si cerca un rimedio alla profonda crisi di incertezza e di abbattimento, riattaccandosi alle antiche forme, riassorbendole e rielaborandole, sia pure come esperienza culturale riflessa se non come diretta esperienza di vita. E la nostra crisi, nella tremenda instabilità prodotta dall’enorme mutevolezza dei credi filosofici e della dinamicità paurosa delle conoscenze scientifiche attuali, è una di quelle che ha più disperato bisogno di appiglio e di aiuto.

Noi non pretendiamo affatto, in questa sede, di dire una parola nuova circa la trattazione del problema del paesaggio, specie per quanto riguarda il lato pratico della sua difesa, o tutela, o conservazione, che dir si voglia. Non lo potremmo, del resto, e per varie ragioni. Non è possibile, o almeno non ci sembra possibile, enunciare una metodologia generica di carattere tecnico-legale sull’argomento. La solita affermazione della riconosciuta necessità della disamina caso per caso ormai pecca di scarsa originalità e non è che un’inutile ed ovvia ripetizione. Inoltre tutte le considerazioni che si presentavano più o meno evidenti, e le proposte che apparivano necessarie sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, sia in campo artistico-architettonico, sia urbanistico, sia legale, sono state egregiamente esposte e discusse dai differenti studiosi specializzati. La nostra dibattuta preparazione del prossimo Congresso di Lucca, i convegni di “Italia Nostra”, tra cui particolarmente notevole l’ultimo di Firenze, i vari articoli più o meno polemici ispirati all’ultima Triennale, lasciano ben poco margine per chi non intenda ripetere cose già dette da altri o non voglia assumersi il compito, che a noi non spetta, di sintetizzarle prima che esse vengano vagliate e commentate in un apposito convegno.

Non ci resta che di contribuire, come ci proponiamo, al chiarimento di alcuni argomenti già trattati ma che ci sembrano suscettibili di una più esauriente puntualizzazione.

La prima difficoltà che si è incontrata nel corso del dibattito è stata quella di definire o, per essere più esatti, di puntualizzare il concetto di paesaggio, quale è e deve essere inteso nel nostro caso particolare. Si tratta, come si è potuto notare, di una questione di una delicatezza estrema, di cui non bisogna sminuire l’importanza, considerandola alla stregua di una dissertazione accademica più o meno brillante. È troppo ovvio che non si possa discutere di un fenomeno qualsiasi se non se ne penetri prima l’essenza e se ne riconosca la natura; e che, pertanto, solo chiarendo la genesi e l’evoluzione del concetto espresso dalla parola in questione, noi potremo rintracciare i requisiti necessari alla sua validità e passare poi a precisare quelle misure che tale validità intendono salvaguardare.

Il concetto di “paesaggio” è dunque risultato, alla prova dei fatti, di definizione non agevole. E non a torto, che questa, come altre parole passate, per un criterio di analogia che inizialmente poteva considerarsi addirittura una identità di significato, dal linguaggio di uso comune a quello specifico di una disciplina che rappresenta sostanzialmente un diverso atteggiamento spirituale, è venuta di mano in mano alterando il significato primitivo, fino ad acquistarne uno nuovo, scarsamente riavvicinabile a quello di origine, con l’estendersi e l’intensificarsi della portata della sua espressione nel campo nuovo.

È così che il termine paesaggio, quale secondo la sua etimologia doveva essere inteso nell’eccezione comune, e cioè quel complesso di elementi naturali ed artificiali che concorrono e contribuiscono a dar forma e carattere ad una porzione di territorio, nonché la veduta panoramica di esso cominciò a rivestire un decoro estetico e ad animarsi di un affiato di intellettualità quando fu adottato in campo artistico per significare la raffigurazione pittorica o letteraria di quel fenomeno naturale. E l’interpretazione e l’importanza che al paesaggio venne data, caratterizzano, come è noto, i vari atteggiamenti che si sono susseguiti in ordine di tempo nell’evoluzione della storia dello spirito umano.

Sia nel primo che nel secondo caso, però, l’elemento naturale veniva considerato, per così dire, dall’esterno, come un insieme spontaneo o una rappresentazione artificiale di cui l’uomo era spettatore, contemplativo o attivo, ma pur sempre spettatore.

Il concetto espresso dalla parola doveva invece intimamente mutare, nell’essenza e non solo in superficie, allorché essa fu presa in prestito da una scienza, sia pure antica, ma per l’espressione di idee nuova, quando, cioè, offrendosi l’immagine dell’universo in una visione completamente mutata, l’uomo venne ad inserirsi nella natura ed a farne parte integrante, ed il paesaggio cessò conseguentemente di essere considerato oggettivamente come una porzione più o meno estesa e pittoresca di territorio da osservare o rilevare, per diventate la risultante materializzata del rapporto, o meglio delle rete di rapporti, dell’uomo con essa. Ciò avvenne ad opera dei geografi, che, riscoprendo la Terra alla luce delle nuove tendenze scientifiche e filosofiche, distinsero un originario paesaggio naturale, creato da forze naturali endogene e rimodellato da forze naturali esogene, ed un paesaggio secondario geografico od umanizzato, profondamente trasformato dall’azione modificatrice dell’uomo, condizionata, a sua volta, dall’influenza delle forze naturali. E così importante e basilare è diventato questo concetto della moderna geografia, che ormai questa scienza viene considerata e definita come la conoscenza del paesaggio geografico in vista dei rapporti scambievoli tra l’ambiente naturale e l’uomo o il gruppo umano che in esso vive.

Partendo dallo stesso presupposto, pur con le inevitabili modificazioni imposte dal differente punto di vista, possiamo parlare del paesaggio che, per intenderci, chiameremo paesaggio urbanistico e che è rappresentato dal risultato di queste successive modificazioni, preso nella sua espressione concreta ed attuale, e prescindendo dal sopraccennato rapporto di causalità o meglio di interdipendenza.

Infatti, se la geografia si limita allo studio del paesaggio umanizzato a scopo di conoscenza, l’urbanistica o, in senso più lato la pianificazione territoriale, completa il processo nella parte pratica, prendendo in esame le espressioni concrete lasciate dall’uomo nell’estrinsecazione delle sue relazioni con la Terra, le cosiddette “tracce topografiche” ed intervenendo attivamente nella modificazione di esse. Tali tracce, impronte materializzate delle attività connesse alle suddette relazioni, e cioè le case e gli edifici derivati dall’abitazione e dalla costruzione, le strade agevolanti la circolazione, e le valorizzazioni e trasformazioni strutturali riguardanti la coltivazione in genere (ci è già accaduto di osservare che, oltre ad una coltivazione delle risorse del suolo in superficie, e cioè agricola, ed una delle risorse del sottosuolo, e cioè industriale, possiamo annoverare un terzo tipo caratteristico di valorizzazione delle risorse naturali a scopo turistico o di amenità); tali tracce, dicevamo, inquadrate nella loro cornice naturale si presentano come gli elementi costitutivi del paesaggio urbanistico. Esso, pertanto, si deve distinguere in due tipi principali, paesaggio urbano e paesaggio rurale, a seconda che prevalgano in esso elementi artificiali, opera dell’uomo (sovrastrutture ed infrastrutture) o che il processo di modificazione si sia maggiormente estrinsecato nel rimodellamento degli elementi naturali.

Facciamo notare:

1) che nella proposta denominazione l’uso dell’attributo urbano sconfina da quello che gli competerebbe secondo l’etimologia (l’urbs dovrebbe essere piuttosto considerata come agglomerato anziché come città). Sinonimo di paesaggio urbano è, pertanto, paesaggio costruito, espressione molto meno diffusa se pure più significativa;

2) che d’altra parte, con la specificazione rurale (da rus = campagna in senso generico, in contrasto con agglomerato) si intende; oltre al paesaggio trasformato per motivi economici, quello adattato per esigenze estetiche;

3) che, conseguentemente, essendo molto difficile se non impossibile, trovare allo stato attuale, il tipo ideale di entrambi, il nostro concetto di paesaggio urbano e rurale si basa su un criterio di densità, considerata però da un punto di vista urbanistico, e, cioè, densità di costruzione anziché densità di popolazione, quale è espressa dagli attuali coefficienti di urbanizzazione;

4) che l’impiego, consacrato dall’uso corrente, delle denominazioni paesaggio naturale e paesaggio artificiale invece che rurale ed urbano, ci sembra alquanto improprio, in quanto non esiste attualmente paesaggio rurale in cui l’opera dell’uomo non sia entrata a creare artificialmente condizioni di vita e ad adattarlo ai suoi bisogni, ed alle sue esigenze, anche quando egli si è, a ragion veduta, astenuto dall’intervenire, conservandogli, come è stato giustamente osservato, “artificialmente i suoi caratteri naturali”. È necessario inoltre ricordare che l’attributo “ naturale” riferito al paesaggio rurale è stato talvolta inteso in un senso del tutto diverso, e cioè come dice lo Sharp “non forzato in schemi formali ma libero di svilupparsi” ovvero “modellato per uso normale anziché per effetto monumentale” ;

5) che fino ad oggi, ed anche fra gli urbanisti, quando si dice paesaggio tout court si intende indicare generalmente quello che noi abbiamo chiamato paesaggio rurale e, più spesso, quel particolare paesaggio rurale che è sviluppato a scopo estetico o, come suol dirsi, di amenità. (Ciò accade in tutte le lingue, tant’è vero che fra gli inglesi si comincia a notare un “Townscape” in opposizione a “Landscape” a scopo di precisazione). Lo stesso Mumford, uno dei più noti teorici del regionalismo, quando parla del movimento di valorizzazione del paesaggio o di cultura dell’ambiente, in tema di pianificazione regionale, indugia unicamente sulle misure adottate o da adottare per la conservazione del paesaggio rurale o naturale. Solo di recente, a proposito di tutela o difesa di esso, e particolarmente noi italiani, per ragioni molto evidenti ma che ci proponiamo di riesaminare fra poco, vi andiamo includendo quello di tipo storico-archeologico. Noi affermiamo, invece, che è giusto comprendere nella parola “paesaggio”, usata in senso assoluto e senza qualificazioni di sorta, tutto il complesso di elementi naturali ed artificiali che formano e caratterizzano un determinato ambiente. Sotto tal luce deve considerarsi la proposta del Vittoria di riconoscere nel paesaggio urbanistico “tutte le opere naturali ed artificiali che l’uomo costruisce” in quanto queste costituiscono la forma attuale di esso e particolarmente quella che ricade nel dominio del pianificatore;

6) che, infine, non sarà superfluo far rilevare la differenza che passa tra le parole “ambiente” e “paesaggio”, talvolta usate impropriamente l’una al posto dell’altra, ma sempre in riferimento all’uomo che vi è insediato. L’ambiente è l’insieme degli elementi naturali e climatici che caratterizzano una porzione di terra in cui l’uomo vive; dal verbo ambire, esso è costituito da tutto ciò che lo circonda. Ma quando in tale ambiente l’uomo si è inserito, si è espresso e realizzato, da solo od in gruppo, egli ha dato origine al paesaggio che proviene dalla sintesi delle azioni congiunte sue e dell’ambiente stesso. Un biologo ed un ecologo (l’ecologia, per quanto di nascita posteriore come scienza separata, può intendersi riassumere in sé anche il concetto biologico) possono, sia pure da un punto di vista differente, parlare di ambiente; un geografo ed un urbanista si esprimeranno in termini di paesaggio. Ed a proposito di parole che, in campo diverso, mutano di significato, vogliamo far notare l’uso della parola “ambiente” nel linguaggio artistico-architettonico. In ,esso il concetto di zona singolarizzata e conclusa è completato da quel senso di naturale armonica unità e di atmosfera caratteristica che ci richiama alla mente i più noti esempi di ambienti, quali sono offerti dalle nostre belle città italiane.

Posto così il concetto di paesaggio urbanistico nei suoi due tipi rurale ed urbano, e considerando che ogni spazializzazione, di natura geografico-urbanistica, realizzando l’uomo e concretizzando la sua esistenza, come individuo e come gruppo, comporta anche una temporalizzazione ed ha quindi insita una sua storicità, ci è facile individuare un aspetto o, se si vuole, una fase del primo in quel “paesaggio con cospicuo carattere di bellezza naturale e di singolarità geologica” che, reso valido dal tempo, ha assunto un carattere di interesse pubblico; come dal secondo, inteso in senso lato, deriviamo quel paesaggio artistico di valore storico ed archeologico che costituisce un vero patrimonio culturale per la nazione che lo possiede.

Entrambi questi aspetti non costituiscono che forme materializzate di persistenze dell’opera di modificazione svolta dall’uomo nel tempo le quali presentano carattere di particolare interesse estetico, artistico o storico. Tali persistenze, siano esse concretizzate in monumenti, edifici o complessi di edifici, o insediamenti di varia estensione, o siano intimamente penetrate nella struttura stessa del paesaggio, riplasmandone o valorizzandone le primitive caratteristiche ambientali, sono venute in contatto con la lunga inevitabile serie di susseguenti modificazioni derivate dall’insorgere di nuove condizioni di vita e quindi dal nascere di nuovi bisogni e vi si sono talvolta inserite automaticamente in modo più o meno omogeneo, talvolta vi son rimaste quasi atrofizzate nel tempo come trapianti estranei nel bel mezzo di tessuti vitali in continuo sviluppo, talvolta infine vi sono state deteriorate e minacciate di distruzione, quando non siano state parzialmente distrutte o siano per esserlo. È perciò che, come è stato giustamente detto, il problema della conservazione del paesaggio naturale e della difesa di quello archeologico è un problema dì riequilibramento, ad andamento dinamico come tutti quelli che si riferiscono ad un organismo in evoluzione e, come quelli, non schematizzabile in una metodologia unica. Come quelli, però, è da risolversi non localmente, bensì globalmente; nel nostro caso in sede di pianificazione territoriale, ed è da affiancarsi alle misure per la valorizzazione dell’attuale paesaggio urbano e la conservazione di quello rurale di cui non è che un parziale aspetto. È così dunque, ripetiamo, che il concetto di valorizzazione e conservazione del paesaggio viene a profilarsi come un processo unico, a cui corrisponderanno in sede di applicazione pratica le diverse misure adatte al caso, corrispondenti ai differenti aspetti del paesaggio, considerati nella loro concretezza attuale, o alle sue differenti fasi, considerate storicamente, nella loro temporalizzazione.

Non ci sembra fuori luogo ricordare che gli inglesi, che per primi, nell’immediato dopo guerra, si trovarono ad affrontare praticamente una situazione del tipo nella ricostruzione di alcune della loro città bombardate, veri gioielli architettonici di quel gotico inglese che è cosi caratteristico dei loro ambienti conclusi, e che, d’altra parte, non potevano prescindere dalle tendenze paesaggistiche, né dimenticare l’amore per il verde che li aveva fatti i pionieri delle città giardino, enunciarono, fin dall’inizio della loro delicata opera, la necessità di considerare accanto alla pianificazione territoriale (physical planning) che ci si presenta come quel complesso di modificazioni dell’ambiente umano eseguite su base geografica e volte a scopi economici e sociali (nell’ambito cioè della residenza, del lavoro, dello svago, dei trasporti e della vita comunitaria), un processo non meno importante del primo, il visual planning, la pianificazione volta a soddisfare altri bisogni, non meno fortemente sentiti dall’uomo moderno anche se di natura più prettamente spirituale, e cioè i bisogni estetici.

È stato detto che da una buona pianificazione, condotta secondo sani criteri, scaturirà automaticamente il paesaggio del futuro; che un’oculata sistemazione delle residenze, dei servizi, del verde e degli impianti industriali, sia in sede urbana che regionale, che una razionale coltivazione del terreno destinato all’agricoltura ed un’attenta valorizzazione delle zone e dei complessi turistici, non potranno non produrre un’armonica distribuzione e disposizione di tutti gli elementi, naturali ed artificiali, costituenti il paesaggio urbanistico, nella nuova scala a cui le mutate condizioni economiche e lo sviluppo dei nuovi rapporti sociali hanno dato origine.

Questo volontarismo pianificato, mirante all’inserzione dell’uomo moderno nella sua cornice naturale riplasmata secondo criteri attuali dovrebbe, forse con minore apparente spontaneità, certo con maggiore prontezza, trovare le forme per le sue funzioni, e rispecchiarsi nella concretezza delle realizzazioni, a somiglianza di processi consimili, che molto più rudimentali e meno organizzati ma ugualmente efficaci come tutto ciò che muove contemporaneamente dall’uomo-spirito e dall’uomo-materia, lasciarono la loro traccia indelebile negli aspetti del paesaggio sia urbano che rurale che caratterizzarono le età che ci hanno preceduto. Ma il nostro, ripetiamolo, non sarà che un apporto nel quadro generale, un episodio nel processo dinamico del totale sviluppo del paesaggio urbanistico. Perché esso risulti completamente equilibrato, perché, cioè, l’unità del tutto e la coesione fra le varie parti coesistano e si determinino scambievolmente (si ricordino la continuità e l’articolazione postulate dal Benevolo come requisiti per la sua validità) è necessario che si operi in esso l’inserzione omogenea di quei complessi o di quelle zone che, pur facendone parte materialmente, sono lembi conservati o recuperati di una forma di paesaggio d’altri tempi, e, come tale, rispecchiante idee, principi, attività economiche differenti dai nostri. Particolarmente, come si è potuto ancora una volta notare nel corso dei citati dibattiti preparatori, la nostra attenzione è attirata dal paesaggio storico-archeologico, estremamente pregevole e particolarmente deperibile, la cui conservazione costituisce nello stesso tempo il lato più spiritualmente attraente e più materialmente delicato del problema. Quanto la nostra sensibilità senta l’appagamento di un suo intimo bisogno in questa viva testimonianza che ci riattacca al passato è inutile ripeterlo, come è superfluo constatare ancora una volta con quale particolare intensità tale bisogno è attualmente sentito.

Sono ormai acquisiti i vari rimedi proposti dai più valorosi e sensibili studiosi del nostro problema, è noto il dibattito per il criterio di conservazione o di restauro, nonché l’affermata necessità del proporzionamento delle masse negli ambienti, l’opportunità di non superare, in caso di ricostruzione di antichi complessi o di vecchi nuclei urbani, la cubatura in senso quantitativo ed altimetrico degli edifici preesistenti. È nota la serie di misure da osservare in sede di pianificazione, di recente riassunte egregiamente dal Quaroni, l’importanza del piano aperto, la necessità di deviazione del traffico, a cui si rifanno quelle direttive di pianificazione precintuale (precinctual planning) di cui demmo cenno in alcuni nostri articoli fin dal 1948 ed a cui si sono ispirati i primi grandi piani urbanistici britannici di ricostruzione [1].

Pure, alla fine delle nostre considerazioni, non possiamo tacerne una che ci sembra realmente conclusiva e che, comunque si affronti il ragionamento, è sempre la stessa: data l’estrema mutevolezza ed inafferrabilità degli elementi, e prescindendo da quei pochi precetti generali che possono servire da guida in ogni caso, la soluzione del problema che ci siamo proposti nei riguardi del nostro paesaggio urbanistico inteso in senso integrale, e cioè di valorizzazione della sua espressione moderna e di conservazione e difesa di quella preesistente, deve scaturire principalmente dall’educazione e dalla chiaroveggenza dei pianificatori e dal loro tradizionale buon gusto e senso della misura.

Gli italiani, come il Faure dice per i francesi, anzi ancora più di loro, sono soprattutto architetti, sono artisti nell’anima. Ma dalle stesse esigenze della vita moderna sorge da ogni parte il monito, ormai imperioso, che l’ora è giunta che l’architettura reintegri l’urbanistica ed identifichi nella sua missione una missione sociale. E che il pianificatore tratti forma ed essenza con l’oculatezza necessaria ad equilibrare le due facce del suo processo modificatore della sede umana; che si adoperi affinché, da una parte, non vengano vandalicamente distrutte le irriproducibili, pregevoli opere d’arte che ci sono pervenute attraverso il tempo, ma che sappia, dall’altra, discernere ed evitare il pericolo di sterilizzare, per un malinteso concetto di conservazione, ampi tratti di utile territorio di estrema necessità all’esplicarsi della vita sociale; che non tenti di far rivivere, nelle sue opere di rimodellamento, schemi ormai superati, né, d’altra parte, con deprecabile foga di eccessivo modernismo rinnovatore, deturpi quegli ambienti che del passato serbino ancora integra la loro vitalità e compiono ancora la loro particolare funzione; che, nel conflitto tra conservazione e progresso, sappia contemperare gli elementi dell’antico e del nuovo in quella giusta proporzione per cui l’intero organismo pianificato non venga ad essere turbato nell’estrinsecazione delle sue funzioni vitali ed assuma un’impronta di bellezza che sia la risultante di tutta l’opera di appassionato rimodellamento che vi è stata prodigata nei secoli.

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[1] Uno dei primi esempi di applicazione dei principi di conservazione degli ambienti antichi e della loro integrazione nel paesaggio moderno si ha nella ricostruzione di Exeter eseguita da Thomas Sharp. Vogliamo ricordarne qui l’esposizione introduttiva. Dopo aver esaminato le varie soluzioni possibili ed avere scartato il restauro fedele e pedissequo degli ambienti monumentali non meno che la ricostruzione imitativa, l’urbanista inglese si pronuncia in favore del rinnovamento. “Un rinnovamento – egli dice – non distruttivo ma comprensivo, che si basi sull'osservanza della scala e dello schema e sulla creazione di forme intime anziché monumentali. Esso non richiede il sacrificio dei requisiti e delle esigenze moderne. Al contrario potrà soddisfare le moderne condizioni di vita ed incorporare i moderni ideali democratici. Anche oggi – egli aggiunge – l’intimità è una caratteristica desiderabile. E sebbene le esigenze dei trasporti, larghe strade ed ampi incroci, la distruggano, quando il traffico principale è canalizzato fuori delle mura della città, queste esigenze non cozzano con il mantenimento di tale caratteristica”.

Prima di affrontare l’esame dei processi di trasformazione fondiaria che hanno investito quest’area della Calabria - intendo dire di Cutro e del Crotonese - è opportuno soffermarsi sui caratteri del paesaggio agrario proprio del latifondo tipico. E a tale fine risulta necessario porsi la domanda: ma quello del latifondo era solo e semplicemente un paesaggio agrario? E che cos’è un paesaggio agrario? Emilio Sereni, lo studioso pionere di tali studi, checi ha lasciato la più ampia e precorritrice monografia sul tema- Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari, 1961 - ha elaborato una definizione sintetica, efficace e persuasiva. Egli ha scritto : « paesaggio agrario significa quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Come si può constatare si tratta di una formulazione ineccepibile nella sua essenzialità, ma per noi - per i nostri fini di esplorazione più circostanziata - troppo generale e onnicomprensiva. In effetti - e come potrebbe essere altrimenti? - il latifondo è certo un paesaggio agrario. In esso non possiamo non scorgere un paesaggio naturale su cui l’uomo, vale dire i contadini, hanno impresso la loro impronta con il proprio lavoro secolare, i propri insediamenti, coltivazioni, tracciati viari, ecc. E tuttavia il latifondo è qualcosa di meno generico di un paesaggio. Esso è, precisamente, un sistema agrario. Che cos’è un sistema agrario ? E’ una particolare organizzazione dell’habitat agricolo in cui sono rinvenibili rapporti di funzionalità sistematica tra le forme e i modi dell’abitare e l’organizzazione produttiva agricola, fra gli insediamenti e la campagna, fra la casa ed il campo.

Nel primo volume della Storia dell’agricoltura italiana da me diretta (Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989) io ho individuato tre grandi sistemi agrari che contrassegnano in forme originali il nostro paesaggio agricolo. Questi tre grandi sistemi sono la cascina dell’Italia padana, la mezzadria delle regioni di centro del nostro Paese e il latifondo cerealicolo-pastorale. Vediamo brevemente come si configuravano questi «sistemi».

In che cosa consisteva la cascina, così diffusa soprattutto nella bassa pianura irrigua della Valle del Po? Essa era una forma di insediamento stabile. Una città in miniatura piantata nel bel mezzo della campagna. Molto spesso, le casine « a corte» erano chiuse da mura e avevano un porta di ingresso, che per lungo tempo è stata chiusa di notte dai proprietari per impedire l‘uscita dei dipendenti. Al suo interno c’erano le case dei salariati fissi,degli stallieri, bovari, ecc. la casa padronale, le stalle per l’allevamento degli animali, i granai, i fienili, i magazzini,ecc. Perché tante case ed edifici? Per ragioni eminentemente produttive. Nelle aziende in cui sorgevano le cascine l’attività agricola e di allevamento si svolgeva nel corso di tutto l’anno. L’agricoltura irrigua richiedeva una costante manutenzione, soprattutto per la coltivazione del riso e per le foraggere. Del resto anche durante l’inverno occorreva provvedere all’alimentazione del bestiame, che non viveva di pascolo brado, ma si alimentava di foraggio nelle stalle. Quindi, in queste terre, al paesaggio agrario delle grandi aziende di pianura a cereali e pascolo, percorse da canali, punteggiato qua e la dagli specchi d’acqua delle risaie, corrispondeva un insediamento abitativo centralizzato e stabile, quello appunto della cascina che ho appena abbozzato.E si comprende dunque che fra i due ambiti ci fosse un rapporto di funzionalità, di necessità sistematica..

In tutt’altro contesto sorgeva il sistema della mezzadria. Qui il modello abitativo era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna. In esso abitava il mezzadro, con la sua famiglia, sulla base di un contratto di durata variabile. Spesso il proprietario che concedeva la casa colonica possedeva più poderi nella stessa zona ed egli li coordinava stando in una dimora più grande, talora una vera e propria villa, la fattoria , che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva. La famiglia mezzadrile doveva stare sulla terra, anche per curare il territorio - prevalentemente collinare - incanalare le acque piovane, impedire le erosioni del suolo, riparare i terrazzamenti, ecc.Ma le coltivazioni di cui doveva occuparsi - da dividere a metà a fine anno col proprietario - erano anche quelle che dovevano garantirgli l’autosufficienza alimentare. Perciò intorno al podere il paesaggio agrario era dominato dalla policoltura contadina: grano, ulivi, viti, alberi da frutto, orto, bosco, pascolo, ecc.Una campagna dunque continuamente bisognosa di lavoro e dunque di presenza umana. E’ questo « il bel paesaggio» delle colline toscane e umbro-marchigiane così spesso descritte e ammirate, diventato ormai l’emblema, un po’ stereotipato, del paesaggio agrario italiano. Anche in questo caso possiamo parlare di sistema agrario, perché possiamo scorgere i legami funzionali che intercorrevano tra le ragioni dell’insediamento, in questo caso il podere, e le logiche e i vincoli della produzione.

Ancora più radicale si presenta il passaggio da queste terre all’habitat del latifondo tipico.Qui il primo dato da sottolineare, per comprendere appieno i caratteri di sistema dell’organizzazione agricola, è l’adattamento delle attività produttive ai caratteri avversi del quadro naturale originario.In queste terre - penso al Tavoliere delle Puglie, alla piana di Metaponto, al “collepiano” di Crotone, a tante zone interne della Sicilia e della Sardegna - l’agricoltura ha dovuto fare i conti per secoli, adattarsi e per così dire subordinarsi alle avversità naturali dei luoghi . In queste campagne prevalevano le terre argillose, adatte ai cereali ma non agli alberi, dominava il clima arido, con un regime pluviometrico irregolare e comunque tendente alla siccità primaverile-estiva. Al tempo stesso in genere erano rari i corsi d’acqua, tutti a regime ovviamente torrentizio. Ma l’elemento di avversità più grave era dato da un dato di ostilità ambientale difficilmente controllabile: la malaria. Questa endemia vecchia di millenni nell’habitat mediterraneo contribuiva a render radi gli abitati, disabitate le campagne. Ebbene, a tali condizioni “storico-naturali” ha corrisposto un sistema agrario a suo modo geniale. Un elemento di tale sistema era costituito dalla pastorizia transumante. D’inverno i pastori trasferivano le loro greggi nelle piane latifondistiche delle “marine”, dove raramente cadeva la neve, era possibile per gli animali brucare erbaggi, e gli uomini erano al riparo dalla malaria. In estate, invece, le greggi fuggivano le pianure aride ed alpeggiavano sulle montagne, dove trovavano pascoli freschi, acque, ombre e rifugio. Questa era ad esempio la pratica, antica, dei pastori abruzzesi che scendevano d’estate in Capitanata o dei mandriani calabresi - spesso alle dipendenze di grandi proprietari terrieri - che si spostavano stagionalmente tra la Sila e le marine del Crotonese. L’agricoltura, alternata ai pascoli, era dominata dalla coltivazione dei cereali. Piante preziose, non solo perché davano il pane, ma anche perché non richiedevano la presenza e la cura costante degli uomini. Non era necessario che ci fossero abitazioni presso le coltivazioni di grano nei latifondi. La presenza, assai numerosa, dei lavoratori si rendeva necessaria solo stagionalmente: in autunno per l’aratura e la semina, e soprattutto per la falciatura e la trebbiattura agli inizi dell’estate. A queste necessità di avere tante braccia da lavoro ma solo per pochi periodi dell’anno il “sistema” latifondo rispondeva con le migrazioni stagionali dei lavoratori insediati nei borghi, che sorgevano sulle alture ai confini dei territori latifondistici. Migrazioni che tuttavia potevano essere anche di più lungo raggio. Dunque, un paesaggio nudo, senza case, senza alberi, con poche masserie sparse su ampi spazi, e coronato da insediamenti accentrati nei paesi, dove viveva la forza lavoro bracciantile e i contadini. Una forma dell’abitare che si attagliava perfettamente ai vincoli dell’habitat e alle forme dominanti dell’attività produttiva.

Volendo soffermerci su questo territorio debbo ricordare che esso, prima della riforma avviata nel 1950, aveva subito pochissime modificazioni. Solo alcune bonifiche condotte negli anni del fascismo lungo la Valle del Neto avevano mutato la fisionomia di alcune aree delimitate. Ma a questo punto occorre ricordare un dato sin’ora rimasto in ombra. Il latifondo era un sistema agrario, ma anche un assetto giuridico della proprietà. In questa terra dominavano i grandi proprietari terrieri. Per dire cose più precise, proprio nella circoscrizione di cui ci occupiamo, quella del cosiddetto “Collepiano di Crotone” al momento della Riforma esisteva la più elevata concentrazione di proprietà fondiaria d’Italia. Qui solo 47 proprietari, su un totale di 10521 possedevano il 51% dell’intera superficie agraria. Famiglie come quelle dei Barracco, Berlingieri, Zito, Lucifero, Zinzi, Susanna, Mottola possedevano terre anche in altre circoscrizioni, sulle colline di Petilia Policastro, in Sila, in provincia di Cosenza, persino in Basilicata.

Non è del resto un caso che la prima legge di riforma fondiaria è la Legge Sila del 12 maggio 1950. Nell’ottobre dello stesso anno venne promulgata la cosiddetta Legge Stralcio, che investì con provvedimenti di esproprio e ripartizione delle terre altre regioni d’Italia: Abruzzi, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna, Lazio,Toscana meridionale, Delta del Po. Il primo risultato importante della riforma, che merita qui di essere ricordato, è l’abolizione giuridica e poi anche sostanziale, del latifondo. I proprietari non potevano possedere più di 300 ettari di terra a testa. Anche se molte famiglie latifondistiche ricorsero a vari trucchi e sotterfugi per mantenere superfici più vaste, il latifondo giuridico ricevette un colpo mortale. Fra il 1950 e il 1960 furono trasferiti in mano dei contadini 417.000 ettari di terra. Le tipologie delle assegnazioni erano due: le quote, che si aggiravano intorno a 1 ettaro o 1 ettaro e mezzo, e i poderi, in genere di almeno 4-5 ettari con annessa la casa colonica.

Quali effetti di trasformazione ebbe la riforma sul paesaggio agrario? Occorre dire subito che a 10 anni dall’avvio delle ripartizioni, nel 1960, ben il 40% delle terre assegnate ai contadini venne abbandonato. Si tratta di una cifra elevata che riguarda soprattutto le quote, ma anche i poderi. Ancora oggi, se girate per le campagne di Cutro qui attorno, così come in altre aree latifondistiche, potete osservare i resti delle case coloniche precocemente abbondonate dai contadini. Qui il mutamento del paesaggio e anche del territorio è stato minimo se non nullo.

E’ cambiata la proprietà, ma non è cambiata l’agricoltura, perché l’habitat restava quello di sempre, avverso alle coltivazioni intensive e agli insediamenti. Solo la dove la redistribuzione delle terre era accompagnata da opere di bonifiche, dalla costruzione di canali, dalla diffusione dell’acqua, il paesaggio è mutato, e così anche il profilo stesso del territorio. Ad esempio, nelle zone lungo il Neto, e comunque dove è stato possibile portare l’acqua, le colture estensive dei cereali hanno ceduto il passo alle colture orticole, agli alberi, ai frutteti. E il mutamento agricolo ha a sua volta indotto la diffusione degli insediamenti, dei tracciati viari, ecc. Qui la riforma ha dunque avuto un relativo successo. Anche se bisogna pur sempre ricordare che essa è stato un episodio storicamente tardivo. La riforma è stata realizzata quando ormai l’agricoltura stava diventando sempre meno importante nell’economia complessiva di un Paese industrializzato come l’Italia.

Per concludere, vorrei sollevare un problema, a mio avviso rilevante, che si pone davanti a noi. Il sistema latifondo, come abbiamo visto, è stato spezzato, così come la concentrazione abnorme della proprietà fondiaria .Tuttavia rimangono ancora, sebbene frammentate, estese e significative aree di paesaggio latifondistico. E’ sufficiente andare in giro attorno al comune di Cutro, Santa Severina, Botricello, ecc, per avere la possibilità di ammirare queste distese di terre nude, lunari, senza un arbusto, un muretto, una linea di confine. Il problema che sollevo è: come ci poniamo di fronte a questi frammenti che sono i resti di una agricoltura millenaria?

Dobbiamo trasformarli in agricolture moderne, investendo in bonifiche, irrigazioni, trasformazioni territoriali? Che senso avrebbe oggi, cioè in una fase storica in cui l’agricoltura italiana, come del resto quella europea, è gravata dalle eccedenze produttive? A qual fine allargare la superficie agricola, in terre difficili, quando la collettività europea paga gli agricoltori perché lascino incolte le loro terre? Si comprende bene, dunque, che la via di una nuova valorizzazione agricola di queste campagne è priva di senso.

Io credo, al contrario, che la migliore scelta per valorizzare queste terre sia di lasciarle così come sono. Esse costituiscono infatti un frammento storico di straordinario valore: gli ultimi relitti del latifondo tipico, di cui si trova l’eguale, in Europa, solo in poche altre regioni, come l’Alentejo portoghese o l’ Andalusia. Un parco paesaggistico del latifondo, ecco la destinazione migliore di queste terre: paesaggio di inquietante nudità e magnifica testimonianza sotto il cielo di millenni di lavoro contadino.

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