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L´ex-premier è imputato a Milano quale corruttore in atti giudiziari: una parte congeniale, visti i precedenti, stavolta tintinnano 600mila dollari all´avvocato londinese David Mills, esperto in labirinti fiscali nonché servizievole testimone. Lo racconta il predetto, confesso in Inghilterra e Italia, sicché alla difesa resta solo l'arma del perditempo, tanto da estinguere i reati. Monsieur B. aveva ricusato l'intero collegio: è la nona volta e soccombe ancora, impassibile. Le sue guerre forensi sono materia da stomaco forte, dove onore, verità, belle figure dialettiche contano poco. Se l´asserito reato esista e sia ancora punibile, doveva dirlo il Tribunale.L'ha detto: esiste e nei suoi calcoli risulta estinto dal tempo; era punto controverso. In lingua meno tecnica, l´impenitente corruttore schiva la pena e gli resta il marchio: fosse dubbio il fatto, sarebbe assolto; non se ne vanti, quindi. Avere schernito Dike con i versi della scimmia è titolo da compagnia equivoca: infatti vi gode un meritato culto, patrono con aureola; Kronos mangia i delitti.
L'analisi comincia dalla persona.

Esistono italiani intolleranti della serietà: preferiscono Crispi a Cavour; detestano Giolitti; liquidano De Gasperi; amano i buffoni, specie quando emergano aspetti sinistri. Mussolini li incanta con le smorfie al balcone e sotto la divisa da primo maresciallo dell´Impero: vola, nuota, balla, scia, miete, batte il passo romano, farnetica glorie militari; dopo vent´anni resterebbe a vita nella sala del mappamondo se non muovesse guerra a tre imperi. Berlusco Magnus è catafratto nella sicumera degl´ignoranti: sguaiato megalomane, ha fantasia fraudolenta, menzogna estrosa, occhio sicuro nel distinguere i lati peggiori dell´animale umano; vìola allegramente ogni limite.

Le sue gesta stanno in quattro verbi: corrompe, falsifica, froda, plagia (mediante ipnosi televisiva, allevandosi una massa adoperabile); cervelli e midolla sono materia plastica. Due mosse strategiche dicono cos´abbia in mente: appena salito al potere, homo novus, propone guardasigilli l´avvocato che gli combinava ricchi affari loschi (il capolavoro è la baratteria con cui s´impadronisce della Mondadori comprando una sentenza); e degrada a bagatella il falso in bilancio, importantissimo nella diagnostica penale. In due legislature, padrone delle Camere, attua quel che sarebbe appena immaginabile in monarchie piratesche: governo personale, quasi lo Stato fosse roba sua; brulicano voraci faune; i convitati spolpano l´Italia.

L´effetto non tarda. Fanno testo i numeri forniti dalla Corte dei conti: 60 miliardi l´anno nel giro d´affari corrotti; e un´evasione fiscale calcolabile in 100-120 miliardi; invano il Consiglio d´Europa raccomanda misure contro la tenia economica (verme nient´affatto solitario, visto come gavazzano P3, P4 et ceterae); il governo non batte ciglio. Metà dell´intera patologia europea fiorisce qui. Dove porti la politica del laissez manger, è presto detto: traslocando nel novembre 2011, sotto l´assalto dei mercati, l´Olonese lascia un debito pubblico pari a 1.905.012 (miliardi d´euro) ossia il decuplo dell´annua emorragia malaffaristica; aveva governato otto anni e mezzo, «uomo del fare». I conti tornano.


Estinzione del reato, dunque, e se l´è sudata: incasserebbe i quattro anni inflitti a Mr Mills da Tribunale e Corte d´appello se le Camere affollate da uomini e donne del sì non votassero un malfamato lodo che vieta i giudizi penali nei suoi confronti, quia nominatur leo, strapotente capo del governo; quando va in fumo, dichiarato invalido, gli servono un privilegio dell´impedimento d´ufficio a comparire nell´aula. Così passano settimane, mesi, anni. Era latta anche questo scudo: finalmente compare ma nominor leo, quindi concede al massimo un giorno alla settimana e il dibattimento, illo tempore sospeso, deve ripartire davanti a un collegio diverso; il tutto basta appena, essendosi Sua Maestà accorciati i termini della prescrizione, con relativa amnistia occulta. Caso mai non bastasse, aveva pronte due leggi da manicomio: l´imputato ricco allunga finché vuole i dibattimenti arruolando testimoni a migliaia, e sul processo pende una mannaia; scaduto il termine, gli affari penali svaniscono.

Sembrano incubi d´un cattivo sonno. No, è vergognosa storia recente. Come Dio vuole, sabato 12 novembre 2011 esce dal Palazzo avendo condotto l´Italia a due dita dalla bancarotta, ma non pensiamolo depresso: cova revanche; arrotano i denti dignitari, sgherri, domestici d´ambo i sessi, infuriati dalla prospettiva d´una ricaduta nel nulla. Mercoledì 22 febbraio nelle tre ore del colloquio col successore tocca argomenti caldi quali Rai e giustizia: le cosiddette «carriere separate» ossia un pubblico ministero governativo, che dorma o azzanni, secondo gli ordini; non dimentichiamo chi voleva installare in via Arenula. Gli spiriti animali restano integri. Lo confermava l´energico sostegno al piano delle Olimpiadi, come se opere colossali, talora finte, non avessero divorato abbastanza denaro; particolare pittoresco, sedeva a banchetto qualche gentiluomo del papa.

La Corte dei conti (16 febbraio) chiede due misure dal senso chiaro: riconfigurare comme il faut il falso in bilancio; e un regime equo della prescrizione, l´attuale essendo criminofilo.
Ogni tanto lamenta d´avere speso somme enormi in parcelle. Parliamone: ai bei tempi penalisti d´alta classe giostravano nel merito delle cause, fatto e diritto, sdegnando i cavilli procedurali; dura il ricordo d´avvocati giuristi quali Arturo Carlo Jemolo o Alfredo De Marsico, morti quasi poveri dopo una lunga vita in cattedra e sui banchi giudiziari. Erano sapienti ma disadatti al mestiere, commentano eroi del Brave New World, scambiando sogghigni porcini. L´immagine viene da Orwell, nella cui molto istruttiva Fattoria degli animali comandano maiali umanoidi dal freddo aplomb manageriale: una specie importante; chiamiamola verres erectus. Siamo salvi dal default. Deo gratias. Rimane una questione grave: quanto mordano nel codice genetico gli ultimi vent´anni; anzi, trenta, se v´includiamo l´antipedagogia televisiva.

L'ex premier è stato sempre protetto, assistito e garantito dal potere pubblico. Gli è mancato un amministratore delegato per governare l'impresa-Stato. Come Mario Monti. Tra '89 e '91 il «biennio in rosso» di Fininvest: debiti triplicati a dispetto del dumping pubblicitario. E nel '93 il maxifinanziamento di Goldman Sachs. Poi la «discesa in campo». E le cose migliorano

C'era da aspettarselo. Alla prima vera e grande prova del fuoco da imprenditore, investito della guida del Paese e chiamato a risolverne la crisi, Silvio Berlusconi ha fallito l'obiettivo. A cominciare dal principale: il debito.

Il motivo del suo fallimento è semplice: non è un imprenditore vero. O meglio, imprenditore lo è, ma lo è sempre stato in modo assistito, protetto, garantito. Per prima cosa dal vecchio Potere politico alla cui ombra, negli anni Ottanta, è nato, cresciuto e s'è pasciuto. Ottenendo leggi, decreti e sentenze per le sue televisioni fino all'approvazione della legge Mammì del 5 agosto 1990, che ha fotografato il duopolio esistente (Rai-Fininvest), ingessandolo, e garantendo alla reti Fininvest la diretta televisiva e il diritto a tre Tg, come la Rai. Un assetto utile per costruirsi il consenso e farsi esso stesso Potere politico. In proprio e a difesa delle sue aziende, dal 1994 ad oggi, dopo la caduta del vecchio Sistema sotto i colpi giudiziari di Tangentopoli.

L'impasse in cui è caduto nei giorni scorsi Berlusconi, da presidente del Consiglio, sulla crisi, sui conti, sulla finanza, è la prova provata del suo essere imprenditore sui generis, bravo solo con l' "aiutino" alle sue aziende. Quelle stesse che, all'apice della crisi, sotto la pressione dello spread e prima delle dimissioni di sabato scorso, sono state oggetto di un vertice rapidissimo tra lui, i figli, il presidente Mediaset Confalonieri e l'avvocato Ghedini, non appena s'è capito che il governo vacillava, la maggioranza smottava e molti deputati traghettavano verso il Centro. Allora il suo primo pensiero è andato alle proprietà.

Forse Berlusconi, in questi anni e nell'ultima ora, avrebbe dovuto avere al suo fianco, più che un ministro dell'Economia, un Amministratore delegato vero che lo guidasse, consigliasse, indirizzasse. Come quel Franco Tatò che a metà degli anni Novanta prese in mano la Fininvest, rigirò l'azienda come un calzino, risanandola, e preparando il terreno a quella collocazione in Borsa del Biscione da Berlusconi sempre osteggiata: «Che cosa ci vado a fare in Borsa? I soldi per la mia crescita me li procuro con gli utili. Se andassi in Borsa, certo, raccoglierei altri soldi, ma non saprei cosa farne, come investirli. Avrei solo un sacco di grane e basta». Invece, come un colpo di spugna, l'operazione cancellò tutti i debiti, creando il presupposto per il futuro successo aziendale.

Già, perché agli inizi degli anni Novanta, Silvio Berlusconi era pieno di "buffi": 1.242 miliardi nel 1987 e 3.469 l'anno successivo. Tre volte tanto. E un utile netto calato del 26%, dai 245,9 miliardi dell'87 ai 181,8 dell'88 secondo la classificazione di R&S, ovvero la summa dei bilanci delle società italiane annualmente pubblicata da Mediobanca. Il tutto a dispetto di un fatturato che nel periodo è invece letteralmente esploso, passando dai 2.631,2 miliardi dell'87 ai 6.048 miliardi di lire dell'anno successivo.

Certo, alla data di metà gennaio 1991, quando gli indici del "biennio in rosso" della Fininvest diventano pubblici, va calcolato che Berlusconi per rafforzare le proprie posizioni in Mondadori, appena strappata a Carlo De Benedetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari con una sentenza che si saprà poi esser stata "comprata", frutto della corruzione di un giudice, ha speso nel corso del 1989 circa 950 milioni, per altro non calcolati nel R&S del 1990. Dal punto di vista industriale e imprenditoriale, una situazione fallimentare. Quasi da libri in tribunale. Ciò che mette fortemente in discussione la figura imprenditoriale dell'allora Sua Emittenza.

«I suoi debiti sono grandi - scriveva The Economist a metà marzo 1992 -, la sua prepotenza più grande ed egli potrebbe aver sfiorato i limiti della legge». Era il periodo in cui 21 editori, in rappresentanza di 44 quotidiani italiani ed esteri, avevano denunciato il patròn della Fininvest al Garante per l'editoria di «abuso di posizione dominante» nel settore della pubblicità. E anche di dumping, vendendo pubblicità sottocosto per mettere nei guai i concorrenti, Rai, piccole emittenti, carta stampata. Lui di sé già allora diceva: «Sono il più bravo».

Però l'imprenditore, perfetto conoscitore delle «catene azionarie degli altri», al quale l'ingresso in Borsa fa schifo perché costretto a dividere con "il mercato" le azioni, «mentre io qui, invece, controllo il 100 per cento di ogni telecamera, di ogni spezzone di film che sta in archivio», il 6 maggio 1993 - a soli pochi mesi dalla decisione di "scendere in campo" - è costretto a confessare ai massimi dirigenti del suo gruppo riuniti in una tradizionale cena: «Voi sapete che a me non è mai piaciuto avere soci nella Fininvest, ma oggi devo dire che un socio purtroppo l'abbiamo, e al 40%: si tratta delle banche». Ed è costretto a cercare altra liquidità negoziando un maxi-finanziamento a Londra con la Goldman Sachs e attraverso qualche cessione. Operazioni comunque complesse se i profitti sono in calo e i debiti in crescita.

Il 5 ottobre 1993 Silvio Berlusconi corre ai ripari, fa un passo indietro (il primo di una serie), rinuncia ad occuparsi di tutto e nomina un Ad del gruppo. E sceglie come plenipotenziario Franco Tatò, soprannominato "kaiser Franz" per quel suo rigore tedesco, l'ossessione per i numeri e anche per essere un gran tagliatore di teste. Del resto gli ultimi dati di Mediobanca hanno quantificato debiti per la Fininvest nel '92 per complessivi 7.140 miliardi. Al "dottore" non è andata proprio giù che se ne sia parlato sui giornali. Tanto da querelare Giovanni Valentini, che su la Repubblica del 9 marzo 1994 gli attribuisce «un'esposizione a breve verso le banche di 8.561 miliardi». Falso, tuona Fedele Confalonieri sulle stesse colonne, «tale esposizione ammonta a 2.081 miliardi». Che non sono proprio noccioline.

Addirittura il 3 febbraio 1994, a pochi mesi dalle elezioni, viene fuori che «il Cavaliere non paga». Non paga le sue star, non salda le fatture, tiene in ballo centinaia di creditori che da tempo non vedono da lui nemmeno una lira, i dipendenti delle ditte che forniscono servizi in appalto, persino i doppiatori dei film e delle soap. Ancora a marzo The Economist scrive: «Silvio Berlusconi spera di diventare il prossimo primo ministro italiano e propone di applicare il suo acume per gli affari al risanamento dell'Italia» ma «la grande similitudine tra la Fininvest e il Tesoro italiano è che entrambi sono impantanati nei debiti». E mai similitudine fu più profetica, solo che 17 anni dopo l'Italia è nel fango e le sue aziende sull'Olimpo.

Intanto la "cura tedesca" di kaiser Franz è fatta di tagli e alla fine porta al raddrizzamento dei conti. Per tutto il '93 e il '94 riduce personale (1.356 unità tra il '93 e il '94), contraddicendo quello stesso Berlusconi che si vanta: «Noi non abbiamo mai licenziato nessuno». Ma perché proprio Tatò, per altro manager con vaghe simpatie di centro-sinistra? È l'unico su piazza in grado di poter rimettere in sesto l'azienda. Mentre il futuro leader politico già si professa «vittima di uno Stato crudele», sempre «col cappello in mano», tartassato dalle tasse e vittima «di una campagna denigratoria» che lo vuole distruggere, di leggi inique pensate da un Parlamento nemico degli imprenditori» (e la discesa la sta già preparando).

Poi c'è la conquista di Palazzo Chigi e le offerte bluff di Murdoch. Lo squalo si presenta ad Arcore con un assegno e poi chiede a Berlusconi di diventare suo socio. Quindi l'accordo siglato con l'arabo Al-Waalid Bin Talal Bin Abdulziz Al Saudi, principe arabo interessato a comprare una quota di Mediaset. L'aumento di capitale, la famiglia Berlusconi che mette liquidi nell'azienda, l'arrivo del gruppo sudafricano Rupert e del tedesco Kirch. Tanto denaro in cambio di poco. E senza risolvere il conflitto di interessi, di cui si occupano "quattro saggi", giuristi-amici chiamati direttamente dal presidente del Consiglio, naturalmente senza risolverlo.

Però da 3.469 miliardi il "rosso Fininvest" nel 1995 passa a soli 78 miliardi... E poco prima di Natale ben 7 istituti di credito guidati dall'Imi si apprestano a diventare azionisti della holding che raggruppa gli interessi televisivi e pubblicitari di Silvio Berlusconi. Avrebbero fatto lo stesso se si fosse trattato semplicemente del "dottor" Silvio Berlusconi e non anche del presidente del Consiglio?

Non è un caso, infatti, che nell'annunciare gli sviluppi dell'operazione bancaria, il vicedirettore generale dell'Imi, Vittorio Serafino, sia costretto a difendersi accanitamente da coloro che accusano il suo istituto «di prestarsi ad un'operazione dai connotati confusi»: le banche pubbliche, o ex pubbliche, ma comunque condizionate dal potere politico, aiutano Berlusconi a salvarsi dalla bancarotta per disegni che poco hanno a che spartire con i principi dell'economia.

È il 31 dicembre 1995, Capodanno. Giuseppe Turani, firma economica de la Repubblica, si chiede: «A voi che cosa ha portato Gesù Bambino per Natale? Un nuovo impianto hi-fi? Un tv color? Un telefonino cellulare? Un Rolex (magari d'oro e platino)? Una Ferrari rossa fiammante? Qualunque cosa abbiate ricevuto, c'è almeno un italiano a cui è andata di sicuro molto meglio: Silvio Berlusconi. A lui Gesù Bambino e Babbo Natale hanno portato 370 miliardi di lire in cambio del 5,5% di Mediaset». A portarglieli sono stati banchieri pubblici, di quelli seri, abito scuro, camicia bianca, panciotto grigio. Per Fininvest 370 miliardi di debiti in meno.

Già il 3 aprile 1996, le aziende di Berlusconi fanno più utili e meno debiti. Il 15 e 16 luglio Berlusconi quota le tv e rastrella denaro alla Borsa. E già il 21 settembre può annunciare di aver abbattuto l'indebitamento. Il 23 ottobre la società di Cologno Monzese raddoppia addirittura gli utili. Il 13 giugno 1997 si calcola che i mezzi finanziari del gruppo ammontino a 1.000 miliardi di lire e che il braccio operativo dell'azienda (la Soparfi, Società di partecipazioni finanziarie) si trovi in Lussemburgo. E il 2 luglio dello stesso anno il Cavaliere, o chi per lui, può annunciare che «la Fininvest ha azzerato i debiti». Il collocamento in Borsa di Mediolanum e Fininvest ha fatto affluire nelle casse del gruppo poco meno di 5.000 miliardi di capitali freschi. «In Mediaset stat virtus» ironizzano gli opinionisti di mezzo mondo.

Di mezzo ci sono però anche il fallimento francese della tentata conquista de La Cinq, il profondo rosso della Standa (acquisita da Gardini e già Montedison, rivenduta dopo qualche anno), la cessione della maggioranza di Mondadori e la vendita a Ennio Doris di Fininvest Italia per fare cassa, il pessimo andamento delle attività assicurative, di Banca Mediolanum, della finanziaria Programma Italia. Un andazzo altalenante. Chiari e scuri, luci e ombre.

Per pareggiare i conti con l'Europa a Silvio Berlusconi Giulio Tremonti non è bastato. Perché ciò che succede in Italia non può accadere in Europa. Non è bastato nascondere la crisi come si fa con la polvere sotto il tappeto. Solo in Italia può attecchire la favola dell'imprenditore fuori dalla Casta che s'è fatto da sé. La verità è che per anni ha sfruttato la politica altrui e poi usato a fondo la propria. Un imprenditore di Stato. Che in casa propria può vivere solo grazie alla furbizia italica, i trucchi e le tante connivenze.

In fondo, alla fine, più che lo spread, i vertici di famiglia, l'assedio delle opposizioni, le pressioni del Colle, il mal di pancia dei suoi, quel che ha contato di più per Silvio Berlusconi è stato il consiglio di Ennio Doris che, occhio agli indici e ai listini di Borsa, gli ha detto: «Presidente, se qui non ti fai da parte perdi tutto. Il valore delle tue aziende si dissolve, ne vale la pena?».

Alla fine l'amministratore delegato è arrivato: Mario Monti. In fondo, come scriveva il britannico Financial Times il 26 settembre 1993, «tutti i proprietari di mass media in Italia, più o meno apertamente sostengono una causa, questa è proprio la ragione per cui sono diventati proprietari. (...) Lo stesso Berlusconi è sempre stato un animale politico, ed ha costruito il suo impero grazie a una stretta amicizia politica con Bettino Craxi». L'imprenditore che s'è fatto politico per interesse personale non è bastato a se stesso. Nella duplice veste, di imprenditore e politico. E ha dovuto rassegnare le dimissioni senza trovare qualcuno disposto a salvarlo dal suo fallimento.

È certo che anche se Berlusconi andasse via, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Durante questo ventennio ha terremotato l'apparato statale infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. Dalle abitudini al linguaggio, ha "smontato" lo Stato

È la normalità, la tanto attesa normalità, che ha reso storica la lunga giornata di ieri anche se ci vorrebbe un governo Monti delle anime e dei sentimenti e dei valori per liberare l'Italia dal berlusconismo. Nessuno dunque si illuda che sia davvero scaduto il tempo. Certo, alla Camera lo hanno giubilato, gli hanno fatto un applauso da sipario: è così che si chiude e si dimentica, con l'applauso più forte e più fragoroso che è sempre il definitivo.

Poi Napolitano è riuscito a dare solennità anche all'addio di Berlusconi che sino all'altro ieri si era comportato da genio dell'impunità inventando le dimissioni a rate. Che lui nascondesse una fregatura sotto forma di sorpresa è stato il brivido di ieri, e difatti, inconsapevolmente, nessuno si è lasciato troppo andare e la festa, sino all'annuncio ufficiale delle dimissioni, più che sobria è stata cauta. Di sicuro Berlusconi non ha avuto il lieto fine. Entrato in scena cantando My Way ne è uscito con lo Zarathustra che premia "il folgorante destino di chi tramonta".

Dunque non c'è stato il 25 luglio, non la fuga dei Savoia né la fine della Dc, né tanto meno la tragedia craxiana, nessuno ha mangiato mortadella in Parlamento come avvenne quando cadde Prodi, non c'è stato neppure l'addio ai monti di Renzo anche se nessuno sa cosa farà Berlusconi, se rimarrà in Italia o invece andrà in uno dei degli ospedali che dice di avere regalato nei luoghi del Terzo Mondo. Tutti parlano, probabilmente a vanvera, di una trattativa parallela e coperta sui processi, di un salvacondotto e di un'amnistia che non hanno mai riguardato in Italia reati come la corruzione e lo sfruttamento della prostituzione. In un Paese normale la rimozione di un capo non produce mai sconquassi e siamo sicuri che il pedaggio che paghiamo alla normalità non sarà l'enorme anormalità di un pasticcio giuridico.

È comunque certo che, anche se Berlusconi si rifugiasse ad Antigua, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Ecco perché ci vorrebbe una banca centrale della civiltà per commissariare il Paese dove Berlusconi "ha tolto l'aureola a tutte le attività fino a quel momento rispettate e piamente considerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo di scienza in salariati da lui dipendenti".

Dunque neppure nello storico giorno in cui è stato accompagnato fuori con il suo grumo di rancore invincibile e lo sguardo per sempre livido, è stato possibile accorarsi e simpatizzare. Non c'è da intonare il requiem di Mozart o di Brahms per l'uomo più ricco d'Italia che ha comprato metà del Parlamento e ha ordinato di approvare almeno 25 leggi ad personam. E ha terremotato lo Stato infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. E mentre i suoi ministri leghisti attaccavano la bandiera e l'unità dello Stato, Berlusconi organizzava la piazza contro i tribunali di Stato, la Corte costituzionale, il capo dello Stato. Anche il federalismo non ha preso, come negli Usa e in Germania, la forma dello Stato ma dell'attacco al cuore dello Stato. Avevamo avuto di tutto nella storia: mai lo statista che lavorava per demolire lo Stato. Quanto tempo ci vorrà per rilegittimare i servitori dello Stato, dai magistrati ai partiti politici, dagli insegnanti ai bidelli ai poliziotti senza soldi e con le volanti a secco?

E quante generazioni ci vorranno per restituire un po' di valore all'università, alla scuola e alla cultura che Berlusconi ha depresso e umiliato: contro i maestri, contro gli insegnanti, contro tutti i dipendenti pubblici considerati la base elettorale del centrosinistra, e contro la scuola pubblica, contro il liceo classico visto come fucina di comunisti. E ha degradato la più grande casa editrice del Paese a strumento di propaganda (escono in questi giorni i saggi di Alfano, Sacconi, Bondi, Lupi....). Ha corrotto una grande quantità di giornalisti come mai era avvenuto. Ha definitivamente distrutto la Rai affidata ad una gang di male intenzionati che hanno manipolato, cacciato via i dissidenti, lavorando in combutta con i concorrenti di Mediaset. E con i suoi giornali e le sue televisioni ha sfigurato il giornalismo di destra che aveva avuto campioni del calibro di Longanesi e Montanelli. Con lui la faziosità militante è diventata macchina del fango. Testate storiche sono state ridotte a rotocalchi agiografici. E ha smoderato i moderati, ha liberato i mascalzoni dando dignità allo spavaldo malandrino, ai Previti e ai Verdini, ai pregiudicati, e c'è un po' di Lavitola, di Lele Mora e di Tarantini in tutti quelli che gli stanno intorno, anche se ora li chiama traditori. Berlusconi, che fu il primo a circondarsi di creativi, di geniacci come Freccero e Gori ha umiliato la modernità dei nuovi mestieri, della sua stessa comitiva, l'idea di squadra che all'esordio schierava a simbolo Lucio Colletti e alla fine ha schierato a capibranco Tarantini, Ponzellini, Anemone, Bisgnani, Papa, Scajola, Bertolaso, Dell'Utri, Verdini, Romani, Cosentino. Eroi dei giornali di destra sono stati Igor Marini e Pio Pompa. I campioni dell'informazione berlusconiana in tv sono Vespa, Fede e Minzolini. Persino il lessico è diventato molto più volgare, il berlusconismo ha introdotto nelle istituzioni lo slang lavitoilese, malavitoso e sbruffone. E'stato il governo del dito medio e del turpiloquio, è aumentato lo 'spread'tra la lingua italiana e la buona educazione.

E la corruzione è diventata sacco di Stato e basta pensare agli appalti per la ricostruzione dell'Aquila, assegnati tra le risate della cricca. Berlusconi ha dissolto "tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi. E tutto ciò che era solido e stabile è stato scosso, tutto ciò che era sacro è stato profanato". Persino la bestemmia è diventata simonia spicciola, ufficialmente perdonata dalla Chiesa in cambio di privilegi, scuole e mense. Toccò, nientemeno, a monsignor Rino Fisichella spiegare che, sì, la legge di Dio è legge di Dio, ma "in alcuni casi, occorre "contestualizzare" anche la bestemmia". E quanto ci vorrà per far dimenticare la diplomazia del cucù e delle corna, lo slittamento dal tradizionale atlantismo verso i paesi dell'ex Unione Sovietica, la speciale amicizia con i peggiori satrapi del mondo?

E mai c'era stata una classe dirigente maschile così in arretrato di femmina verrebbe da dire con il linguaggio dell'ex premier: femmina d'alcova, esibita e valutata come una giumenta, con il Tricolore sostituito con quella grottesca statuetta di Priapo in erezione che circolava - ricordate? - nelle notti di Arcore. Persino il mito maschile della donna perduta e nella quale perdersi, persino la malafemmina italiana è stata guastata da Berlusconi, ridotta a ragazza squillo della politica: l'utilitaria, il mutuo, seimila euro, l'appartamentino, un posto di deputato e forse di ministro per lucrare il compenso - "il regalino" - agli italiani. Lo scandalo del berlusconismo non è stato comprare sesso in un mondo dove tutto è in vendita ma nel pagare con pezzi di Stato, nell'uso della prostituzione per formare il personale politico e selezionare la classe dirigente. E non è finita: se la prostituzione ha cambiato la politica, anche la politica ha cambiato la prostituzione. La Maddalena ha perso la densità morale che fu una forza della nostra civiltà, è diventata la scialba ragazzotta rifatta dal chirurgo ed educata dalla mamma-maitresse a darla via a tariffa.

Il berlusconismo è stato l'autobiografia della nazione per dirla con Croce, non un accidente della storia. Non basta certo una giornata solennemente normale per liberarcene. C'è bisogno di anni di giornate normali. E per la prima volta non saranno gli storici a mettere in ordine gli archivi di un'epoca. Ci vorranno gli antropologi per classificare il berlusconismo come involuzione della specie italiana, perché anche noi, che siamo stati contro, l'abbiamo avuto addosso: "Non temo il Berlusconi in sé - cantava Gaber - ma il Berlusconi in me".

Le recenti ironie di Merkel e Sarkozy sul presidente del Consiglio fanno tornare di attualità critiche e giudizi severi sull´immagine all´estero del Belpaese Berlusconi è messo sotto esame come uno scolaretto, gli si danno ultimatum dopo troppi annunci a effetto e mistificazioni verbali A partire dal 1500 un cliché ci dipinge come infami traditori perfidi congiurati alleati infidi e combattenti vili

Ci siamo fatti una gran brutta fama, in Europa e nel mondo. A partire dal 1500 è nato un cliché che ci ha dipinti come infami traditori, come perfidi congiurati, come vili sul campo di battaglia, come alleati pronti alla defezione, come saltimbanchi privi di dignità (e, più di recente, come mafiosi); nella migliore delle ipotesi, come talentuosi e inaffidabili avventurieri. Questa noméa anti-italiana è dovuta a un anti-machiavellismo di maniera, a pregiudizi protestanti e "nordici", e anche a effettive debolezze dei nostri costumi e delle nostre politiche – l´Italia è passata tardi e male dalle corti allo Stato, dall´intrigo alla legge, dall´arrangiarsi alla laboriosità, dalla sudditanza alla cittadinanza –; sull´italiano è stata costruita una maschera – quella di Arlecchino, diabolico ma gaglioffo e sempre bastonato, e quella di Pulcinella, eversivamente plebeo e scioperato – che ci ha accompagnato fino a tempi molto recenti; solo l´Italia democratica, saldamente ancorata alla Nato, all´Europa, al progresso economico e scientifico, se ne era liberata (e forse non del tutto).

Oggi un sorriso di scherno riappare, e unisce Francia e Germania in una valutazione del premier italiano, Silvio Berlusconi. È un sorriso umiliante che sancisce un´inferiorità determinatasi non in antichi campi di battaglia ma nel loro equivalente contemporaneo: cioè nel saper gestire, con responsabilità e decisione, le drammatiche vicende economiche e finanziarie che rischiano di travolgere la moneta europea – e con questa la già precaria esistenza della Ue –. È davanti a questa guerra che l´Italia di Berlusconi si comporta in modo risibile. Perché il suo governo – dopo non avere capito l´esistenza della crisi, e averla poi minimizzata – oggi non riesce ad agire, né a ispirare fiducia. Troppe sono le promesse non mantenute, gli annunci a effetto, le mistificazioni verbali, le giustificazioni spudorate, le lagnose proteste, le astuzie meschine, le esitazioni, le incertezze, le mostruose gaffe – che un tempo avrebbero provocato la rottura delle relazioni diplomatiche – in cui si è esibito Berlusconi, perché tutto ciò non avesse riflessi sulla considerazione in cui è tenuta l´Italia. Lasciata ostentatamente in disparte dai vertici informali che contano davvero, ignorata dagli Usa, tagliata fuori dai bottini di guerra, l´Italia fa ridere perché il suo premier non è all´altezza della sua posizione – e infatti la occupa, in un´interminabile agonia del suo regime, solo perché teme per il proprio futuro personale.

D´accordo. Sarkozy è irritato perché Bini Smaghi non lascia la Bce, come promesso, e anche la Cancelliera Merkel ha buoni motivi per non amare Berlusconi. Ma non v´è dubbio che quel sorriso è anche un giudizio politico complessivo: non solo Berlusconi è messo sotto esame come uno scolaretto, non solo gli si danno ultimatum, ma ci si consente anche di ridere apertamente di lui. Grazie al quale l´Italia torna a essere il Paese dei perfidi ingannatori e degli inaffidabili furbastri, qual era stato dipinto dalla tradizione di pregiudizi e stereotipi che ora riaffiora, e non certo per un immotivato rigurgito di razzismo anti-italiano quanto piuttosto perché all´anti-italianità, che cova sotto la cenere, si offrono fin troppi motivi di manifestarsi.

Non c´è alcun compiacimento nel rilevare ciò. Anzi, la derisione internazionale è un fattore di vergogna civile che si aggiunge agli altri che già amareggiano e avvelenano la vita politica del nostro Paese. Ma si deve anche respingere la scandalosa utilizzazione che la destra sta già facendo del sorriso franco-tedesco: un´utilizzazione strumentale, rivolta a sollecitare il vittimismo nazionalistico che batte nel cuore degli italiani, i quali dovrebbero indignarsi, secondo i berlusconiani, non per i mali dell´Italia – per la sua corruzione, per i miserabili investimenti nella ricerca, per il tasso di disoccupazione giovanile e femminile a livelli stellari – ma perché due leader europei (certo, pieni di problemi anche loro) si mettono a ridere quando si chiede loro se si fidano di Berlusconi. Ed è da respingere anche la tesi, avanzata dal premier, che l´opposizione sarebbe anti-italiana e che, controllando i media, diffonderebbe all´estero un´immagine falsa e catastrofistica del Paese. Come se la Cancelliera Merkel e il Presidente Sarkozy avessero bisogno della stampa italiana per formarsi un giudizio su Berlusconi e la sua politica.

Non si tratta di anti-italianità delle opposizioni e di patriottismo della maggioranza. Se si guarda non all´effetto (l´umiliazione) ma alla causa (la politica di Berlusconi) si capisce bene chi è che fa male all´Italia e chi invece cerca di mandare al mondo il messaggio che non tutti gli italiani sono arci-italiani stereotipi e macchiettistici; che – senza essere anti-italiani e senza giubilare per le sconfitte del nostro Paese – si può essere contro l´Italietta berlusconiana; e che anzi tanto più si è filo-italiani quanto più ci si adopera per dissociare democraticamente l´Italia da Berlusconi. È quindi ora di rimeditare quanto scrisse Gobetti nel 1925: «per essere europei dobbiamo sembrare nazionalisti»; il che significava – e significa – che per essere all´altezza della civiltà occidentale, e non delle sue periferie chiassose, dobbiamo amare l´Italia, veramente e non retoricamente, e, quindi, volerla diversa. Un´Italia, cioè, che, almeno, non assomigli alla sua maschera buffa e spregevole.

Che l´Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: «Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte». Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere. Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C´è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L´ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.

Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l´attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.

Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su , di un colloquio telefonico avvenuto nell´ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: «Mi manda il Capo». Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: «Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere». E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l´impunità: «Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri».

Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un´autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l´appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l´esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l´attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli.

La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall´altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l´agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.

Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d´interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n´è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.

È dagli inizi degli anni ‘80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull´Italia. Peggio: è dalla fine degli anni ‘70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell´Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all´incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l´un l´altra, come nei Piani della P2.

Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l´elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest´ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: «Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro». Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.

La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell´opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D´improvviso non c´è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: «I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all´età loro non l´abbiamo fatto». E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente («È un gran peccato») la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.

La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d´ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell´inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s´intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d´ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: «Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l´antitesi radicale della Democrazia».

Titolo su La Padania: «Io esisto e sono padano». Ecco, se uno comincia a ripetersi, «Io esisto, io esisto, io esisto...», è il momento di chiamare lo psichiatra. Ma dire che il popolo padano non esiste è un'esagerazione. Esiste Maga Magò? Certo che sì. E lo yeti? Forse. Ecco qui di seguito alcune prove inconfutabili di esistenza in vita della Padania, del suo popolo e dei suoi illuminati dirigenti.

Le ronde. Le famose ronde non esistono. Pigrizia padana. Eppure in Italia (che esiste) si è parlato di ronde tutti i giorni su tutte le prime pagine, per mesi e mesi, anche con densi e dotti interventi di pensatori (?) della sinistra (?) che dicevano «perché no...».

Malpensa. L'aeroporto di Malpensa esiste. È un lungo campo di bocce vicino a Varese che paga alcuni milioni di euro ai suoi incapaci dirigenti padani. Per essere una cosa che non esiste, la Padania ci costa parecchio.

Il pacchetto sicurezza. Affossato dalla Corte Costituzionale, il grottesco insieme di leggine e regolamenti e ordinanze per sindaci mitomani non esiste più. Eppure, con gran strepito del padano Maroni, l'Italia intera ne parlò per mesi e mesi come se fosse una cosa reale.

Il porcellum. Pur avendo le ore contate, la legge elettorale più schifosa del mondo l'ha scritta Calderoli. Per essere una cosa che non esiste, la Padania produce cazzate notevoli.

Il reato di clandestinità. Esiste, riempie le galere di innocenti ed è il più clamoroso esempio di esistenza della barbarie padana.

Sono solo alcuni casi, ma forse bastano per dire che il popolo padano, i suoi politici, i suoi ministri, esistono. Purtroppo. Per fortuna, invece, si stanno estinguendo da soli e speriamo facciano in fretta. Solo, una volta estinti i padani, dovremmo affrettarci a cancellare anche i segni che hanno lasciato tra noi. Andiamo, chi vivrebbe in un posto dove i dinosauri sono spariti ma restano a terra enormi, gigantesche, cacche di dinosauro?

La manovra economica approvata dal Senato non taglia gli sperperi della spesa pubblica. All’ultimo istante sono state risparmiate anche le prebende della casta parlamentare e nonostante quanto emerge dall’inchiesta sul sistema Sesto San Giovanni -e cioè il gigantesco intreccio tra l’uso della spesa pubblica e dell’urbanistica contrattata per fare cassa a favore delle lobby politico imprenditoriali- né la maggioranza né l’opposizione hanno posto all’ordine del giorno il prosciugamento del fiume di denaro pubblico che sfugge ad ogni controllo democratico. Il “sistema Penati” sta lì a dimostrare che esiste una gigantesca cassaforte piena di risorse che non viene neppure sfiorata dai provvedimenti economici in discussione in Parlamento: lì c’è un grande tesoro che permetterebbe di non tagliare lo stato sociale e risanare il paese.

Il tema del taglio al malgoverno urbano tornerà sicuramente all’ordine del giorno perché tra qualche mese ricomincerà la grancassa del “non ci sono i soldi” e –complici le autorità europee- ripartirà la rincorsa per tagliare i servizi, tagliare le pensioni, vendere le proprietà pubbliche. Vale dunque la pena riprendere il prezioso suggerimento di Piero Bevilacqua su queste pagine (28 agosto) ragionare sulle possibilità di rovesciare i canoni del ragionamento fin qui egemone per interrompere una volta per tutte la grande rapina dei beni comuni, delle città e del territorio.

Il denaro pubblico viene intercettato dalle lobby politico imprenditoriali attraverso sei grandi modalità. La prima riguarda le opere pubbliche. Il volume degli investimenti pubblici nei grandi appalti è pari a circa 20 miliardi di euro ogni anno. Appena pochi mesi fa un giovane “imprenditore” (Anemone) con il fiume di soldi guadagnato in generosi appalti offerti dalla cricca Bertolaso ha potuto permettersi di contribuire all’acquisto di una casa per l’ignaro ministro Scajola: quasi un milione di euro. Ad essere prudenti una percentuale intorno al 20% ingrassa le tasche della politica corrotta e delle lobby: 4 miliardi ogni anno. Qualche tempo fa ci hanno ubriacato con l’esempio virtuoso dell’unificazione degli acquisti delle siringhe per il sistema sanitario nazionale perché ogni regione spendeva somme differenti. Tanto rigore per pochi spiccioli, mentre non sappiamo controllare quanto costa costruire una scuola o una strada.

Un secondo capitolo strettamente connesso al precedente è che molte opere pubbliche non servono alla collettività, ma vengono decise da sindaci che si sentono abilitati a compiere qualsiasi nefandezza perché “eletti dal popolo”. Come a Parma, dove una falange di amministratori ha sperperato miliardi di euro in grandi e inutili opere. Ora il comune è sull’orlo della bancarotta (seicento milioni) e il sindaco è ancora lì, barricato nel palazzo. O come nel caso della faraonica piscina voluta dall’ex sindaco di Roma Veltroni a Tor Vergata: occorrerà spendere un miliardo di euro per farla funzionare. O, come emerge dall’inchiesta di Sesto San Giovanni, appalti inventati appositamente per rimpolpare i bilanci delle aziende pagatrici di tangenti. (la milionaria illuminazione della tangenziale, ad esempio) o attraverso l’affidamento a prezzi protetti di servizi pubblici, come il trasporto urbano. Anche in questo caso una stima prudente ci porta a dire che possono essere risparmiati almeno 4 miliardi ogni anno.

Ci sono poi le poste maggiori: quelle che intercettano la spesa pubblica corrente. Per la sanità pubblica si spendono oltre duecento miliardi di euro all’anno e ci si è dimenticati troppo in fretta lo scandalo della sanità della Puglia, quelli ricorrenti di Milano e della Lombardia, quello del Lazio di Storace, della Liguria. Episodi che derivano dall’uso spregiudicato del taglio delle prestazioni pubbliche e il loro affidamento –a prezzi senza controlli- agli amici di turno. Riportando a sistema la spesa sanitaria c’è spazio per risparmiare decine e decine di miliardi di euro.

C’è poi il capitolo della “privatizzazione” della pubblica amministrazione che sta distruggendo lo Stato e –contemporaneamente- ci costa un fiume di soldi. Il fedele collaboratore di Giulio Tremonti, Marco Milanese, arrotondava il suo non modesto stipendio da parlamentare con consulenze milionarie a carico di istituzioni pubbliche. Proprio in questi giorni abbiamo scoperto che una giovane di 33 anni, di indubbie attitudini artistiche, era stata nominata consulente della Finmeccanica a spese nostre. Del resto, anche quel campione di moralità di Valter Lavitola è consulente della Finmeccanica. Si potrebbe poi continuare nel calcolare quanto costa alle casse pubbliche la grande abbuffata operata dalla giunta comunale guidata da Gianni Alemanno nel moltiplicare posti di lavoro (centinaia di persone!) nelle municipalizzate romane.

E proprio nell’erogazione dei pubblici servizi si sperpera un altro fiume di risorse economiche attraverso un impressionante numero di società di scopo. La cultura neoliberista è riuscita a far passare i concetti di “efficienza” e in nome di questo totem ad esempio a Parma sono state create 34 (trentaquattro) società partecipate per gestire l’ordinarietà. Anche nell’area bolognese e in molte altre città i servizi pubblici sono gestiti da un numero imponente di società. Presidenze, consigli di amministrazione, consulenti d’oro che riportano docilmente i soldi ai generosi decisori. E invece di disboscare questa foresta di ruberie hanno provato a tagliare la democrazia sciogliendo i piccoli comuni!

Con queste prime cinque voci si arriva a oltre 40 miliardi di euro: l’ammontare dell’attuale finanziaria. C’è poi l’ultimo capitolo che riguarda la madre di tutti gli imbrogli, l’urbanistica contrattata. Essa è diventata l’unica modalità con cui si trasformano la città. Le regole generali sono state cancellate e di volta in volta si decide sulla base delle convenienze. Sull’area Falk servono più cubature? Nessun problema. Un accordo di programma non si nega a nessuno: il sindaco passerà all’incasso di una parte delle gigantesche plusvalenze speculative prodotte e ci farà campagna elettorale. Sulle aree dell’Idroscalo deve essere costruita una mostruosa città commerciale? Ecco pronto un altro accordo di programma completo del ringraziamento economico spesso veicolato da progettisti compiacenti. Questa patologia vale ormai per tutti i comuni, grandi o piccoli che siano.

Il quadro che abbiamo delineato sembra non presentare apparentemente differenze rispetto al recente passato. Ruberie e scellerati sperperi di denaro pubblico ci sono sempre stati: c’è Tangentopoli a dimostrarcelo. Ma il fatto nuovo è che la legislazione liberista affermatasi nel ventennio ha reso il meccanismo perfetto. Non ci sono infrazioni alle leggi perché sono le stesse norme approvate in questi anni a consentire ogni tipo di arbitrio.

Altro che tagli e vendita del patrimonio di tutti, dunque. Basterebbe ripristinare la legalità e risparmiare quanto gettiamo nelle voraci fauci dei poteri forti. E’ venuto il momento di dire basta, altrimenti ci vendono l’intero paese, democrazia compresa. E’ questa la sfida che la nuova sinistra ha davanti. Una sfida per delineare un futuro diverso. Per risanare lo Stato, per far vincere le competenze sulla palude di mediocrità che sta soffocando il paese. Per dare una prospettiva ai giovani e al mondo del lavoro.

Confesso di aver archiviato come sciocchezza la frase “C’è troppa Sardegna nella vita politica degli ultimi 10 anni”, seppure pronunciata da una persona dal pensiero raffinato come Giuliano Amato che ha, comunque, subito aggiunto “Non me ne vogliano le famiglie sarde”. Ma anche le sciocchezze possono essere utili se aiutano la riflessione. Mi permetto di proporre la seguente: il reale e l’immaginario quasi mai sono coincidenti, inoltre non sempre il primo prevale sul secondo. Nel caso della Sardegna è accaduto proprio questo, e cioè che l’immagine - che per ovvie ragioni deve essere semplificata per raggiungere il suo scopo - abbia pesantemente dominato sulla realtà dell’Isola che è fatta invece di complessità, di contraddizioni e di tanta fatica del vivere. È accaduto in un passato non lontano, quando l’Isola era prevalentemente percepita come terra di banditi, talvolta ammantati di romanticismo alla Mesina (e al quale oggi magari chiedono un autografo).

Allora come oggi, c’era chi si indignava. Uno di questi era mio padre, sardo doc e militare altrettanto doc (della Benemerita) che i delinquenti lui li metteva in galera e che perciò mal digeriva un’immagine di tal fatta. È accaduto negli anni ‘60/70 con il successo della Costa Smeralda, per le presenze del c.d. bel mondo internazionale, fatto di fascino, eleganza e, ovviamente, tanta ricchezza. È inutile sottolineare che dietro la costruzione di un mito c’è tanto lavoro reale, in questo caso ci sono un’industria turistica, investimenti, professionalità e altro ancora. Di questa immagine mi pare che ben pochi si siano lamentati, anzi ha esercitato una tale influenza che, da allora, il principio di emulazione ha contagiato ogni territorio: anche il più piccolo comune ha scoperto la sua vocazione turistica e si è appropriato dell’orribile parola “valorizzazione”, orribile non in sé ma per la ricaduta che ha avuto in termini territoriali.

Ma né la prima né la seconda immagine (che talvolta si sono alimentate a vicenda) hanno assunto una veste politica. Questa è arrivata con Berlusconi e con il fatto di aver scelto di risiedere (si fa per dire) di tanto in tanto nella sua altrettanto mitica e mitizzata residenza. Residenza che qualcuno ha cercato di inserire nei percorsi turistici e nelle visite guidate: ricordo di una notizia riguardante un pullman carico di anziani che sono stati condotti a Villa Certosa e dove, felici di raccontarlo, hanno ricevuto un cestino di squisitezze, ovviamente a nome del Presidente del Consiglio.

Oggi, la Costa Smeralda e i suoi dintorni rinviano l’immagine di presenze più o meno note per sporadiche presenze televisive, più o meno ricche per denaro accumulato rapidamente e non si sa bene come dopo il crollo dell’Unione Sovietica, più o meno oscure per i giochi di intermediazione di vario genere e di vari affari. Presenze peraltro amplificate dall’attenzione mediatica a loro riservata. L’immagine che prevale - questa sì che è fortemente diseducativa -, è che sia facile avere successo (al di là delle capacità individuali), che sia altrettanto facile far parte di qualche programma televisivo, sul cui valore culturale è bene tacere, e che basta stare sulla scena per essere importanti.

Se questa è la Sardegna a cui si riferisce Amato, allora è bene ricordare che è nata altrove, nella Milano da bere degli anni ‘80, negli studi di importanti televisioni nazionali, nei diversi Format acquistati altrove, perché da noi non si è autori neppure della televisione spazzatura. Ma se a tutto ciò tolgo la parola Sardegna, Presidente Amato, non ritiene che rimanga in piedi quella fabbrica di illusioni che ha costituito il fondamento a un potere politico che poco si è occupato degli interessi

Senza verità non c'è democrazia. È il principio-cardine intorno al quale ruota la cultura politica dell'Occidente, come ci ha insegnato Hannah Harendt. Anche per questo l'Italia "moderna" sprofonda in una palude di democrazia "a bassa intensità". Il berlusconismo della Seconda Repubblica, involuzione matura dell'Andreo-Craxismo della Prima, ci ha definitivamente trasformato in un Paese che ha smarrito l'etica della verità. Nella stortura delle regole costituzionali. Nella rottura delle relazioni istituzionali. E ora nell'avventura della crisi economica e finanziaria.

Non c'è un solo ambito nel quale il presidente del Consiglio, pressato dalle sue urgenze private, non abbia edulcorato le emergenze pubbliche e manipolato la "narrazione" da offrire ai cittadini-elettori. La drammatica estate di "lacrime e sangue" è il vero tributo che ora paghiamo all'irresponsabile "autodafè" che il governo Berlusconi ha acceso in questi tre anni, raccontando agli italiani la favola del "Paese ricco, forte e vitale", che "sa reagire meglio degli altri alla crisi", salvo poi scoprire che siamo di nuovo sprofondati nel girone infernale del "Club Med" di Eurolandia.

Dunque, dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano, che con la sua "lezione di Rimini" ha scritto per l'ultima volta la parola "fine" sulla favola berlusconiana, e ci ha restituito il "linguaggio della verità".

Quello che il premier non ha parlato fin dall'inizio della legislatura, e che invece è oggi un imperativo politico e morale. Quello che è invece indispensabile, per far capire ed accettare all'opinione pubblica una dose aggiuntiva di pesanti sacrifici che in molti avevamo previsto, e che il governo aveva sempre negato. Nel teatrino della politica fioccano le solite letture "palindrome": ma mai come stavolta il discorso del presidente della Repubblica non si presta a strumentalizzazioni di rito o ad interpretazioni di parte. Il suo è prima di tutto un atto d'accusa, nei confronti di chi, in questo "angoscioso presente", si è pervicacemente rifiutato di guardare in faccia alla realtà, ha furbescamente evitato di spiegarla agli italiani ed ha colpevolmente declinato ogni atto di responsabilità nella gestione attiva della crisi.

Abbiamo parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto noi, che abbiamo responsabilità nelle istituzioni?". La domanda che il capo dello Stato rivolge all'intero ceto politico dal palco del Meeting di Rimini è palesemente retorica. La risposta è naturalmente negativa. Il "linguaggio della verità" ci è stato scientificamente negato dall'unica istituzione che aveva il dovere politico di parlarlo, e cioè il governo. E perseverare in questo errore è diabolico e autolesionistico. Come Napolitano giustamente ripete, "non si dà fiducia minimizzando o sdrammatizzando i nodi". Eppure, è esattamente quello che Berlusconi continua a fare. Abituato com'è, da consumato populista, a tagliare i nodi con la spada della propaganda piuttosto che a scioglierli con la fatica della politica, il Cavaliere aggiunge confusione al caos. Fa filtrare la sua insoddisfazione per una manovra che mette rovinosamente le "mani nelle tasche" dei contribuenti. Fa circolare ipotesi di modifica del "contributo di solidarietà" e di piani di intervento sulle pensioni, allargando da una parte l'abisso che lo separa da Tremonti e irritando dall'altra il nervo che lo allontana da Bossi.

Tutto quello che Napolitano chiede da Rimini questo presidente del Consiglio e questo governo non possono darlo, perché non l'hanno mai dato. "Reagire con lungimiranza" di fronte al Prodotto interno lordo che declina, all'occupazione che crolla, al debito che esplode. Guardare in faccia alla realtà "con intelligenza", e con "il coraggio della speranza, della volontà, dell'impegno". Virtù che il premier e il suo ministro dell'Economia non hanno mai espresso, e continuano a non saper esprimere, impaniati dentro una logica di coalizione nella quale nulla più si tiene. E poi, in vista del dibattito parlamentare sulla manovra: "occorrono più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche", occorre un "confronto aperto". Questo invoca il capo dello Stato. Come possono ascoltarlo, un premier che guarda alle opposizioni come a un "cancro", o un ministro che parla della libera stampa come un'accolita di "delinquenti"? E infine: basta "assuefazioni e debolezze nella lotta all'evasione fiscale, di cui l'Italia ha il triste primato". Come può raccogliere questo invito, un ministro dell'Economia che paga parte del suo affitto in nero, e che ha già regalato agli evasori con i capitali all'estero uno scudo fiscale tassato con un'aliquota volutamente e scandalosamente bassa?

Il presidente della Repubblica ha fornito un'ennesima prova di alta pedagogia politico-istituzionale. Si è confermato come l'unico caposaldo forte e credibile di una stagione politica in cui tutto va in rovina. La sua, ancora una volta, è una "predica utile". Ma chi dovrebbe farlo, purtroppo, non la potrà e non la saprà raccogliere. Ha venduto al Paese troppe bugie e troppe ipocrisie. Nel gigantesco "falò delle verità" costruito dal governo in questi tre anni, purtroppo, stiamo bruciando tutti. Salvarsi dalle fiamme è ancora possibile. Purché a farlo non siano più quelli che hanno appiccato l'incendio.

Il teatro berlusconiano ha movimenti e statue da presepio meccanico. Luglio 2010: Sua Maestà pretendeva che il Senato votasse subito un ddl sulle intercettazioni, emendato dalla Camera; sapendosi seduto sul camino d´un vulcano, temeva l´eruzione; quanta roba bolliva là sotto, dalle serate d´Arcore alla P4. Non c´era più tempo: l´estate porta la scissione nel Pdl; da lì un travaglio chiuso sul filo del rasoio, con l´acquisto d´anime transumanti e sopravvivenza artificiale d´un governo catalettico. Adesso comanda lavori legislativi in settantadue ore, prima che Palazzo Madama chiuda. Nel frattempo pioveva sul bagnato. Annus horribilis: gli votano contro Torino, Milano, Napoli, mentre l´anno scorso aveva nella manica l´asso plebiscitario o almeno credeva d´essere agonista irresistibile; quattro referendum affondano altrettante leggi sue; invocava l´arrocco nel voto sull´arresto d´un parlamentare Pdl (posizione strategica, essendo in ballo la P4) e soccombe ancora, tradito dalla Lega. Non è più lui nella fantasia collettiva e, stando ai casi analoghi, i carismi svaniti non tornano. Questa diversione parlamentare sa d´estremo esorcismo. Vediamola.

Delle due novità una non è tale. Secondo l´art. 238-bis (interpolato dalla l. 7 agosto 1992 n. 356), le sentenze «irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova» dei fatti ivi accertati. Allora notavo come in sé non provino niente: l´eventuale apporto istruttorio viene dal materiale raccolto, comunque l´abbiano usato, bene o male, e sta nei relativi verbali; analisi del discorso testimoniale o argomenti induttivi, presi dalla motivazione, valgono nella misura della qualità logica, poco o tanto; e vengono utili anche detective stories intelligenti, come ne scriveva Edgar Allan Poe (Procedura penale, 8ava ed., 2006, 805 sg.). Insomma, ogni giudice deve risolversi l´equazione storica. Se vogliamo attribuire un senso all´art. 238-bis, intendiamolo così: non è richiesta la copia autentica dei singoli verbali, risultando dalla sentenza il contenuto degli stessi; l´interessato può confutarla esibendoli; resta fermo il diritto d´escutere il testimone ogniqualvolta la parte fosse estranea a quel giudizio. Su tale punto, dunque, l´ennesima manomissione pro Domino Berluscone lascia le cose quali erano.

L´altro fendente confisca un potere senza il quale i dibattimenti diventano teatro dell´assurdo in mano al guastatore. In limine i contraddittori espongono le rispettive prove: spetta al giudice ammetterle, se compatibili col sistema (non lo sono, ad esempio, iudicia feretri, sedute spiritiche, narcoanalisi, lie detector); e devono essere rilevanti, ossia tali che i relativi fatti influiscano sulla decisione. Questo secondo vaglio cadrebbe, stando ai segnali dal laboratorio, con l´intuibile elefantiasi del procedimento. Nell´arte avvocatesca d´Arcore il capolavoro è gonfiarlo, stando sur place, finché la materia penale svanisca, estinta dal tempo: udienze interminabili e manovra a tenaglia; la seconda ganascia scatta appena il tempo perso superi dati termini; il tutto sparisce dal mondo, come mai avvenuto. Sviluppano un freddo farnetichio i processi «lungo» e «breve», correlati nel piano criminofilo, roba negromantica. Nel vizioso codice vigente esiste ancora qualche limite al perditempo: il presidente taglia le liste «manifestamente sovrabbondanti» (art. 468, c. 2); sull´ammissione decide un´ordinanza, escludendo ogni prova «superflua» (art. 495, c. 4). Nel rito futuribile diventa padrona la parte: sfilano quanti testimoni l´interessato ritiene conveniente indicare; B. voleva escuterne 1500, il cui esame, laboriosamente condotto, riempirebbe vari anni. Passatempo costoso, esperibile da chi abbia tanti soldi. Ad esempio, N prospetta un´ipotesi difensiva nel cui contesto assume qualche vago rilievo la condizione climatica, e porta in aula tutti i meteorologi reperibili nei due emisferi, o chiama duemila testimoni sul seguente tema: conoscono bene l´imputato, omicida flagrante; raccontando quel che sanno sul conto suo forniranno dati alla diagnosi della personalità, importante nel quantificare la pena. Sono innumerevoli le possibili diavolerie.

Più delle precedenti, questa ventesima lex ad personam, utile nei casi Mills e Ruby, presenta l´immagine d´un paese sfigurato: decade a vista d´occhio; non ha futuro; e l´uomo che da 17 anni v´imperversa (ma l´azione tossica ne conta almeno trenta), ordina alla troupe d´allestirgli una sporca via d´uscita dai giudizi penali, noncurante della figura. Da come gli ubbidiscono, vediamo a che punto sia l´insensibilità morale. I reggicoda definiscono «sacrosanto» il diritto d´allungare i tempi d´una macchina al collasso. Non stupisce che il Pdl gli corra dietro: perdurando le rendite, lo seguiranno alla porta dell´inferno, con un salto laterale in extremis perché da queste parti la tragedia ha poco sèguito, né valgono fedeltà assolute; ogni domestico misura il padrone a occhiate fredde. Non se le sente addosso? Aspettiamo le scelte leghiste: andargli dietro sarebbe perdita secca, qualunque corrispettivo offra; era gesto astuto votare l´arresto del parlamentare Pdl mercoledì 20 luglio; ricadendo nell´abito servile, mascherato da insofferenze inconcludenti, il Carroccio perderebbe ogni credito. Corre un tempo climaterico. L´ultima mossa conferma quel che sapevamo: l´Olonese non ha freni, né morale né estetico, e nemmeno l´elementare prudenza con cui agivano famosi scorridori. A proposito, viene in mente un caso tedesco 1938: Werner von Fritsch, comandante dell´esercito, deve dimettersi sotto false accuse fabbricate dalla Gestapo; poche settimane dopo risulta innocente ma cosa fatta capo ha; ormai, scrive in una lettera, il popolo tedesco è inseparabile da Hitler, finiranno nell´abisso. Speriamo superfluo lo scongiuro: gl´italiani sanno sopravvivere e Re Lanterna non è «der Führer», sebbene così lo chiamasse sei anni fa un´operosa emissaria Mediaset nella Rai, né sa cosa significhi Götterdämmerung; auguriamogli lunghi ozi in uno dei suoi paradisi, dove non mancheranno le odalische.

La sindrome di Salò che assedia l’armata Brancaleone al governo fa spettacolo ma non fa ridere, perché trascina il Paese nel baratro bloccandone la crescita in nome di falsi bersagli. Di un regime (da operetta, non da tragedia) agli sgoccioli ci sono sintomi e stimmate: concordia in superficie e risse dietro le quinte, proclamato attivismo e sostanziale paralisi, fedeltà di facciata ai Capi (Berlusconi e Bossi) che tutti considerano "bolliti". Una "tenuta" apparente, una caduta imminente. Con spietata lucidità, Eugenio Scalfari ha fotografato in queste pagine (3 luglio) un fallimento epocale: mancata riforma fiscale, aumento del debito pubblico e della spesa corrente, crescita selvaggia dell´evasione fiscale, peggioramento dei servizi, crescita della disuguaglianza sociale, radicalizzazione del precariato, netto calo di produttività e competitività, una manovra fiscale che pesa solo sul lavoro dipendente, sui pensionati, su Regioni e Comuni.

Intanto l’Italia è precipitata al 167° posto al mondo (su 179 Paesi considerati) nel rapporto percentuale Pil/persone, condivide con l’Irlanda il record europeo di dottori di ricerca costretti a emigrare, mantiene un sistema di (scarse) assunzioni allergico al merito (dati e valutazioni dell’Economist). La spesa primaria (cioè al netto degli interessi sul debito pregresso) è la più bassa d’Europa: il che vuol dire non solo esorbitante debito pubblico, ma anche bisogni pubblici non adeguatamente soddisfatti (F. Galimberti, Il Sole, 29 giugno). Il bilancio netto è la «macelleria sociale» di cui ha parlato Mario Draghi, aggiungendo: «e io credo che gli evasori fiscali siano tra i responsabili».

Sarebbe tuttavia un grave errore credere che, in tanta immobilità, non succeda proprio niente. Si accentua al contrario (altra caratteristica dei regimi sul letto di morte) l’economia di rapina, la produzione di provvedimenti ad amicos, lo smontaggio dello Stato e la spartizione del bottino. «Mangia tutto quel che puoi mangiare», la frase sinistra di Luigi Bisignani, è il vero motto dell’Italia di oggi. La grande abbuffata corrompe e tacita i potenti, anche i più onesti , sensibili comunque all’odore dei soldi; il facile guadagno di oggi acceca i più, vieta uno sguardo lungimirante. Macelleria sociale ed economia di rapina sono le due facce della stessa moneta (falsa), l’unica che abbia corso oggi nei corridoi del potere. Sacrificando il domani di tutti (delle generazioni future) all’immediato profitto dei pochi, la scuola viene taglieggiata, la ricerca e l’università sono mortificate dall´ormai congenita mancanza di risorse; le spese per la cultura, il teatro, la musica, le arti, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico sono considerate non (come in altri Paesi anche governati dalla destra: vedasi la Francia) come un investimento produttivo, ma come un lusso da evitare.

Fra le vittime designate di questa stagione infelice, il paesaggio. Il decreto 70 sul cosiddetto "sviluppo" si ostina a considerare l’edilizia come il motore primario della crescita, ignorando che proprio nella "bolla edilizia" americana è la radice della crisi economica mondiale. Dovremo così subire il silenzio-assenso in materia di autorizzazioni edilizie; dovremo fare i conti con l’attenuazione delle procedure di valutazione ambientale, mentre le Regioni dovrebbero entro sessanta giorni (!) legiferare sulla riqualificazione delle aree urbane, inclusa la ricostruzione di edifici esistenti con «il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva come misura premiale». Si concede ai privati l´edificazione sugli arenili, con l’etichetta bugiarda di "diritto di superficie", ma accatastando i relativi immobili; anzi, i territori costieri vengono trasformati in "distretti turistico-alberghieri", zone a "burocrazia zero", con deregulation delle procedure autorizzative, anche per porti turistici e pontili. Si estende da 50 a 70 anni la soglia temporale oltre la quale gli immobili pubblici o di enti no profit sono soggetti a valutazione di interesse culturale, e si abolisce l’obbligo di comunicare alle Soprintendenze il cambio di disponibilità degli immobili vincolati (una petizione al Capo dello Stato su questo punto ha raccolto in pochi giorni migliaia di firme). Intanto, il Senato ha già approvato una perversa norma sulla «insequestrabilità delle opere d’arte arrivate in Italia per mostre od esposizioni», che garantisce impunità anche quando si accerti che un quadro, in Italia per una mostra, sia stato rubato o, poniamo, razziato dalle SS a una vittima dell´Olocausto. Quest’ultima disposizione violerebbe gli artt. 24 e 133 della Costituzione, come quelle sul silenzio-assenso in materia di beni culturali violano l’art. 9 (lo dicono le sentenze 26/1996 e 404/1997 della Corte Costituzionale).

Di fronte a tanti sintomi degenerativi, l’opposizione è prigioniera di un inerme attendismo. Assai più svegli si stanno mostrando i cittadini, con le numerose associazioni a difesa dei beni pubblici (ormai oltre duemila in tutta Italia). Il risultato più vistoso è stato certamente il recente referendum, che ha raggiunto il quorum contro alcuni partiti (come il Pdl) e malgrado alcuni altri (come il Pd); ma anche i risultati elettorali di Napoli e di Milano si spiegano come la pacifica rivolta degli elettori contro gli apparati di partito. Lo stesso si può dire delle imponenti manifestazioni anti-Tav in Val di Susa, alle cui ragioni civili nulla tolgono gli scontri che pur vi sono stati. Non meno importanti sono i successi delle azioni popolari contro l’inerzia o l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni: il Consiglio di Stato ha approvato la class action contro la scuola modello Gelmini, poiché il taglio ai docenti provocherebbe il sovraffollamento delle aule; in Molise, l’azione di 136 Comitati contro l’eolico selvaggio sta ottenendo importanti risultati.

Quel che resta della sinistra può far proprio il patrimonio di idee che viene dalle associazioni, o buttarlo via. C’è un precedente poco incoraggiante: nel referendum del 2006 votarono contro una riforma costituzionale di marca leghista 15.791.293 italiani (il 61,3 % dei voti espressi), oltre due milioni di più degli elettori del maggior partito (il Pdl) nelle elezioni del 2008, che furono 13.629.464, pari al 37,3% dei voti espressi in quell’occasione. Fu la dimostrazione che il "partito della Costituzione" è il più robusto schieramento italiano; ma, come osservò allora Oscar Luigi Scalfaro, la sinistra non seppe cogliere il messaggio degli elettori e trarne le conseguenze. Umberto Eco ha ricordato opportunamente (Repubblica, 2 luglio) la dura dichiarazione di D’Alema (1997) contro «la politica che viene fatta dai cittadini e non dai partiti», col corollario che «l’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto dittature sanguinarie o Berlusconi». Questa avversione alla società civile in nome degli apparati di partito sa di muffa. Sarebbe tempo di ricordarsi che non i partiti, ma i cittadini sono i protagonisti della politica, l’anima pensante della polis, di cui i partiti dovrebbero essere espressione. Di fronte a un’opposizione che pare ansiosa di prendere il posto di Berlusconi come partner della Lega in un qualche federalismo, sarebbe tempo di cercare nelle associazioni spontanee dei cittadini il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per un’alternativa di governo ancora priva di un progetto. Senza dimenticare che la pessima legge elettorale che espropria il cittadino del diritto di scegliere per nome i propri rappresentanti, prima di diventare legge dello Stato, fu introdotta da una regione "di sinistra", la Toscana. Dagli apparati di partito, appunto.

La Rai è come una balena che non respira più, galleggia e forse “si spiaggia” stremata e disperata. Silvio Berlusconi ha utilizzato dal 2001 in qua tutte le tecniche di indebolimento e di affondamento, dopo che il centrosinistra nulla aveva fatto per metterla “in sicurezza” alla maniera delle consorelle europee.

Risorse: ha fatto annullare dal fido Gasparri la vendita a Crown Castle del 49 % di Rai Way che avrebbe portato in cassa (dopo le tasse) 724 miliardi di lire, decisivi per il digitale terrestre. Ha consolidato, con la legge Gasparri, la sua quota di spot (66% circa pur con ascolti calanti) e mantenuto il canone Rai al più basso livello europeo, 110 euro contro i 160 dell’Irlanda, i 186 del Regno Unito, i 206 della Germania, i 263 dell’Austria, ecc. Di più, ha esortato gli abbonati a non pagarlo per “punire” Santoro e C.: l’evasione è balzata dal 22-23 % a oltre il 40, contro una media UE dell’8-10. In Campania, zona Casalesi, non lo paga il 90 % delle famiglie. Per la Rai rappresentava la metà delle risorse. Il suo bilancio è oggi seriamente pericolante.

Nomine: abolita la legge del ’93 che le assegnava ai presidenti delle Camere, ha fatto eleggere 7 dei 9 membri del CdA alla Commissione di vigilanza, cioè ai partiti, mentre un altro consigliere e il presidente li designa il ministro dell’Economia. Caso di dipendenza dai partiti unico in Europa. Dal 2002 ad oggi si sono susseguiti in Viale Mazzini ben 7 presidenti (due volte Claudio Petruccioli) per una durata media sui 15 mesi e 8 direttori generali per una durata media di 13 mesi e mezzo. Dieter Stolte direttore della potente ZDF tedesca è durato vent’anni prima di andare in pensione. Come si può governare con questa nevrotica fragilità di fondo, tutta indotta dalla politica, un’azienda con oltre 11.000 dipendenti e con un ventaglio di attività amplissimo, fra radio e tv?

Garanzie: non essendoci né una Fondazione all’inglese né un Consiglio Superiore dell’audiovisivo alla francese a “garantire” Rai e utenti, ci si è inventati, per i CdA a maggioranza berlusconiana, “presidenti di garanzia” attribuiti al centrosinistra. Con risultati molto modesti da ogni punto di vista. Soprattutto da quello della programmazione e della sua qualità. Il Tg1 prima con Mimun e poi, soprattutto, con Minzolini è stato impoverito e stravolto, reso “docile” da ogni punto di vista. La redazione che aveva sfiduciato Bruno Vespa per aver definito la Dc “il mio editore di riferimento”, non ha quasi reagito all’atto di denuncia della più popolare fra le conduttrici, Maria Luisa Busi che ha lasciato il video. Gli ascolti sono crollati, a tutto vantaggio del Tg7 di Enrico Mentana. Lo speciale elezioni è stato battuto da quello del Tg3 di Bianca Berlinguer. Il centrodestra ha piazzato nelle reti e nei Tg gente sempre più mediocre che ha portato con sé collaboratori ancor più mediocri. I due anni di direzione generale di Mauro Masi sono stati forse i più disastrosi dal punto di vista del picconamento della Rai dall’interno e della sua devitalizzazione professionale, meritocratica.

Infiltrati: fin dal 2002 Berlusconi ha immesso in Rai, suo concorrente diretto, elementi fidatissimi quali la propria consulente per la comunicazione Deborah Bergamini (ora deputata del Pdl) che, come risulta dalle più recenti, scandalose intercettazioni, informava Mediaset sulla programmazione Rai e chiedeva una controprogrammazione più incisiva per “oscurare” i risultati elettorali sfavorevoli al Pdl. Un conflitto di interessi che occupa ormai militarmente la Rai.

Suicidio: una Rai così stravolta e sfibrata ci ha messo e ci sta mettendo anche del suo per farsi del male. Come le balene moribonde che si suicidano arenandosi sulle spiagge. Casi esemplari? La rinuncia al maggior successo di ascolti dell’anno, “Viene via con me” di Fazio e Saviano. La eliminazione di “Annozero” di Santoro da Raidue nonostante l’altissimo share e il forte richiamo pubblicitario, un harakiri. Ora, anche questo assistere immobili come statue di gesso (chiedendo le scuse per una intervista troppo dura, ma andiamo) alle dimissioni di Lucia Annunziata bravissima “In mezz’ora” pur collocata nell’ora delle più sonore dormite domenicali. La disperante renitenza a fornire le doverose garanzie legali ad una trasmissione di inchiesta come “Report” di Milena Gabanelli, una delle più prestigiose e consolidate ormai. E non entrerò nel discorso della radiofonia, un tempo Divisione a sé, oggi come abbandonata a se stessa, nonostante l’oggettivo successo e recupero, per esempio di Radio3.

Paradosso: il dissanguamento, in buona parte voluto, della Rai avviene nel momento in cui Mediaset non sta bene, il valore delle sue azioni è crollato dai 6,5 euro di aprile ai 3,26 di venerdì scorso, il bilancio 2010 non dà utili, l’intero gruppo (come ha notato un esperto vero quale Stefano Balassone) è regredito dal 38 al 33 % negli ascolti “contro la Rai di Masi!”, con Striscia e Grande Fratello giù del 4 %. Un gruppo invecchiato, con poco respiro (pure Endemol va male), che ha paura di tutto, anche de “La7”. E magari di Michele Santoro a “La7”.

Che fare in positivo per la Rai? Rendere ancor più incessante, continua, documentata la denuncia del degrado meritocratico, delle arroganze partitiche e di governo, dei tentativi di indurla al “suicidio”, all’auto-affondamento. Difendere con più energia quanto essa ha ancora in sé di professionale, di creativo, di intelligente. Ma anche avanzare proposte che “spariglino”. Detto con franchezza, non penso proprio che il super-amministratore delegato di un vertice nominato, più o meno, dai partiti sia una magica ricetta. Pensate se Masi avesse avuto quei poteri…Manca sempre un organismo di garanzia a protezione dell’autonomia della Rai. Ma è pure premente la necessità di dare agli abbonati la possibilità di contare. A me sembra perciò stimolante, in sé, l’idea di Roberto Zaccaria e di Beppe Giulietti di distribuire agli abbonati, col bollettino del canone, una scheda nella quale segnalare 2 nomi di possibili amministratori e di scegliere, obbligatoriamente, fra i primi 50 indicati il nuovo vertice aziendale pubblico. Insomma, diamo, anche attraverso gli utenti più affezionati, al cavallo bronzeo di Viale Mazzini la spinta per rialzarsi e per correre di nuovo. Non costringiamolo a sdraiarsi e a defungere. Lentamente, ma inesorabilmente.

È forse una previsione troppo pessimistica immaginare che l’Italia sia destinata negli anni a venire ad uscire dal club delle grandi nazioni industriali dove aveva raggiunto nel secolo appena trascorso addirittura il quinto posto. Un solo primato ci vedrà mantenere la testa di ogni classifica, anche se non si richiama agli exploit ambiti dai grandi Paesi industriali. Per contro è una vetta che ci contendiamo con Stati come la Bolivia, i Paesi petroliferi del Medio Oriente, quelli situati lungo le vie della droga, dall’Afghanistan al Messico. In questo eletto ambito all’Italia viene riconosciuto un ruolo incontestabile di campione mondiale dell’illegalità.

A conferma di queste affermazioni stanno i dati statistici degli organismi internazionali che, con fredda e apparente neutralità, certificano ogni anno che il tasso d’illegalità dell’economia italiana non ha pari nel mondo occidentale. E il perché invece stia nell’ultima casella come afflusso di investimenti stranieri. Non mancano naturalmente relazioni sui risultati raggiunti nel contrasto a mafia, camorra, ‘ndrangheta e alle sue diramazioni. Eppure, per quanti colpi queste organizzazioni subiscano, il loro fatturato aumenta sempre, mentre una specie di rassegnazione alla permanenza ineluttabile del fenomeno sembra essersi ormai impadronita dell’opinione pubblica, dopo la breve primavera di speranza che si era accompagnata ad una strategia chiaramente percepita, elaborata da Giovanni Falcone.

Quella fase si concluse con la strage di Capaci e l’uccisione di Borsellino. Per capire, però, i mutamenti intervenuti da allora bisogna por mente allo stravolgimento subito dai valori che stavano alla base della lotta al crimine: il primo era l’esaltazione, ampiamente accolta dalla pubblica opinione, della figura del magistrato e della sua funzione, percepita sovente come "eroica"; in secondo luogo, a partire almeno dall’assassinio di Salvo Lima e dall’arresto di Ciancimino, era apparsa sempre più inaccettabile la connivenza tra mafia e politica con il tramonto politico delle vecchie figure di raccordo tra i due mondi e l’emergere, soprattutto nella Dc, di leader non disposti al compromesso; in terzo luogo la valorizzazione e la protezione dei pentiti come arma essenziale per scardinare Cosa nostra.

Ebbene, oggi tutto questo si è tramutato nel suo opposto ad opera diretta del leader della maggioranza di destra ascesa al governo e dei suoi più stretti sodali. Quanto all’opposizione, i più critici nei suoi confronti le hanno imputato di anteporre i suoi interessi personali a quelli della cosa pubblica. Per contro incerta suona la voce di chi trova il coraggio per riconoscere che gli interessi personali del Cavaliere e, in primo luogo, i "contro-valori" che ne propiziano l’affermazione, collimano con l’odio per la magistratura, per i pentiti, per le misure di contrasto, tipo il "concorso esterno", mutuati dal sentire mafioso. Se si approfondisse questa tematica si capirebbe meglio il nostro primato mondiale in termini di illegalità. Viene ora ad arricchire le potenzialità di un approfondimento, un libro (Soldi rubati di Nunzia Penelope, ed. Ponte alle Grazie, pag. 323) che apporta dati utilissimi e analisi per settore, partendo da tre numeri base: ogni anno in Italia abbiamo 160 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione e 350 miliardi di economia sommersa, pari al 20% della ricchezza nazionale. Se vi si aggiungono 500 miliardi nascosti da italiani nei paradisi fiscali esentasse si superano i 1000 miliardi. Più della metà dell’intero debito pubblico. Commenta il magistrato Francesco Greco, responsabile per i reati economici del defunto pool di Mani pulite: «Oggi la più importante operazione culturale da fare è spiegare agli italiani quali e quanti danni stanno subendo a causa della criminalità economica. Ma ho la sensazione che in Italia sia stata sdoganata l’illegalità e mi chiedo che futuro può avere un Paese dove l’illegalità diventa la regola».

No, non era questo il modo di essere di quella "prima Repubblica" che pure fu sepolta con ignominia meno di vent´anni fa, in una damnatio memoriae che proiettava arbitrariamente su tutta la sua storia le nefandezze della sua agonia. Non lo era, a ben vedere, neppure negli infausti anni del Caf di Craxi, Andreotti e Forlani: nessuna microspia infilata in qualche camper avrebbe registrato qualcosa di simile a quello che abbiamo letto in questi giorni. La peggior cifra della "prima Repubblica" fu semmai - nei suoi momenti più cupi, e in un diversissimo clima internazionale - la tragedia, non la farsa maleodorante. Non la corrosione mefitica delle più elementari norme della democrazia e della decenza. Anche in passato ci venne da pensare a un "doppio Stato", spinti dalle suggestioni di Ernst Fraenkel. Ma quello che avvertivamo muoversi al di sotto della legalità, e contro di essa, era piuttosto un coacervo drammatico di trame eversive, di servizi deviati, di torbide ingerenze esterne, di grumi inquietanti che affondavano le radici nel passato. Quello che scorgiamo ora - lo ha scritto benissimo Carlo Galli su questo giornale - è un esercito di termiti e di tarli che insidiano quotidianamente, per lucro e sete di potere, i pilastri delle strutture pubbliche e delle regole istituzionali. Alla vigilia dell´esplosione di Tangentopoli Altan fece dire ad un suo personaggio: ma a questa classe politica, dovevano dargli il soggiorno obbligato proprio in Italia? Quella battuta è ancor più attuale oggi, perché nelle intercettazioni della P4 un crimine sicuramente c´è, ed è il peggiore: l´attentato alla dignità della democrazia, il vilipendio dell´idea di bene comune.

Una corte indecente si muove dunque all´ombra del premier, sempre più delegittimato, e il suo erede designato pensa solo ad avvolgere di nebbie protettive quelle trame: è questa la cifra di un´agonia intrisa di minacce e di pericoli per il Paese. Riproponendo oggi la legge-bavaglio il ministro Alfano proclama a voce altissima quel che le opposizioni hanno sempre detto, e cioè che quella legge non ha proprio nulla a che vedere con i diritti dei cittadini. E sfida frontalmente l´idea di giustizia che essi hanno affermato nel referendum sul legittimo impedimento. Anche questo è l'esito dell´antipolitica fatta trionfare da Bossi e da Berlusconi nella crisi della "prima Repubblica", e comprendiamo sempre meglio quanto sia stato grave non aver contrapposto ad essa solidi bastioni di "buona politica".

Di fronte al quadro che si è delineato è certo legittimo riflettere sulle modificazioni profonde che negli ultimi vent´anni hanno attraversato non solo il Palazzo ma anche parti non piccole del Paese. E sarebbe improprio immaginare - come facemmo nella crisi dei primi anni novanta - una compatta e virtuosa società civile totalmente contrapposta a un universo partitico corrotto: del resto nella rete della P4 ci sono anche pezzi di società prima estranei alla politica (ed entrati in essa, appunto, solo grazie all´antipolitica del premier). Eppure, l´Italia non è tutta lì. Non si riduce per nulla a quelle vergogne, al quotidiano operare di chi svuota e corrode la democrazia.

Indubbiamente in questi ultimi anni abbiamo fatto grandi passi all´indietro, sia sul terreno dell´etica pubblica che su quello dell´economia. Luca Ricolfi su La Stampa ha osservato che, dopo esser cresciuti troppo in fretta nel passato, nell´ultimo periodo stiamo declinando troppo lentamente per accorgerci veramente del piano inclinato su cui ci siamo incamminati. Come se fossimo su un ghiacciaio che si ritira di un metro l´anno, e ogni anno non sembra così diverso da prima: eppure, sta sciogliendosi inesorabilmente. Chiedersi perché ciò sia avvenuto significa al tempo stesso chiedersi come ricostruire l´edificio comune, come potenziare energie pur presenti. Come valorizzare quelle risorse che il Paese ha sempre dimostrato di avere: e lo ha fatto nella maniera più inattesa e forte anche nell´ultimissimo periodo.

Le elezioni amministrative e i referendum sono stati indubbiamente una grandissima ventata di democrazia e proprio per questo è necessario comprenderne appieno il valore, a partire da un dato centrale: l´irrompere sulla scena di un protagonismo giovanile tanto straordinario quanto inatteso. Anche alla vigilia del ´68, del resto, sociologi e opinionisti avevano liquidato con uno slogan sprezzante i giovani di allora, considerati ormai integrati nella società dei consumi e privi di valori: li chiamarono la "generazione delle 3 M" (macchina, moglie e mestiere). Furono costretti a rivedere quel giudizio, ma quei giovani trovarono in realtà pochi riferimenti e pochi interlocutori veri: e anche per questo - non solo per questo - non diedero poi tutto il meglio di sé.

Come è evidente, oggi il centrosinistra è più che mai chiamato in causa nel suo insieme e in prima persona: per svolgere il suo ruolo, per assolvere ai suoi compiti. Per aiutare le nuove esperienze nei loro momenti più difficili (o drammatici, come è ora a Napoli) e per valorizzare al massimo i momenti fecondi che già si segnalano, a partire da Milano. È un aspetto centrale: nella "prima Repubblica" il buon governo a livello locale fu a lungo un tratto forte e distintivo della sinistra, e l´appannarsi di questa cifra coincise con la sua crisi più generale. E forse non vennero poi considerate in modo adeguato le positive esperienze dei sindaci eletti a partire dal 1993. Non si trassero da esse tutte le indicazioni possibili per costruire un´alternativa anche nazionale al centrodestra. È un errore da non ripetere, e del resto sono immediatamente comprensibili alcune delle ragioni che hanno contribuito alla vittoria nelle amministrative: la capacità di valorizzare quel che di positivo il centrosinistra ha saputo costruire, come a Torino, ma al tempo stesso anche di privilegiare - come è avvenuto altrove, anche contro le indicazioni ufficiali - proposte limpidamente alternative al centrodestra nei contenuti e nelle persone candidate, spesso estranee alla nomenklatura più stretta. Questa appare la via maestra anche a livello nazionale: è il momento di mettere in campo tutte le potenzialità possibili di "buona politica". Senza perdere tempo.

Un vero plebiscito. Ma al contrario. Abituato a declinare ogni appuntamento elettorale come un'autocelebrazione personale e un continuo rinnovamento acritico ed epifanico del suo consenso, Silvio Berlusconi incassa un gigantesco plebiscito "contro", e non a favore della sua persona. Ventisette milioni di italiani sono andati alle urne per testimoniare la loro voglia di riprendersi la politica che per troppi anni avevano delegato al Cavaliere. In due settimane di mobilitazione pubblica la volontà del popolo sovrano ha fatto giustizia di tre anni di mistificazione. Dopo la disfatta devastante delle amministrative, la sconfitta pesante del referendum conferma che il presidente del Consiglio non è più in grado di leggere gli umori degli italiani e di reggere gli onori del governo. L'esito quantitativo della nuova consultazione (il quorum) e il suo risultato qualitativo (il responso sui quattro quesiti) riflettono il cambiamento profondo della geografia e della geometria politica della nazione. Nel Palazzo c'è una maggioranza numerica che sopravvive a se stessa e resiste alla sua stessa agonia. Nel Paese c'è un'opinione pubblica che gli ha voltato le spalle, nelle scelte di merito e di metodo, perché stanca di una "narrazione" posticcia e artefatta che non ha più alcun collegamento con la realtà e con i problemi della vita quotidiana di milioni e milioni di persone "normali".

La sanzione più nitida e clamorosa di questa rottura tra gli interessi privati del premier e l'interesse collettivo degli italiani sta nel responso a valanga nel quesito sul legittimo impedimento. Dopo tre anni di menzogne propagandistiche sulla "riforma della giustizia" (interpretata solo nella chiave della soluzione dei problemi giudiziari dell'uomo di Arcore) i cittadini hanno capito e hanno votato di conseguenza. Dicendo un no forte alla stagione delle leggi ad personam e un sì chiaro al principio costituzionale che esige tutti i cittadini uguali davanti alla legge. E' un esito non scontato, e forse il più sorprendente di questo appuntamento elettorale. Segna davvero la fine di un ciclo storico, che dura ormai da diciassette anni, e che ha visto il Cavaliere protagonista di un assedio violento alla magistratura, con l'unico obiettivo di difendersi dai suoi processi attraverso l'estinzione dei reati o la cancellazione delle pene per via legislativa. Il risultato referendario, anche sotto questo profilo, è una bella vittoria della democrazia, in tutti i suoi sensi e in tutte le sue forme.

Ma insieme a questa politica dell'aggressione, dall'accoppiata amministrative-referendum esce a pezzi anche quell'ideologia post-politica (secondo la felice definizione di Geminello Preterossi) sulla quale si è retta la destra italiana di questi anni. Progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico, sdoganamento del qualunquismo più becero, inaridimento delle radici della vita democratica, abdicazione delle istituzioni alla legge del più forte, criminalizzazione sistematica del dissenso. L'onda referendaria spazza via in un colpo solo questo armamentario culturale populista sul quale è stato costruito il patto Berlusconi-Bossi. Dietro la scena di cartapesta del Popolo della Libertà e della Padania liberata, dietro la demagogia degli spiriti animali del capitalismo e dei riti pagani nelle valli alpine e prealpine, dietro l'idea "rivoluzionaria" del cambiamento federalista e anti-statalista, l'asse Pdl-Lega non ha costruito niente. Niente miracoli, solo miraggi. Niente crescita, solo declino. Adesso è tardi, per qualunque contromossa e per qualunque recupero. Il Carroccio ha pagato fino in fondo il tributo alla lealtà personale del Senatur nei confronti del Cavaliere. Per le camicie verdi si tratta di riprendere il largo, di tornare in mare aperto e alla strategia delle mani libere. E' solo questione di tempo e di modo. Ma il destino della coalizione è segnato, chiuso com'è dal vincolo esterno dell'Europa sui conti pubblici e dal vincolo interno ormai rappresentato dalla crisi della leadership berlusconiana.

Il premier ha perso prima il referendum virtuale, con le amministrative che lui stesso aveva trasformato in una drammatica e ultimativa ordalia su se medesimo. Ora ha perso anche il referendum reale, con una scelta astensionista disperata e insensata che ha sancito l'irrimediabile scollamento tra lui e la sua gente. Cos'altro deve accadere, perché Berlusconi tragga le conseguenze di questo fallimento? L'Italia non merita di pagare altri danni, alla volontà di sopravvivenza di un governo che non esiste più e che si tiene ormai solo sulla stampella instabile e impresentabile dei "Responsabili" di Romano e Scilipoti. Fa fede l'immagine di Calderoli, che come sempre parla il linguaggio ruvido del disincanto. Due "sberle" non fanno un ko. Ma sicuramente lo preparano. Prima avverrà, e meglio sarà per tutti.

La menzogna del potere
di Massimo Giannini

Il potere mente. Per abitudine alla manipolazione e per istinto di conservazione. Non c’è bisogno di aver letto la prima Hannah Arendt, o l’ultimo Don De Lillo, per sapere che "lo Stato deve mentire", o che il governo tecnicamente totalitario "fabbrica la verità attraverso la menzogna sistematica". Ma nessun potente mente con la frequenza e l’impudenza di Silvio Berlusconi. Non pago di aver danneggiato il Paese che governa, in un drammatico e surreale "colloquio" elemosinato a Obama a margine di un vertice tra gli Otto Grandi del pianeta, il presidente del Consiglio torna sul luogo del delitto. E, dopo aver inopinatamente e irresponsabilmente denunciato al presidente americano la "dittatura dei giudici di sinistra", lo "perfeziona", raccontando la stessa delirante bugia agli altri leader del G8.

Abbiamo già detto quale enorme discredito rappresentino, in termini di immagine internazionale, le parole scagliate contro l’Italia dall’uomo che dovrebbe rappresentarla al meglio nel mondo. Abbiamo già detto quali enormi "costi" imponga allo Stato, in termini di credibilità istituzionale, questo vilipendio della democrazia e dei suoi organismi. Ma è necessario, ancora una volta, squarciare la cortina fumogena con la quale il premier manomette i fatti, e denunciare l’ennesima menzogna sulla quale costruisce il teorema della "persecuzione giudiziaria". A Deauville, in una conferenza stampa costruita come una disperata requisitoria contro tutto e contro tutti, Berlusconi compie l’ultima metamorfosi: da comune inquisito si trasforma in Grande Inquisitore. Accusa le "toghe rosse", insulta "Repubblica" e i giornalisti, "colpevoli" di non indignarsi di fronte allo "scandalo delle 24 accuse che mi riguardano, tutte cadute nel nulla".

"Vergognatevi", tuona furente il presidente del Consiglio, calato nella tragica maschera dostoevskiana dei Fratelli Karamazov. Dovrebbe vergognarsi lui, per aver violentato ancora una volta la verità.

A sentire il Cavaliere e i suoi "bravi", i processi che lo riguardano cambiano secondo gli umori e le stagioni. L’altro ieri aveva parlato di "31 accuse". In passato si era definito "l’uomo più perseguitato dell’Occidente, con 106 processi tutti finiti con assoluzioni". La figlia Marina ha evocato "26 accuse cadute nel nulla". Paolo Bonaiuti ha rilanciato con "109 processi e nessuna condanna". In realtà, come ha ricordato più volte Giuseppe D’Avanzo su questo giornale, i processi affrontati dal premier sono 16. Quattro sono ancora in corso: processo Mills (corruzione in atti giudiziari), diritti tv Mediaset (frode fiscale), caso Mediatrade (appropriazione indebita) e scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Negli altri 12 processi, solo tre sono state le sentenze di assoluzione: in un caso con "formula piena" (Sme-Ariosto/1, per corruzione dei giudici di Roma), negli altri due con "formula dubitativa" (Fondi neri Medusa e Tangenti alla Guardia di Finanza).

Gli altri 9 processi si sono conclusi con assoluzione, ma solo grazie alle leggi ad personam, fatte approvare nel frattempo dai suoi governi. Nei processi All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2 il Cavaliere è assolto dalla legge che ha depenalizzato il falso in bilancio. Nei processi sull’iscrizione alla P2 e sui terreni di Macherio è assolto perché i reati sono estinti e le condanne cancellate dall’apposita amnistia.

Nei rimanenti 5 processi (All Iberian/1, affare Lentini, bilanci Fininvest 1988/1992, fondi neri del consolidato Fininvest e Lodo Mondadori) il premier è assolto grazie alle "attenuanti generiche", che gli consentono di beneficiare della prescrizione (da lui stesso fatta dimezzare con la legge Cirielli) e che operano sempre nei confronti dell’imputato ritenuto comunque "responsabile del reato".

Questa è dunque la verità storica, sull’imputato Berlusconi. A dispetto delle "persecuzioni" che lamenta, e delle "assoluzioni" che rivendica. Bugiarde, le une e le altre. È penoso doverlo ricordare. Ma è anche doveroso, alla vigilia di un turno elettorale che può cambiare il corso di questa disastrosa legislatura. E può spazzare via, finalmente, i danni e gli inganni compiuti dal Grande Inquisitore di Arcore.

L’Italia va su Facebook

"Scusa Mr. Obama"

di Filippo Ceccarelli

«E QUINDI – ha concluso solenne Berlusconi rivolgendosi ai giornalisti – mi permetto di dire: vergognatevi!». Ma senti, si permette. Proprio lui, il Cavaliere, che più di ogni altro uomo politico ha impetuosamente travolto e allegramente smantellato la vergogna del potere, bruciandone poi i residui sull’altare del berlusconismo terminale. Da Casoria a Deauville, dalle corna spagnole al cu-cù della Merkel, dal Priapetto di Arcore fino al bacio della mano di Gheddafi.

Retorica a rischio cortocircuito, quella della vergogna. Perché mentre il presidente del Consiglio pronunciava quella sua intemerata, la pagina Facebook del presidente Obama già traboccava di messaggi di italiani che dopo la scena berlusconiana del giorno prima chiedevano scusa, «I am sorry», «So sorry, Mr President», «Berlusconi doesn’t speak in my name», mi dispiace, non parla a mio nome, non è il mio presidente, non mi rappresenta, l’Italia è meglio di lui.

E’ ossessionato dai processi ed è «anche vecchio», articolava uno, «si scorda le medicine per il cervello», «si fa le leggi che gli servono» aggiungeva un’altra, e il bunga bunga naturalmente, dunque «help!», ci aiuti Mr Obama, «mi vergogno tanto», comunque, anzi tantissimo, e così via. Migliaia e migliaia di post su di un leader che da altri, a suo vantaggio e risarcimento, esigeva proprio quel sentimento.

In realtà in questi anni si è accumulato sufficiente materiale per sostenere l’ipotesi che la sfrontatezza di Berlusconi, quella sua inarrivabile faccia di bronzo sia funzionale, se non connaturata, al prodigioso modello di comando che l’ha portato dove si trova, seppure oggi pericolosamente in bilico. «Chi non ha vergogna tutto il mondo è suo» dice un proverbio. Dominio degli spettacoli, centralità del corpo e tirannia dell’intimismo sono il contesto più adatto per gli spudorati. Ma la sapienza consiglia di non esagerare.

E a questo proposito, sempre rimanendo sul delicatissimo terreno della politica internazionale e dintorni, tornano in mente lo strillo davanti alla regina Elisabetta, i complimenti fuori luogo a Michelle Obama, le spiritosaggini da playboy con la presidente finlandese, le disquisizioni sulla bellezza della conquista femminile davanti a Zapatero, il mimo di un fucile mitragliatore rivolto a una giornalista russa (poi in lacrime), un leggio clamorosamente abbattuto alla Casa bianca per andare ad abbracciare Bush, la richiesta in diretta di numero telefonico a una graziosa annunciatrice di una televisione del Maghreb.

E davvero si potrebbe continuare a lungo sull’impudenza del Cavaliere, non è una frase fatta, anche se tutto lascia credere che negli ultimi tempi egli abbia un po’ smesso di rendersene conto, o forse non gli importa più, la misura e il decoro essendo divenuti per lui un puro optional, fatto sta che di tale inconsapevolezza fa fede l’ennesima scenetta, l’ennesimo e simbolico colpo di sonno durante la messa per la beatificazione di Papa Wojtyla, quando si levò l’alleluja e allora sia Napolitano che il Segretario di Stato si levarono in piedi, e invece lui, che stava in mezzo, dormiva come un bambino.

Da questo punto di vista troppi video di YouTube costituiscono una gagliarda risposta contro il «vergognatevi!» scagliato ieri da Berlusconi al G8. Per gli antichi greci la divinità preposta al pudore era Aidos, non per caso imparentata con Nemesi, che con la sua spada provvedeva a regolare i conti con gli eccessi. Nel report d’addio dell’ambasciatore americano Spogli si legge: «Con le sue frequenti gaffes e la scelta sbagliata delle parole il premier» ha offeso «quasi ogni categoria di cittadini e ogni leader politico europeo», mentre «la sua volontà di mettere gli interessi personali al di sopra di quelli dello Stato ha leso la reputazione del Paese in Europa ed ha dato sfortunatamente un tono comico al prestigio dell’Italia in molte branche del governo degli Stati Uniti». Negli ultimi giorni Mr President, che un po’ prevenuto doveva già essere, ne ha avuto ulteriori conferme.

“Ci impegniamo a sospendere gli abbattimenti degli immobili abusivi perché non si possono mandare tante famiglie in mezzo a una strada”. È stata questa la promessa fatta dal presidente del Consiglio durante la sua ultima visita a Napoli per sostenere il candidato sindaco del Pdl, Gianni Lettieri. L’obiettivo di questa iniziativa è chiaro. Incamerare, non solo per le prossime comunali, il voto di quelle famiglie che vivono nelle oltre 60 mila costruzioni “illegali” sparse per tutto il territorio campano.

Qualcuno mormora che il vero deus ex machina di questa proposta sia stato in realtà l’onorevole Daniela Santanchè che, colpita dalle proteste contro gli abbattimenti, avrebbe suggerito di assecondare le richieste dei manifestanti perché questi si sarebbero rivelati in futuro un bacino elettorale da cui attingere. Se questo sia vero oppure no, poco importa, quello che importa in realtà è che nelle ultime settimane i vertici del Pdl, sia quelli campani che nazionali, hanno fatto a gara per ribadire l’enorme ingiustizia subita dalle “povere famiglie” che rischiano di perdere la casa per colpa della magistratura.

Così la macchina della propaganda si è messa in moto. Prima mostrando, attraverso i racconti di donne e uomini, il dolore di chi, dopo anni di sacrifici ha visto crollare la propria casa sotto i colpi delle ruspe poi lasciando spazio alle promesse del premier e dei suoi accoliti. Una strategia che immediatamente ha portato i suoi frutti soprattutto tra la popolazione napoletana che, immediatamente, ha raccolto l’appello e si è stretta intorno a “chella povera gent ca’ pò fernì miez ‘na via“.

Ancora una volta, la politica ha sfruttato la disperazione dei cittadini per portare acqua al proprio mulino. Il punto però non è questo, anche se poco etico. La questione è infinitamente più complessa. La promessa del Pdl di sospendere gli abbattimenti, infatti, equivale a “condonare” un’illegalità. Perché di questo si tratta. Le strutture che si è deciso di demolire, non sono “solo” le abitazioni di chi finirebbe “in mezzo alla strada” ma sono il frutto di quello sciacallaggio edilizio di cui è stata vittima la Campania negli ultimi trent’anni e, dietro cui si nasconde la longa manus della camorra. Sono ormai decine, infatti, le inchieste della Procura Antimafia di Napoli che hanno dimostrato come i clan stiano da qualche tempo investendo nell’edilizia, grazie alla complicità, e in alcuni casi all’affiliazione, di imprenditori del settore.

Non è un caso, quindi, che la maggior parte dei manufatti abusivi da abbattere si trovino in quelle aree controllate dalle cosche particolarmente attive nel business del “mattone selvaggio“. È il caso di Pianura, popoloso quartiere dell’area flegrea salito alla ribalta delle cronache nazionali per gli scontri nati dall’apertura della discarica di “contrada Pisani”. Lì a comandare è il clan Lago, da sempre attivo, secondo gli inquirenti, nel settore degli “immobili illegali”. A confermarlo sono stati anche diversi collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Gilardi, ex affiliato alla cosca, che nelle sue dichiarazioni ha affermato che durante gli scontri “antidiscarica”, i vertici del clan decisero di sfruttare la situazione per completare alcune palazzine abusive. Per questo fu deciso di “ingaggiare” alcuni gruppi di ultras del Napoli per fomentare gli scontri con le forze dell’ordine in modo da tenerle lontane dai “cantieri”. Anello di congiunzione tra camorra e frange estreme del tifo sarebbe stato, secondo il pentito, Marco Nonno, allora consigliere di Alleanza Nazionale, in seguito arrestato e rinviato a giudizio per queste accuse. Caso vuole che Nonno, confluito nel Pdl, sia anche uno dei candidati di Lettieri che ha preso più preferenze alle ultime elezioni.

A Miano, invece, quartiere a nord di Napoli, i Lo Russo, i cosiddetti “capitoni”, potevano contare sulla “disponibilità” di 4 agenti della polizia municipale in servizio alla sezione “antiabusivismo”. I magistrati della Dda hanno scoperto che chi avesse voluto costruire “manufatti abusivi” in quella zona doveva pagare il clan ricevendo in cambio non solo maestranze legate alla cosca, ma anche la sicurezza che i vigili “addomesticati” non sarebbero intervenuti. Ci sono poi i casi di Giugliano, feudo dei Mallardo, e di Quarto, roccaforte dei Polverino, le due cosche recentemente colpite dalle maxi ordinanze che hanno portato al sequestro di beni, molti dei quali abusivi, per un valore di oltre un miliardo e mezzo di euro. C’è il caso di Marano, dove negli anni scorsi i Nuvoletta hanno lanciato quella che è stata soprannominata l’edilizia floreale per via del fatto che i diversi parchi residenziali “illegali” hanno tutti il nome di un fiore. Poi c’è Casalnuovo, Afragola, Soccavo, Secondigliano e tanti altri.

Il governo quindi si trova di fronte a un bivio. Da una parte bloccare gli abbattimenti, incassando voti e favorendo la camorra. Dall’altra far rispettare la legalità. Non resta da aspettare e vedere cosa accadrà anche se la risposta appare scontata.

C’è insoddisfazione in Italia. Un'insoddisfazione sorda ma non più muta. Trapela da mille segnali, piccoli e grandi. Le proteste sociali che si susseguono, da mesi. In modo ostinato e insistente. Nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. L'abbiamo riconosciuta, da ultimo, nel voto amministrativo. Che ha rivelato cambiamenti profondi. E inattesi. Dietro a tanta insoddisfazione si colgono tanti motivi, di natura diversa. Uno, però, risulta evidente. L'ascensore sociale è in discesa, da troppo tempo. Per usare un ossimoro. I dati dell'Osservatorio di Demos-Coop, al proposito, sono espliciti. Anzitutto, la classe sociale (percepita dagli italiani). Per la prima volta, da quando conduciamo i sondaggi dell'Osservatorio, la piramide si rovescia completamente. Senza "mediazioni". Infatti, le persone che si collocano nella "classe operaia" oppure fra i "ceti popolari" superano, per estensione, quelle che si sentono "ceto medio". Dalla cetomedizzazione degli anni Ottanta - un neologismo ostico ma suggestivo, coniato da Giuseppe De Rita - si sta scivolando verso una sorta di "operaizzazione". Singolare destino, visto che da tempo si predica l'estinzione della classe operaia. Tuttavia, l'indicazione del sondaggio è esplicita. Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi "classe operaia" (39%) oppure "popolare" (9%). Il 43%: "ceto medio". Il 6%, infine, si definisce "borghesia" o "classe dirigente". È l'unico settore sociale stabile. (Le

classi privilegiate, d'altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del "ceto medio" è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l'ampiezza di coloro che si sentono "classe operaia" oppure "popolare" è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici.

Peraltro, l'insoddisfazione verso l'economia e il mercato del lavoro, secondo il sondaggio Demos-Coop, non è mai stato tanto elevata. Verso l'economia: nel 2004 coinvolgeva il 59% della popolazione, oggi il 71%. Verso il lavoro: nel 2004 era espressa dal 60% della popolazione, oggi inquieta il 75%. La delusione sociale: investe tutti. La novità assoluta è che il senso di declino sociale non riguarda i "soliti noti". Operai, pensionati e disoccupati, su tutti. Ma risucchia altri gruppi, che si è soliti collocare (e fino a qualche anno fa si collocavano) più in alto. Nei ceti medi. Perfino nelle classi dirigenti.

Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro "precaria".

D'altra parte, basta considerare il lavoro realmente svolto nell'ultimo anno dagli intervistati. Una componente ampia di essi (il 17% sul totale) dichiara di aver lavorato in modo temporaneo, per una parte più o meno ampia dell'anno. Si tratta dei giovani, soprattutto. E degli studenti (28%). Una generazione precaria, si è detto. È, effettivamente, così. Una generazione senza futuro. Il 63% del campione ritiene, infatti, che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare via. All'estero. Ne sono convinti, per primi, gli interessati: il 76% di coloro che hanno meno di 25 anni. Tuttavia, la precarietà è un sentimento diffuso. Che attraversa tutti i settori sociali. L'insoddisfazione verso la situazione economica e del mercato del lavoro, infatti, oltre che fra i disoccupati, raggiunge il massimo livello tra i liberi professionisti e i lavoratori autonomi. Ed è alta anche fra i tecnici e gli impiegati. Dal punto di vista della classe sociale: inquieta soprattutto coloro che si sentono "borghesia" oppure "classe dirigente". Non è poi così sorprendente. Il fatto è che non ci sono abituati. Per cui temono di perdere i privilegi di cui dispongono.

Si spiega così la perdita di appeal del "lavoro in proprio". Ma anche la parallela ripresa dell'attrazione esercitata dal lavoro pubblico (soprattutto nel Mezzogiorno). Nonostante da anni venga stigmatizzato da autorevoli esponenti del governo. Non è che i cittadini provino un'insostenibile voglia di fare i "fannulloni". È il senso di insicurezza che pervade il lavoro. L'economia. Magari non è una grande novità, potrebbe eccepire qualcuno. È vero, ma non del tutto. Perché fino a poco tempo fa funzionava un meccanismo psicologico che disinnescava gli effetti politici della delusione economica e sociale. Anzi: li rivolgeva a scapito dell'opposizione. Una sinistra "impopolare". Sempre più in difficoltà nell'intercettare il consenso dei dipendenti privati e dei ceti sociali più precari. Rannicchiata - e quasi accerchiata - dentro il perimetro dei pensionati e del pubblico impiego. Soprattutto degli insegnanti e delle figure "intellettuali". Da qualche tempo, questa spirale senza fine sembra essere giunta alla fine. Il processo di operaizzazione e di discesa sociale sta producendo - ha già prodotto - effetti politici evidenti. E sembra sempre più arduo, per il governo e per il suo capo, proseguire nella strategia della dissimulazione. Dire, da un lato, che non è vero. Trattare chi predica sfiducia da nemico della nazione. Dell'Italia.

D'altra parte, non è facile scaricare le colpe e le paure della crisi sempre sugli "altri". Gli immigrati e gli stranieri. Poi, l'euro e l'Unione Europea. Sul piano interno: Roma padrona e il Sud spendaccione. O, viceversa, il Nord egoista. Alla lunga, il meccanismo si è logorato. Difficile dire che la crisi non c'è. Che le cose vanno bene. Che noi stiamo bene. Che bisogna avere fiducia (ora). Che gli operai non esistono. Se mezza Italia, ormai, si sente e si dice operaia. Se i ceti medi e perfino i borghesi hanno paura. Se i giovani pensano di fuggire dal Paese. Se i genitori, per non parlare dei nonni, non hanno argomenti validi per trattenerli. Ed è difficile scaricare le colpe sull'opposizione, che da anni latita. Ma è difficile, per la maggioranza, anche prendersela con il Sud o con il Nord. Spostare i ministeri da Roma a Milano. Visto che in entrambi i casi significa prendersela con se stessa. La Lega del Nord contro il Pdl romano - e del Sud. E viceversa. Così - "forse" - dopo tanti anni, siamo giunti alla resa dei conti. O almeno: all'assunzione di responsabilità. Se piove e fa freddo, se l'orizzonte è scuro. Non può essere - sempre e solo - colpa degli "altri".

Non più la libreria del leader giovane che seduce gli italiani con il sogno ceronato. Al suo posto un politico lento nel parlare, lo sguardo fisso, i capelli dipinti e il volto colorato come una mummia della nomenklatura sovietica. Dopo una settimana di silenzio, colpito dal flop delle preferenze nel forziere del suo elettorato, il premier si è presentato sulle reti televisive e radiofoniche (controllate o di proprietà) per un appello al voto di quattro minuti.

Il conflitto di interessi entra nelle case degli italiani seguendo gli orari delle edizioni di sei telegiornali. Pesante e asfissiante nella normalità dei palinsesti, si ripresenta con Berlusconi che parla come capo del governo e come candidato al comune di Milano, con il simbolo del Pdl formato gigante dietro le spalle e la didascalia che lo indica come presidente del consiglio. Una manifestazione di arroganza nel mezzo di una corsa elettorale che sta perdendo, una prova di forza di un leader dimezzato nel consenso e nella presa sulla maggioranza di governo.

Il presidente-candidato si appella ai moderati con l'estremismo del linguaggio leghista, visibile ostaggio degli umori dell'alleato, appeso agli interessi delle camicie verdi che hanno impostato la musica del secondo tempo della campagna elettorale coprendo i muri di Milano con lo slogan «la zingaropoli di Pisapia». Al quale lo spot di Berlusconi aggiunge una nota sul tema (l«Pisapia vuole baracca libera») nella finta intervista che inonda il piccolo schermo, accompagnata dalle faccette patetiche dei caporali dei telegiornali travestiti da giornalisti.

E' un Berlusconi imbalsamato nella parodia del berlusconismo («con noi meno tasse per tutti, toglieremo anche l'ecopass a Milano») quello che chiama i milanesi e i napoletani al voto contro la sinistra. Tenta la rincorsa del centrodestra verso i ballottaggi evocando i fantasmi della sua realtà parallela, sventolando l'immagine di Milano trasformata nella «Stalingrado d'Italia», prigioniero di un mondo che non c'è più, impantanato in un'ideologia sempre meno capace di egemonia. Conosce la manipolazione demagogica e la proclamazione dell'emergenza, il vecchio armamentario che ricicla per rivolgersi a un elettorato che sarà moderato ma ha dimostrato di non essere così sprovveduto.

Berlusconi non ha scelto il comizio di piazza o la platea di qualche palazzetto, troppo pericoloso affrontare lo scontento delle città che gli hanno voltato le spalle. Meglio mettere la faccia nel territorio protetto del feudo mediatico, dove le telecamere si muovono sotto il suo controllo, e i telespettatori non hanno diritto di replica.

Martedì scorso il Parlamento ha celebrato la giornata contro l´omofobia. Il giorno dopo la maggioranza della Commissione giustizia della Camera dei deputati ha bocciato la proposta di legge unificata che avrebbe introdotto l’omofobia come aggravante nei casi di violenza e aggressione.

È la seconda volta che il tentativo di far riconoscere come reato specifico la violenza omofobica viene fermato da un Parlamento disposto a chiudere mille occhi sulle trasgressioni sessuali del potente di turno se corrispondono ai più vieti stereotipi del machismo eterosessuale, ma del tutto indifferente alla sopraffazione nei confronti di chi è considerato deviante solo perché omosessuale. Dietro vi è certo l´ombra della Chiesa cattolica, dei suoi anatemi contro la omosessualità, del suo pervicace considerarla insieme come una malattia e un pericolo per la sopravvivenza della famiglia, senza alcun fondamento scientifico e in contrasto con il forte desiderio di formarsi una famiglia, di avere forti e stabili rapporti di amore e solidarietà – di coppia, ma anche nei confronti di figli – testimoniato da molti e molte omosessuali. Ma il potere di veto e di ricatto della Chiesa trova il suo alimento nella disponibilità di molti, troppi politici (anche a sinistra) ad assecondarne i desideri sul piano legislativo nella speranza, spesso fondata, di riceverne in cambio legittimazione e sostegno. È uno scambio che ha trovato la sua massima esplicitazione in questo governo e nell´appoggio che ha ricevuto in cambio ("il governo più amico della Chiesa nella storia della Repubblica", ha dichiarato un autorevole prelato). Ma anche senza ricatti e scambi, l´atteggiamento della Chiesa trova terreno fertile nella grettezza morale e nella incultura di una classe politica che sembra ricordarsi dell´etica solo quando sono in gioco le scelte dei cittadini circa le proprie relazioni e vita personale – dalla sessualità alla procreazione alle decisioni su come affrontare la fine della vita. Ma è sulla omosessualità che si concentra il rigorismo di questi moralisti d´accatto. È l´omosessualità che sembra suscitare in loro le paure più incontrollabili. Di converso, i comportamenti omofobici suscitano nel migliore dei casi in queste persone una condanna rituale, con un sottotesto di giustificazione (se la sono voluta, danno fastidio alle persone normali, dovrebbero essere più discreti, e così via). L’omosessualità diventa una aggravante per le vittime, una attenuante per gli aggressori –un po’ come succede spesso alle donne oggetto di violenza sessuale.

Certo, presi all’improvviso da preoccupazioni universalistiche, alcuni di coloro che ieri hanno votato contro la proposta di legge unificata si sono giustificati dicendo che introdurre l’aggravante di omofobia avrebbe costituito una discriminazione nei confronti di altri gruppi, ad esempio gli anziani o i disabili. Ma il risultato di questo universalismo strumentale è la negazione che esistano violenze motivate specificamente dall’odio e disprezzo per particolari gruppi sociali. È un universalismo negativo, non positivo. Inoltre, l’omosessualità, come l’eterosessualità, è una caratteristica costitutiva degli individui, trasversale ad altre caratteristiche e condizioni. L’omofobia nega precisamente legittimità, normalità, a questo modo di essere costitutivo di una persona. Come se si rinnegasse legittimità e normalità a chi è eterosessuale.

La ministra Carfagna ha dichiarato che voterà a favore della legge. Ma che cosa farà perché il suo partito e la sua maggioranza non boccino alla Camera ciò che hanno bocciato in Commissione? Da un ministro ci si aspetta qualche cosa di più di un gesto di testimonianza.

Era prevedibile che a Torino, città di tradizione operaia e storico laboratorio di cultura politica, una discussione sulla democrazia infiammasse la platea. Nel dialogo laterziano tra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia), presentato ieri pomeriggio da Marco Revelli nell’affollata Sala Oval, non si parla solo di un assetto istituzionale oggi messo a dura prova, ma della distanza che passa tra la parola e la cosa, tra "gli ideali" e "la rozza materia", tra il concetto e la sua traduzione storica.

In questa forbice sempre crescente sono contenute tutte le criticità di cui oggi soffre la democrazia, dal populismo carismatico del premier alla questione del lavoro e dei suoi diritti, azzerati dall´economia globalizzata. «Dieci anni fa», dice Mauro, «mai avrei pensato di inserire in un libro sulla democrazia anche il lavoro: eravamo la società del welfare garantito e della crescita. Oggi che il capitale offre il lavoro in cambio dei diritti - è accaduto a Pomigliano e a Mirafiori - mi pongo il problema se tutto questo sia compatibile con un contesto democratico». La platea del Lingotto sottolinea con lungo applauso la sua sintonia con il direttore di Repubblica, che incalza: «È stupefacente come la politica permetta questo scambio. La destra non vuole intervenire, ma è ancora più sorprendente che non lo faccia la sinistra, ormai incapace di pronunciare parole come libertà, eguaglianza e giustizia».

La morte della politica è uno dei temi del dialogo, ora ripreso con forza da Zagrebelsky. L’analisi non prevede sconti per nessuno. «L’attuale degrado della vita pubblica può essere ricondotto solo in parte al berlusconismo, che è certo una delle cause ma è soprattutto conseguenza di un processo più profondo. La politica è sparita. Sono morte le ideologie, ma è venuta a mancare anche la capacità di ragionare in grande. Se vogliamo combattere il potere carismatico di Berlusconi - io in verità non lo vedo tanto questo carisma - dobbiamo uscire dalla palude impolitica: l´amministrazione dell´esistente e l’occupazione del potere». Sarebbe sbagliato, tuttavia, confondere in un´unica zona grigia l´intera classe politica. «Rimane la distinzione tra persone perbene e persone non perbene», dice il costituzionalista che non rinuncia a civettare con la caricatura suggerita dai suoi avversari: «Così confermo la mia propensione per il puritanesimo». Applaude l’editore Giuseppe Laterza, seduto al tavolo. E applaude il pubblico, riconoscendosi nel richiamo morale.

La democrazia come il «regime delle promesse non mantenute» (copyright di Bobbio). Ma esiste una soglia - incalza Marco Revelli - oltre la quale la distanza tra la parola e la cosa minaccia il fondamento democratico? «Il rischio», risponde Mauro, «è che dietro la superficie levigata si nasconda un organismo malato». E se la democrazia - non come formula politica ma come esperienza - è in difficoltà anche altrove, in Italia vive in una condizione speciale. «Non sono accettabili paragoni con regimi del passato, tuttavia è indubbio che la destra italiana sia portatrice di molte gravi anomalie. Non succede altrove che il potere esecutivo usi il potere legislativo per difendersi dal potere giudiziario. Ma il populismo di Berlusconi è qualcosa di ancora più eversivo, una destra che chiede al sistema democratico di rinunciare alle regole per costituzionalizzare le sue anomalie». Un processo contrario alla "felicità della democrazia" invocata dal titolo del dialogo: condizione da ricercare «in un sistema di regole e libertà», molto più che «nella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio».

Qui uno stralcio del dialogo tra Mauro e Zagrebelsky

Trovo che la promessa di non demolire le case abusive fatta alla vigilia del voto abbia qualcosa di sconcio e disperato insieme. Come una confessione a cielo aperto che mentre strizza l’occhio alle mafie e alle camorre, ai furbi alle cricche ai criminali e ai disperati, appunto, dice sono uno di voi: sono criminale e disperato anche io. Tranquilli, se mi votate siete a posto. Potete smettere di nascondervi, non verrà la finanza, guardatemi, sono il vostro campione, il vostro Batman. Diventiamo tutti allegramente fuorilegge e gridiamolo forte, facciamo vedere che siamo la maggioranza e vinceremo: dopo nessuno di quei tristi legulei garanti della democrazia (ma cos’è poi, la democrazia di fronte ai soldi e all’impunità?) potrà venire a dirci delle regole e del diritto, li manderemo a casa tutti e vivremo nelle nostre case abusive e nelle nostre vite contraffatte felici e contenti. Io nelle ville coi cactus, voi nelle baracche di mattoni, il giovane Moratti nella Bat-caverna al centro di Milano e sua madre a balbettare in Comune.

Siamo uguali, in fondo. Sono uno di voi. Ecco. La truffa mediatica, il messaggio popolare che il più abile dei piazzisti prova a far passare ora che forte è la rabbia e più grande la paura è questo. Perché è vero che in prima battuta si accredita come il garante dell’illegalità al cospetto delle mafie criminali, a Napoli la camorra a Milano le ‘ndranghete nel resto d’Italia le multinazionali dell’illecito nostrane e di importazione. Ma è anche vero che mentre parla alle cricche dei costruttori di palazzi di sabbia, quelli che poi crollano lasciando i morti sui quali piangere lacrime ipocrite e colpevoli, cerca la complicità dei disperati che in quelle case vivono: gente che degli sfarzi dei lussi degli elicotteri dei miliardi di Berlusconi non vedrà altro che le foto ritoccate sui suoi settimanali e che è disperata di una disperazione diversa dalla sua, la disperazione di chi non ha un lavoro uno stipendio né una fogna che si porti via i liquami dei suoi vecchi, non quella di chi rischia di passare la vecchiaia in esilio come un despota latitante che non è riuscito ad incantare i suoi sudditi fino al punto da convincerli che la sua impunità è il bene del meraviglioso e triste paese che ha avuto la sventura e la mollezza di trasformarlo in un eroe. È possibile che gli credano, i disperati degli hintlerland di Crotone, di Cinisello Balsamo e di Somma vesuviana. È possibile che i cassintegrati e i disoccupati, i commercianti falliti perché taglieggiati e i taglieggiatori, i cummenda della veranda e i contadini senza raccolto, le prostitute che sperano in un charter per Arcore e i papponi che le organizzano, i costruttori di protesi e i vecchi senza denti, è possibile che tutti insieme costoro, accomunati da diverse miserie e povertà, vedano in quest’uomo in doppiopetto non il responsabile della loro rovina ma al contrario il salvatore, il bingo umano, il salvacondotto per il perpetuarsi della miserabile sopravvivenza scambiata con l’esistenza a cui avrebbero diritto.

Bisognerebbe che l’opposizione avesse la forza e l’intelligenza non di condannare e disprezzare chi spera che Silvio B. terrà in piedi le loro case e vite abusive ma di parlarci, di ascoltarli, di proporre un’alternativa reale non fra vent’anni ma adesso. Di andare fra chi vive nelle case abusive e dire avete diritto ad una casa migliore di questa, eccola. Noi ve la daremo senza far passare avanti i figli e i nipoti di nessuno. Un’etica. Una moralità sincera e credibile che sappia sconfiggere la corruzione e far sentire tutti parte di una comunità solidale, giusta, migliore.

È inutile sfogliare corposi libri di storia, arguti pamphlet, sferzanti pagine di cronaca. È inutile rievocare i tempi di Depretis o le peggiori vicende dellItalia repubblicana. Da nessuna parte, in nessuna pagina si troverà qualcosa di lontanamente paragonabile allapoteosi dellindecenza sancita dallingresso dei "responsabili" nel sottogoverno (dal primo ingresso: è prevista una seconda ondata). Non si troveranno neppure parole adeguate: trasformismo è termine che gronda nobiltà e dignità, al paragone. E i voltagabbana del passato, in fondo, avevano pur avuto una gabbana. Eppure gli storici del futuro dovranno un granello di gratitudine anche a questo coacervo impresentabile e indefinibile di eletti: un "documento" prezioso del degrado ultimo cui la politica è giunta nel nostro Paese. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi, scriveva Bertolt Brecht: ma che dire di un governo che ha bisogno dei "responsabili"?

Non ci si fermi però alle accidentate biografie e allimprontitudine dei promossi, o alle rancorose rivendicazioni degli esclusi ("cè ancora uniradiddio di nomine da fare", si consola elegantemente uno di essi). E non si dimentichino altri casi in cui il premier ha utilizzato, o tentato di utilizzare, incarichi pubblici per uso privato. O per aggirare la legge e la giustizia: si pensi al tentativo di salvare in extremis limputato e condannato Aldo Brancher inventando per lui un ministero di cui era incerto sin il nome. Si vada al cuore del problema, cui questa vicenda per più versi rimanda. Da un lato i "responsabili" sono il corollario di una concezione della politica che il Pdl ha progressivamente imposto e che comprende al suo interno anche il "sistema" illustrato a suo tempo da Denis Verdini. O la filosofia della cricca, che ci è stata ricordata anche ieri dalle cronache giudiziarie. Dallaltro lato il premier ha potuto perseguire anche in questo caso quella "diseducazione civica" cui si dedica da sempre con grande impegno: dopo aver legittimato levasione fiscale e delegittimato listruzione pubblica non poteva perdere loccasione per premiare gli sfregi più vergognosi e dichiarati alla politica come servizio, allo Stato come bene comune. Certo, siamo giunti alla farsa ma nella storia le farse non allontanano le tragedie. Spesso aprono loro la via.

Ventanni fa, nellagonia della "prima repubblica", Edmondo Berselli osservava che il ceto politico italiano era ormai attraversato e scosso: «Da due spinte esattamente opposte: listinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». L«immobilità parossistica» della scena politica mascherava però male – aggiungeva Berselli – il crescere di una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma pericolosamente vicino al collasso del sistema».

Fa impressione rileggere a distanza danni unanalisi così lucida, che ebbe di lì a poco probanti conferme. E vale la pena tenerla presente anche oggi, perché illumina meglio molte vicende delle ultime settimane. Anche in esse è stato molto difficile distinguere i drammi reali dalle parodie di quartordine messe in scena in loro nome. Ad Aldo Capitini e a Danilo Dolci, per fortuna, è stato risparmiato il "pacifismo" dei leghisti, apertamente motivato con la necessità di arginare il dilagare degli immigrati e di affermare il proprio peso politico nel governo (cioè il proprio non clandestino dilagare in molteplici enti e istituzioni). Dopo lapprovazione di una mozione grottesca Bossi ha rispolverato il "celodurismo" e ha aggiunto: la Nato dovrà tenerne conto. "Mamma mia che impressione", avrebbe detto Alberto Sordi. Per non parlare del nostro ministro della Difesa, che da tempo non sembra più padrone di sé. Basta qualche contestazione in Parlamento, o semplicemente a "Ballarò", per trasformarlo nella inquietante caricatura del La Russa che nei primi anni Settanta capeggiava i giovani missini milanesi (non troppo raccomandabili, a leggere le cronache di allora). Allequilibrio e alla saggezza di questuomo è affidato il nostro esercito.

Anche in precedenza non ci era stato risparmiato proprio nulla: lirrilevante che sostituisce lessenziale, linteresse privato che soppianta quello pubblico, la menzogna più sfacciata che irride a ciò che le persone normali vedono e sanno. In qualunque altro Paese non sarebbe rimasto al suo posto neppure per un secondo un ministro dellambiente capace di dichiarare: "non possiamo rischiare le elezioni amministrative per il nucleare". Né è immaginabile altrove un premier che ammetta (o rivendichi, come nel nostro caso): ci siamo inventati un bellimbroglio per confermare la scelta nucleare. Tutto nel giro di pochi giorni, e allindomani di una sciagura immane. Per più versi però la deriva del governo chiama in causa il Paese nel suo insieme: «Gli italiani non sembrano capire il disastro in cui si trovano. Il nostro è un curioso destino, abbiamo la libertà delle catastrofi, la libertà degli irresponsabili, la vacanza che coincide con lanarchia». Lo scriveva Corrado Alvaro sessantanni fa, e ci sembrano parole terribilmente attuali.

La difficoltà di cogliere lo spessore del dramma sembra attraversare anche le opposizioni. Solo così si spiegano le troppe assenze inspiegabili (come quelle che hanno permesso lapprovazione del documento economico del governo) e i troppi conflitti interni, solo parzialmente sopiti negli ultimi tempi. Di qui lurgenza di quel colpo dala, di quella capacità di invertire la tendenza cui si è riferito il Presidente Napolitano. Difficile dir meglio: è necessaria unalternativa di governo «credibile, affidabile e praticabile». È necessaria una sinistra capace di "togliersi di dosso ogni sospetto di volersi insediare al potere come alternativa senza alternativa". Capace, insomma, di mettere in campo proposte concrete e convincenti, connesse a unidea generale di futuro

È un passaggio obbligato: non solo e non tanto per smuovere orientamenti elettorali stagnanti quanto per rimettere in moto il Paese. Per arrestare un declino. Per dare voce e fiducia a quella parte dellItalia che non si è arresa, che ha ancora voglia di rimettersi in gioco. «LItalia con gli occhi aperti nella notte triste», come cantava Francesco De Gregori. Di tempo, forse, non ne è rimasto moltissimo.

Il rimando è alla violenza fisica, al bisturi, alla spietatezza del chirurgo. Dopo la parola "cancro" non c´è più spazio per le parole. Cancro è infatti la parola terminale, fuori dalla civiltà della democrazia, oltre la detestabilità del nemico. Berlusconi l´ha usata contro i magistrati e, in polemica ipocrita e contorta, contro il presidente Napolitano, dinanzi al quale non ha osato ripeterla. Al Capo dello Stato, che rendeva omaggio alla magistratura nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo, Berlusconi ha notificato un complimento di circostanza: «nobili parole».

Lontano da lui ha invece formalizzato con un atto politico la sua fissazione e ha chiesto una commissione di inchiesta parlamentare contro «il cancro» appunto dei pm. Ha così portato il livello dello scontro alla sua soglia definitiva. La diagnosi di cancro è lo schiaffo che provoca i giudici al duello ed è un´insolenza malcelata dall´opportunismo di giornata verso Napolitano che non solo è il primo magistrato d´Italia, ma si è appunto espresso con parole opposte, solenni e commosse. Berlusconi inghiottiva lì quello che andava a sputare fuori.

Quale che sia la sua consapevolezza, il presidente del Consiglio ha infatti compiuto un passo verso la guerra civile perché, come ben sappiamo, dopo le legittime armi della critica si arriva alla funesta critica con le armi.

E non è finita qui. Attraverso il varco aperto da Berlusconi si è fatto largo il solito cavallo di Troia. La Santanchè, che non vuole mai restare indietro nella gara eversiva a chi la spara più grossa, ha addirittura individuato il fuoco del cancro in una persona. Per questa raffinata signora del berlusconismo «la metastasi» è Ilda Boccassini.

Ci stiamo abituando a tutto. E non facciamo in tempo ad abituarci a un peggio che subito arriva un pessimo. Sino a ieri la volgarità ci sembrava il limite estremo della prepotenza politica. E però l´insulto, il turpiloquio, il rutto sono antagonismo non curato, becerume che non attenta agli assi portanti della democrazia, che poi sono quelli che garantiscono diritto di cittadinanza al becerume stesso. La volgarità insomma è ancora dentro il rispetto dell´integrità fisica dell´avversario. Il cancro invece ti pone davanti non più un avversario e neppure un nemico che è ancora una persona da abbattere. Il cancro è una mostruosità da devastare: con il bombardamento chimico, con l´estirpazione, con qualunque mezzo cruento. Siamo alla preparazione psicologica della guerra civile. Con il cancro infatti non c´è più bisogno di discutere né c´è tempo di ragionare: bisogna agire presto.

Questo linguaggio che fa pensare a Berlusconi sul carro armato e con gli anfibi, agli esercizi militari in tuta mimetica mi spinge tuttavia a una domanda, alla più pacificata delle domande: perché il fragore di questo lessico invasato non viene percepito e, non dico coraggiosamente combattuto, ma almeno timidamente criticato dai galantuomini che - oso pensare - ancora stanno accanto a Berlusconi, nonostante tutto? È mai possibile che tra i molti avvocati, qualche economista, i tanti medici, tra tutti quei giornalisti «anarchici, esteti e situazionisti» , tra le belle signorine e signorini, tra gli appassionati ex missini statalisti, tra gli ex liberalsocialisti ed ex democristiani…, è mai possibile che in quella ganga di cervelloni scervellati siano ormai tutti assoggettati alla Santanché che ripete, papera papera, le invettive del capo e aggiunge rancore calcolato ai rancori incrostati del suo principale?

È mai possibile che nessun Letta e nessun Tremonti, nessun Maroni e nessuna Moratti gli dicano che non c´è più niente da ridere, e gli spieghino la scena su cui tutta l´Italia si è fermata, il presidente che piange e Berlusconi che ghigna? Forse stasera nella sua ‘Radio Londra´ Giuliano Ferrara potrebbe consegnare questo messaggio speciale: c´è differenza tra politologia e oncologia, e «cancro» è parlare tragico, è la parola compiaciuta della iena che ride sul corpo ferito della povera patria.

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