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la Repubblica,

Maschi di razza bianca tra i venti e i quaranta – l’età della guerra – quasi tutti con i capelli cortissimi, giubbotti di pelle, felpe nere e occhiali neri, l’atteggiamento muscolare/marziale di chi presidia un territorio per allontanare un pericolo, respingere un nemico. Sono gli attivisti argentini di Pro Vida che manifestano contro la legalizzazione dell’aborto (foto pubblicata ieri su questo giornale), fronteggiando, falange di uomini, un corteo di donne. Ma per capire dove siamo, e di quale gruppo umano si tratta, ci vuole la didascalia. Perché potrebbero benissimo essere, al primo sguardo, manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter – mai, comunque, da leader.

A un colpo d’occhio vincolato alle tradizioni novecentesche parrebbe un’antropologia fascista, o fascistoide. In Europa abbiamo imparato a chiamarli "sovranisti", e le debite differenze storiche, territoriali, politiche, se non si vuole cadere nel luogo comune, vanno sicuramente fatte. Ma alcuni ingredienti ideologici si ritrovano ovunque, tra i supporter di Trump come tra quelli di Putin, di Orban, di Salvini. Il mito del Popolo come entità innocente corrotta dalle élite borghesi, la Nazione come fonte di purezza contaminata dal cosmopolitismo, la religione cristiana intesa come omaggio alle tradizioni, non certo come impegno solidaristico, una sempre meno malcelata omofobia, un diffuso antisemitismo, un vigoroso, quasi festoso antifemminismo, come se qualcuno avesse finalmente levato il coperchio al pentolone ribollente della frustrazione maschile.
Questo ultimo aspetto – il revanscismo maschile – è esplicito nel caso di Pro Vida e di tutti i movimenti analoghi, per i quali l’autonomia del corpo femminile è un attentato non "alla vita" – come dice una propaganda che di fronte all’aborto clandestino non ha mai fatto una piega - ma all’ordine patriarcale. Ma sarebbe il caso di considerarlo più estesamente, più attentamente, come una delle componenti fondamentali della grande revanche della destra politica (comunque la si voglia chiamare) in tutto l’Occidente.
È certamente lecito domandarsi quanto un’onda reazionaria di queste dimensioni attinga dagli errori delle democrazie, e/o dalla rigidità dogmatica di certi sbocchi del politicamente corretto: basti
pensare alla scia non sempre limpida del movimento #MeeToo e allo zelo persecutorio contro molestie sessuali forse non così efferate da meritare la riesumazione venti o anche trent’anni dopo. Ma le dimensioni e la compattezza del neo maschilismo di destra sono tali da far capire che non possono essere, a nutrirlo, i codicilli e le fumisterie di quell’imponente corpus di libertà e giustizia che è il processo di autodeterminazione delle donne. C’è, evidentemente, qualcosa di molto più profondo e molto più sostanziale, a provocare tutte queste adunate di maschi in posa da maschi: e questo qualcosa è l’autodeterminazione delle donne in sé, della quale l’interruzione di gravidanza è una delle pagine più complicate e più inevitabili, con la legalizzazione a fare da discrimine secco tra un prima di sottomissione e un dopo nel quale le scelte della femmina contano, scandalosamente, tanto quanto quelle del maschio.
Se vale l’ipotesi che siano l’insicurezza del maschio e la sua disperata voglia di rivincita, uno dei motori delle nuove destre in marcia, allora andrebbe percentualmente ridimensionata l’influenza che la crisi economica ha sull’aggressività montante da un lato; e sulla crisi della democrazia dall’altro. È un’influenza oggettiva, quella della crisi economica, e di grande rilievo: ma se ne parla sempre come dell’unica benzina che alimenta il motore delle destre nazionaliste, insieme all’additivo, potente, della paura dello straniero. Molto meno si parla del brusco processo di respingimento, sia esso cosciente o istintivo, che le donne subiscono all’interno degli assetti del nuovo potere.
Del trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orban e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra...) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana; degli undici maschi su undici nello staff social di Matteo Salvini; della presenza marginale, e quasi mai menzionata, delle donne nel nuovo agone mediatico, che sembra costruito a misura di maschio a partire dalla vocazione all’insulto, alla sopraffazione, alla prova di forza che soppianta ogni dialettica e ogni riflessione. Di più "maschile", nel novero dei paesaggi sociali e dei passaggi storici, rimane solamente la guerra: alla quale, per linguaggio, per atteggiamento, perfino per abbigliamento, sembrano in qualche modo predisporsi i manipoli di giovani maschi già bene addestrati, in lunghi decenni di imbelle assenza dei governi (questo sì, un errore fatale della democrazia), nelle curve degli stadi di tutta Europa. E adesso molto visibili anche nelle piazze.

il manifesto,

Se scendi da un’auto e, senza dire una parola, da settanta metri di distanza spari a tre uomini e ne colpisci uno alla testa, vuol dire che non volevi spaventare, ma uccidere. Siccome la vittima, Sacko Soumayla, 29 anni, veniva dal Mali, in tempi di salviniana muscolarità anti immigrati si è dato subito a questo omicidio uno sfondo razzista. Leggendo la biografia della vittima, viene il dubbio che le ragioni dell’assalto non siano dovute solo al colore della pelle o a ciò che Soumayla stava facendo, e cioè portare via qualche lamiera per costruire una baracca da una ex fornace chiusa da dieci anni e sotto sequestro perché vi erano state sversate 135mila tonnellate di rifiuti tossici.

Per cercare di capire quali motivi portino un italiano a uccidere a sangue freddo un lavoratore africano bisogna guardare a chi era Sacko Soumayla, che cosa faceva, dove e per chi.
Siamo nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, terra fertile di agrumi, kiwi, ulivi. Sacko Soumayla aveva un regolare permesso di soggiorno, lavorava come bracciante per 4,50 euro l’ora, era un sindacalista iscritto all’USB e lottava contro lo sfruttamento della mano d’opera immigrata.

Circa un mese fa, il 3 maggio, la testata online osservatoriodiritti.it ha pubblicato un’inchiesta intitolata "Migranti: nella Piana di Gioia Tauro vivono i dannati della terra" basata su un rapporto di Medu (Medici per i diritti umani). Lì c’è tutto quello che serve per capire che un lavoratore immigrato che si ribella può dare molto fastidio. Dà fastidio a chi, in questo caso italiani, vuole pagare il meno possibile la mano d’opera per lucrare di più. Dà fastidio a chi conviene mantenere i lavoratori in condizioni di precarietà, come l’attesa di un permesso di soggiorno, che rende più facile il gioco al ribasso e, infatti, 7 braccianti su 10 sono sfruttati e non hanno un contratto.

Se il contratto arriva, non è mai veritiero perché, per esempio, figura che hai lavorato 30 giorni invece dei reali 3 mesi, 2 giorni anziché i 16 effettivi. Non contenti di pagare poco e in nero, di ricorrere al reclutamento secondo l’odioso sistema del caporalato, questi pseudo imprenditori hanno tutto l’interesse a tenere i lavoratori in condizioni di vita miserevoli, come braccia da usare e buttare. Quando, come dicono gli operatori di Medu, «Oltre tremila persone vivono fra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti, dormono su materassi a terra o vecchie reti, circondati dall’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati per scaldarsi», il loro primo pensiero è non soccombere. Chi si ribella a tutto ciò dà fastidio.

Otto anni fa, a Rosarno i braccianti protestarono contro queste forme di schiavismo, ma nulla è cambiato, come se lo Stato guardasse da un’altra parte. L’uccisione di Soumayla ha sicuramente uno sfondo razzista, ma emerge da un substrato di avidità, egoismo, disprezzo per la vita e stupidità, sì, stupidità perché lavoratori trattati e pagati in modo civile portano sviluppo e ricchezza alla zona in cui vivono. Evidentemente nella piana di Gioia Tauro gli interessi sono altri.

Come ha detto Antonello Mangano, curatore del sito d’inchiesta terrelibere.org, «Rosarno è uno dei luoghi centrali dell’economia globale. La mano d’opera arriva dall’Africa occidentale, i contributi alle coltivazioni da Bruxelles e, infine, le arance sono esportate in mezzo mondo: Romania, Russia, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, Emirati Arabi, Stati Uniti. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti e supermercati sono gli attori del gioco». Quindi, per favore, non chiamatelo solo razzismo.

Avvenire,


Elena Molinari, inviata a Newhaven (Connecticut) domenica 6 maggio 2018»

I giovani tornano a marciare. E contestano le scelte del governo. Tra i promotori c'è Lane Murdock, 16 anni, che si racconta: «Siamo ancora qui, e non ce ne andremo finché le nostre voci non saranno ascoltate ». Due mesi e mezzo dopo la strage di Parkland e la nascita di un movimento nazionale di adolescenti che esigono un maggiore controllo delle armi negli Stati Uniti, la persistenza di questi giovanissimi sulla scena nazionale ha dell’incredibile.

Al gruppo originale del liceo in Florida, dove 17 persone sono morte sotto i colpi dell’onnipresente AR 15, si sono uniti altri ragazzi. Come Lane Murdock, una sedicenne del Connecticut che due settimane fa ha lanciato, con un successo insperato, uno sciopero di una giornata di tutte le scuole superiori del Paese per ricordare a politici, ai media e alla lobby delle armi, la Nra, che la mobilitazione è tutt’altro che finita.
Lane è comparsa in televisione, con la stessa espressione calma ma appassionata alla quale ci hanno abituati gli studenti di Parkland, spiegando che quando aveva dieci anni un malato di mente crivellò decine di bambini a Sandy Hook, una scuola elementare vicina alla sua, e che da allora tre volte all’anno partecipa in classe a simulazioni da «presenza di attaccante armato». Si è talmente abituata a questa routine, ripete ad , che la notizia della strage in Florida all’inizio non la sconvolse. «Lì per lì mi sono detta: ah, un’altra sparatoria – dice –. Poi mi sono resa conto quanto fosse assurdo e ho scritto la petizione per lo sciopero del 20 aprile». Nel giro di una settimana, 2.500 istituti avevano aderito.

Lane ha scelto l’anniversario del massacro di Columbine, in Colorado, un evento che gli attivisti che si battono per il controllo delle armi considerano uno spartiacque. Diciannove anni fa, infatti, per la prima volta l’opinione pubblica americana domandò alle amministrazioni locali e federali di fare qualcosa affinché una carneficina simile non si ripetesse «mai più». Da allora la maggior parte scuole americane si sono trasformate in fortezze. Hanno installato metal detector e telecamere di sicurezza, vietato gli zaini, richiesto agli studenti di portare documenti di identità e schierato polizia nei corridoi.

Ma questo non ha impedito che 33 persone venissero falciate sul campus di Virginia Tech o 26, appunto, a Sandy Hook. Ogni tragedia ha risvegliato lo stesso orrore, nessuna ha generato svolte reali, e al Congresso americano non sono mai stati eletti abbastanza deputati e senatori disposti ad approvare misure che li mettessero in rotta di collisione con la National Rifle Association (Nra), che rappresenta i produttori e distributori di armi in America e i cui iscritti sono aumentati negli anni, toccando ira i sei milioni. Col tempo, allora, il «mai più» di 19 anni fa si è trasformato in «no, non ancora».

Fino a oggi. Nel corso degli ultimi mesi – qualcuno dice dalla campagna presidenziale del 2016 – migliaia di adolescenti hanno dimostrato di non voler accettare lo status quo. E non solo per il controllo delle armi. I liceali hanno marciato con le donne dopo l’elezione di Trump e tenuto in vita il movimento #MeToo contro gli abusi sessuali. Hanno affiancato le rivendicazioni anti-razzismo di Black Lives Matter. Hanno protestato contro i divieti dell’Amministrazione repubblicana all’ingresso di musulmani negli Usa. Per il clima.

Se le armi sono diventate il loro biglietto da visita, consapevoli della loro abilità di creare ponti sui social media, questi ragazzi hanno trovato forza nell’unione di cause limitrofe. I Peace Warriors, associazione anti-violenza di Chicago, si sono già recati in Florida per coordinare i loro sforzi con i coetanei di Parkland. E un gruppo in Oregon, che ha fatto causa all’Amministrazione Trump per la sua estrazione di combustibili fossili, ha fatto lega con un’associazione di giovanissimi in Colorado impegnata in una simile battaglia legale. Intanto 13 coalizioni di adolescenti si sono unite in una rete che difende il diritto di molte «città santuario» di dare rifugio agli immigrati senza documenti, nonostante le minacce del governo di tagliare loro i fondi federali.

Non sono cause nuove, e per molti aspetti i ragazzi che le hanno impugnate non sono diversi dagli adolescenti idealisti che prima di loro hanno cercato di cambiare il mondo, per poi scoprire che non è facile. Sono già riusciti a mantenere viva l’attenzione nazionale sulle loro cause più a lungo del brevissimo ciclo delle notizie via ma è legittimo porsi la domanda: quanto dureranno?

Nelle prossime settimane, Avvenire cercherà di scoprirlo con un viaggio nell’attivismo della Generazione Z. Che ha già dimostrato un’impressionante abilità nell’usare Internet per rivolgersi a un pubblico ampio e nell’attaccare i suoi avversari senza esclusione di colpi.

Ieri ad esempio, pochi minuti dopo che Donald Trump, parlando alla convention della Nra, aveva deriso la proposta di vietare i fucili semiautomatici, chiedendosi se non si debba anche vietare «i furgoni, i camion e smettere di vendere auto», i giovanissimi del movimento Never Again hanno inondato Twitter con commenti che mettevano in ridicolo il presidente degli Stati Uniti. «L’energia giovanile c’è sempre stata, gli strumenti che abbiamo sono nuovi – conclude Lane Murdock –. Per questo siamo ancora qui, e abbiamo intenzione di restarci».

1.Continua

la Repubblica,

Tra le cose giuste che ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella c’è indubbiamente la nomina di Liliana Segre a senatrice a vita. Poche persone hanno titoli così preziosi per essere membri del Senato. Liliana, di famiglia ebraica, fu vittima dell’odio razzista fin dall’età di 13 anni, quando fu rinchiusa dai nazisti nel campo di sterminio di Auschwitz, dopo l’assassinio dei suoi genitori e nonni. Porta ancora inciso sull’avambraccio il numero di matricola 75190. Sopravvisse allo sterminio e fu liberata dall’Armata rossa il 1° maggio 1945. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz, Liliana fu tra i venticinque sopravvissuti. Dalla Liberazione ha studiato, lavorato e insegnato costantemente, anche a livello universitario, per mantener viva nei giovani la memoria dei crimini compiuti dall’odio razzista. Tra le sue recenti proposte, quella di istituire una “Commissione contro il razzismo, che di seguito è illustrata dalle sue stesse parole pronunciate a un incontro con i giovani (e.s.)

Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.

Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.

Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.

Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.

Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro. La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare. Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe.

È questo il momento giusto!

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,
È stata Juliet Schor, sociologa al Boston College, ad accorgersi del fenomeno. Stava studiando le famiglie che negli Usa praticano il cosiddetto downshifting, vale a dire la riduzione dei consumi, la decelerazione nella vita quotidiana, l’attitudine alla sobrietà e alla semplicità dei rapporti umani. E si accorse ben presto di una stranezza: nessuna delle famiglie che aveva fatto quella scelta aveva bambini in casa.

Da quella scoperta fu indotta a occuparsi del consumismo fra i bambini americani e scoprì un continente sommerso.In alcuni mesi di ricerca fu in grado di constatare una frattura storica sconvolgente: per la prima volta nella storia l’influenza formativa sui bambini dalle mani delle famiglie e degli insegnanti era passata alle imprese. Queste avevano lavorato alacremente per allargare un mercato ancora vergine e pressoché illimitato. Dal 1980 al 2004 gli investimenti in pubblicità destinata all’infanzia erano passati da 15 milioni di dollari l’anno a 15 miliardi.
Non è naturalmente un fenomeno americano. La Psicologa Susan Linn in un saggio del 2010 del Worldwatch Institute dedicato alla «commercializzazione nella vita dei bambini», ha rilevato che le sole industrie alimentari spendono circa 1,9 miliardi di dollari l’anno in campagne di marketing mirate ai bambini di tutto il mondo. Non è una pratica senza conseguenze: «L’organizzazione mondiale della sanità e altre istituzioni per la salute pubblica identificano nel marketing rivolto all’infanzia un fattore rilevante dell’epidemia globale di obesità infantile».

Non è solo la pubblicità, ovviamente.Tutta la cultura capitalistica dei nostri anni cerca con feroce determinazione in ogni angolo del vivente materia da cui estrarre profitto. E trova sempre solerti figure intellettuali pronti a fornire motivazioni di utilità generale. Negli Usa è esplosa la questione dell’abolizione nelle scuole della pausa di ricreazione. La motivazione è stata quella di rendere more productive, più produttivi i bambini, che devono impiegare tutto il tempo scolastico ad apprendere. Eppure è noto, e non da oggi, che proprio il gioco, tra i bambini, è una esperienza formativa decisiva per il loro futuro e per il futuro di tutti noi. «La spiritualità – ricorda ancora la Linn – e i progressi scientifici e artistici si fondano tutti sul gioco. Il gioco promuove attributi essenziali a una popolazione democratica, quali la curiosità, il ragionamento, l’empatia, la condivisione, la cooperazione e un senso di competenza, cioè la convinzione che un individuo possa cambiare le cose in questo mondo». E il gioco sta sparendo nel XXI secolo, sostituito da attività istituzionalizzate e disciplinate (scuole, palestre), dalla fruizione passiva della tv, dagli intrattenimenti digitali sempre più pervasivi, al punto da creare ormai patologie di massa.

Ma ora è l’Europa che entra più esplicitamente in campo per forgiare esemplarmente la nostra infanzia. Non per creare zelanti e totalitari consumatori, ma addirittura volitivi e vincenti imprenditori. In un documento di 40 pagine elaborato dal Joint Research Centre dell’Unione europea, e varato nel 2016, il cosiddetto Entrecomp: the entrepreneurship competence, framework più importante delle 8 competenze europee, che il Miur esorta ad assumere come riferimento teorico anche per la scuola italiana, è la capacità di fare impresa.

Per intenderci e per usare le espressioni dei nuovi manager che si stanno impossessando della scuola europea, occorre fare apprendere come si diventa capitalisti di successo «attraverso metodi di insegnamento e apprendimento nuovi e creativi fin dalla scuola elementare».

Già i bambini di 5 o 6 anni dovrebbero apprendere ad «assumersi rischi», «prendere iniziative», imparare a «mobilitare gli altri», ecc. Si tratta, per chi stenta a credere – ma si leggano in rete gli articoli di Rossella Latempa sulla rivista Roars – di un passo in avanti, rispetto alle esortazioni degli anni scorsi, da parte del ministero dell’Istruzione, a fornirsi di «competenze trasferibili», soprattutto quelle digitali, «che i datori di lavoro esigono sempre di più». Dalla a scuola a servizio delle imprese, alla scuola che ha per fine ultimo quello di creare imprese.

Non ci sono dubbi. Siamo di fronte a un assurdo e strisciante progetto di assoggettamento totalitario della base formativa del cittadino europeo alle ragioni dell’economia capitalistica. Il pensiero unico vuol crearsi le basi antropologiche della propria infinita riproduzione. Ma che società sarà quella popolata da un uniforme esercito di imprenditori? Quanto può durare un mondo di uomini che vogliono, tutti, competere e vincere? E che fine fa l’infanzia, chi protegge i nostri bambini contro tali progetti di pedofilia economicistica? Quando reagiremo, di fronte a queste forme ormai dispiegate di criminalità intellettuale?

il manifesto, Corriere della sera, 20 aprile 2018.

VERTECCHI: LA SOCIETÀ
DELL’EROISMO DEVIATO»

di Alessandra Pigliaru

«Bullismo. Un’intervista al decano dei pedagogisti italiani sul caso di Lucca e le tensioni tra studenti, docenti e genitori negli istituti. "Non c’è un vero cambiamento in questi episodi recenti. Assistiamo a una forma di esibizionismo, ma la scuola non vive in un luogo separato dal mondo"»

Chiedeva il sei politico lo studente dell’Itc «Carrarà» di Lucca, mentre sbeffeggiava l’uomo di 64 anni a cui ha chiesto di inginocchiarsi domandandogli chi comandasse. Un atto di prepotenza a cui si è tristemente abituati, eppure nella congiuntura dei cinquant’anni del ’68 è piuttosto straordinario osservare come la parabola della contestazione studentesca sia così diversa nel deserto politico contemporaneo che, spesso, non prevede nessun orizzonte di radicalità in cui inserirsi. Né di nuove parole e pratiche da inventare per sottrarre l’insofferenza al puro scacco del disagio. Ciò che emerge è allora la reiterazione della violenza che diventa tortura nella prossemica di quanto accaduto a Lucca e nella riproducibilità tecnica della scena che ci si apprestava ad allestire.

Ne abbiamo parlato con Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani e protagonista cruciale del dibattito sull’educazione anche in relazione al sistema scolastico. Già presidente del Centro europeo dell’educazione (Cede) e dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione (Invalsi). «Mi sono laureato proprio nel ’68 – racconta il professor Vertecchi che, tra gli impegni accademici, ha collaborato a numerose ricerche promosse dall’Ocse e dall’Association for the Evaluation of the Educational Achievement -. La rozzezza a cui si assiste oggi allora era inimmaginabile. Esisteva un esprit de finesse, a cominciare dalla preparazione politica e culturale degli studenti – oggi quasi del tutto assenti. Ciò nonostante il conflitto sociale era aspro e si aveva la capcità di aprirlo con un senso e un significato».

Cosa è cambiato nel fenomeno del bullismo?

«Il cambiamento non è nel fenomeno in sé ma nell’amplificazione consentita dai mezzi di comunicazione. È vero tuttavia che il bullismo classico era un fenomeno ben diverso perché inteso come forma di manifestazione della forza di chi non ha coraggio; quello a cui invece assistiamo oggi è una forma di esibizionismo, considerando l’enfasi di un certo «eroismo deviato».

Il problema non è nella Rete però…

«È più facile diffondere esempi di bullismo e trarne un beneficio perverso come ritorno di immagine. Detto questo, lo sviluppo di attività in cui compare la prevaricazione di un singolo o di un gruppo sull’altro non è qualcosa che riguarda solo la scuola. Sappiamo che è presente in altri ambiti, assistiamo quotidianamente all’imbarbarimento della cultura sociale che passa per un deterioramento del linguaggio (pensiamo solo alla pessima lingua utilizzata dai nostri politici), esiste una violenza verbale, una lingua sguaiata, veicolata dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione che diviene un esempio piuttosto pervasivo per chiunque, soprattutto per chi è giovane. Una forma di autorizzazione, di legittimazione alla violenza. Non è una questione morale, è che anche il linguaggio determina dei comportamenti conseguenti».

Crede si tratti di una rottura del patto con la scuola o il problema è un altro?

«Non è il patto con la scuola a essersi rotto, bensì quello della convivenza sociale. Il fatto che simili episodi, variamente articolati, non avvengano esclusivamente in ambito scolasticosignifica che dobbiamo guardare all’ampiezza delle condizioni sociali. Del resto dovremmo finirla con la divisione tra l’educazione formale e quella informale; la scuola non vive in un luogo separato della società.».

Come mai gli e le studenti non riconoscono autorevolezza a chi insegna? È un’esautorazione che passa dalle famiglie?

«La figura dell’insegnante è molto indebolita perché ha perso molti dei caratteri che prima la distinguevano da altri ruoli. Ora l’insegnante è più simile a un professionista intermedio con funzioni modeste e soprattutto ricopre un ruolo non socialmente desiderabile. Il «credito» che gode nei confronti dei genitori è altrettanto modesto. Se consideriamo l’aspetto economico, il lavoro dell’insegnante è sempre stato piuttosto sottopagato; la differenza tra allora e oggi risiede nel prestigio culturale. Cioè è diminuito il credito sociale esattamente come la densità culturale di cui era portatore e a cui poteva dedicarsi. Ora alle scuole vengono dati una quantità di compiti tra i più vari e che tengono molto impegnati nel loro svolgimento».

SCHEDA: VIRALE IL VIDEO DELL’UMILIAZIONE
Ha fatto il giro della rete il video dello studente dell’istituto tecnico Carrarà di Lucca mentre umilia e minaccia il suo docente, chiedendogli il 6 e intimandolo di mettersi in ginocchio. Di ieri è un altro video, proveniente dalla stessa scuola, con protagonisti tre studenti minorenni – accusati ora di violenza privata aggravata in concorso e dunque iscritti nel registro degli indagati. Anche il preside ha presentato denuncia formale.
LA SCUOLA É SOLA
di Alba Sasso

Quel che colpisce nelle immagini diffuse dai media sui fatti della scuola di Lucca è un’aria di tragica normalità. Ricorda altre recenti vicende come quella di una insegnante, quasi in «balia» di una classe in pieno subbuglio, rassegnata, impossibilitata ad agire. Tanto da non essere neppure stata lei a denunciare il fatto. Non è comunque sempre la stessa liturgia: in alcuni casi la classe sembra indifferente o estranea a quanto avviene, in altri casi parteggia per l’una o per l’altra parte.

Ma quel che è più preoccupante è che al di là dei fatti, quel che sembra interessare gli alunni è la «visualizzazione» di quegli stessi fatti e la loro diffusione nel web. Che finisce col contare, anche di più della vita reale. E allora non siamo più solo in una situazione di allarme singolo. Siamo in una situazione nella quale quello a cui stiamo assistendo rischia di essere solo la punta di un iceberg: l’evidenza di un malessere più profondo, che le recenti riforme o presunte tali non solo non hanno risolto, ma addirittura aggravato.Quella scuola che ci raccontano quei video è una scuola antica, quella della lezione frontale, dove conta il voto che assolve o condanna. Dove gli insegnanti sembrano stremati e soli, senza neanche la voglia di socializzare i problemi. Dove il tema di cosa si insegna e si impara a scuola, e come, sembra una questione dimenticata.

Vi ricordate:«un po’di inglese, un po’ di informatica» o le quattro chiacchiere a proposito di sapere della scuola contenute nella legge 107? Ma questa scuola non è la realtà. Anzi le è antitetica. L’individualismo ha permeato la società, le famiglie sostengono i figli, anziché educarli, tutto marcia al contrario.

Si è interrotta, e da tempo, nonostante l’impegno «accanito» di tanti docenti che continuano a fare una «buona scuola», una riflessione sul rapporto tra cultura della scuola e contemporaneità, sul sapere capace di fornire strumenti per conoscere, capire, diventare cittadine e cittadini di un mondo sempre più vasto. E si è pensato addirittura che per essere preparati al mondo, che poi sarebbe solo quello della produzione, possa bastare l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro, realizzata come fosse un’ altra materia di studio. E con esperienze denunciate dalle stesse studentesse e studenti come inutili o addirittura negative. (dai McDonald a Zara).

Manca da tempo un’attenzione, forse anche un bilancio di quel che sta succedendo nelle scuole. Dove certo, i fatti di questi giorni non sono la norma, ma rappresentano un allarme, di cui tener conto. Colpisce ancora il silenzio delle famiglie di fronte a questi fenomeni, quelle famiglie che spesso si comportano solo da utenti, alle volte rissosi e violenti, piuttosto che come componente essenziale del più complessivo governo del sistema.

La scuola è sola, di fronte a problemi enormi. Sono soli i suoi insegnanti, «stanchi di guerra», sono soli quei bulli, sono sole le famiglie e sono soli persino i dirigenti. E purtroppo la scuola torna alla ribalta solo per questi «scandali».

E allora bisogna ricominciare a ricostruire quel tessuto solidale nella scuola e intorno alla scuola, come già tante scuole e territori fanno- ma di loro non c’è traccia nei media- perché hanno capito, a differenza dei mestieranti della politica, che i luoghi della formazione sono decisivi per costruire un futuro migliore per tutte e tutti.

ETICA ED EDUCAZIONE
di Antonio Polito

Perché non reagisce? Perché non lo punisce? Guardando il video girato in quella classe di Lucca, dove uno studente pretende con la violenza il sei politico dal suo docente, e un altro lo prende perfino a testate con un casco, ci siamo tutti fatti questa domanda: perché il professore non esercita la sua autorità?

È da qui che bisogna partire se si vuol trarre una lezione dalla impressionante sequenza di insegnanti intimiditi e maltrattati da «branchi» di studenti, che si filmano e si rilanciano sui social. Ma non per interrogarsi sul coraggio personale di chi viene umiliato. Nessuno, salvo forse chi opera nelle forze dell’ordine, ha un dovere al coraggio fisico sul lavoro.

No, la domanda che dobbiamo farci è come sia potuto accadere che un insegnante si possa sentire così solo, così indifeso, così deprezzato e abbandonato, dalla scuola, dai genitori, dal resto della società, da preferire di lasciar correre, magari sperando di evitare guai peggiori all’istituto e ai suoi stessi alunni. La domanda che dobbiamo farci è dunque politica: se non esista oggi in Italia un’emergenza educativa che dovrebbe costringerci tutti a riflettere e ad agire per ripristinare un principio di autorità nelle nostre scuole.

Qui non si tratta di uscirsene con la solita lamentazione sui bei tempi andati, dare la colpa al ’68 e alzare le spalle come se non ci fosse ormai più niente da fare. Si tratta invece di rimettere in piedi nella nostra era, fatta di smartphone e di Rete, con i giovani come sono fatti oggi, un’idea di libertà che non sia licenza e di autorità che non sia imperio. Anzi, si tratta di far leva proprio sullo spirito critico dei nostri ragazzi, oggi mille volte più stimolabile che in passato, per indirizzarlo verso il bene, piuttosto che verso il male.

Il senso di onnipotenza che pervade un adolescente, e che gli deriva tra l’altro anche da una struttura fisica del cervello ancora in formazione, può condurre infatti a esiti molto diversi.

Sui media finiscono quelli peggiori, vediamo in azione giovani che sembrano aver del tutto smarrito il senso del limite, la linea di confine che passa tra la vita reale e quella virtuale, e che spesso nella vita reale sembrano quasi recitare per il pubblico dei social, ansiosi di costruirsi un’identità di successo, perché oggi si ha successo se si è famosi, qualsiasi sia il motivo della fama.

Ma, diciamoci la verità: da quanto tempo noi, società degli adulti, abbiamo smesso di occuparci di una buona semina, di saperi e di valori, in questi cervelli così fertili, in questi cuori così ricettivi? E, soprattutto, da quanto tempo abbiamo smesso di occuparci della manutenzione non solo delle scuole, ma anche dei docenti: della loro frustrazione, della loro fatica, delle loro solitudini?

Nel suo libro, Ultimo banco, Giovanni Floris riferisce quel che gli ha detto la vicepreside di un istituto del Sud: «Un ragazzo, grazie allo studio, ha l’occasione di dimenticare le mode che ossessionano il gruppo di amici; un bullizzato ha l’occasione di scoprirsi più forte del bullo: la scuola è il mondo in cui il pensiero autorizza l’alunno a crescere libero da stereotipi e costrizioni». È così; o meglio, dovrebbe essere così. Ma noi abbiamo lasciato che i sacerdoti di questo culto della libertà che è l’educazione venissero un po’ alla volta spogliati di ogni rispetto. Lo abbiamo fatto noi famiglie, che scambiamo il pezzo di carta con l’istruzione trasformandoci in sindacalisti dei nostri figli, pronti a ricorrere perfino al Tar contro la valutazione degli insegnanti. Lo ha fatto lo Stato che ha consentito di trasformare i docenti nella categoria di laureati peggio pagata. Lo ha fatto un’austerità di bilancio che ha salvato molte spese inutili ma ha lasciato invecchiare e deperire il nostro corpo docente (in Germania a fine carriera un professore della scuola secondaria guadagna 74.538 euro, in Italia 39.304).

E lo ha fatto una cultura fintamente permissiva, cinica e narcisistica, che spinge a dar ragione ai giovani anche quando hanno torto: per pavidità, per convenienza, perché i ragazzi sono oggi generosi consumatori, divoratori di mode, e modelli per adultescenti che non vogliono invecchiare mai, e per questo vengono vezzeggiati anche nei loro peggiori difetti.

Ieri il raccontava di che cosa è successo in un istituto milanese nel quale il preside ha avuto il coraggio di punire un gruppo di studenti che avevano diffuso sui social le immagini intime di una ragazzina, obbligandoli a una corvée di pulizie nella scuola. Ebbene, molti genitori hanno preso le parti dei figli: punizione eccessiva, quasi una gogna, in fin dei conti la colpa è della ragazza che mandava in giro le sue foto.

Contro questo demone del giustificazionismo, questa paura della responsabilità etica, normativa e talvolta perfino punitiva che i veri educatori devono invece assolvere, bisogna combattere una guerra comune. Il cui esito non è certo meno importante, per le sorti della comunità nazionale, di quello della crisi di governo.

Avvenire



«La riforma dell'istruzione voluta da Toni Blair è messa ora in discussione: gli studenti che pagano vogliono giudicare docenti e corsi»

Un sistema d’istruzione di prima qualità, in cui si imparava in fretta sotto la guida di docenti preparati. Questa era stata la mia prima esperienza di studentessa e giornalista, all’inizio della mia carriera, negli atenei britannici alla fine degli anni Novanta. Vent’anni dopo sono tornata per un semestre in un’università del nord Inghilterra a insegnare italiano nella facoltà di lingue. Le cose erano cambiate moltissimo.

Gli studenti che partecipavano al mio corso chiacchieravano, mentre insegnavo, guardando i telefonini, proprio come alunni di liceo poco cresciuti, e non ne volevano sapere né di stare zitti e di ascoltare né tanto meno di impegnarsi nel corso. Non solo. Alla fine sono riusciti anche a vendicarsi perché avevo protestato per la loro maleducazione. Nei moduli con i quali hanno dato un voto al contenuto del mio corso e alla qualità del mio insegnamento, hanno scritto che non sono stata una brava docente.

Sono rimasta impressionata e mi è dispiaciuto anche per l’amica che mi aveva offerto l’opportunità del corso, la quale, in quel momento, si trovava in difficoltà. Quei fogli con le valutazioni degli studenti, infatti, sono importantissimi, perché questi ultimi pagano tasse salate e il loro parere è tenuto in grande considerazione. Se non sono contenti di un docente, quest’ultimo si ritrovava nei guai. «Sì, è vero – conferma Elisabetta Zontini, professoressa di Sociologia all’università di Nottingham –. Se gli studenti se ne lamentano, i professori possono essere convocati dal preside di facoltà e messi sotto osservazione. All’inizio dell’anno, uno dei nostri obiettivi più importanti è prendere un buon voto dalle matricole e, se non succede, la nostra valutazione come docenti ne risente». «Non credo che chi frequenta i corsi si renda conto fino in fondo di quanto sia importante quel modulo che deve compilare, ma i professori lo sanno e fanno di tutto per farsi amare dagli allievi – aggiunge la docente –. Si sono alzati i voti degli studenti perché, pur di farli contenti, li si tiene buoni anche così. Un 2.1 di adesso, che corrisponde a un 28 delle università italiane, si prende molto più facilmente di quindici anni fa. I voti si danno con molta più leggerezza».

Negli atenei di tutto il Regno Unito chi impara non è più uno studente desideroso di approfondire la materia, ma un vero "cliente" che paga per una merce che dev’essere di una certa qualità. Il rapporto tra giovani e professori è cambiato per sempre con l’introduzione delle tasse universitarie nel 1998. Una scelta sofferta, adottata dal governo laburista di Tony Blair, che scatenò ai tempi la ribellione dei parlamentari e le proteste degli studenti. «Fino ad allora l’istruzione universitaria britannica era ottima, anche se molto elitaria, con il sistema del tutoraggio che metteva a stretto contatto alunni e professori, come ai tempi di Aristotele e Platone. Così si preparavano le élite, meno del 10% della popolazione, per le quali pagava lo Stato», spiega il professor Michael Alexander, classe 1941, uno dei più importanti esperti di Shakespeare, il primo cattolico a salire in cattedra all’università scozzese di St. Andrews dai tempi della Riforma protestante.

Ma, poi, venne appunto Blair, con la sua convinzione (ispirata a principi di democrazia) che la base universitaria andasse allargata fino a comprendere almeno il cinquanta per cento degli studenti britannici. A quel punto il Paese decise di seguire la strada intrapresa dagli atenei europei e americani e, dunque, di ammettere nelle aule universitarie moltissimi studenti in più. Sulla scena arrivarono pertanto tasse più salate per pagare i costi dovuti al numero in forte espansione degli iscritti. La popolazione universitaria è passata dai 909.300 studenti dell’anno accademico 1985-86, alla vigilia della riforma di Blair, ai 2,32 milioni del 2017. Il doppio delle cifre del nostro Paese, se si pensa che l’Italia, nel 2017, contava 1.654.680 iscritti contro il milione e 113.000 che si era registrato nel 1985.

Secondo un’inchiesta del Washington Post, negli Stati Uniti la trasformazione degli atenei in mercati dell’istruzione è cominciata molto prima che in Gran Bretagna, addirittura agli inizi del 1900, con la decisione di Charles W. Eliot, allora preside di Harvard, di lasciare agli studenti la scelta delle materie. Quelle non gradite sarebbero scomparse dai piani di studi. Con l’eccezione di alcuni centri di eccellenza, dove il corpo insegnante decide ancora che cosa bisogna studiare per ottenere la laurea, oggi nei campus americani regna la libera scelta. La percentuale del bilancio destinata agli svaghi, alle strutture sportive e ai luoghi di ristoro da parte delle università è salita del 22% tra il 2003 e il 2013, molto più rapidamente di quella destinata alla ricerca o all’insegnamento, rimaste attorno al 9%. La professoressa Sara Goldrick-Rab, chiamata dal Senato americano a riferire sullo stato dell’istruzione universitaria nel 2013, ha dichiarato che i campus americani stavano diventando rapidamente «fantastiche colonie estive». A parere del 'Washington Post', oggi gli studenti americani controllano a tal punto la vita delle università che sono in grado di cacciare professori che non la pensano come loro o di mettere all’indice libri non graditi, con risultati pessimi per il dibattito e la tolleranza intellettuale. «Tony Blair ha trasformato il sapere da bene comune a una transazione economica, sostenendo che i giovani dovevano restituire i soldi investiti dallo Stato nel loro futuro una volta ottenuto un buon stipendio», spiega Alexander. In questo grande 'circo del divertimento accademico', vincono gli atenei che offrono le piscine e le palestre migliori risparmiando sulle pensioni del corpo docente. È dovuto proprio al taglio fino al 50% dei trattamenti di anzianità dei professori il recentissimo sciopero, il più importante della storia delle università britanniche, nel quale sono stati coinvolti migliaia di docenti e oltre la metà delle università britanniche, comprese Oxford e Cambridge.

Nei picchetti, i professori sono stati sostenuti dagli studenti, colpiti da tasse universitarie divenute altissime. Oggi una laurea, in Gran Bretagna, costa circa 31.500 euro, ai quali vanno aggiunti 15mila euro di vitto e alloggio se si studia a Londra o poco meno di 14mila se ci si studia nel resto del Paese. È possibile fare un mutuo che però va poi restituito in modo graduale, una volta che lo stipendio supera la soglia dei 28mila euro.

È stata la stessa premier Theresa May ad annunciare una riforma di questo sistema dopo che Lord Andrew Adonis, proprio il ministro di Blair che introdusse le tasse universitarie, ha ora suggerito di abolirle, riconoscendo che puniscono gli studenti più poveri. «Il sistema è stato sfruttato da rettori e professori avidi per assicurarsi stipendi che stanno tra i 300mila e i 500mila euro l’anno, anziché per migliorare la qualità dell’insegnamento», ha detto Adonis. La professoressa Zontini è arrivata nel Regno Unito grazie all’Erasmus, agli inizi degli anni Novanta, ed è ritornata, come ricercatrice, perché affascinata da un sistema universitario che promuoveva l’indipendenza di chi impara. «Sembrava il paradiso. La cultura era accessibile. Le classi piccolissime. Era importante essere critici. Non si imparavano a memoria i libri, ma si scrivevano piccole tesine. Oggi insegniamo a centinaia di studenti come in Italia – racconta –. E, dal momento che pagano, i nostri studenti vogliono la garanzia del risultato. Quando prendono un voto basso, non pensano di non avere studiato abbastanza, ma di non avere ottenuto quello per cui hanno pagato. A volte, ci fanno persino causa. Gli aspetti più difficili delle materie vengono messi da parte. Oggi si punta tutto sul risultato e lo spazio per pensare non esiste più», conclude con una punta di delusione.

il Fatto Quotidiano

«Le lezioni frontali ormai sono considerate un optional, ora i docenti devono anche valutare i tirocini, con voti che alzeranno la media. Così i ragazzi capiscono quanto poco è considerato lo studio»
Perché mai rispettare
dei beni che non danno utilità?

Non ha senso! Mio caro, in verità,

vi ritenete un grande: ma, alla prova,

a quanta gente date da mangiare

A che vi serve leggere? A chi giova?…

Lo Stato non sa proprio cosa farsene

di gente che non spende

Così, in una fortunata favola di La Fontaine (L'avantage de la Science), un ricco decantava il lavoro utile facendosi beffe della dottrina di un suo concittadino sapiente - salvo poi, dinanzi a un imprevisto rivolgimento della storia, essere spazzato via per mancanza dei minimi strumenti culturali.

Avantage de la science, J-J Grandville

Non ha tratto insegnamenti da questo apologo il legislatore che ha obbligato tutti gli studenti d’Italia a devolvere un numero assai elevato di ore (200 nei licei, 400 negli istituti secondari d’altro tipo) ad attività professionali non retribuite: attività che in molti casi non solo distraggono energie e concentrazione, ma, svolgendosi durante l’orario di lezione, portano i giovani a perdere ore d’insegnamento, configurando classi “à la carte” in cui di giorno in giorno si vede chi c’è (il lunedì 3 studenti sono dal tornitore, il martedì tornano quelli ma mancano i 5 che sono in biblioteca, e il mercoledì invece altri 2 che vanno in aeroporto). Con quale profitto per l’insegnamento frontale (ormai ritenuto un optional, non teso alla formazione di cittadini consapevoli, ma giustificabile solo in quanto propedeutico a un – peraltro fantomatico – lavoro specializzato), è facile immaginare.

Questo è il sistema che la “Buona scuola” renziana (legge 107/2015) ha introdotto sotto il nome altisonante di “Alternanza scuola-lavoro”, provando goffamente a mettere a sistema alcune splendide esperienze che non avevano alcun bisogno di diventare obbligatorie per tutti: se un istituto elettrotecnico toscano o un avanzato convitto del Friuli avevano avviato da anni benemerite collaborazioni con imprese interessate a formare da subito i propri futuri lavoratori, bastava tutelare quelle esperienze e promuoverle nei giusti limiti, non imporre a un liceo classico campano o a uno scientifico del trevigiano d’inventare improbabili convenzioni con aziende che finiscono per “fare un favore” alle scuole prendendo dei giovani a fare, gratis, lavori di contorno. Il tutto - lo ha denunciato abilmente Christian Raimo - senza che sia chiaro a nessuno il disegno pedagogico sotteso, sepolto in formule burocratiche del peggior gergo, e in griglie in cui si valuta l’ “imparare a imparare”, l’assimilazione della “cultura d’azienda” e simili amenità.

Dopo aver sancito ufficialmente la svalutazione dell’apprendimento tramite lo studio (ove mai, in una società come la nostra, qualche giovane ancora vi credesse), e aver indotto l’illusione di un contatto con il mondo del lavoro laddove in realtà inculca da subito il principio del lavoretto a gratis, l’Alternanza scuola-lavoro non ha finito di far danni: in queste settimane, infatti, in previsione della chiusura dell’anno scolastico e con particolare riferimento alle classi terminali, i Consigli di classe devono stabilire le modalità della valutazione di questa attività “on the job” (sic), che non ha una casella a sé stante (non è, per intenderci, una “materia” in più), ma deve rifluire e influire sulla valutazione disciplinare complessiva dello studente.

La Guida operativa del ministero in materia è, come spesso, poco chiara: prevede in sostanza che si acquisiscano le valutazioni in itinere dei tutor esterni (di norma, ovviamente, assai benevole: in molti casi tutti gli allievi hanno il massimo, così non si creano problemi), le autovalutazioni degli studenti (ovviamente positive, anche se poi, in via confidenziale, molti confessano di non aver fatto assolutamente nulla in quelle ore), e che poi il Consiglio di classe metta in opera strumenti di verifica (una presentazione di 10 minuti? una relazioncina di due pagine?) per giudicare e certificare un’attività che si è svolta per intero fuori dalle mura della scuola.

Accade così che alcune scuole decidano di formulare un voto (di norma alto) che andrà a far media con quelli della disciplina o delle discipline più “affini” al tema dell’attività lavorativa; altre, di spalmare il voto addirittura su tutte le discipline curricolari (non senza motivo: in molte griglie si prevedono voti su “competenze sociali e civiche”, “economia”, “lingua italiana”, “lingua straniera”, “scienza e tecnologia”, anche se - per dire - uno fa fotocopie o frigge patatine da McDonald’s); e in percentuali - per quanto riguarda il “far media” con i voti sudati nei compiti in classe o nelle interrogazioni - che ogni scuola decide a suo modo (50 e 50? 60 e 40?).

Anche per quanto riguarda l’esame di Stato, la valutazione delle esperienze di Alternanza scuola-lavoro finisce per innalzare la media con cui gli studenti vengono ammessi alla maturità, anzi il loro “credito scolastico”, come si dice oggi.

In una scuola in cui - come sa chiunque abbia insegnato un solo giorno – studenti e genitori spesso si alleano contro i docenti per rivendicare voti alti anche a fronte di uno scarso impegno, l’Alternanza scuola-lavoro rappresenta una svolta ideologica che mina alle fondamenta, anche in sede di valutazione dello studente, la credibilità di un sistema di trasmissione del sapere serio e non (posticciamente) orientato sulla sua presunta caratura professionalizzante.

Che qualche docente di italiano, di greco o di matematica, già sballottato fra mille moduli, registri elettronici e vessazioni burocratiche, continui a insegnare con passione in un contesto del genere, è ormai un vero miracolo.

José Saramago, figlio del popolo, diceva sempre di dovere la sua vena di scrittore al fatto di aver trovato nell’istituto tecnico che frequentava, in un angolo remoto del Portogallo, un professore di lettere serio, severo e preparato. Chissà se oggi gli avrebbe prestato altrettanto credito.

il manifesto, 20 marzo 2018. L'illusione delle intelligenze artificiali. Una critica al mito di un'intelligenza distinta dalla carnalità della persona, e nella quale corpo e mente siano due entità indipendenti l'una dall'altro

«Facebook e Uber poco smart. Il mito dell’Intelligenza artificiale risale ai tempi di Cartesio. Ma da anni scienziati come Damasio o Cini hanno descritto quell’"impasto" di ragione e sentimento che è l’uomo»
Quello dell’Intelligenza Artificiale è un vecchio mito che sopravvive almeno dai tempi di Cartesio in poi. La metafora del calcolatore moderno è infatti basata sulla distinzione tra corpo e mente. Sulla distinzione cioè tra emozione e intelletto, sentimenti e capacità raziocinante. Secondo questo approccio riduzionista, il corpo dell’uomo, deteriorabile e imperfetto, ospiterebbe, proprio come l’hardware di un pc, una mente perfetta, il software, la parte nobile dell’essere umano. Tra le due parti non ci sarebbe alcun rapporto: una rappresenta il contenitore, l’altra il contenuto. Peccato che l’avanzamento della scienza abbia smentito da tempo questo luogo comune.

Già nel 1984 il neurobiologo Antonio Damasio sconfessò questo mito con il suo celebre libro, L’errore di Cartesio, partendo dal famoso incidente capitato a Phineas Gage, l’operaio che sopravvisse alla ferita infertagli da un’asta metallica che gli trapassò il cranio da una parte all’altra.gran parte dei sentimenti umani originano da uno stato corporeo. Il rapporto indissolubile corpo-mente è l’esito di un lungo processo evolutivo durato milioni di anni. La scienza e la medicina occidentale, invece, trattano separatamente i due elementi, il corpo e la mente, come fossero indipendenti, come fossero parti separate, parti di una macchina banale, per usare l’espressione di von Foerster che chiamava medici e chirurghi semplici banalizzatori, al pari dei meccanici che riparano le auto.

Una macchina è banale se è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra input e output, se, dato uno stimolo A, produce sempre la risposta B. Se fa sempre la stessa cosa, insomma. Schiaccio il pulsante, e vien fuori l’aria calda, giro la chiave e si accende il motore. Secondo la (falsa) tradizione occidentale meccanicistica, l’essere umano sarebbe più o meno una macchina banale le cui parti risultano non connesse e pertanto sostituibili a piacere.

Le emozioni o i sentimenti influenzano le nostre capacità raziocinanti e meno male che sia così! Quella intelligenza (semmai ci fosse) che non si fa condizionare dai sentimenti sarebbe una intelligenza fredda, incapace di comunicare con altri, astratta, incapace di comprendere il dolore, l’altruismo, la solidarietà, l’amore: l’algoritmo appunto.

Diceva Marcello Cini: «Il soggetto acquista “conoscenza” dell’oggetto di natura diversa perché non è più soggetto esterno, ma diventa un soggetto “interno” a un metasistema che lo comprende insieme all’oggetto, e questo coinvolgimento induce in lui, in quanto organismo integrato di cervello e visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali diverse da quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in modo che altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a loro volta coinvolti attraverso esperienze emotive» (Cini, 1999). Se fosse vera la dicotomia tra sentimenti e ragione, sarebbe una dicotomia allucinante che genererebbe mostri. Siamo invece un «impasto» evolutivo complesso tra capacità raziocinante e sentimenti, meschini o nobili che siano.

Queste semplici considerazioni mi sono venute leggendo l’articolo di Roberto Ciccarelli, Anche la-macchina-che-si-guida-sola di Uber uccide (il manifesto del 19 marzo) che descrive l’uccisione di un pedone che stava attraversando la strada da parte di un veicolo autoguidato, a Tempe, periferia di Phoenix. Ancora sopravvive il mito che una mente infallibile basata su un algoritmo sia più sicura di un’auto guidata da un umano, perché – dicono le ditte produttrici di tali veicoli – una distrazione umana può causare un incidente mortale.

Questo fallace mito è mantenuto in vita dalle grandi Corporation per battere la concorrenza degli avversari e mantenere alti i profitti. In quello che è il suo ultimo libro (Il supermarket di Prometeo, la scienza nell’era dell’economia della conoscenza, Codice edizioni, 2006), Marcello Cini si occupava di questo tema a lui caro, affermando che: «Il XXI secolo si sta sempre più caratterizzando come l’epoca in cui, grazie agli strumenti forniti dalla scienza e dalla tecnologia, la produzione e la distribuzione di beni materiali viene progressivamente sostituita dalla produzione e dalla distribuzione di un bene collettivo e non tangibile: la conoscenza, sia essa l’ultima frontiera della ricerca piuttosto che l’intrattenimento di massa. Tutto questo in nome di una presunta democratizzazione del sapere che però risponde ed è soggetta unicamente alle leggi di mercato imposte da un’economia capitalistica e sempre più invasiva. Ma c’è una contraddizione profonda fra la produzione di conoscenza frutto al tempo stesso di una creatività e del patrimonio culturale comune all’umanità intera attraverso un processo evolutivo non finalistico, e la crescita dell’economia che è finalizzata alla produzione di profitto».

la Stampa, 2 febbraio 2018.Nessuno dei popoli nell'ambito dei quali sono avvenuti delitti contro l'umanità, e che non abbia reagito, può proclamare "noi siamo brava gente"


«Il Senato approva la legge che punisce chi si riferisce a “campi di concentramento polacchi”. Israele reagisce e valuta il richiamo dell’ambasciatore: "Così si rischia di negare l’Olocausto"»

Come non fosse successo nulla, sordi alle proteste delle vittime dell’Olocausto, dell’opposizione interna, di Israele, dell’Ue e degli Stati Uniti, pochi minuti prima delle due di mercoledì notte, la Camera alta polacca ha approvato con 57 voti favorevoli, 23 contrari e due astenuti la controversa legge sui campi di sterminio che prevede pene fino a tre anni di carcere per chiunque si riferisca ai lager nazisti come campi «polacchi». Ma il punto che più fa scatenare le reazioni è un altro: diventerà illegale accusare la nazione polacca di collaborazionismo con il regime hitleriano.

Ora gli occhi sono tutti puntati sul presidente Duda che dovrà decidere se approvare la legge, bloccarla o imporre modifiche. Il governo polacco non accenna a passi indietro e i legami tra il presidente e il leader del partito al potere, il PiS di Kaczynski, sono molto stretti. Così che Duda potrebbe assecondare i desideri del partito ultraconservatore. «Noi polacchi, siamo stati vittime, come lo erano gli ebrei», ha detto l’ex premier Beata Szydlo. «È un dovere difendere il buon nome della Polonia». Ma il «buon nome della Polonia» e la sua reputazione internazionale è precipitata dopo le condanne incrociate degli Stati Uniti, che vedono la legge come una «minaccia alla libertà di parola» e ne chiedono il veto, di Israele che accusa Varsavia di negazionismo e anche del ex premier Donald Tusk e attuale presidente del Consiglio europeo: l’espressione campi polacchi riferita ai lager nazisti «è una spregevole diffamazione» ma la legge approvata dal Senato ha avuto l’effetto boomerang di «promuovere questa vile calunnia in tutto il mondo, efficacemente come nessuno ha mai fatto prima». Il primo vicepresidente della Commissione Europea Timmermas riporta il dibattito al punto cruciale: «Tutti i Paesi europei occupati da Hitler hanno avuto, oltre ai molti eroi, anche collaborazionisti».

I colloqui diplomatici delle ultime 72 ore hanno portato a un nulla di fatto, e l’ira di Israele contro la legge non si placa: «Non lasceremo che la decisione del Senato polacco passi senza reazioni. L’antisemitismo polacco ha alimentato l’Olocausto» ha detto il ministro Yoav Gallant. Mentre il premier Benjamin Netanyahu, potrebbe richiamare l’ambasciatore israeliano in Polonia per consultazioni, come chiesto da più parti.

In Israele il dibattito era scoppiato già nel fine settimana, dopo il primo via libera alla Camera polacca: «La nostra posizione è che il testo deve essere cambiato», aveva affermato Netanyahu, chiarendo che «non abbiamo tolleranza per la distorsione della verità e la riscrittura della storia o la negazione dell’Olocausto». Fonti diplomatiche di Varsavia sono al lavoro per tentare di contenere i danni, ma non nascondono la sorpresa: «La legge è stata studiata ed emendata con l’aiuto di autorità ed esperti israeliani. E nella maniera più assoluta non protegge i criminali, e non limita le discussioni pubbliche su i casi di pogrom contro gli ebrei, verificati in tutta l’Europa occupata, inclusa la Polonia. A questi crimini hanno partecipato anche i polacchi».

il manifesto
«Povertà globale. Il Rapporto Oxfam fotografa non solo le vette, straordinarie nel 2017, della ricchezza ma guarda il mondo anche dalle profondità globali degli abissi sociali»

L’ultimo rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta è piombato come un pugno sul tavolo dei signori di Davos. Dice che l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%. E questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice, per esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno di 1 su 10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza prodotta, mentre ai 3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini che costituiscono il 50% degli abitanti della terra non è andato nemmeno un penny (alla faccia della famigerata teoria del trickle down, cioè dello “sgocciolamento” dei soldi dall’alto verso il basso). Dice anche che lo scorso anno ha visto la più grande crescita del numero dei miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due giorni). E dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema globale non una ma sette volte!

E poi dice, soprattutto, che quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. E’, biblicamente, sterco del diavolo.

Anzi, non si limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve saltare il pasto.

È QUESTA LA FORZA del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o lavorano”).

IL SISTEMA ECONOMICO globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.

IN REALTÀ NESSUNO dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di ogni colore e continente: non la tassazione massiccia delle super-ricchezze così da ridurre il gap (anzi, le flat tax che vanno di moda stanno agli antipodi), né la riduzione degli stipendi dei “top executives”, per ridurli almeno a un rapporto di 1 a 20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle rappresentanze collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato. Figurano, certo, nel démi-monde della politica governante, preoccupazioni formali, dichiarazioni d’intenti o di consapevolezza, promesse e moine, puntualmente e platealmente smentite dalla pratica (Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping salariale o dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di teste, e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di uomini delle banche).

COME DIRE CHE L’IPOCRISIA è diventata la forma attuale della post-democrazia. E che con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i conti.

Omelie Archivi Fraternità

Gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo. C’è un angelo all’inizio di quel nome, perché il nome viene da lontano, appartiene a chi ci ha preceduto. Come quando i nostri genitori ci hanno dato il nome, quel nome che oggi ci identifica, ci appartiene, quel nome siamo noi.

Basta il nome senza tutti gli addobbi che siamo soliti appiccicargli: dottore, commendatore, don, avvocato, professore, monsignore (e dovrei declinarli quasi tutti anche al femminile)… il nome senza tutte queste qualifiche. Solamente il nome che ci accompagna dal primo giorno fino all’ultimo, e voglio pensare che essendo talmente nostro, pur non in esclusiva, ci starà attaccato addosso anche dopo, nella vita eterna, quando saremo faccia a faccia con Dio.

Ecco iniziamo il nuovo anno con un nome. Non lo iniziamo con altro, ma nel nome di quel Bambino di Betlemme che viene chiamato Gesù.

Il nome è come la vita: ti viene donato, non lo scegli tu. Tutto dipende poi da come lungo gli anni che hai a disposizione lo fai fiorire, gli dai spessore, lo riempi di cose belle, oppure se lo sfiguri con la durezza di cuore, con l’indifferenza, l’ottusità, la vigliaccheria, l’ozio, l’ira, la violenza…

Se ripensiamo al nome aramaico “Gesù” già dentro quelle quattro lettere nel loro significato che rimandano all’ebraico “Dio salva” c’è tutto il Vangelo che verrà dopo perché non è un nome che tende verso l’alto, verso la notorietà, la gloria, il successo, la fama… non ha bisogno che gli venga appiccicata una di quelle etichette che ricordavamo sopra.

Il nome Gesù significa Dio salva perché, come dice Paolo nell’inno ai Filippesi, Dio salva scendendo, abbassandosi… non c’è come quando qualcuno ti si fa vicino, ti dedica del tempo, si prende cura di te che ti senti “salvato”, nel senso che vieni liberato dalla paura, dal timore perché vieni amato e il tuo nome torna a vivere. Così è Gesù: è sceso, si è svuotato, si è consegnato per amore di me, di te, di ciascuno di noi. Così ci salva e così ci libera.

La cosa che sorprende è che un nome così sarebbe destinato all’oblio, alla disistima… invece come dice bene Paolo è proprio nel discendere e non nel salire, nell’abbassarsi e non nell’innalzarsi, nell’assumere la condizione di servo e non quella del padrone che Gesù salva e il suo nome emerge attraverso i secoli, oltre il tempo, ed è diventato un nome di cui non possiamo più fare a meno.

Iniziamo con questo nome il nuovo anno, perché il tempo che ci viene donato possiamo viverlo nel nome di Gesù, che vuol dire viverlo come Gesù: amando, condividendo, pregando, perdonando… anche se lo sappiamo che non sarà facile.

Non sarà facile vivere nel nome di Gesù l’economia delle nostre famiglie: come poter continuare ad essere capaci di solidarietà e di dono quando ci hanno annunciato come regalo di capodanno l’aumento della bolletta del gas, dell’energia elettrica e delle autostrade…!

Non sarà facile per la convivenza civile nel nostro Paese: ho già condiviso con voi la mia preoccupazione per i rigurgiti di fascismo, per i saluti romani sempre più frequenti nelle piazze… ma anche per l’emergere dei loro leader considerati ormai normali interlocutori politici!

L’indifferenza nei confronti della gravità e della pericolosità di tutti questi atti è il vero male capace di minare la nostra convivenza civile e democratica, perché il fascismo non porta valori, ma violenza. E noi dobbiamo dire l’importanza di capire perché accadono queste cose, non basta indicare il male perché esso non venga compiuto.

Ma non sarà facile questo nuovo anno nemmeno per la pace tra i popoli: non è pace l’aver sconfitto sul terreno il Daesh/Isis, quando paesi come l’Italia continuano a vendere armi al Qatar e agli Emirati Arabi e questi poi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa… e noi ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo?! Abbiamo speso 24 miliardi di euro in Difesa, pari a 64 milioni di euro al giorno e per il 2018 si prevede un miliardo in più, denuncia p. Alex Zanotelli!

Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015[1]! E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, nonostante la legge 185 lo proibisca. Continuiamo a vendere bombe[2] all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’Onu.

Ecco in un contesto così non è affatto facile iniziare l’anno nel nome di Gesù. Come ricorda papa Francesco nel tradizionale messaggio per il 1° gennaio, che è ormai da 50 anni la giornata mondiale della pace, questa situazione è la principale causa del fatto che ci sono 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Vale a dire uomini, donne e bambini, giovani e anziani che cercano un posto per vivere in pace e molti di loro per trovarlo sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte è lungo e pericoloso e ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani.

Come cristiani, cioè come coloro che portano quel nome che significa salvezza, salvare, liberare… non possiamo né tacere, né rimanere inerti.

Non possiamo tacere, perché la chiesa, come diceva il cardinale Giacomo Lercaro cinquant’anni fa nell’omelia di capodanno che poi gli costò la rimozione dalla cattedra di Bologna, non può essere neutrale di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia.

Si riferiva alla guerra degli USA in Vietnam che si protrarrà fino al 1975, un anno prima della sua morte, e disse esplicitamente: l’America si determini a desistere dai bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord. E poi quasi presagendo ciò cui andava incontro: Il profeta può incontrare dissensi e rifiuti, anzi è normale che, almeno in un primo momento, questo accada: ma se ha parlato non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, troverà più tardi il riconoscimento di tutti. È meglio rischiare la critica immediata di alcuni… piuttosto che essere rimproverati di non aver saputo illuminare le coscienze con la luce della parola di Dio.

Non solo non possiamo tacere, ma non possiamo rimanere inerti, arresi all’impotenza di modificare il corso delle cose. Non saranno gli oroscopi o le chiromanti a indicarci il futuro, troppo facile e ingannevole pensare di risolvere così l’imprevedibilità della storia, quanto piuttosto il nostro impegno etico e civico che continua la missione di Gesù di liberare il mondo dalla violenza, dall’odio; di salvarlo dall’indifferenza e dalla paura.

Anzitutto mi chiedo quale sia stata, durante l’anno che abbiamo appena chiuso, la testimonianza di pace mia personale e della nostra chiesa. Mi domando fino a che punto possiamo aver talvolta inclinato a vedere solo negli altri la causa dei disordini e dei conflitti, piuttosto che esaminare noi stessi e preoccuparci di togliere da noi le pietre d’inciampo sul cammino della pace e le ragioni di scandalo.

Ci dobbiamo chiedere anche quale impegno mettiamo come adulti, come istituzioni, come responsabili a diverso titolo professionale o morale nel dare ai nostri ragazzi e giovani una coscienza evangelica dell’universale fraternità in Gesù, del rispetto assoluto della dignità di ogni uomo redento da Cristo, del rifiuto radicale di ogni forma di violenza.

Papa Francesco nel messaggio per la Giornata della pace chiede a tutti di avere uno sguardo diverso sul fenomeno delle migrazioni. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace.

Uno sguardo che sappia scoprire che essi non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono.

Uno sguardo che sappia scorgere anche la creatività, la tenacia e lo spirito di sacrificio di innumerevoli persone, famiglie e comunità che in tutte le parti del mondo aprono la porta e il cuore a migranti e rifugiati, anche dove le risorse non sono abbondanti.

È questo lo sguardo che la benedizione di Aronne invoca su di sé e sul suo popolo ed è anche lo sguardo che invochiamo su ciascuno di noi, sulle nostre famiglie, sul nostro mondo.

Abbiamo iniziato con il nome di Gesù e concludiamo con lo sguardo di Dio e condenso in queste due dimensioni il contenuto del mio augurio per ciascuno di voi, per le nostre famiglie, per il nostro mondo.

Il nome che salva è Gesù ed è un nome di cui non possiamo fare a meno, ma non perché lo ripetiamo all’infinito e continuiamo a dire Signore, Signore…, quanto piuttosto se anche i nostri nomi continueranno quell’abbassamento che Gesù ha espresso nel Vangelo. Se anche noi nel nostro lavoro, nelle nostre relazioni, nel nostro stare al mondo non smettiamo di imparare ad amare così, a donare così…

E poi il volto del Padre che si accompagna alla benedizione per il nuovo anno: camminiamo, viviamo, agiamo sempre ponendoci davanti al volto Dio, non per paura o per neutralità, ma perché, solo animati da questo sguardo, saremo in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e prenderci cura della loro crescita con coraggio.
(Nm 6,22-27; Fil 2,5-11; Lc 2, 18-21)

[1] Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza all’8° posto mondiale, grazie alla vendita di 28 Euro Fighter al Kuwait per otto miliardi di euro.
[2] Prodotte dall’azienda Rwm Italia a Domusnovas (Sardegna)


Postilla
Una omelia di Capodanno che, in assonanza con le parole di papa Francesco, denuncia i crimini contro l’umanità perpetrati dai paesi venditori di armi e ostili all’accoglienza dei migranti. Padre Giuseppe, oltre a proporre ogni domenica pomeriggio le sue omelie presso la Chiesa di Santa Maria dell'Incoronata a Milano - omelie molto seguite anche dai laici progressisti per il loro sguardo critico radicale nei confronti del nuovo ordine mondiale (Omelie Archivi - Fraternità) -, è promotore di iniziative concrete di solidarietà attraverso la Fondazione Arché. Nel 1997, in anni di oscurantismo nei confronti del virus HIV, apre a Milano la Casa di Accoglienza per mamme e bambini sieropositivi. Quando l’emergenza HIV rientra grazie alle cure antiretrovirali, l’impegno si sposta sul nucleo mamma e bambino in condizioni di disagio psichico e sociale. Nel 2013 Arché diventa Fondazione e continua nel suo lavoro quotidiano di solidarietà concreta in due strutture: la Casa Accoglienza, nel cuore di Milano, che ospita fino a 9 nuclei mamma e bambino e, più recentemente, “CasArché – Luogo di bene comune”, nell’estrema periferia di Milano a Quarto Oggiaro: un progetto innovativo che integra accoglienza e qualificazione professionale delle donne ospitate


Testo tratto da Omelie.Archivi.Fraternità, qui raggiungibile in originale

il manifesto,

Questo Natale ha visto milioni di migranti in fuga da fame e da guerre, che bussano alla porta dell’Europa, ma non c’è posto per loro, restano fuori. Proprio come in quel primo Natale, quando per quei due poveri migranti, «non c’era posto nella locanda»: Gesù nasce fuori. Così oggi i migranti, la «carne di Cristo» come ama chiamarli Papa Francesco, restano fuori.

Per tenerli fuori, l’Europa «cristiana» ha fatto prima un patto con Erdogan perché bloccasse in Turchia milioni di rifugiati siriani, regalando a quel despota sei miliardi di euro. Poi, sempre per tenerli fuori, la Ue ha convinto l’Italia a bloccare la rotta dei migranti africani in fuga da guerre e fame. Per cui il governo italiano ha siglato un accordo con uno dei leader libici, El Serraj per bloccare i migranti in Libia e così restano fuori. Risultato: un milione di migranti nell’inferno libico, rinchiusi in lager, violentati ,torturati e stuprati. In quei lager vengono persino allestite aste di profughi-schiavi.

«È disumana la politica dell’Unione Europea di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riconsegnarli nelle terrificanti prigioni – così l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein – la sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».

Ancora più dura Amnesty International: «I governi europei, in particolare l’Italia ,sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche». Infine il Tribunale permanente dei popoli ,riunitosi a Palermo pochi giorni fa, ha emesso una storica sentenza : Italia e Ue sono corresponsabili degli abusi sui migranti.

È altrettanto disumana la politica della Ue, quando chiede all’Onu di evacuare i migranti bloccati nell’inferno libico. A parte i pochi rifugiati (somali e eritrei) che verranno riconosciuti dall’Onu, dove andranno tutti gli altri? Saranno rispediti nel disastro dei loro paesi, da dove sono fuggiti?

È disumana la politica dell’Europa verso l’Africa quando proclama: «Aiutiamoli a casa loro». Nel vertice di Abidjan (Costa d’Avorio), i leader Ue hanno promesso ai leader dell’Unione Africana (Ua) un Piano Marshall per l’Africa.

Quanto sia ipocrita questa politica la si evince dal viaggio in Africa di Macron e di Gentiloni. proprio alla vigilia del summit di Abidjan. Gentiloni ha visitato quattro paesi: Tunisia, Angola, Ghana e Costa d’Avorio, tutte nazioni dove l’Eni ha enormi interessi di petrolio e di gas. È una politica la nostra che non aiuta le comunità africane a rimettersi in piedi ma aiuta noi a continuare a saccheggiare il continente africano. Il vero slogan della nostra politica estera è: «Aiutiamoci a casa loro!» La maledizione dell’Africa è la sua ricchezza!

È disumana la politica Ue di esternalizzare le frontiere per bloccare le rotte africane. La nuova frontiera per bloccare i migranti ora diventa quella saheliana: Niger, Ciad e Mali. È disumana questa politica perché finanziata utilizzando i soldi del Fondo per l’Africa e della Cooperazione italiana che dovrebbero invece essere usati per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Ben 50 milioni di euro di quei fondi finiranno nelle casse del Niger per la militarizzazione dei suoi confini.

Come se questo non bastasse, l’Italia, d’accordo con Francia e Germania, schiererà in Niger una missione militare che nel 2018 conterà 470 soldati «per la sorveglianza e il controllo del territorio del Niger». L’Italia ha già una presenza militare in Mali. Ne avremmo presto una anche in Ciad?

È questa la politica disumana che la Ue e il nostro governo stanno perseguendo in questo continente crocifisso.

Papa Francesco con grande coraggio ha bollato tali politiche disumane in tanti suoi interventi coraggiosi. Un coraggio che non trovo nelle chiese europee né in quella italiana.

Troppo silenzio anche da parte degli ordini religiosi che operano in Africa. È necessario soprattutto che noi missionari condanniamo questa politica criminale del nostro governo e della Ue.

Un testo di eccezionale chiarezza, semplicità, rigore per chi voglia comprendere qualcosa sulla società e sulla persona umana, a partire da questa.

Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.

LA SCIENZA ECONOMICA

1

La scienza economica studia, da un particolare punto di vista, le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni. L’inciso «da un particolare punto di vista» é essenziale in questa definizione, giacché le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni possono essere studiate non da un solo, ma da più punti di vista. Per esempio, si può studiare in qual modo, utilizzando certe leggi naturali (fisiche, chimiche o biologiche), sia possibile trasformare certi oggetti, non immediatamente utilizzabili per soddisfare bisogni umani, in altri oggetti che sono invece immediatamente utilizzabili a tale scopo. Cosi si può studiare attraverso quali procedimenti é possibile utilizzare un certo appezzamento di terra, certe sementi, certi concimi, ecc., nonché naturalmente una certa quantità di lavoro umano qualificato in un certo modo, per ottenere grano, e attraverso quali altri procedimenti sia possibile, dal grano, arrivare al pane, che e un oggetto capace di soddisfare immediatamente un certo bisogno umano. Oppure si può esaminare in qual modo dall’acciaio, dall’alluminio e da altre materie prime, utilizzando certi macchinari, il lavoro umano possa, alla line, ottenere un’automobile. Si possono fare, com’e chiaro, numerosissimi altri esempi, che il lettore certamente non farà fatica a immaginare. Ora studi di questo tipo hanno certo a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma il punto di vista che questi studi rappresentano non appartiene alla scienza economica, non é quello da cui la scienza economica risulta caratterizzata: questo punto di vista, come il lettore avrà probabilmente riconosciuto, é quello della tecnologia.

Altro esempio. Gli uomini, svolgendo le loro attività dirette alla produzione di oggetti che servono alla soddisfazione dei loro bisogni, entrano in certi rapporti reciproci, che, in ogni convivenza civile, sono regolati da leggi. Cosi, quando una persona prende in affitto un appartamento per soddisfare il proprio bisogno di abitazione, sa che deve sottoscrivere un contratto – il contratto d’affitto, appunto – il quale deve essere rispondente a certe norme che sono indicate nella legislazione del paese in cui tale contratto viene stilato. Analogamente, se più persone, ciascuna apportando un certo capitale, decidono di costituire una società, il cui scopo sia quello di esercitare una certa attività produttiva, esse sanno che la società deve essere costituita secondo certe regole e che la sua attività deve svolgersi secondo certe norme; regole e norme, che sono anch’esse indicate in una determinata legislazione. Esiste – com’e chiaro - lo studio di tale legislazione, e quindi di tutte le regole e norme da cui essa risulta costituita, e dei principii ai quali esse unitariamente si ispirano. Ora, anche uno studio siffatto ha a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma questo studio rappresenta un punto di vista che non è quello della scienza economica: esso rappresenta il punto di vista di un’altra disciplina, che, come il lettore avrà riconosciuto, é il diritto.

Un terzo esempio. I fini che gli uomini si propongono di raggiungere per soddisfare i loro bisogni, e i mezzi che essi impiegano per il conseguimento di tali fini, possono essere buoni o cattivi. C’e una considerazione dell’attività umana che ha lo scopo di valutare se essa sia, o non sia, buona. Neppure questa considerazione rappresenta, com’e chiaro, il punto di vista della scienza economica: si tratta, infatti, della considerazione propria della moralità.

Questi diversi punti di vista, questi vari modi di considerate l’attività umana, non sono dunque quelli propri della scienza economica, anche se, come risulterà chiaro nel corso di questa trattazione, nessuno di essi può considerarsi irrilevante per la scienza economica stessa: Per ora comunque il nostro compito consiste nel cercar di definire in che cosa consiste quel modo particolare di considerazione dell’attività umana, che é proprio della scienza economica.

A tal fine occorre tener presenti le due seguenti - e fondamentali - circostanze.

1) I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici é una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, cos1ì come essa si presenta in ogni momento dato. Gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, di vestirsi, di abitare in una casa, di costituire una famiglia, di istruirsi, di riposarsi, di divertirsi, ecc. Inoltre, nell’ambito di ciascuna di queste categorie di bisogni, è sempre possibile individuare bisogni più particolari e specifici. Cosi, non basta agli uomini di nutrirsi in un modo qualunque, ma, nel nutrimento, devono essere osservati certi requisiti, per quanto riguarda, ad esempio, la disponibilità di determinate quantità minime dei vari elementi nutritivi (calorie, vitamine ecc.). Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari d’un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore.

Un grande economista inglese che scrisse verso la fine del ’700, Adam Smith, dette questi esempi per mostrare l’evoluzione subita dai bisogni lungo il corso della storia: «Quello che una volta era un castello della famiglia di Seymour e ora una locanda nella strada di Bath. Il letto di nozze di Giacomo I, re di Gran Bretagna, che la regina sua moglie portò seco dalla Danimarca come dono degno d’esser fatto da un sovrano a un altro, era pochi anni fa l’ornamento d’una mescita di birra a Dunfermline» E ancora: in quale paese del mondo ci si accontenterebbe oggi di provvedere all’istruzione dei cittadini mediante libri scritti a mano, con tutte le limitazioni gravissime che ciò comporterebbe? La stampa é dunque diventata un bisogno, e, per giunta, un bisogno essenziale. E, nelle società più progredite, chi oggi penserebbe di poter viaggiare con mezzi la cui velocita dipenda dalla velocita di animali da tiro? La locomozione con mezzi meccanici è anch’essa diventata un bisogno. Ecco un altro argomento sul quale il lettore può sbizzarrirsi a trovare tutti gli esempi che vuole. Ma c’è un fatto che va tenuto ben presente: questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacché é il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni; l’uomo, insomma, non si ferma mai; se é riuscito a costruire delle case che, bene o male, lo difendono dal freddo e dal caldo, dal vento e dalla pioggia, non si accontenta più di questa protezione pura e semplice, e desidera che le sue case abbiano certe comodità, le quali, col trascorrere del tempo, Vengono poi ritenute sempre più importanti; se, più in generale, é riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli che dipendono dalla sua vita animale, vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più.

2) I mezzi con cui gli uomini soddisfano i propri bisogni possono essere resi via via disponibili soltanto in quantità limitate, cioè in quantità minori di quelle che occorrerebbero per conseguire la piena soddisfazione dei bisogni stessi. Ci possono essere dei mezzi, rispetto ai quali non si pone il problema di renderli disponibili, perché essi già lo sono immediatamente, e può darsi che, in tal caso, essi lo siano in quantità illimitata rispetto al bisogno che gli uomini ne hanno. L’aria atmosferica è uno di questi casi: essa è certo un mezzo per soddisfare un bisogno precisamente quello di respirare, che é, per di più, un bisogno assolutamente essenziale, ed essa, almeno in condizioni normali, e immediatamente disponibile in quantità illimitata rispetto al bisogno medesimo.

Ma, di regola, i mezzi occorrenti ai bisogni umani non sono disponibili immediatamente, e devono esser resi disponibili mediante un lavoro a ciò specificamente diretto. Ora, il lavoro che gli uomini possono svolgere per procurarsi la disponibilità di quei mezzi trova un limite nel fatto che l’uomo stesso e limitato: limitate sono le sue forze, fisiche e mentali, limitata e la sua volontà, limitato e il tempo a sua disposizione, limitato è lo spazio che egli può rendere teatro delle sue operazioni, limitate, infine, sono quelle risorse naturali che egli può porre sotto il proprio controllo. Lo stesso lavoro umano, dunque, in quanto incontra tutti questi limiti (che, è bene ripetere, non sono che altrettante manifestazioni di un unico limite di fondo, che e la limitatezza, la finitezza propria della natura umana), non può mai arrivare a procurarsi tutti i mezzi che occorrerebbero per una completa soddisfazione di tutti i bisogni possibili in un dato momento e di tutti quelli che si possono svlluppare in conseguenza dell’aver soddisfatti i primi.

Ora, la compresenza delle due circostanze testé menzionate – e cioè, da un lato, il carattere illimitato dei bisogni, e, dall’altro lato, il carattere limitato dei mezzi che, mediante il lavoro, si possono rendere disponibili per la soddisfazione di quei bisogni - fa si che le azioni degli uomini comportino necessariamente delle scelte. Non essendo possibile, data la limitatezza dei mezzi, soddisfare compiutamente tutti i bisogni, l'uomo deve continuamente scegliere tra molte possibili linee di azione; scegliere l’una piuttosto che l’altra significa scegliere di conseguire certi fini piuttosto che certi altri, e di conseguirli in una certa misura, piuttosto che in una cert’altra, nonché di usare certi mezzi piuttosto che certi altri, e di usarli in una certa proporzione piuttosto che in un’altra.

2.

Per semplicità, é opportuno illustrare questa particolare caratteristica dell’azione umana - quella caratteristica cioè per cui essa é necessariamente una scelta - distinguendo due casi: nel primo caso, data una certa disponibilità di mezzi, si tratta di scegliere quali fini si intende conseguire con quei dati mezzi; nel secondo caso, dato un fine da raggiungere, si tratta di decidere con quali mezzi debba essere raggiunto.

Immaginiamo un uomo che viva isolato, un Robinson Crusoe, per esempio. Egli dispone di una certa quantità di lavoro, ovviamente limitata, con la quale si trova a dover soddisfare varie specie di bisogni: quello di nutrirsi, di vestirsi, di avere un riparo, di costruirsi degli attrezzi che rendano più efficace il suo lavoro, e cosi via: dovrà perciò decidere come suddividere la propria limitata disponibilità di lavoro tra le diverse operazioni adatte a procurargli i mezzi per il soddisfacimento di quei vari bisogni, e -quindi in tanto può agire in quanto effettui una scelta tra varie possibili alternative di azione.

In una società evoluta, nella quale, come diremo meglio in seguito, esiste la divisione del lavoro, e nella quale, quindi, ognuno si procura i mezzi di cui ha bisogno mediante lo scambio, possiamo immaginare un individuo, che, a compenso del proprio lavoro, abbia ricevuto un salario; questo salario gli dà una disponibilità, evidentemente limitata, sulle merci che si trovano in vendita nel mercato, ed egli dovrà decidere quali merci comprare, e in quali quantità, dovrà cioè esercitare un atto di scelta.

Quando si redige il bilancio pubblico preventivo di una nazione, il governo di questa nazione deve scegliere in qual modo debbano essere utilizzati i mezzi raccolti attraverso le imposte: le alternative sono molte; lavori pubblici, scuola, difesa, amministrazione della giustizia, sicurezza sociale, ecc., e per ciascuna di queste alternative si tratta di decidere se e in quale misura essa va perseguita.

In tutti questi casi, e in altri analoghi che si possono immaginare, ci troviamo in presenza di un soggetto, di un centro di decisioni, che può essere una singola persona o un organo collettivo, il quale, a partire da una certa disponibilità di mezzi, e di fronte a certi bisogni da lui sentiti, deve scegliere in qual modo quei mezzi vanno utilizzati per soddisfare quei bisogni nel miglior modo possibile. Si usa dire che, in tutte le situazioni del tipo or ora illustrato, gli uomini agiscono secondo il principio del massimo risultato.

Adesso consideriamo un soggetto che desideri conseguire un certo fine, ossia soddisfare un certo bisogno, e desideri soddisfarlo in una certa misura. Supponiamo poi che egli possa far uso di vari mezzi per pervenire a quella soddisfazione. Per esempio, possiamo pensare a un individuo che, per nutrirsi, possa rendersi disponibili vari generi alimentari, ognuno dei quali può essere ottenuto con un certo dispendio di lavoro, oppure con la spesa di una certa parte del suo reddito. Ovvero possiamo pensare a un individuo che debba spostarsi da una località a un’altra, e possa farlo mediante mezzi di trasporto diversi (treno, automobile, aereo), l’uso di ciascuno dei quali comporti una certa spesa; o ancora, a un individuo, che, avendo deciso di trascorrere un pomeriggio di svago, possa farlo in vari modi (recandosi al cinema, o al teatro, ol a una partita di calcio, e cosi via), ognuno dei quali implichi un certo costo.

Se, in tutti questi casi, le varie alternative soddisfano il bisogno nella medesima misura, la scelta verrà effettuata in modo che l’impiego dei mezzi - rappresentato dal dispendio di lavoro o dalla spesa del reddito a disposizione - sia il più piccolo possibile. Si usa dire, allora, che, in tutte le situazioni del tipo esaminato, gli uomini agiscono secondo il principio del minima mezzo.

Noti bene il lettore come tanto il principio del massimo risultato quanto ll principio del minimo mezzo costituiscono regole di comportamento, regole di azione, soltanto, e proprio perché, i mezzi sono limitati. Infatti: 1) non avrebbe senso proporsi di render massimo il risultato della propria azione, se i mezzi fossero illimitati rispetto ai bisogni e quindi consentissero di soddisfare i bisogni stessi in modo pieno e totale; 2) non avrebbe senso proporsi di render minimo l’impiego dei mezzi richiesti per il compimento di una certa azione, se la limitatezza dei mezzi rispetto ai bisogni non ponesse il problema di risparmiare i mezzi stessi per poterli dedicare, nella massima misura possibile, ad usi alternativi, cioè ad altre azioni dirette a soddisfare altri bisogni.

I due principi menzionati, dunque, quello cioè del massimo risultato e quello del minimo mezzo, non sono che due modi di esprimere la medesima realtà, ossia che, nelle azioni che gli uomini intraprendono per soddisfare i loro bisogni, essi devono scegliere tra varie possibili alternative affinché la limitata disponibilità di mezzi sia utilizzata per rendere la soddisfazione dei bisogni la migliore possibile.

Ciò detto, possiamo tornare al problema che ci aveva mossi a svolgere tutte queste considerazioni, il problema cioè della definizione della scienza economica, ossia, come già sappiamo, il problema della determinazione del punto di vista dal quale la scienza economica considera il processo di soddisfazione dei bisogni. Diremo allora che la scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i loro bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi.

É questa la definizione data dall’economista inglese Lionel Robbins nel 1932.

Come si vede, il punto di vista proprio della scienza economica e diverso dai punti di vista che abbiamo menzionati all’inizio di questo capitolo: é diverso da quello della tecnologia, da quello del diritto, da quello della moralità. Che tra questi vari punti di vista debbano esistere dei rapporti, risulta chiaro dalla semplice considerazione che, per diversi che possano essere, tuttavia essi si riferiscono alla medesima realtà, che è l’agire umano. Quali questi rapporti siano, o debbano essere, e un problema assai difficile, al quale potremo fare solo qualche accenno, e soltanto nel seguito di questa trattazione.

Qui vogliamo solo aggiungere che l’aspetto economico dell’agire umano viene generalmente esaminato, dalla scienza economica, prendendo in considerazione gli uomini in quanto membri di una società: di qui il nome di economia politica, con il quale assai spesso la scienza economica è pure designata.

Da Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.

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la Repubblicaun'uguale libertà d'esercizio per tutti i riti di tutte le culture. E un edificio costruito per un rito può essere adoperato per un altro.

Quanti secoli ci ha messo il cristianesimo a ripudiare la convinzione che si possa uccidere in nome di Dio? Quando aveva l’età che ha ora l’Islam, in Europa scorrevano fiumi di sangue. E sembra che ci siamo dimenticati che, in nome del cristianesimo, solo vent’anni fa furono uccise decine di migliaia di musulmani bosniaci, a poche centinaia di chilometri da Ancona.

Se vogliamo accelerare un simile ripudio nell’Islam italiano, se vogliamo che siano più numerose e più forti le voci di chi dice «not in my name» (come ha subito gridato Igiaba Scego, scrittrice musulmana di origine eritrea, che vive a Roma), abbiamo un’unica strada: accelerare l’integrazione. Ma quella vera.

Per far questo occorre radicalizzare la lacità, e dunque la terzietà religiosa, dello Stato: e contemporaneamente consentire il più pieno esercizio della vita religiosa delle comunità islamiche nel nostro Paese. Esattamente il contrario di ciò che propone la Destra (Lega e Forza Italia): che difende i presepi e i crocifissi nelle scuole (così che i bambini musulmani che ci studiano mai potranno sentirsi pienamente cittadini italiani) e al tempo stesso si oppone vigorosamente alla costruzione di nuove moschee. Ma anche la Sinistra, e l’intera classe dirigente italiana, non sembrano consapevoli che questa è una delle partite cruciali per il futuro del Paese.

Il caso di Firenze è emblematico. Qui la comunità islamica ha presentato un progetto per una grande moschea nel settembre del 2010. L’arcivescovo (cui certo non spettava esprimere un giudizio) sostenne che sarebbe stato meglio non pensare ad un unico tempio, ma a tanti piccoli luoghi di preghiera, possibilmente senza minareto. E il sindaco Matteo Renzi mise subito le mani avanti, dichiarando: «al momento non c’è un progetto, non c’è un’ipotesi di lavoro». Per poi chiudere ogni prospettiva: «Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento». Oggi, cinque anni dopo questo esorcismo, tutto è ancora fermo: e l’assenza della moschea è assai eloquente sulle vere intenzioni di chi parla di integrazione.

Santa Sofia, Istambul

Ebbene, è da questa miopia che dobbiamo liberarci: quando ci sembrerà finalmente venuto il momento di costruire l’Italia del futuro? Soffocati dagli eterni tatticismi della politica e prigionieri in un discorso pubblico inchiodato alla cronaca di un presente mortificante, sembriamo non sapere che presto anche in Italia si porranno le questioni che oggi agitano la Francia. La sera del massacro di Charlie Hebdo, davanti a una televisione inevitabilmente accesa, mio figlio (che fa la prima elementare in una scuola pubblica fiorentina) mi ha detto che lui non ha paura dei suoi (tanti) compagni di classe musulmani. Mi sono chiesto quanto ci metteremo a rovinare questa naturale armonia: quanto ci vorrà perché cambi idea?

Tutto si deciderà nelle nostre città, così strettamente legate alla storia delle libertà (appunto) civili italiane. Come dimostra ciò che è successo nelle banlieuses francesi, le politiche urbanistiche hanno un peso straordinario nel futuro sociale di un Paese. Per secoli le città italiane hanno creato cittadini: italiani non per stirpe, ma per cultura. Siamo una nazione non per via di sangue, ma – letteralmente – iure soli: per la forza di un territorio che ci ha fatto comunità. Lo riconosce l’articolo 9 della Costituzione, uno dei pochissimi che spenda appunto la parola ‘nazione’: associandola al patrimonio storico e artistico e al paesaggio. Cioè allo spazio pubblico: luogo terzo in cui non siamo divisi né per fede né per censo, ma siamo cittadini ed eguali.

Oggi questo patrimonio può tornare a giocare nella direzione del futuro. Quante chiese abbandonate potrebbero diventare moschee (invece che alberghi di lusso)? Quanti centri storici possono rinascere accogliendo anche un’altra cultura, invece che avviarsi ad un’imbalsamazione turistica? Una moschea nel centro di Firenze sarebbe un segno potente, capace di indicare la direzione del cammino che dobbiamo intraprendere. Un modo per dire che ora, sì, sappiamo come costruire un’integrazione vera. Che passa attraverso città che permettono l’incontro quotidiano, la mescolanza, la conoscenza. E non attraverso quartieri ghetto: periferie chiuse e separate, luoghi fatti apposta per fomentare il risentimento verso quella separazione e nutrire un’identità basata sull’alterità radicale.

È una partita che ci mette di fronte alle nostre antiche carenze: non siamo mai riusciti a formare veri cittadini, a costruire uno Stato impermeabile al pervasivo secolarsimo della Chiesa, a dare un senso attuale e progressivo al patrimonio storico e artistico delle nostre città. Ebbene, è venuto il momento di farlo.


Questo intervento di Tomaso Montanari è uscito sulle pagine dell’edizione fiorentina di Repubblica. (Fonte immagine)

La Stampa

I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.

La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590, €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.

Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico. Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».

«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.

Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.

Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.

La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.

A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.

Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile. Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.

«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento. Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.

il Fatto quotidiano

Se l’uomo smette di pensare – e gli indizi ci sono tutti, perché il pensiero è altra cosa rispetto alla banale opinione da talk show, il pensiero è concetto, visione – il caos prevale sul logos, cioè l’armonia relazionale, “il principio costitutivo del reale”.

A quel punto è la fine, professore Mancuso.
«Sì, il mondo può fallire. Pensi alle future guerre, alle bombe atomiche, all’inquinamento, alla lotta per l’acqua. Cosa accadrà tra cent’anni?»

Potrebbe vincere il caos.«Vincerebbe e sarebbe il ritorno all’inizio indifferenziato del grande vuoto. Anche per questo la mia fede è filosofica».

Non formano un ossimoro, fede e filosofia. Da Kant a Bobbio, come lei ricorda, il mistero della vita continua ad attanagliare tante menti non credenti.«La mia fede filosofica non è teismo, che presuppone Dio separato dal mondo, né panteismo, che pensa il contrario. È il mistero dell’essere e dell’aldilà. Abbiamo a che fare con un mondo che sale, tutte le immagini portano scritto “più in là”, per citare Montale. Il regno è qui ma anche di là, dentro di me e nei cieli. Il mistero non può essere posto in laboratorio, lo ammettono anche eminenti scienziati».

Vito Mancuso è uno dei più insigni teologi e filosofi del nostro Paese. Nel suo ultimo libro, Il bisogno di pensare, elabora la formula del suo “sapere fondamentale”: Logos + Caos = Pathos. E se la ragione non resta zitella e si converte all’ottimismo, ecco che ritorna il primato del bene e anche quello dell’etica e della giustizia. È un libro che costruisce speranza e amore, questo di Mancuso.

Oggi prevale il primato dell’io. Egoismo e individualismo.«È la detronizzazione di Dio per l’intronizzazione dell’io. L’io è Dio che perde la “d” iniziale, il desiderio diventa un lupo universale».

Shakespeare, che lei cita tre volte.«L’opera è Troilo e Cressida: il desiderio, lupo universale, farà dell’intero universo la sua preda per poi, alla fine divorare se stesso».

Siamo un mondo senz’anima.«Il malessere che avvolge l’anima riguarda l’economia, la finanza vorace, la politica. Il primato del bene, che ci ha accompagnato per secoli, comportava etica e giustizia».

Lei accosta alla volontà di potenza di Nietzsche il capitalismo di oggi.«Basta guardare le multinazionali. È la modalità con cui il capitalismo schiaccia tutto. Però mi faccia dire che io non auspico un’uscita dal libero mercato, quando ci hanno provato sappiamo com’è finita. Mi auguro delle correzioni. Stasera (ieri per chi legge, ndr) per esempio andrò a Conegliano Veneto».

Nel cuore produttivo del Nord-est.«Si festeggiano i dieci anni di una fondazione di imprenditori che si sono messi insieme con l’idea di restituire quanto hanno ricevuto dal territorio».

Anima e concretezza.«In questi anni hanno raccolto un milione di euro, che hanno destinato a vari investimenti. È il valore sociale dell’impresa, la ricerca della famosa terza via tra capitalismo liberista e comunismo.

Come si chiedeva Kant: “Cosa posso sperare?”. È una domanda etica. Altrimenti ci sono il nulla e il nichilismo.«Nel primato dell’io non c’è niente di etico. E questo clima culturale che viviamo non porta a un nulla metafisico, che magari può avere un senso eroico. Siamo al nichilismo casalingo, al nulla di bottega del particulare».

Specialità in cui noi italiani siamo bravissimi
.«Non a caso ho detto particulare. Ma sia Guicciardini sia Machiavelli vivevano in un tempo che rimandava a una religione. I sacri ideali dell’umanità non si erano consumati».

È l’aspirazione all’unità dell’uomo. Guai però, lei scrive, ai dogmatismi, sia metafisici, sia materialisti.«Prenda il fascino che l’integralismo islamico o certi movimenti cattolici esercitano su tante giovani coscienze. Giovani che sentono un grande senso di unificazione, che però porta alla contrapposizione, all’ostilità e alla chiusura. È la solita questione».

Logos e caos.«Cosa vuol dire pensare? Vuol dire pesare, ponderare. La mente è come una bilancia, bisogna cercare il punto di equilibrio. Se la religione è troppo forte viene meno l’autonomia del singolo».

Dialogo non chiusura. «Più si esercita il dialogo più si genera la pace. Il fenomeno vero primordiale è la presenza della vita. Il caos è l’antitesi, un negativo che può essere tale perché c’è il logos.

L’ottimismo della ragione che ci avvicina al mistero dell’universo.«È il mistero che non comprendiamo e che va al di là della ragione. Vale per Platone, Heidegger, Kant, Einstein».

Per andare in profondità c’è bisogno di silenzio: altra condizione perduta.«Cerco di essere concreto: oggi nella vita di ciascuno c’è un gigantesco chiacchiericcio. È questa connessione cui tutti siamo esposti».

Il nostro destino tecnologico.«È la grande minaccia di questo tempo, oltre ai fanatismi politici e religiosi che ci sono sempre stati. Quella che ci impedisce di rimanere in silenzio».

Lo smartphone peggio dell’Isis.«È una dittatura che può farci perdere la capacità creativa, capace solo di farci avere delle re-azioni. È un pericolo nuovo e pervasivo».

La Repubblica
Un bollore intorno al cuore. La migliore definizione della rabbia si deve ad Aristotele, ma c’è anche chi sente un grande battito nelle tempie o un dolore dietro il collo. La rabbia può essere un’emozione pubblica o privata, può riguardare una comunità intera o una relazione personale. Se dovessimo affidarci al celebre marziano di Eric J. Hobsbawm che annusa per la prima volta l’aria del nostro pianeta, potremmo ricavarne che la nostra è l’età della rabbia. Come spiegargli altrimenti Trump alla Casa Bianca, la scelta dirompente di Brexit, l’infuriare dei venti populisti in Europa? E gli attentati, lo scontro di civiltà, la Terza guerra mondiale stigmatizzata da papa Francesco? Non è un caso che proprio nella rabbia si sia imbattuta la più grande esploratrice morale delle emozioni, Martha Nussbaum, che le ha dedicato il libro Anger and Forgiveness, ora tradotto dal Mulino (Rabbia e perdono). Un saggio che attraversa la politica e i codici più intimi, toccando anche la “sfera di mezzo”, i contatti con le persone estranee. E come accade con i libri della Nussbaum — settant’anni, professoressa di Law and Ethics all’Università di Chicago — ogni pagina comporta un dilemma morale, e dunque una sorta di autoanalisi da cui si esce più ricchi e con qualche certezza in meno.

Professoressa Nussbaum, il suo saggio è stato messo in cantiere quattro anni fa ma sembra scritto oggi. Qual è stata la spinta iniziale?

«Sì, ora il mio libro sembra ancora più attuale. La politica della rabbia ha alterato il corso della storia di tante nazioni, inclusi gli Stati Uniti. E anche il futuro dell’Europa dipenderà dal richiamo della rabbia o dal prevalere di altri sentimenti. Io ho cominciato a riflettervi anni fa, quando cercavo un buon tema per le John Locke Lectures a Oxford. Fino a quel momento avevo scritto libri sull’amore, sul dolore, sulla compassione e sulla vergogna. L’idea mi è venuta dopo aver consegnato all’Indian Express un commento sul massacro dei musulmani avvenuto a Gujarat nel 2002. Non potevo sapere allora quale sarebbe stato l’approdo della mia ricerca, ossia che la rabbia è sempre un sentimento velenoso e controproducente».
Dai suoi studi emerge che la rabbia oltre a essere pulsione istintiva è il risultato di una costruzione culturale. Lei fa l’esempio delle civiltà greca e romana dove questo sentimento veniva accettato solo nelle creature ritenute inferiori, donne e bambini. In questi anni la rabbia ha acquisito una sorta di legittimazione culturale. Come è stato possibile?
«Tutte le civiltà incubano tantissima rabbia. Probabilmente si tratta di un fenomeno universale che ha radici nell’evoluzione. Quel che distingue greci e romani è che la consideravano un problema, i cui effetti dovevano essere contenuti. Perché le culture moderne sono così diverse? Penso che questo abbia a che fare con i modi in cui la mascolinità è stata interpretata. L’immagine dell’America è quella dei pionieri in lotta contro forze nemiche. Anche se alcuni dei nostri eroi letterari più amati oggi incarnano compassione più che rabbia, come l’avvocato Finch ne Il buio oltre la siepe.
Nella vostra cultura Verdi è il compositore che più ha colto il senso di questo sentimento».
In che modo?
«Mostrandone gli aspetti distruttivi. Rigoletto uccide sua figlia, Iago annienta sia Otello che Desdemona. Un momento interessante nel Rigoletto è il duetto “ Sì, vendetta, tremenda vendetta” che il protagonista e Gilda intonano dopo che lei viene portata via dal Duca. La musica è felice: mia figlia a tre anni la voleva ascoltare di continuo perché le dava allegria. Rigoletto crede di aver trovato il segreto della gioia. Ma ha trovato solo distruzione: di sé stesso e della figlia».
Potrebbe essere la colonna sonora del suo libro. Lei sostiene che la rabbia può essere uno strumento utile quanto pericoloso nella sfera morale.
«La rabbia può servire come segnale che qualcosa non va. E può scuotere le persone dall’inerzia verso le cose sbagliate. Martin Luther King intravide nella rabbia una motivazione essenziale al lavoro di correzione di un’ingiustizia sociale. Ma ne rintracciava anche un aspetto pericoloso nel desiderio di rivalsa: non appena la rabbia spinge il popolo a muoversi — diceva King — il sentimento deve essere “purificato”, così il popolo conserva la protesta ma senza anelito a rivalse».

Lei la definisce “rabbia di transizione”, ossia un’emozione rivolta a un bene futuro.
« La rabbia di transizione è quella che ti induce a esclamare: “ È terribile: non deve succedere più!”. Si denuncia una ingiustizia, ma concentrandosi sul futuro, non sulla rivalsa. Non è certo facile costruire su queste basi un movimento di massa, ma abbiamo esempi storici fortunati come quello di Gandhi, di Mandela e dello stesso King. Anche il movimento delle donne per larga parte si è tenuto su questi binari. E lo stesso potrei dire per il movimento dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, che impostano le loro campagne sul potere dell’amore».
Un aspetto interessante del suo lavoro riguarda l’inutilità del perdono, che presuppone sempre una gerarchia morale. E questo non aiuta a ricomporre i rapporti.
«Nella cultura cristiana ed ebraica i racconti del perdono sono esplicitamente gerarchici: i peccatori devono umiliarsi e chiedere perdono a un superiore. Anche il perdono incondizionato spesso assume una sgradevole sfumatura di superiorità morale. San Paolo dice che devi perdonare i tuoi nemici perché così facendo “ammasserai carboni ardenti sui loro capi”. Io preferisco l’amore generoso esemplificato nella parabola del figliol prodigo. E nella carriera di Nelson Mandela».
Posso chiederle quanto conta il suo personale vissuto nelle sue riflessioni filosofiche?
«Cerco sempre un riscontro nella mia vita, e nella vita di molte persone. Soprattutto leggo libri di letteratura e di storia, seguo l’attualità. So bene di non essere una persona rappresentativa per molti motivi: ho una vita felice, un lavoro ideale, amici fantastici e una figlia meravigliosa».
Ma lei non si arrabbia mai?
«Non mi arrabbio mai con le persone che amo, mentre tendo a farlo nella “sfera di mezzo”, con commessi maleducati e tecnici incompetenti. Ora non sopporto chi ha atteggiamenti discriminatori verso il genere e l’età. Detesto quell’omone che afferra la mia valigia senza chiedermi il permesso e la spinge nella cappelliera dell’aereo. Anche perché godo di ottima forma fisica».
Nel libro lei accenna a comportamenti provocatori che gli uomini assumono verso le donne intellettuali. A cosa si riferisce?
«Gli uomini hanno l’abitudine di interrompere le donne, come se fossero sempre capaci di spiegare le cose meglio. Nella lingua inglese si dice mansplaining, ed è già una conquista che ci sia un nome. Il mio migliore amico una volta ha osservato che tutte le donne autorevoli di sua conoscenza parlano con un tono di voce piuttosto alto. Pensava che dipendesse dalla loro esperienza di donne che non erano state ascoltate. A me piace essere la prima a fare una domanda in un seminario: sento che altrimenti non prenderei la parola. Come dice Catharine MacKinnon: “Togli il tuo piede dalle nostre gole e allora potrai sentire con quale voce le donne parlano”».

Nella sua vita personale è riuscita a trasformare la rabbia in un sentimento positivo?

« Essere rifiutata da Harvard è per me qualcosa di molto personale, fonte di grande rabbia. È accaduto nel 1993: si trattava di un’ingiustizia provocata da un atteggiamento sessista. Sedici anni più tardi avrei ricevuto l’offerta di un incarico da parte di quella università. C’erano ancora alcuni dei vecchi professori del Dipartimento di studi classici che avevano votato contro di me. E uno in particolare, Albert Henrichs, mi disse che l’esclusione era stata un’ingiustizia. Non ho accettato l’offerta, ma sono rimasta colpita dalla sua grandezza d’animo. Albert è morto quest’anno, poco prima che tenessi una lecture che ho voluto dedicargli pubblicamente. Alla fine di ottobre andrò a Boston per commemorarlo. È tutto quello che posso dire sul superamento della rabbia». ?

il manifestoDifendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo», con postilla

Era da poco cessata la campagna contro l’università pubblica (luogo di malaffare, di familismo, di scansafatiche), ed ecco che ci risiamo. Ora per riguadagnare la dignità perduta a causa di alcuni “baroni” corrotti, ci vorranno anni.

Anni per dimostrare che, nonostante tutto, l’università è un luogo dove si può ancora (fino a quando?) discutere e ricercare in (quasi) libertà. E’ una cittadella accerchiata dove i nemici sono sia fuori che dentro, come dimostrano le recenti vicende di cronaca. Difenderla non certo come ha fatto la ministra Fedeli affermando che «le notizie terribili di oggi dimostrano che il terreno della corruzione e dell’illegalità è nazionale». Così si sparge benzina sul fuoco facendo grave danno proprio all’istituzione che si vuole proteggere.

Difendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba e si corre il rischio di essere accusati di complicità nel malaffare. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo.

Innanzitutto perché rappresenta, malgrado le tentazioni ministeriali, un argine contro la logica del mercato che considera inutile e, anzi, dannosa, la conoscenza critica e la conoscenza in generale. E’ una deriva pericolosa le cui conseguenze, a distanza di anni, possono farci precipitare nella barbarie.

La seconda è che i ricercatori che vi lavorano sono nella stragrande maggioranza dei casi animati solo dal desiderio di far progredire questa conoscenza, come dimostrato dai tanti riconoscimenti e attestati che essi raccolgono in giro per il mondo, sia pure a fronte di finanziamenti pubblici irrisori. Se venisse stilata una classifica mondiale delle università in base al rapporto tra produzione scientifica e finanziamenti alla ricerca, non c’è dubbio che, in molti settori, l’università italiana risulterebbe al primo posto.

La terza è che i tagli alla ricerca e il blocco, da diversi anni, del turn over hanno danneggiato irreversibilmente questa istituzione. In tutti i paesi occidentali i finanziamenti di ricerca sono cresciuti, nonostante la crisi economica, salvo che in Italia. Ed è ben noto come la scarsità di risorse aumenti la corruzione.

Nonostante queste condizioni, l’università italiana ha continuato a funzionare, ed è già un «miracolo» che sia avvenuto. Queste condizioni nessuno le ha denunciate pubblicamente: numero chiuso, tagli alla ricerca, stop al turn over, una selva di regolamenti e di adempimenti burocratici che quasi impediscono ai docenti di fare il proprio lavoro: «Nessun altro comparto della pubblica amministrazione ha subito un salasso di questa portata. E nessun altro paese europeo ha risposto alla crisi indebolendo le strutture dell’alta formazione e della ricerca», ha sostenuto Walter Tocci.

Clientelismo e mercimonio, corruzione e servilismo, sono mali da tempo presenti nelle nostre università (anche se a fare la parte del leone sono sempre o soprattutto le facoltà di Medicina e Giurisprudenza), ma di certo la riforma Gelmini non solo non li ha curati, ma la sua ispirazione aziendalistica insita nelle “riforme”, ha finito con l’essere peggiore dei mali.

La valutazione del cosiddetto “merito” è stata affidata agli algoritmi escogitati dall’Anvur incentivando il conformismo (pubblicazioni scritte in inglese, bibliometria, case editrici compiacenti, eccetera).

Per non parlare della invenzione dell’«eccellenza» che è stata la porta d’ingresso per professori entrati, senza concorso, dall’estero per chiamata diretta e che ha reso possibile le cosiddette «cattedra Natta» assegnate a docenti e ricercatori per giudizio politico (i presidenti delle commissioni dovrebbero essere di nomina del Presidente del Consiglio).

I recenti fatti di malaffare e corruzione rendono ancora più difficile, per i docenti universitari che hanno a cuore le sorti dell’università, riuscire a difenderla. Ma solo loro possono farlo dissociandosi pubblicamente da questi scandali e promuovendo un Il «processo auto riformatore dall’interno, il solo che possa salvare questa università malata.


Come può una università seria non essere un fortino assediato in una società in cui il pensiero critico è considerato un turpiloquio, in cui la menzogna propagandistica cancella ogni verità, il dissenso èun reato da reprimere, ogni tentativo di cambiare il mondo migliorandolo un tentativo di sovversione? E dove per le armi si spende mille volte di più che per la formazione? Il «processo auto riformatore dall’interno», potrà «salvare questa università malata» solo se investirà, e cambierà, la società nel suo insieme.

Osservatorio Mil€x. (i.b.)

A quanto ammontano le spese militari italiane in un anno, in un giorno, in un’ora? Quanti sono gli effettivi delle nostre Forze Armate? Quanti i comandanti e quanti i comandati? Per acquistare nuovi armamenti (cacciabombardieri, navi militari, blindati e carri armati) quanti miliardi vengono impiegati, ogni anno?

Se non conoscete le risposte il video sottostante, basato sui dati ufficiali elaborati da Osservatorio Mil€x e dai principali centri di ricerca mondiali sulle spese militari, servirà ad esaudire la vostra curiosità. Se invece l’enorme e sbilanciato impatto degli investimenti armati dell’Italia era a voi noto avrete uno strumento in più per diffondere numeri e analisi. In ogni caso, un video da rilanciare!

Noi pensiamo che una valutazione seria ed approfondita della spesa miltiare del nostro Paese sia fondamentale per esercitare un corretto controllo democratico. Una valutazione che non si può condurre senza un lavoro di studio preciso e competente, che necessita tempo e professionalità. Il lavoro che l’Osservatorio Mil€x ha deciso di intraprendere fin dall’inizio e che vi chiediamo di sostenere, per garantirlo anche in futuro. Non è facile occuparsi di questi temi, che per molti dovrebbero continuare a rimanere nascosti, opachi, poco conosciuti. Per qusto motivo abbiamo bisogno del vostro aiuto, possibile anche con il crowdfunding popolare promosso in collaborazione con Banca Etica e Produzioni dal Basso.

Se pensi anche tu che sia fondamentale svelare tutti i segreti delle spese militari italiane è il momento di sostenere Mil€x e tutti i suoi sforzi. Perché nessun altro ti dirà quello che ti diciamo noi, con dati e notizie inedite. E i “soldi armati” continueranno ad essere avvolti da un’opacità inaccettabile.

Vedi qui il video.

Avvenire,

IUS CULTURAE,
CREDERE NELL'ITALIA E NEI SUOI FIGLI.
DIAMO UNA LEGGE A PRESENTE E FUTURO
di Marco Tarquinio

Chi e perché vuol mettere paura agli italiani? Chi e perché prova in tutti i modi a istillarci l’idea che la nostra civiltà non sia più buona né “contagiosa”? Chi e perché vuol farci vivere nella chiusura e nella grettezza, in modo da non generare più figli, né dai nostri lombi né grazie alla nostra cultura e al nostro spirito? Chi vuol convincerci che la cittadinanza sia un immeritato stato di grazia, ereditato come una cosa, e non una conquista e riconquista, fatta di diritti e doveri onorevoli e onorati? La lista potrebbe essere lunga. Ma qui, oggi, comincia e finisce con coloro che avversano la nuova legge sulla cittadinanza, già votata alla Camera e ferma al Senato. E dibattono non per migliorarne questa o quella previsione, ma per impedire del tutto la normativa sullo ius culturae e sullo ius soli temperato (nessuno, cioè, diventerebbe mai italiano per il solo fatto di nascere nel Bel Paese…). Una battaglia condotta, purtroppo, per calcolo politicante, con manifestazioni di aperta xenofobia e rimettendo in circolo pregiudizi colmi di vergognoso e sempre meno celato razzismo.

Eppure quanti sono nati in Italia o in Italia sono arrivati da bambini e pensano e parlano italiano, coloro che crescono e studiano qui, condividendo la nostra cultura e le nostre regole di cittadinanza, assimilando i nostri costumi, e appartengono a famiglie di origine straniera ma residenti in questo nostro Paese con permesso permanente o di lungo periodo (e, dunque, sono figli di persone che qui lavorano, pagano tasse e contributi, e non hanno guai con la giustizia) non sono candidati all’italianità, sono già italiani. Non si tratta di concedere nulla, e tantomeno di regalare qualcosa. Si tratta di riconoscere per legge una realtà, vera, importante e buona. Si tratta di rendersi conto che mantenere in una sorta di limbo un bel pezzo della generazione dei nostri figli è un atto di cecità e di ingiustizia. E che farlo per presunto calcolo politico-elettorale è una piccineria umana, una miseria morale e, insieme, una scelta pratica imprevidente e imprudente.

Lungo questa estate 2017, dopo l’editoriale del 17 luglio scorso intitolato «Questa legge s’ha da fare», dedicato appunto allo ius culturae, questo giornale ha dato il via a una campagna informativa semplice e rigorosa. Mentre tanti politici – e purtroppo anche non pochi (dis)informatori – hanno continuato a diffondere slogan e favole cattive contro i nuovi italiani, noi invece abbiamo dato loro volto, pubblicando ogni giorno per due mesi quelle che, in dialogo con alcuni lettori, ho definito «parole di carne e sangue, di anima e di cuore, di sudore e di intelligenza». Non pure opinioni, ma storie di vita. E cioè attese e speranze, fatiche e impacci, traguardi e ricominciamenti di giovani che sono italiani non per tradizione, ma per formazione, per adesione, per maturata convinzione. Persone con radici familiari, culturali e religiose in Asia, in America, in Africa o in altre porzioni d’Europa eppure partecipi della nostra cultura, perché la vivono e le vivono dentro. Non sono tutti uguali, non tutto è sempre lineare nelle loro vicende, non sono perfetti, ma sono persone perbene come, fino a prova contraria, ogni altro figlio di questa terra e della civiltà dell’incontro che la fa speciale da secoli, anche grazie alla sua sinora aperta e salda identità cristiana.

Sono loro, guardateli, su questa prima pagina piena di facce pulite e vere. Sono loro, anche se qualcuno quelle facce continua a scarabocchiarle e distorcerle per trasformarle in quelle di orchi e mostri e terroristi (che esistono anche nella realtà, ma non sono tutta la realtà). E sono proprio loro a essere tenuti nel limbo di una non riconosciuta cittadinanza – cioè di un non pieno e giusto equilibrio tra diritti e doveri nel far parte di una comunità civile dentro la misura delle sue leggi. Guardateli bene, sono loro. E, nonostante qualcuno – mentendo – gridi il contrario, non sono affatto i migranti dell’ultimo approdo dal mare sulle nostre coste, uomini e donne che portano un’altra croce e ben diverse domande di solidarietà e di giustizia.

Guardateli ancora, sono loro quelli e quelle a cui si vorrebbe dire, e già si dice: “No, tu non sei dei nostri, non ti conosco e non voglio riconoscerti”. Oppure e, per certi versi, è quasi peggio: “Sei dei nostri, è vero; ma non è l’ora di dichiararlo, perché più della tua vita mi interessano le percezioni di altri che di te non si fidano per via della tua pelle, per il Paese dei tuoi genitori o nonni, per la tua maniera di pregare…”. Atteggiamenti e propagande sprezzanti che umiliano la loro italianità, e il legittimo sentimento di appartenenza che ne discende, e che sembrano “strillati” apposta per generare in vecchi e nuovi italiani quei reciproci sentimenti di esclusione e di estraneità che portano a speculari ri-sentimenti. Sguardi cattivi e atti di respingimento e marginalizzazione non generano altro che sofferenza e ostilità, picconano ogni patto civile, minano la solidarietà. Un’imprevidenza incredibile, un’imprudenza grave.

Eppure i nuovi italiani sono e restano parte integrante di una generazione di giovani concittadini che non possiamo permetterci di perdere e disperdere. Sono parte integrante di un patrimonio di umanità, una ricchezza d’Italia. Dipende da noi, anche con una legge giusta e finalmente tempestiva, farli essere e sentire continuatori e interpreti del nostro grande passato e protagonisti del presente e del futuro comuni. Insieme.

JUS CULTURAE. FALSE CREDENZE
E SPECULAZIONI PER FERMARE
LA RIFORMA ATTESA
di Paolo Lambruschi

Le fake news, hanno inquinato anche il dibattito sulla riforma della cittadinanza sulla stampa, in tv e sui social media mescolando i piani. Proviamo a vederne alcune.

Effetto calamita. È stato detto che la legge in discussione – che prevede l’introduzione dello ius soli temperato e dello ius culturae – qualora approvata provocherebbe un aumento degli sbarchi attirando torme di disperati e soprattutto di donne in procinto di partorire. Ma la legge arenatasi al Senato non prevede alcun diritto incondizionato alla cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano. Colpa in verità anche della politica e di chi abbrevia il dispositivo chiamandolo ius soli come se questo fosse "puro", all’americana. La riforma prevede invece che vi sia uno ius soli temperato applicato a chi nasce in Italia figlio di almeno un genitore regolarmente residente e con permesso di soggiorno di lungo periodo (in Italia da almeno 5 anni). Lo ius culturae inoltre assegna la cittadinanza ai minori non nati in Italia, ma che vi sono arrivati entro i 12 anni di età a patto che vi compiano un intero ciclo di studi e almeno cinque anni sui banchi di scuola. Il provvedimento riguarda l’immigrazione stabile, regolare e stabilizzata. Restano esclusi quindi i richiedenti asilo e protezione umanitaria e chi ha un soggiorno di breve periodo.

Italiani veri mai. Tradotto Il senso è: essere figli di regolari lungo soggiornanti e compiere un ciclo scolastico non basta a rendere cittadini. Questo significa mettere in discussione anzitutto la scuola che non sarebbe in grado di integrare i nuovi arrivati insegnando loro i valori della Costituzione. La realtà di tutti i giorni pare ben diversa. E tra i Paesi europei partner e concorrenti le regole non sono più severe. In Francia, che adotta lo ius soli, ogni bambino nato sul territorio da genitori stranieri diventa francese al compimento di 18 anni se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno 5 anni e se dimostra di condividerne cultura e valori. In Germania diventa cittadino senza presentare domanda chi vi nasce a patto che almeno uno dei genitori risieda regolarmente nel Paese da minimo 8 anni. In Spagna, paladina dello ius sanguinis, per diventare suddito di re Felipe a chi vi nasce, se figlio di stranieri, occorrono dieci anni di residenza.

Sicurezza in pericolo. I cani sciolti dello stato islamico che hanno colpito in Europa in questi ultimi anni erano spesso immigrati di seconda generazione divenuti cittadini. Ma stiamo parlando di Paesi con un passato coloniale ben più lungo e articolato del nostro e quindi con rapporti diversi con un’immigrazione molto più vecchia e che hanno scelto modalità evidentemente sbagliate di integrazione lasciando crescere ghetti fuori controllo sorti nei decenni scorsi. Il problema è il legame tra terrorismo e mancata integrazione, la cittadinanza non c’entra.

Neo italiani in massa. Ci sarà un impatto, ma in prospettiva. Il provvedimento riguarda potenzialmente circa 800mila persone, dei quali 600mila circa alunni delle scuole italiane. Poi, secondo l’elaborazione della Fondazione Leone Moressa su dati Istat e Miur, saranno naturalizzati quasi 60mila nuovi italiani ogni anno. Diventerà italiano un minore su otto. Per contro la popolazione residente attesa per l’Italia secondo previsioni Istat calerà di 2,1 milioni di residenti nel 2045 e di 7 milioni nel 2065. Quadro che avrebbe parziale sollievo dalle naturalizzazioni e da altre migrazioni.

Invasione islamica. Sempre la laicissima Fondazione Moressa stima che due nuovi italiani su tre saranno cristiani.

Cittadinanza obbligata. L’acquisto della cittadinanza italiana continuerà a non essere automatico, ma a realizzarsi con una dichiarazione di volontà espressa o da parte di un genitore entro il compimento della maggiore età o dallo stesso soggetto entro i 20 anni. Il giovane può dunque rinunciarvi.

La riforma non cambia nulla. Le storie che abbiamo raccontato in questi ultimi due mesi rivelano che in molti casi invece la burocrazia italiana e quella del Paese di origine ostacolano l’iter per presentare la domanda in tempi utili e rallentano la risposta. Se la riforma muore, i semi-cittadini continueranno a restare in un inutile limbo.


Siamo ancora ben lontani dal riconoscere a chi è nato in un sito di avere in quel sito la propria patria, e godere degli stessi diritti degli altri. Siamo ben lontani dal riconoscere la diversità delle culture una ricchezza. Per godere della legge occorre soddisfare una serie di condizioni che a me, a te, a lui e a lei che siamo nati e registrati qui non sono richiesti. Se si è stranieri (cioè nati da genitori non italiani) bisogna aver frequentato per almeno 5 anni una scuola italiana. Devi essere stato promosso. La domanda deve essere presentata d un genitore che non sia un “clandestino” né un senza casa.

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