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il manifesto, 30 gennaio 2019. Un cementificio trasformato in un parco pubblico. Al netto della retorica giornalistica, un segnale sulla possibilità di fare nuovo spazio pubblico attraverso la riconversione di spazi dismessi, anche nei piccoli comuni. (d.b.)

Se i nomi bastassero a se stessi, il Comune bresciano di Collebeato sarebbe già a posto con quello che si ritrova. Ma la cornice collinare che sovrasta questo borgo alla periferia nordorientale di Brescia, da cui lo separa il fiume Mella che scende dalla Val Trompia, correva il rischio di essere tutt’altro che beata. Soprattutto il colle che sovrasta il paese, ambito come quello di altre zone diventate, dal Dopoguerra, terreno di conquista di prime e seconde case: villette nella migliore delle ipotesi. Negli anni Settanta però l’amministrazione locale impone uno stop al consumo del suolo, specie in collina. In seguito fa di più: acquisisce l’area dove è sorto negli anni Cinquanta un cementificio, un ecomostro che poi sarà demolito e trasformato in un centro sportivo comunale. E ancora, inizia una maratona per trovare i finanziamenti che stanno trasformando in parco l’intera area collinare, nota una volta per i suoi pescheti e ormai sfuggita all’assalto delle villette. Una rete ecologica dove è tornata in forze la «Ballerina bianca» e dove negli ultimi anni viene a sostare la «Garzetta», un trampoliere candido dal lungo becco nero.

Vale davvero la pena di andarci a Collebeato. Se non altro, una volta tanto, per raccontare una buona notizia. L’anticamera del paese, se ci arrivate da Brescia, non è esattamente una bellezza. Prima di attraversare il Mella ed entrare a Collebeato, la periferia di Brescia vi accompagna con l’anonimità di un quartiere post industriale, con piccole e grandi fabbriche, capannoni e depositi in buona parte rovinati dal tempo e dall’abbandono. C’è anche una vecchia fabbrica di cui resiste – puntellata – una facciata interessante di mattoni rossi, in attesa forse di riqualificazione. L’ingresso a Collebeato è invece una piccola sorpresa: case basse e ben conservate sotto una collina ricoperta di boschi appena sopra un’area agricola abbastanza estesa che circonda il borgo.

Il palazzo comunale è un edifico antico senza troppe pretese nel centro del Paese. E’ li che ci riceve Antonio Trebeschi, il sindaco che rappresenta la continuità di una scelta ambientale nata già diversi anni fa ma concretizzatasi poi con forza – e sforzi non indifferenti – nei primi anni di questo secolo. Nel 2002 infatti il Comune acquista 55mila mq – su cui si trova un cementificio sorto negli anni Cinquanta e ormai in disuso – e altri 155mila mq di superficie collinare che comprendono la cava che serviva alla fabbrica per produrre il cemento. E’ una fetta di collina ferita, con un ecomostro di oltre 2500 mq di superficie alto più di 16 metri e sormontato da una ciminiera di 34 tra altri capannoni e manufatti industriali con un volume in degrado di circa 50mila metri cubi.

«Nel Dopoguerra – spiega Trebeschi – un sacerdote molto famoso nella zona, Padre Marcolini, aveva creato CemBre (Cementifico Bresciano) per produrre il cemento richiesto dalla costruzione in tutta la provincia di villaggi realizzati con la cooperativa La famiglia». Le intenzioni di Marcolini erano probabilmente ottime in quegli «Anni della fretta», come li ha definiti Giacomo Corna Pellegrini – geografo bresciano e democristiano – che ha raccontato anni fa in un saggio il desiderio della classe dirigente della Repubblica di dare a tutti case e servizi. Dopo una decina d’anni le cose cambiano e la struttura viene ceduta a Italcementi. Che nel 1971 la chiude. «All’inizio – continua Trebeschi – per i collebeatesi fu un sollievo dalla polvere prodotta dalla struttura che tra l’altro minacciava la tradizionale coltura del pescheto». Ma bisognava fare di più.

Fatto il passo per acquisire strutture e terreni, nel 2009 si inizia ad abbattere l’ecomostro che, tra il 2011 e il 2013, diviene un Centro civico sportivo. Quanto costa l’operazione? Tanto, dice Trebeschi: «Quasi due milioni di euro solo per l’acquisto, con risorse ottenute dall’alienazione di un terreno comunale». Poi altri 800mila euro accendendo due mutui per demolire e ricostruire. «Eppure – conclude Trebeschi – i cittadini hanno capito e ci hanno sostenuti», premiando l’amministrazione di sinistra alle elezioni. Il percorso non è stato facile: il Comune ha fatto accordi con privati, partecipato a bandi, cercato risorse aggiuntive, acceso mutui sempre col rischio di non farcela. Ma adesso l’ecomostro è solo un ricordo in bella mostra in una fotografia aerea di Collebeato «prima» dell’intervento.

La sensibilità di Collebeato non finisce con la coscienza ambientale, col cementificio o col progetto di un corridoio ecologico tra fiume e colline. Oltre ad aver aderito alla campagna «Accogli come vorresti essere accolto», si è declinata anche nella firma che Collebeato ha messo in calce all’adesione al Trattato per la messa la bando delle armi nucleari che l’Onu ha chiesto anche all’Italia di ratificare. Per adesso lo hanno fatto solo i Comuni che aderiscono all’iniziativa «Italia Ripensaci» e alla campagna promossa dai «Mayors for Peace». Nel bresciano i firmatari – con la stessa Brescia e l’amministrazione provinciale – sono già un quarto del totale dei municipi. Inutile forse dire che Colleabeato è stato tra i primi.

Accoglienza. In Spagna, Catalogna, non in Italia, Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio . Sull'altra sponda dello stesso mare, ma molto lontani. il Fatto Quotidiano online 21 febbraio 2017

Barcellona è una città in contro-tendenza rispetto a quella parte di Europa ammaliata dalle sirene del nazionalismo, delle barriere e della xenofobia. Un fiume in piena di gente – 160.000 per le autorità di polizia, 350.000 per gli organizzatori – si è presa il centro della città catalana per una marcia festosa in favore dei rifugiati e per la solidarietà. Prou excuses. Acollim ara! (Basta scuse. Accogliamo ora!) è stato lo slogan che ha riunito il popolo della solidarietà, in quella che, dall’inizio della crisi dei rifugiati, è da considerarsi come la più grande manifestazione continentale per l’integrazione.

"Casa nostra, casa vostra" è l’associazione organizzatrice della campagna, un’unione di cooperanti, operai, studenti e professionisti – tra essi giornalisti, architetti e avvocati – con esperienza nei campi di rifugiati installati nelle zone di frontiera tra la Grecia e la Macedonia. Il manifesto dell’associazione è un inno all’inclusione, un richiamo alla necessità di un’applicazione piena dei principi contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei valori fondanti dell’Unione europea.

Le oltre 72.000 adesioni al manifesto pubblicato sul sito degli organizzatori costituivano un buon presagio per la riuscita dell’evento, tuttavia nemmeno i più ottimisti potevano sperare in una manifestazione così partecipata, con rappresentanti di oltre 200 associazioni a sfilare dalla centralissima piazza Urquinaona – situata a poche centinaia di metri dalle Ramblas – verso la Via Laietana, principale arteria cittadina. Sindacati, Ong, delegati di gruppi universitari, associazioni come No més morts, obrim fronteres (“Non più morti, apriamo le frontiere”), Catalunya, terra d’acollida (“Catalogna, terra d’accoglienza”), SOS Racisme e Stop Mare Mortum a precedere politici di ogni schieramento, rappresentanti di formazioni indipendentiste, socialisti federalisti, o forze collocate più a sinistra, come Podemos.

Ada Colau è il sindaco che dal giorno del suo insediamento ha fatto apporre lo striscione “Refugees welcome” sul balcone del Municipio, nella monumentale plaça Sant Jaume, sabato ripeteva con orgoglio di essere il primo cittadino della Capitale internazionale della pace e dei diritti umani. Una manifestazione che ha riunito decine di migliaia di persone – di sabato pomeriggio quando scuole, università e uffici sono chiusi – per reclamare a gran voce principi che toccano direttamente la sfera di altri.

Com’è lontana l’Italia bloccata sui social a lamentarsi di tutto, come sono lontane le sparate del leghista Salvini che proprio il 18 febbraio ha parlato della necessità di “una pulizia di massa, strada per strada”. Eppure, anche lui, al tempo di “Roma ladrona” era un fiero sostenitore dell’indipendentismo catalano, movimento però, da sempre solidale, da sempre europeista.

«La liberazione delle acque italiane è iniziata così, nel cuore sismico del Paese, nel punto in cui il Sangro, sceso dalle balze del Parco nazionale d’Abruzzo, curva verso l’Adriatico sotto le montagne del Molise». comune-info, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

«Il bulldozer affonda i cingoli nella corrente, pianta il braccio snodabile nel muro dell’argine e in un fracasso infernale aziona la perforatrice. Appena il primo pezzo di cemento crolla, ecco l’acqua appenninica nuovamente libera, trovare una strada tra i massi. La senti cantare, respirare, spumeggiare, come una volta». Potrebbe essere l’incipit di un libro di fantascienza, invece è il resoconto poetico e autentico che il giornalista e scrittore Paolo Rumiz riporta su “Il Venerdì” di Repubblica per raccontare quanto accaduto nel comune virtuoso di Scontrone, seicento abitanti in provincia dell’Aquila.

Quest’anno il Comune di Scontrone ha vinto il Premio Comuni Virtuosi nella categoria Gestione del territorio, per un’operazione che in Italia suona come una specie di rivoluzione: restituire spazio e terra ai fiumi, lavorando sulla prevenzione.

«Il progetto cha abbiamo candidato racconta di come, dopo trent’anni, il fiume Sangro abbia vinto la sua battaglia contro il cemento – dice la sindaca Ileana Schipani, dottoressa in scienze ambientali. Negli anni Ottanta, infatti, il tratto di fiume Sangro che scorre nel nostro territorio, tra Villa Scontrone e Castel di Sangro, venne canalizzato e cementificato per sei chilometri. Un intervento di grande impatto, con il quale l’assetto naturale del corso d’acqua fu completamente modificato, il fiume raddrizzato e sagomato con opere artificiali, il bosco ripariale distrutto».

Un’opera da trenta miliardi di vecchie lire finanziata – si motivava all’epoca – per evitare che il fiume straripasse nelle vicine campagne durante i periodi di piena. Oggi, dopo tanti anni di convivenza incivile tra fiume e cemento, è stato finalmente avviato un progetto integrato dal punto di vista idraulico e ambientale, finanziato attraverso fondi comunitari. «Si tratta – continua la sindaca – sostanzialmente di un intervento che punta a ridurre il rischio idraulico, restituendo spazio al corso d’acqua e quindi migliorando l’ambiente fluviale».

In particolare, i lavori mirano a consentire una dinamica fluviale che abbandoni la logica della canalizzazione: nel progetto si è infatti scelto di procedere alla demolizione dei muri e delle difese spondali in cemento ormai rovinati; per proteggere i centri abitati è stata prevista la realizzazione di rilevati arginali a ridosso delle aree già urbanizzate, senza sottrarre spazio alle aree di potenziale esondazione; in alcuni punti si è ritenuto di riprofilare le sponde per ricostituire un adeguato gradiente di riconnessione tra l’alveo attivo e la piana alluvionale adiacente, così da consentire una naturale laminazione delle acque di piena nelle aree alluvionali di natura demaniale (e non urbanizzate) presenti lungo il corso d’acqua.

«A tutt’oggi, il progetto in corso di realizzazione può essere annoverato come esempio unico nel panorama regionale e probabilmente nazionale, e può costituire un precedente importante, da imitare anche in altre realtà simili con corsi d’acqua resi artificiali».

Chiedo quali sono state le difficoltà maggiori che l’amministrazione ha incontrato nella realizzazione di un progetto che ha richiesto tempo, e quindi pazienza e lungimiranza per essere messo in cantiere. «Il progetto ha richiesto un’intensa e costante interazione tra i soggetti coinvolti diversi, e un elevato di livello di competenze tecniche e di conoscenza del territorio. Partivamo da un progetto preliminare del Genio civile regionale, che prevedeva di mitigare il rischio idraulico attraverso interventi volti a riportare il canale in cemento alla sua condizione originaria (cioè quella della costruzione degli anni Ottanta). La capacità dell’Amministrazione comunale di avanzare una proposta alternativa e concreta, e sostenibile dal punto di vista ambientale, ha probabilmente giocato un ruolo decisivo per arrivare agli interventi sopra descritti».

Il comune ha ragionato in un’ottica di area vasta, cercando alleanze e sinergie con i comuni limitrofi, trovando una governance che tenesse conto del disegno di insieme di un intero territorio.

La cementificazione del fiume Sangro prese il via proprio negli anni Ottanta, e trovò da subito una forte opposizione delle popolazioni locali, ciò che blocco a metà il nefasto intervento. «Si può dire che quella fu una tra le prime proteste ambientaliste contro la cementificazione dei fiumi. È facile quindi comprendere come la presenza del canale sia stata considerata fin dall’inizio un elemento estraneo alla comunità e poi, col passare degli anni e il progressivo degrado dell’opera, sempre più come un detrattore ambientale. Non a caso, nei programmi elettorali amministrativi da oltre un decennio si parlava di ‘rinaturalizzazione del fiume Sangro’ come di un importante obiettivo da perseguire. C’è stato quindi un generale consenso della comunità locale intorno a questo nuovo progetto. Nel periodo precedente l’intervento sono stati realizzati diversi momenti di informazione e di coinvolgimento della popolazione per illustrare, discutere e condividere gli aspetti progettuali».

Ileana Schipani è un sindaco giovane. Tra le vene scorre passione pura per un mestiere che è il più bello e complicato del mondo, in barba a tutte le maldicenze che riforniscono di carburante l’auto della demagogia. Com’è oggi fare i sindaci di una piccola comunità? «È senza dubbio un’esperienza umanamente straordinaria, perché in una piccola realtà la partecipazione attiva della comunità alla vita del paese è l’elemento determinante per provare a costruire prospettive di sviluppo locale, soprattutto in un contesto come quello della montagna appenninica. Quindi l’impegno principale, al là dell’amministrazione ordinaria, sta proprio nel farsi venire buone idee e nel prodigarsi per la loro realizzazione. Che in fondo è proprio ciò che provano a fare ogni giorno i cosiddetti Comuni virtuosi».

Cosa dovrebbe fare la politica nazionale per essere di aiuto alle periferie dell’impero? «Se penso all’amministrazione di un piccolo comune come il mio, senza dubbio chiederei alla politica di saper fare distinzione tra le diverse realtà degli enti locali: spesso ci troviamo a dover applicare procedure e norme o ad assolvere ad adempimenti burocratici che risultano completamente slegati dalla realtà, con il risultato che gli stessi spesso contribuiscono ad aggravare le criticità della macchina amministrativa invece che semplificarla. Chiederei regole generali certe, ma più autonomia nell’azione volta a dare risposte alle aspettative della nostra comunità, anche e soprattutto al fine di invertire la rotta dello spopolamento e dell’abbandono della montagna».

«La liberazione delle acque italiane è iniziata così, nel cuore sismico del Paese, nel punto in cui il Sangro, sceso dalle balze del Parco nazionale d’Abruzzo, curva verso l’Adriatico sotto le montagne del Molise». Se a dirlo è Paolo Rumiz allora possiamo crederci per davvero. (Il progetto di rinaturalizzazione in sintesi).

L'impiego diseguale delle regole è uno degli strumenti che il potere tirannico adopera per reprimere i tentativi di praticare politiche alternative. L'Italia di Renzi ne è maestra. Il manifesto, 5 novembre 2016

Torniamo a parlare di Riace, un vero miracolo nei progetti ambientali, nel recupero e trasformazione del borgo storico, nell’accoglienza dei richiedenti asilo, come esempio di rinascita della comunità e di risposta lavorativa per tanti giovani. Sempre in prima linea per l’emergenza sbarchi. Riace, segnalato da Fortune, ma ancora prima nel 2010, del World Mayor Prize, Domenico Lucano citato nella classifica dei sindaci fra i 23 finalisti, insieme a sindaci della Città del Messico e Mumbai.

Un esperimento concreto che viene copiato e moltiplicato in altre regioni. Tuttavia, a fronte di un’attenzione internazionale, (in questi giorni sarà presente Tokyo Tv), e l’arrivo di frotte di giornalisti, fotoreporter, filmaker, antropologi, ricercatori, Riace viene preso di mira da burocrazie che mettono in discussione pratiche decennali come l’uso dei cosiddetti bonus. Moneta locale utilizzata fra esercenti che ne accettano il valore simbolico, per ovviare agli storici e perenni ritardi dello Stato nel far confluire nelle casse del Comune i contributi per finanziare i progetti. Il che significa poter garantire l’acquisto dei beni di primissima necessità.

Questi bonus o banconote locali sono state negli anni stampate con immagini di persone vittime della mafia: Peppino Impastato, Rocco Gatto, Gianluca Congiusta, o di liberatori di popoli come Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela. L’uso di questi voucher (simili per servizio a quelli usati dalle agenzie di viaggio), funziona ed è servito in questi anni a ridurre drasticamente il malcontento dei richiedenti asilo. Per questo il sistema della moneta locale è stato adottato anche da altri comuni come Camini, Gioiosa Ionica, Stignano, Caulonia, Acquaformosa…

Non si capisce il senso di questo diktat: «Sospendere immediatamente l’uso di questi bonus» giungendo ad ipotizzare di «molteplici reati ascrivibili all’esercizio non autorizzato di tale attività». Uno Stato che ha perso il controllo sulla sua moneta, che si inchina alle cure da cavallo di Bruxelles, e poi fa la voce forte del padrone con dei piccoli Comuni che dovrebbe solo ringraziare dalla mattina alla sera perché sistematicamente si ingegnano per sopperire a carenze pubbliche e tolgono le castagne dal fuoco. D’altra parte è lo stesso governo che non ha preso minimamente in considerazione la proposta di Enrico Grazzini, ed altri valenti economisti e sociologici tra cui l’indimenticabile Luciano Gallino, di mettere in circolazione una moneta fiscale con la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti.


Nelle città italiane ed europee, medie e grandi, esiste una via della Zecca in quanto fino al XIX secolo da Palermo a Milano in decine di città si stampava una moneta locale che circolava essenzialmente nel territorio comunale. Era una pratica assai diffusa fin dai tempi dell’impero romano ed ancor prima nelle città-stato greche. Si può dire che da quando è stata coniata la prima moneta (VIII secolo A.c.) hanno spesso convissuto due tipi di monete: in oro ed argento per il commercio con l’estero, in ferro, rame o altro metallo meno nobile per gli scambi in un territorio limitato (come quello di un Comune o di una Signoria o Principato nel Medio Evo). Addirittura in Israele, ma non solo, esisteva il siclo, una moneta sacra che veniva usata esclusivamente per tutte le attività che avevano a che fare col Tempio sacro di Gerusalemme. Non è un caso che nel racconto del Vangelo, quando Gesù scaccia i mercanti dal tempio, si parla espressamente anche di «cambiavalute». Che ci facevano? Non era un territorio straniero. Ma era uno spazio sacro in cui poteva essere usato solo il siclo e nessuna altra valuta.

Con l’avvento delle banche centrali e degli Stati nazionali, progressivamente, vennero eliminate tutte le Zecche Comunali in Italia come nel resto d’Europa. Ma, la storia come sappiamo, non procede linearmente e ciò che sembra appartenere al passato, a volte ritorna in altra forma. Così da una ventina d’anni assistiamo in tutto il mondo a tentativi per reintrodurre, a vario titolo, delle “monete locali complementari” o più esattamente delle “quasi monete”, ovvero strumenti monetari che hanno un grado di liquidità, e quindi di fiducia, leggermente inferiore a quella della valuta ufficiale, ma non per questo non funzionano come mezzi di scambio e di pagamento. D’altra parte, i buoni pasto che enti pubblici e grandi imprese private danno ai propri dipendenti vengono spesso utilizzati per gli acquisti nei negozi o esercizi pubblici (ristoranti ad esempio) convenzionati. E chi è più anziano ricorderà certamente come i gettoni telefonici, oggi spariti, valevano negli ultimi tempi 200 lire e venivano utilizzati proprio come le altre monete metalliche.

Questo accanimento nei confronti dei Comuni della fascia jonica calabrese andrebbe fermato, con una cittadinanza attiva a difesa di quel poco che funziona nel nostro paese. Altrimenti si dovrebbe avere il coraggio di dichiarare illegali i buoni pasto.
«Nel parco Leith Links c’è un gruppo di un centinaio di persone, di tutte le età, che va a coltivare la terra. Thomson Reuters Foundation, Regno Unito». Internazionale.online, 19 settembre 2016 (c.m.c.)

Su un appezzamento di terreno grande un ettaro, nel quartiere settentrionale di Leith, a Edimburgo, Evie Murray cammina tra fiori e verdure coltivati con cura. «Prima quest’area era piena di spazzatura, siringhe e bustine di preservativi». Murray partecipa a Crops in pots, un’iniziativa comunitaria nata nella capitale scozzese, che ha coinvolto centinaia di abitanti impegnati a coltivare zucche, patate, fagioli, bietola, mele, uva spina e perfino un albero di noci.
È uno dei tanti esempi di un’ondata silenziosa ma significativa di riforme che stanno cambiando le regole della proprietà terriera in Scozia, la meno equa dell’Europa occidentale:, perché metà della terra è in mano a 500 persone. Nel 2013 lo Scottish national party (Snp), che guida il governo locale di Edimburgo, si è impegnato in una riforma agraria radicale. L’obiettivo è fare in modo che entro il 2020 più di 400mila ettari di terreni siano di proprietà delle comunità locali. Questa misura è stata varata sullo sfondo di tensioni sempre più forti legate alla presenza di grandi latifondisti, spesso assenti, che esercitano forme di controllo risalenti all’epoca in cui la Scozia era un paese rurale governato da un’aristocrazia terriera.

Eredità aristocratica

Secondo i dati del governo scozzese, i terreni che le comunità locali hanno acquistato dai privati hanno ormai superato un totale di 200mila ettari. Il governo ha più che triplicato i contributi al Fondo scozzese per la terra per aiutare le comunità a comprare, passando da tre a dieci milioni di sterline all’anno.

Nel marzo del 2016 il governo dell’Snp ha approvato la legge di riforma agraria, che ha dato alle comunità la possibilità di forzare la vendita di un terreno a patto di riuscire a provare che in questo modo si favorisce lo “sviluppo sostenibile”. Una delle compravendite più importanti è avvenuta nel dicembre del 2015 e ha riguardato la tenuta di Pairc sull’isola di Lewis, nelle Ebridi Esterne. Una disputa durata dodici anni si è conclusa con la vendita di 11mila ettari alla comunità locale per 500mila sterline.

Secondo gli attivisti le riforme erano necessarie da tempo e il provvedimento di legge non fa abbastanza. Per la ministra per la riforma agraria scozzese Roseanna Cunningham, invece, l’ostacolo più grosso al cambiamento è il grado di coinvolgimento delle comunità. Cunningham sostiene che spesso si esprime un interesse all’acquisto di un terreno solo dopo che è stato messo in vendita, quando ormai è troppo tardi. Ma ammette che anche la legge ha dei limiti: “Ci sono ampie distese di terra che probabilmente non saranno mai vendute, e continueranno a essere trasmesse di generazione in generazione”.

Buona parte delle diseguaglianze nella proprietà terriera in Scozia risale all’ottocento, quando il sistema di eredità della terra in vigore tra gli aristocratici si combinò con una violenta campagna per scacciare i piccoli agricoltori e gli abitanti del luogo per fare spazio ai grandi allevamenti di pecore.

Tenere alta l’attenzione

«La Scozia ha il più bizzarro sistema di proprietà terriera del mondo sviluppato e nessuno ha niente da ridire», sostiene Lesley Riddoch, coordinatrice di Our land, una rassegna di dibattiti e incontri sulla terra. Riddoch ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell’isola di Eigg, nelle Ebridi Interne. Eigg fu acquistata nel 1997 dagli abitanti per 1,5 milioni di sterline ed è diventata la prima comunità al mondo ad avere una rete elettrica alimentata completamente a energia solare, eolica e idrica. «Dobbiamo tenere alta l’attenzione su questo argomento», dichiara Riddoch.«La terra in Scozia è meno abbordabile e disponibile che in qualsiasi altro paese europeo».

Lorne MacLeod, presidente dell’organizzazione Community land Scotland, ha dichiarato che affidare la terra alle comunità significa sfruttarla nel modo più vantaggioso. «Le persone si sentono più responsabilizzate», osserva MacLeod, la cui organizzazione rappresenta 69 comunità scozzesi, di cui una quarantina è riuscita ad acquistare dei terreni. Alcune comunità hanno costruito nuovi porti, turbine eoliche e un campo da golf da 18 buche, e reinvestito i guadagni a loro beneficio.

Evie Murray, 39 anni, ha sempre vissuto a Leith. In passato ha lavorato come assistente sociale con i tossicodipendenti, ma dopo la crisi economica del 2008 è stata licenziata. In città era difficile allevare i figli, compresi quelli adottivi, e ancora di più trovare aree all’aperto dove farli giocare. Così ha avuto l’idea di creare un’area comunitaria da condividere con altri genitori e i vicini. Nel 2013 ha contattato il consiglio comunale e ha ottenuto il permesso di usare l’area ai margini del parco Leith Links, anche se l’accordo è suscettibile di cambiamenti ed è di breve durata. Attualmente, racconta, un centinaio di persone, un gruppo eclettico e intergenerazionale, va lì regolarmente per coltivare la terra.

La comunità sta cercando di negoziare un’altra concessione, che riguarda un piccolo edificio presente sul sito, che loro vorrebbero trasformare in un bar, dove usare i prodotti locali. «La terra e la sua disponibilità sono estremamente importanti per la salute delle persone», dice Murray, indicando i coltivatori impegnati a ridere e chiacchierare. «È difficile quantificare l’impatto che possono avere, ma lo potete constatare con i vostri occhi».

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

«La tragedia di Amatrice ha portato alla ribalta i piccoli centri. Cioè la nostra spina dorsale. La nostra ricchezza. La nostra unicità. Ed è da lì che possiamo ripartire. Ecco come». Espresso.it, 16 settembre 2016 (m.p.r.)

Anche chi vive in città, chi vive sulle coste, dovrebbe sentire l’urgenza di politiche alte per le terre alte dell’Italia interna. La questione è l’altezza, lo sguardo verso il futuro. Costruire un grande corridoio ecologico lungo tutto l’Appennino è azione che non si fa in pochi anni, ma è quello che serve. I paesi italiani sono un patrimonio universale. Solo noi abbiamo paesi di mille abitanti che sembrano capitali di un impero. Come si fa a non vedere che la questione dell’Italia è la questione dei paesi?

Per anni ci siamo attardati sulla questione meridionale e invece c’era una storia che riguardava tutta la penisola, era la storia dell’Italia alta, dell’Italia interna, una storia che va da Comiso a Merano. L’Italia ha un asso nella manica, i suoi paesi, e non lo usa. Speriamo che venga fuori con la Strategia Nazionale delle Aree Interne. È una delle poche cose buone avviate dal governo Monti, grazie a Fabrizio Barca, che allora era ministro per la coesione territoriale. Ora quel ministero non esiste più, ma Barca ha comunque fatto in tempo ad avviare un complesso meccanismo che attualmente coinvolge 66 aree selezionate in tutta Italia (circa mille comuni e 2 milioni di abitanti). La Strategia Nazionale, attualmente guidata da Sabrina Locatelli, impegna una serie di giovani tecnici molto preparati e molto motivati, e vede tutt’ora impegnato Barca in veste di consulente a titolo gratuito.

L’assunto è che l’Italia interna non è un problema, ma una mancata opportunità per il paese. La missione è fermare l’anoressia demografica dando forza ai servizi essenziali di cittadinanza: scuola, sanità, trasporti. A questa base si aggiungono le azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come fuoco centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio. Si parla da più parti di accesso alla terra da parte dei giovani, ma le pratiche concrete sono ancora poche. A volte i gruppi di base sono più avanti delle istituzioni.

Due buoni esempi vengono dalla Puglia: La Casa delle Agriculture nel Salento e l’esperienza di Vazapp nel foggiano. Ma ce ne sono in tutte le regioni: fare in modo che si incrocino e lavorino assieme è uno degli obiettivi della Casa della paesologia, un’esperienza che mette insieme tante persone che incontro nei miei giri nell’Italia interna.

C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche. L’articolo 42 della Costituzione andrebbe inteso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari dovrebbero diventare beni comuni. Bisognerebbe parlare di scuole di montagna. Bisognerebbe riflettere sul valore di tutta una serie di mestieri che vanno perdendosi. La Strategia Nazionale ha previsto di realizzare in Basilicata una Scuola della pastorizia. L’ottica è quella di rendere attrattiva l’Italia considerata più marginale. Ma ovunque ci si scontra con una burocrazia troppo lenta e con una politica dal fiato corto, attratta dalle azioni che fanno notizia e dai territori dove ci sono molti elettori.

L’Italia dei paesi ha bisogno di un approccio radicalmente ecologista. Seguire più la lezione di San Francesco che quella dei santoni della finanza. Forse è arrivato il momento di rendersi conto che è andato in crisi il paradigma meccanicista-industrialista che pensava i luoghi come inerti supporti della produzione di merci. Ripartire dai luoghi significa ripartire da un patrimonio di biodiversità straordinario. Da questo punto di vista non parliamo di luoghi della penuria, ma di luoghi della ricchezza. E lo stesso vale per la sociodiversità.

Questo approccio ovviamente non può eludere il binomio mercato e lavoro. I paesi italiani se non ricevono domande non hanno lavoro e senza lavoro il territorio deperisce. Si può immaginare che i paesi saranno oggetto di domanda e dunque di lavoro per via della loro diversità. Pensiamo che oggi ci sia un bisogno di diversità. Il lavoro cruciale è dare fiducia, portare nei luoghi le persone che fanno buone pratiche. Forse è il momento giusto per coagulare, per dare coesione, per mettere assieme ciò che per troppo tempo è rimasto isolato e disperso.

Ci vuole un’idea di sistema. Nei prossimi anni ci sarà un ritorno ai paesi e alla campagna. Il lavoro da fare è dare forza a questa tendenza che è già in atto, è mettersi alle spalle l’idea che i paesi sono destinati a morire. Quella dei paesi in estinzione è una bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti o frane. Se l’Italia dei paesi non esce dal clima depressivo è destinata all’insuccesso qualunque strategia. La prima infrastruttura su cui lavorare è di tipo morale, è l’infrastruttura della fiducia: è il ragionameno da cui parte la festa della paesologia ad Aliano, una festa che mette insieme il meglio delle arti e dell’impegno civile al servizio delle piccole comunità e del mondo rurale, in conflitto con le vecchie equazioni: mondo rurale-mondo arretrato.

È importante dare alla parola “contadino” un prestigio che non ha mai avuto, riportandola all’antica funzione di custode del territorio, oggi più attuale che mai, soprattutto in prospettiva futura. Pensiamo agli artigiani del cibo, proprio per sottolineare la cura con cui si coltivano e si trasformano i prodotti. Il cibo che unisce bontà e qualità terapeutiche. È il lavoro che sulla scia di Slow Food fanno tanti. Mi piace segnalare Peppe Zullo sui monti della Daunia e Roberto Petza che in Sardegna utilizza e rielabora i prodotti del territorio e della tradizione e li ripropone in forme originalissime. A Siddi si fa non solo ristorazione di respiro internazionale ma anche attività di formazione delle nuove generazioni rieducando al cibo e al gusto le persone attraverso una microfiliera locale del vino, dei formaggi, degli ortaggi e dei salumi.

Una buona pratica per i nostri paesi è lo sblocco dell’immaginazione. In fondo la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. Troppo spesso nei piccoli paesi si ha paura di essere visionari, come se questo ci potesse assicurare un giudizio di follia da parte degli altri. Urge anche nelle stanze della politica la presenza dei visionari che sanno intrecciare scrupolo e utopia, l’attenzione al mondo che c’è con il sogno di un mondo che non c’è.


Franco Arminio è poeta, scrittore e documentarista. Anima il blog 
Comunità Provvisorie e ha fondato la Casa della Paesologia

A Roma, durante il mandato del sindaco Marino, sono state gettate le basi di un programma ambizioso e concreto. Vi spieghiamo di che si tratta e perché, per il bene della città, occorre proseguire con la stessa determinazione.

Resilienza è una bella parola

Resilienza è l’ennesimo termine dal significato indeterminato, ripreso dal lessico internazionale, che riscuote grande successo in campo urbanistico. Il fastidio legato all’abuso modaiolo non deve alimentare un pre-giudizio negativo. La parola resilienza descrive una mirabolante capacità del mondo naturale e della psicologia umana: rispondere alle pressioni continue (stress cronici) e alle crisi improvvise (shock acuti) con un misto di adattamento e apprendimento. Come non provare interesse verso i meccanismi che consentono agli esseri viventi di rialzarsi più forti di prima?
Riferito alla città, l’attributo resiliente esprime la capacità di rispondere all’esasperazione dei rischi ambientali e alle conseguenze di fenomeni naturali sempre più estremi. Rendere la città più resilienti è un compito urgente e necessario, se vogliamo offrire qualche opportunità alle nuove generazioni, verso le quali – in tutta onestà – non abbiamo finora dimostrato grande empatia.

La resilienza delle città è legata alla capacità di prepararsi al futuro, governando le trasformazioni e non subendole passivamente. Seppure indispensabili, piani e regolamenti non bastano, come troppe volte abbiamo constatato. Servono investimenti mirati, di risorse economiche e di saperi, per riorganizzare la macchina amministrativa, per favorire la comunicazione tra cittadini e istituzioni, per mobilitare energie e intelligenze collettive.

Per una volta, Roma potrebbe essere di esempio per le altre città italiane. Alla fine del 2013, una proposta presentata dall’Assessorato alla Trasformazione Urbana è stata selezionata fra le prime 33 partecipanti a un programma internazionale interamente finanziato dalla Rockefeller Foundation, grazie al quale Roma può essere la prima grande città italiana a dotarsi di una strategia per la resilienza.

Comprendere i problemi per trattarli diversamente

Quale città al mondo può dirsi più resiliente di Roma, protagonista come nessun’altra di grandi ascese e cadute rovinose? Il rapporto di valutazione preliminare spiega quanto sia consolatorio e ingannevole questo luogo comune.

Oltre 400 soggetti attivi nella città (imprese, associazioni, istituzioni) sono stati consultati per ricostruire un quadro attendibile della situazione attuale. In estrema sintesi, possiamo dire che, col passare degli anni, Roma è diventata sempre più estesa, diseguale e vulnerabile. Di conseguenza, i suoi “asset critici” (le reti infrastrutturali, i servizi e lo straordinario patrimonio culturale) faticano a reggere nelle condizioni ordinarie e sono sempre più esposti agli eventi straordinari. Non per caso, i disservizi sono particolarmente frequenti e i loro effetti sono amplificati dalle fragilità del sistema, ripercuotendosi con particolare severità sulle fasce sociali più deboli. Rischi ambientali sistemici e disagi sociali cronicizzati fanno sì che la proverbiale capacità di adattamento dei cittadini romani, sostenuta dal loro cinico disincanto, non basti più per fare di Roma una città resiliente.

Fin qui, si tratta di cose note che il rapporto, meritoriamente, ricapitola con chiarezza e rigore. Il cuore del documento, però, è costituito dalle indicazioni sui possibili rimedi.

Mentre in natura la complessità costituisce un fattore di ricchezza e di forza, a Roma si traduce in complicazione e in de-responsabilizzazione: l’intrico di competenze è tale che ciascuno si sente legittimato a dichiarare la propria impotenza di fronte ai problemi. E allora è proprio da qui che occorre partire, dal modo in cui si deve governare un sistema complesso, per metterlo in grado di reagire alle turbolenze prodotte in un contesto, ambientale ed economico-sociale, in continuo mutamento. Il rapporto fornisce una vera e propria “rimappatura” dei problemi, evidenzia i numerosi punti di forza sui quali fare leva e individua cinque aree prioritarie di intervento: territori e connessioni (per migliorare il benessere quotidiano), persone e capacità (per ingaggiare gli abitanti), governance, partecipazione e cultura civica (per sostenere le iniziative da intraprendere), risorse e metabolismi (per utilizzare al meglio ciò che esiste nella città), sistemi, patrimoni e reti (per progettarli e gestirli tenendo conto delle fasi di crisi). Per ogni area sono indicate sette domande alle quali gli stakeholder, nella seconda fase del programma, dovrebbero rispondere per costruire la vera e propria strategia, ridefinire l’agenda e il contenuto delle politiche pubbliche e riorganizzare di conseguenza la macchina amministrativa.

Dalle retoriche ai fatti

Come fare per conciliare ambizione e concretezza? Come costruire un programma così impegnativo e di lungo respiro e, allo stesso tempo, fornire risposte tangibili in tempi ragionevoli? Alessandro Coppola, responsabile del progetto fino all’interruzione forzata dell’amministrazione guidata dal sindaco Ignazio Marino, ci fornisce alcune indicazioni sui progetti e i partenariati a cui si stava lavorando.

Aumentare la consapevolezza sugli stress cronici e gli shock improvvisi. Per generare un’azione pubblica di qualità e durevole nel tempo, occorre avere un buon sistema di conoscenze, continuamente alimentato, e di libero accesso. Si possono e si devono costruire partenariati virtuosi con i molti istituti che, a Roma come nel resto d’Italia, si occupano di ricerca ambientale e prevenzione dei rischi.

Prepararsi al futuro significa non rinunciare a guardare lontano… Tutte le più importanti città del mondo si occupano di ambiente attraverso piani e programmi di lungo termine. Anche in Italia, si deve e si può fare lo stesso. In particolare, le città metropolitane devono dotarsi di un piano strategico: quale occasione migliore di questa?

… e adoperarsi subito per aprire le nuove strade. I cambiamenti radicali si conquistano attraverso progetti-pilota che producono effetti positivi nel breve termine e indicano nuovi percorsi di più lungo respiro. I fondi della programmazione europea 2014-2021 possono essere utilmente orientati a questo scopo, rinunciando a progetti di concezione otto-novecentesca, costosi da realizzare e mantenere e di elevato impatto territoriale, in favore di infrastrutture leggere (verdi, blu e immateriali), più efficienti ed efficaci.

Uscire dai recinti sclerotizzati delle politiche di settore. Per essere efficaci, le politiche pubbliche devono essere sostenute da un’organizzazione adeguata della struttura amministrativa. La portata delle questioni da affrontare e l’esigenza di coordinamento e integrazione richiedono un coinvolgimento al massimo grado delle istituzioni e, come primo passo, l’istituzione di una cabina di regia più alto livello dell’amministrazione cittadina.

Ingaggiare la cittadinanza. Scambiare informazioni utili per assumere le decisioni, ingaggiare gli stakeholders e i change-makers nella definizione di progetti condivisi che favoriscano nuove economie di impresa e producano valore sociale e ambientale, coinvolgere i cittadini lungo il percorso di ideazione e realizzazione delle iniziative. Come dimostrano gli straordinari progressi compiuti attorno al ciclo dei rifiuti, non si tratta di un’utopia, ma di comportamenti virtuosi ampiamente sperimentati.

E ora?
La pubblicazione del rapporto di valutazione preliminare chiude la prima fase del programma. Ora viene la parte più difficile. Senza tanti giri di parole, con il commissariamento il programma ha perso visibilità e ci sono forti possibilità che il lavoro venga normalizzato e ricondotto nell’alveo degli ininfluenti prodotti da convegno. Sarebbe un’occasione persa, per i romani soprattutto. Alla parte più avveduta della città, ai movimenti e alle associazioni che si battono per un cambiamento netto e duraturo, chiediamo di leggere attentamente il rapporto e di formulare richieste precise ai futuri amministratori. Roma, per essere resiliente devi impegnarti per davvero: conviene soprattutto a te.

Nota. Nel sito del comune, sono disponibili i documenti e tutte le informazioni sulle iniziative promosse nella prima fase di Roma Resiliente.

Una rassegna delle questioni affrontate e delle molte iniziative avviate in relazione a una delle principali sfide di resilienza emerse - quella del cambiamento climatico - è contenuta in questo articolo di Alessandro Coppola, disponibile on-line su Gli stati generali.

Si parla di Roma Resiliente nell’iniziativa Conversazioni su Roma, organizzata dall’Università di Roma Tre

«Intendiamo produrre conoscenza, non apparenza, perché solo il rigore dello studio e della ricerca e l’applicazione costante al lavoro possono portare a uno sviluppo coerente e sostenibile, verificabile in itinere e, perciò, correggibile». La Repubblica, ed. Firenze, 28 gennaio 2016

L’intervento di Tomaso Montanare coglie nel segno. Pistoia non è e non sarà la riproduzione miniaturizzata di se stessa nei gadget delle bancherelle e nei souvenir turistici. È una città apasso d’uomo, dalle antiche origini contadine, che ancora si riconoscono nel suo carattere riservato e persino introverso. Pur integrata nell’area metropolitana che arriva sino a Firenze, Pistoia ha preservato – grazie anche all’eccellenza produttiva del vivaismo – il confine tra il tessuto urbano e la campagna, quel limite che fonda e costituisce la città.

Ci siamo candidati convinti che una comunità, per promuovere se stessa, non debba presentarsi diversa da com’è, ma valorizzare le proprie caratteristiche e peculiarità: i progetti presentati sono il frutto di un lavoro intenso e spesso silenzioso che ha unito ed appassionato le tante anime della città. Abbiamo concorso non per trasformarci in un conglomerato fluttuante di turisti chiassosi e scomposti, ma perché orgogliosi di poter mostrare le nostre ricchezze e i nostri progetti. Intendiamo produrre conoscenza, non apparenza, perché solo il rigore dello studio e della ricerca e l’applicazione costante al lavoro possono portare a uno sviluppo coerente e sostenibile, verificabile in itinere e, perciò, correggibile.

Siamo convinti che il sapere e la cultura siano i primi e più significativi fattori per l’emancipazione di tutti gli umani, lievito per la crescita e la formazione di cittadini liberi e consapevoli, di cittadini democratici: la cultura come diritto di cittadinanza. Per questo, la cultura, in tutte le sue espressioni, costituisce la fonte ispiratrice di ogni nostra azione politica e di governo.

Per questo, il lavoro di restauro e recupero del patrimonio storico-artistico è stato ed è impegno prioritario per l’amministrazione: abbiamo già restituito alla città la chiesa di Santa Maria del Soccorso, il Chiostro di San Lorenzo, a breve recupereremo Sant'Jacopo in Castellare, la Saletta Gramsci, l’antica chiesa di San Salvatore e San Pier Maggiore. Il progetto di rigenerazione del Ceppo, che ci vede impegnati al fianco della Regione Toscana e dell’Asl, vedrà l’intera area monumentale del vecchio ospedale passare in proprietà al Comune di Pistoia, trasformata nel più importante polo museale cittadino. Qui sorgerà anche la Casa della Città, un urban-center che diventerà il cuore pulsante della partecipazione attiva dei pistoiesi alla vicenda pubblica.

La città è il primo dei beni che abbiamo in comune, spazio pubblico e luogo di esercizio diffuso della democrazia. Per assicurarne la cura è indispensabile una comunità partecipe e vigile, aperta e curiosa del mondo, che non cessi di interrogarsi sul proprio futuro. Per questo diamo vita ogni anno ad un appuntamento di riflessione critica sulle trasformazioni urbane, che consente anche una costante verifica dell’azione dell’amministrazione, leggere la città, nel corso del quale saremmo lieti di poter accogliere le stimolanti riflessioni di Tomaso Montanari, preziose anche per il lavoro che ci attende da qui al 2017.

In Italia ci sono ancora popolazioni che protestano quando si vuole seppellire di cemento l'antico paesaggio nel quale si riconoscono, e combattono uniti contro il governatore che vuole abbattere il vincolo ambientale. La Repubblica, 29 ottobre 2015

Gli ultimi erano stati i Longobardi e i Bizantini: era dal VI secolo dopo Cristo che nel Contado di Porta Eburnea non si combatteva una battaglia altrettanto carica di futuro. Siamo a sei chilometri a sud-ovest di Perugia, tra le valli dei fiumi Caina, Genna e Nestore, in un territorio di bellezza spettacolare: centoventi chilometri quadrati di paesaggio intessuto di monasteri, torri, ville, piccoli borghi medioevali. L’Italia: al suo meglio. Quella che diresti che ormai non c’è più. E che invece resiste: almeno fino a quando lo consentiremo.

È un storia remota, quella che ha imposto al Contado la sua omogeneità culturale e visiva: è il 570 dopo Cristo quando i Longobardi non riescono a sfondare la linea delle fortificazioni di Narni, Amelia, Todi, Perugia e Gubbio. Si forma così il cosiddetto Corridoio Bizantino, che per quasi due secoli continuerà a connettere Roma a Ravenna, un resto di Italia romana sempre più accerchiata dai ducati longobardi. Nel 593 i Bizantini arrivano fino a creare un lago artificiale, che possa fermare l’avanzata dei “barbari”. Ed è in questa resistenza — militare e culturale — che affonda le sue radici l’immagine di questa parte d’Umbria: perché, intorno all’anno Mille, le numerosissime strutture difensive che punteggiavano quella parte di Corridoio Bizantino divennero altrettanti luoghi di abitazione e lavoro per i monaci benedettini. La Grangia di Monticelli fu un’enorme azienda agricola monastica, che fece subentrare le ragioni dell’economia rurale e della preghiera a quella della guerra. Cosa quasi miracolosa, gli ultimi mille anni (e soprattutto gli ultimi cento) non hanno cambiato le cose più di tanto, permettendo a Perugia di conservare (almeno su questo lato) ciò che un tempo era il vanto di ogni città italiana: il dolce trapasso tra il tessuto urbano e la campagna.
Come scriveva Carlo Cattaneo nel 1858, «la città formò col suo territorio un corpo inseparabile»: una realtà che, mezzo millennio prima, il Buon governo affrescato a Siena da Ambrogio Lorenzetti aveva rappresentato con la forza delle immagini.

Ma come in tutte le favole, ad un certo punto arriva una strega cattiva: e la strega in questo caso si chiama speculazione edilizia. Perugia si espande, e sposta i suoi ospedali proprio verso il Contado. E nel cuore di quest’ultimo si cominciano a costruire complessi edilizi di cinque piani tra viali di tigli e ville storiche (sul crinale tra Pila e Badiola), si progettano strade a scorrimento veloce, si creano nuovi paesi di cemento accanto a borghi medioevali spopolati (115.000 metri cubi a San Biagio della Valle).

È a questo punto che i cittadini del Contado insorgono. Nel gennaio 2010 otto associazioni nate dal basso, comuni cittadini, proprietari di dimore storiche chiedono al Ministero per i Beni culturali di dichiarare che la salvaguardia del Contado di Porta Eburnea è di particolare interesse pubblico: in pratica, chiedono di vincolarlo, cioè di salvarlo prima che sia troppo tardi. Una volta tanto, lo Stato c’è, esiste, risponde. Dopo lunghe battaglie, e a prezzo di molti compromessi ( l’area da difendere scende da 110 a 58,5 km quadrati), nel maggio di quest’anno il vincolo arriva. Tutto bene, dunque? Per niente: come in un film dozzinale, la strega apparentemente morta si rialza, più cattiva di prima. E, paradossalmente, la strega ha ora il volto della Regione Umbria e del Comune di Marsciano: i quali, invece di essere felici per la salvezza del loro stesso territorio, hanno deciso di ricorrere al Tar per annullare il vincolo.

Non è un episodio isolato: insieme alla Liguria di Toti, l’Umbria di Catiuscia Marini è forse la regione oggi più amica del cemento. Basti dire che nel marzo scorso il governo Renzi (non propriamente verde: si ricordi lo Sblocca Italia) ha deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale dell’Umbria, che pretenderebbe di sottoporre ab origine il Piano del Paesaggio alle esigenze dello sviluppo, in una specie di condono preventivo tombale. Ma c’è di peggio: la giunta regionale è arrivata a confezionare un dossier di 34 pagine (si trova sul web) per chiedere al ministro Franceschini di rimuovere il soprintendente Stefano Gizzi, colpevole di fare il suo mestiere, cioè di difendere il territorio. Nel dossier si legge che il vincolo del Contado di Porta Eburnea osa imporre - udite udite - prescrizioni «molto dettagliate e restrittive, e di forte impatto sulla pianificazione urbanistica di livello comunale». Un vincolo che vincola: quale oltraggio!

Naturalmente, l’argomento principe della Regione è l’eterna equazione cemento= lavoro. Ed è esemplare che a smentire questa visione insostenibile e suicida dello sviluppo siano stati i lavoratori umbri dell’edilizia, che nel pieno della battaglia per il Contado hanno diffuso un documento in cui dicono che dalla crisi del settore (pesantissima: dal 2009 al 2014 le imprese edili umbre sono scese da 4.548 a 2.838, e le ore lavorate da 20 a 10 milioni) si esce «limitando il consumo di territorio », e invece «puntando al recupero, alla difesa del territorio, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico-culturale, alla riqualificazione urbana, all’efficientamento energetico, alla messa in sicurezza delle scuole e di tutti gli edifici pubblici». Una bella lezione di lungimiranza, concretezza e responsabilità.

A giorni le associazioni di cittadini che difendono il Contado di Porta Eburnea depositeranno una diffida al Comune ed alla Regione, con l’invito a ritirare il ricorso contro il vincolo, in autotutela. Una copia della diffida sarà inviata alla Corte dei Conti chiedendo che, se il Tar rigetterà il ricorso, i consiglieri comunali e regionali paghino le spese di giudizio di tasca propria. Come dire: se proprio volete distruggere il paesaggio italiano, almeno non fatelo a spese nostre.

«Baratti, Populonia, Bondeno, Sepino, nomi che non avranno la fama degli Uffizi o di Brera. Eppure in realtà sparse (soprattutto al Sud) sopravvive un modo sorprendente di gestire il patrimonio, un modello vincente». La Repubblica, 26 agosto 2015

TUTTI parlano dei venti supermusei, e delle nomine (per me assai discutibili) dei superdirettori appena fatte. D’accordo: gli Uffizi, Brera, la Galleria Borghese o l’Archeologico di Napoli sono la punta di diamante del nostro patrimonio artistico: ma è bene ricordare che ne conservano una percentuale minima. Sono gli organi pregiati di un corpo le cui cellule sono le infinite, piccole istituzioni culturali che innervano la Penisola. E guardare alle microstorie del patrimonio significa trovare, lontano dai riflettori, storie di successo: buone pratiche del tutto trascurate dalla macchina politico-mediatica, ma non dai visitatori.

Un esempio? Il Parco Archeologico di Baratti e Populonia comprende una delle necropoli più belle del mondo: i tumuli dei signori etruschi di duemilacinquecento anni fa spuntano come grandi funghi verdi sul prato che degrada fino al mare, da cui sorgono le sagome delle isole dell’Arcipelago toscano. Chiude la scena l’acropoli di Populonia, la grande città del vino e del metallo: il ferro che, estratto all’Elba, veniva qua lavorato su scala industriale. Tutto questo non sarebbe accessibile, materialmente ed intellettualmente, senza una delle strutture museali più avanzate e consapevoli dell’Italia di oggi. Trentotto dipendenti — archeologi, restauratori, archivisti, geologi, naturalisti e guide — fanno girare una macchina che comprende anche un Centro di Archeologia Sperimentale capace di fare innamorare adulti e bambini. Tutto è curato nei minimi dettagli: fino agli oggetti che si possono comprare nella libreria, realizzati da artigiani locali in materiali ecocompatibili, fino alla pasta trafilata al bronzo, ricavata da vecchi semi autoctoni di grano recuperati e studiati.

Un parco archeologico sostenibile, con una rigorosa certificazione ambientale: perché l’educazione degli italiani del futuro sia a tutto tondo. E il modello di governance non è meno interessante. La Società Parchi di Val di Cornia è stata costituita nel 1993 per iniziativa dei comuni di Piombino, Campiglia Marittima, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta, e di alcuni soci privati. Questi ultimi non puntavano a un profitto diretto, ma alla partecipazione ad un processo di valorizzazione del territorio che avrebbe dato più valore anche alle loro imprese. E, attraverso la gestione dei parcheggi e delle aree litoranee presenti nel suo territorio, la Società ha raggiunto nel 2007 il pareggio di bilancio, con 90.000 presenze all’anno. Più a nord, nel comune ferrarese di Bondeno, è stato il terremoto a favorire un’esperienza unica. A Pilastri è venuto alla luce un villaggio dell’età del Bronzo (una cosiddetta terramara), e si è iniziato uno scavo originalissimo: perché è aperto a tutti, raccontato passo passo sui social e su YouTube, visitato assiduamente da scolaresche che partecipano ai laboratori. Un’operazione così popolare che Comune e Provincia hanno deciso di investire: da lì e da un crowdfunding derivano i fondi per pagare la cooperativa di giovani archeologi e paleozoologi che scavano e organizzano i laboratori. Questa comunità scientifica dichiara di avere «un importante obiettivo sociale, oltre che scientifico, quello di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo ». Una filosofia “civile” che, a scavo terminato, potrà ispirare il Museo Archeologico Ferraresi di Stellata di Bondeno, che accoglie già i reperti delle campagne precedenti.

In Molise, invece, è stato un accordo tra ministero per i Beni culturali (che mette a disposizione gratuitamente istituti e luoghi della cultura e spazi per le attività di accoglienza), Regione, Università e Cnr a far sorgere un’associazione di giovani laureati in archeologia e storia dell’arte capaci di “valorizzare”’ (ma nel senso autentico di “far conoscere”)luoghi come lo spettacolare Museo del Paleolitico di Isernia (costruito su uno dei siti preistorici più importanti del mondo, dove è possibile conoscere meglio che in qualunque altro luogo d’Italia la vita dell’uomo circa settecentomila anni fa) o la struggente area archeologica di Sepino.

Me.Mo Cantieri Culturali non dipende da contributi pubblici, ma si è messa sul mercato partecipando a concorsi regionali, nazionali o europei per il finanziamento dei propri progetti: una sorta di impresa popolare della conoscenza, che crea lavoro educando al patrimonio in modo innovativo.

Se, infine, a Catania è finalmente accessibile l’enorme cittadella barocca del Monastero di San Nicola, resa immortale nelle pagine dei Viceré di Federico De Roberto, è merito di Officine Culturali, una cooperativa della conoscenza fondata nel 2009 da alcuni laureati del Dipartimento di scienze umanistiche, che ha sede proprio lì. Questi giovani ricercatori ancora in formazione hanno investito le loro conoscenze, il loro tempo e il loro denaro per raggiungere due obiettivi: far conoscere il Monastero alla comunità (locale e universale) nel modo più accessibile e partecipato (per esempio attraverso un’editoria di qualità e un itinerario impeccabile e avvincente), e creare nuovi posti di lavoro e nuove professionalità. Anche grazie alla stretta collaborazione con il Dipartimento, la Soprintendenza e il Parco Archeologico di Catania, ci sono riusciti: 40mila persone hanno già potuto conoscere un luogo chiave per la storia della città, e lo stesso monumento viene progressivamente recuperato in parti finora chiuse, o degradate.

Se l’amministrazione catanese sarà lungimirante, anche il Castello Ursino e il suo museo potrebbero presto rinascere grazie all’opera di Officine Culturali, ampliando così il raggio di questa piccola economia virtuosa che crea lavoro creando conoscenza.

Si potrebbero citare molti altri casi, radicati soprattutto al Mezzogiorno (in parte analizzati in Sud Innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale, nuova cittadinanza, Franco Angeli editore, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano) e molto lontani dai supermusei: perché qua non c’è ombra del monopolio dei concessionari for profit che tengono in mano gli Uffizi o il Colosseo; perché siamo lontanissimi dalle ingerenze del potere politico centrale; perché l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione; il metodo non è la mercificazione, ma la ricerca; il destinatario non è un cliente, ma il cittadino.

Tutte cose belle, direte, ma troppo piccole per avere a che fare con i grandi musei. Sbagliato: nel Parco Archeologico di Baratti lavorano nove archeologi, cioè ben tre in più dei sei che cercano di tenere in piedi l’immenso Museo Archeologico di Napoli. Se vogliamo che i nostri musei non siano depositi di cose vecchie, ma laboratori di futuro, la loro importanza si deve misurare sulla vitalità della comunità che ci lavora. Baratti, Bondeno, Isernia e Catania funzionano perché sono pieni di giovani ricercatori entusiasti: i venti supermusei di cui tutti parlano sono invece ormai scatole vuote, presidiate da pochi anziani funzionari umiliati da decenni di cattiva politica. È questo che dobbiamo cambiare, se vogliamo una rivoluzione vera.

Finalmente una buona notizia. Il prezzo che si è dovuto pagare per superare l'ottusa resistenza degli interessi economici dei rottamatori del territorio (di cui ci occuperemo a breve) è l'ultimo pedaggio pagato a un passato devastatore? lo speriamo. Il Fatto Quotidiano,5 luglio 2014

Nel 2010 il libro Paesaggio, Costituzione, cemento di Salvatore Settis si chiudeva arrischiando una profezia: “I segnali molto positivi che vengono dalla nuova amministrazione regionale toscana, per bocca del presidente Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, sono molto incoraggianti: forse questa regione così ricca di civiltà e di meriti potrà segnare una svolta”. Quattro anni dopo si può dire che Rossi e Marson non hanno tradito questa aspettativa: da martedì scorso la Toscana ha un Piano Paesaggistico Regionale, il primo redatto insieme al ministero per i Beni culturali.

Ma che cos’è un Piano Paesaggistico? È un lavoro enorme (a quello toscano ha lavorato un centinaio di tecnici) che innanzitutto “fotografa” l’intero territorio regionale, in tutta la sua complessità di geomorfologia ed ecosistemi, sistemi agrari, produttivi e urbanistici. Dopo il Piano, l’evanescente definizione di “paesaggio toscano” non coincide più con la collinetta coronata da cipressi, ma si traduce in una montagna di carte dettagliate, schede, elenchi di beni naturali, paesaggistici, archeologici. Ora sappiamo esattamente cosa vogliamo difendere, e cosa, e come, possiamo usare. Già, perché un Piano è esattamente il contrario di un vincolo: quest’ultimo strumento (prezioso, ma limitato) mi dice quello che non posso fare in un certo posto, mentre il Piano dice come, dove e quanto la Toscana vuole continuare a crescere.

A crescere in modo uniforme e (appunto) pianificato: evitando la balcanizzazione del territorio dovuta al moltiplicarsi e all’intrecciarsi delle competenze. E, soprattutto, a crescere in modo sostenibile: tenendo ben presente che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie” (così una sentenza del Consiglio di Stato del 29 aprile scorso).

L’approvazione del Piano toscano ha una forte valenza politica nazionale. In un momento in cui Matteo Renzi dice che le regole e le soprintendenze sono un intralcio allo sviluppo (leggi: al cemento), è fondamentale far capire che dall’altra parte non ci sono solo i “no” dei vincoli: ma c’è anche la capacità di una comunità di decidere come trasformare il proprio territorio in modo responsabile e unitario. Come dire: non ci sono solo gangster e sceriffi, c’è spazio anche per un progetto di crescita condivisa. Come ha scritto Enrico Rossi (nel suo Viaggio in Toscana, in uscita presso Donzelli) “il Piano offre una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto”.

Certo, nel Piano ci sono anche rigorose prescrizioni: come, per esempio, quelle che dicono dove non si potranno collocare impianti eolici o centrali elettriche a biomasse. Per capirsi: se il Molise si fosse dato un simile Piano, il suo territorio e la sua archeologia non sarebbero state massacrate da un eolico selvaggio che solo gli sforzi eroici del Direttore regionale del Mibac Gino Famiglietti stanno ora arginando. E se lo avesse fatto l’Emilia Romagna, non rischieremmo di perdere definitivamente il Palazzo San Giacomo a Russi, minacciato da una centrale a biomasse.

Nei giorni precedenti all’approvazione la discussione si è accesa soprattutto sul futuro delle cave delle Apuane. Ma nonostante le minacce e gli insulti della lobby del marmo, la Giunta ha sostanzialmente tenuto. Le associazioni ambientaliste hanno ragione a lamentare alcuni gravi cedimenti, ma ora le vette sopra i 1200 metri saranno finalmente salve, alcune cave saranno chiuse, e non sarà più possibile aprirne nei territori vergini del Parco delle Apuane. E soprattutto ogni futura decisione sull’apertura di nuove cave dovrà passare attraverso un percorso decisionale aperto ai cittadini: insomma, il Piano dà ottimi strumenti alla resistenza di chi si oppone al genocidio delle montagne del marmo.

Il merito principale va alla competenza e alla tenacia della mite e preparatissima Anna Marson, ordinaria di Pianificazione territoriale allo Iuav di Venezia e assessore alla Pianificazione: il suo lavoro dimostra che il rapporto tra sapere scientifico e amministrazione pubblica non deve per forza ridursi alle complici consulenze del Mose o dell’Expo. Il successo politico, invece, è di Enrico Rossi: se troverà il coraggio di riunire e rappresentare l'anima di sinistra che ancora sopravvive nel Partito democratico, avrà nel Piano Paesaggistico il suo miglior biglietto da visita.

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