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Casa della cultura, 3 luglio 2018. La città come custode della memoria di tutte le storie traumatiche dell'umanità. Una recensione che diventa riflessione su Venezia e del rischio che questo ruolo importante della città sia soffocato dalla sua mercificazione. (a.b.)

Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo di Adachiara Zevi (Donzelli, 2014) non è un libro recentissimo. Ma non è inutile leggerlo oggi - o rileggerlo, se lo si è già fatto - per più di una ragione: anzitutto perché mai come in questo momento ci è dato di assistere, fra negazionismo e revisionismo, al rischio della rimozione della memoria degli eventi traumatici occorsi in Europa nel secolo scorso, degli eccidi e delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di cittadini e di intere comunità di ebrei, sinti, rom; poi - e questa è la ragione per la quale il suo commento è ora ospite di Città Bene Comune - perché la sua lettura, intersecando alcuni degli interventi realizzati a partire dal dopoguerra nelle città e nei luoghi dove tali eventi sono accaduti, fornisce un forte stimolo a riflettere sul ruolo che la città può ancora avere nel perpetuare la memoria di eventi che avvengono nel nostro tempo: la città fisica, con la sua durata nel tempo, con i percorsi e gli spazi che consegna alle generazioni future, tanto più necessaria nel momento in cui vengono meno i testimoni di ciò che vi è realmente accaduto.

Non ci si allarmi per il titolo deliberatamente ermetico del libro perché è nello stile dell'Autrice darne di inconsueti e provocatori, ma presto rivelatori, alle sue corposissime opere: come quel Peripezie del dopoguerra nell'arte italiana (Einaudi, 2006) che, ribaltando il rapporto consuetudinario fra i momenti dell'arte e i contesti nei quali essi si trovano, incrocia protagonisti, tempi, luoghi e correnti, pervenendo ad efficacissimi risultati interpretativi. Questo apparente ermetismo del resto scompare già con il sottotitolo; e, subito dopo, nelle prime righe dell'introduzione:

«Monumenti per difetto… Difetto di cosa? Di 'monumentalità', se per essa si intendono alcune prerogative generalmente attribuite ai monumenti: unicità, staticità, ieraticità, persistenza, ipertrofia dimensionale, simmetria, centralità, retorica, indifferenza al luogo, aulicità dei materiali, eloquenza, esproprio delle emozioni... Una storia parziale - dunque - non esaustiva, non una ricognizione che annoveri e classifichi monumenti e memoriali a seconda dei luoghi, dei soggetti, dei destinatari... Una storia non obiettiva ma settaria, che… privilegia la sobrietà sulla ridondanza, l'afasia sull'eloquenza, la sottrazione sull'enfasi, la modernità sul passatismo»

Adachiara Zevi ci prende dunque per mano, e ci accompagna in un lungo e articolato percorso: che parte da Roma, dal mausoleo che ricorda l'eccidio delle Fosse Ardeatine, e si conclude nelle tante città italiane che ospitano oggi gli eventi delle "pietre d'inciampo". Di questo lungo viaggio le tappe salienti sono Roma, Gerusalemme, Udine, Amburgo, San Francisco, Washington, Berlino, Boston, Amburgo (di nuovo), Saarbrüchen, Kassel, Berlino (di nuovo), Trento, Berlino (ancora), Washington (ancora), Berlino (nuovamente), Budapest, Berlino e Budapest (ancora), New York, Milano...
Ma cosa incontriamo - cosa l'Autrice ci fa incontrare - in queste città? Incontriamo sostanzialmente memorie: memorie di comunità diverse, di ebrei soprattutto in diversi paesi e città; ma anche di indiani d'America, di schiavi afro-americani, di sinti, di rom, di veterani del Vietnam. E intersechiamo luoghi, brani di città, frammenti di quartieri, lacerti di edifici, strade, piazze, rive, banchine, binari... Vediamone alcuni, fra i tanti che il libro propone.

Budapest - Memoriale delle Scarpe sulla riva del Danubio

A Budapest, lungo la riva sinistra del Danubio, poco distante dal Parlamento, sessanta paia di scarpe in ferro, di foggia antiquata, disposte a caso, dritte, capovolte, spaiate, come fossero state tolte frettolosamente, quasi ci si inciampa, ancorate alla banchina, evocano la memoria degli ebrei ungheresi uccisi fra il 1944 e il 1945 e gettati nel fiume.

A Berlino, dove i luoghi della memoria sono più numerosi che in ogni altra città, in uno slargo di Lindenstrasse, a pochi metri dal Museo Ebraico, una trama di panche in pietra, disposte com'erano quelle in legno ospitate all'interno, racconta che lì c'era la sinagoga: non ricorda dunque l'edificio, ma i suoi abitanti, evocandone l'assenza. Nella parte settentrionale della città, nella piccola piazza di Koppenplatz, la ricostruzione in bronzo di un interno, il pavimento in legno con sopra un tavolo e due sedie, una delle quali rovesciata, evoca l'ansia dell'abbandono precipitoso dei suoi abitanti. Nel vecchio quartiere di Scheunenviertel, sulle pareti di due case contigue a quella distrutta, sono affisse targhe che appaiono come annunci funebri con i nomi degli abitanti, le date del loro arresto, le professioni che esercitavano.

Poco più avanti, nello stesso quartiere, la proiezione sulle pareti esterne delle case superstiti di immagini delle case abitate dagli ebrei prima della loro deportazione, ne evocano la vita prima della tragedia. A Shöneberg, lungo Haberland Strasse, la strada dove avevano abitato Albert Einstein e Hannah Arendt, i pali della luce e della segnaletica ospitano ottanta targhe stradali che riproducono i decreti contro i residenti, e immagini stilizzate e multicolori che ne evocano gli obblighi, come le limitazioni alle professioni da loro esercitate, o l'interdizione ai luoghi della loro abituale frequentazione; oltre che mappe che mettono a confronto le distruzioni del quartiere negli anni che trascorrono dal '33 al '93.

Il richiamo alla memoria è affidato dunque a interventi discreti, non invasivi, pervasi dall'intento di evocare, piuttosto che descrivere e celebrare. Si assiste così a una progressiva contrazione visuale del "monumento", che conduce in più di un caso ad annullarne la presenza fisica: come ad Amburgo, nella centralissima Joseph-Carlebach-Platz, dove è poco più che l'impronta del tetto, appena tracciata a terra, a ricordare che lì c'era la più grande sinagoga del nord Europa. Nella stessa città, questa voluta contrazione visuale è programmaticamente controbilanciata da un coinvolgimento delle comunità nella realizzazione dell'evento, oltre che nella sua durata nel tempo: in un luogo periferico prossimo a un nuovo centro commerciale, oggi resta solo il ricordo di un "monumento" espressamente concepito perché scomparisse nel tempo: il monumento è - è stato - una colonna quadrangolare in piombo alta dodici metri, pesantissima, pensata in modo da abbassarsi progressivamente, fino a scomparire, man mano che gli abitanti del quartiere, prevalentemente immigrati, apponevano la loro firma sulle sue lisce pareti; vivrà per sette anni, fino alla scomparsa (non ne rimane che una piastra a terra, che ricorda cosa è successo); ma se nessuno avesse firmato - e le firme furono più di 70.000 - la colonna sarebbe ancora lì. È dunque lo spettatore che diviene co-autore, commenta Adachiara Zevi.

Ancora più radicale, in questa stessa direzione, è il "monumento invisibile" di Saarbrücken, che sparisce anch'esso, seppure in modo diverso: lungo il viale lastricato che porta al Castello, già quartier generale della Gestapo e ora sede del Parlamento della Saar, duemila dei sampietrini che lo pavimentano vengono divelti in modo casuale, incisi con altrettanti nomi dei cimiteri ebraici che esistevano nel 1939, e nuovamente interrati, ma rivoltati. È un lavoro che dura tre anni, svolto in collaborazione con studenti e membri delle sessantasei comunità ebraiche esistenti in Germania, e che dà luce a un "monumento orizzontale... che coincide con il pavimento, con la strada, con la città... dove - osserva l'Autrice - i nomi interrati, rivolti verso la terra, invisibili ai vivi, sono leggibili solo dai morti". Unica traccia di tutto ciò, la ridenominazione della piazza, che oggi è Platz des Unsichtbaren Mahnmals, Piazza del Memoriale Invisibile.

Monumenti sottoterra dunque, perché siano massimamente anti-monumentali; ma, come tali, intimamente intersecati con gli spazi urbani che li ospitano. Come, di nuovo, a Berlino, a August Bebel Platz, una delle piazze più importanti della città, a pochi passi dall'Unter den Linden, dove uno spazio ricavato sottoterra, ma qui visibile dai vivi, è coperto da una semplice lastra di vetro - a filo del pavimento, ci si può camminare sopra - che chiude una stanza bianca e luminosa, inaccessibile, contornata da scaffali di biblioteca, bianchi anch'essi, ma vuoti, capienti tanto da poter ospitare ventimila volumi: lo stesso numero dei libri di autori ebrei, comunisti e liberali messi al bando che qui furono bruciati dalle SA e dall'organizzazione studentesca nazionalista nel famigerato rogo del 1933. La si vede appena, questa commovente biblioteca, soprattutto per la flebile luce che di notte la annuncia: ma ha fatto sì che Bebel Platz divenisse un luogo straordinario, nel quale gli eventi di "Table of Free Voices" richiamano ogni anno da tutto il mondo persone dedite al riconoscimento della democrazia.

Berlino - Bebel Platz

Il libro di Adachiara Zevi non trascura certo l'incontro con edifici veri e propri, mausolei, musei e memoriali dell'olocausto, realizzati in varie città del mondo, ma privilegia quelli nei quali gli spazi e le architetture sono concepiti come "attivatori di memorie", piuttosto che come contenitori di oggetti e riproduzioni di eventi. Spazi che generano in chi li percorre "disagio e inquietudine, piuttosto che consolazione e conforto": dal Mausoleo delle Fosse Ardeatine, che incontriamo fin dalle prime pagine, "percorso da agire, non oggetto da contemplare" al Judisches Museum di Berlino, quasi alla fine, percorso anch'esso "claustrofobico, disagevole per le improvvise impennate, sterzate direzionali, disequilibrio dei livelli... labirintico, più che assiale o prospettico". Si capisce che il suo interesse - e dunque anche il nostro - è rivolto principalmente agli interventi che generano spazi, piuttosto che occuparli. Lo dimostra l'ampio commento dedicato al Memoriale per gli Ebrei assassinati in Europa - siamo nuovamente a Berlino - griglia di percorsi fra steli di calcestruzzo alte e continue, posate ortogonalmente seguendo l'ondulazione naturale del terreno; è l'intervento che per Adachiara segna il ponte fra il "monumento come percorso" - le Fosse Ardeatine appunto - e il "monumento come brano di città... campo integrato nel tessuto urbano... nel quale ci si imbatte senza saperlo passeggiando per il centro e il Tiergarten, che... lungi dall'indirizzare, lascia liberi di attraversare senza meta i suoi plurimi e labirintici percorsi….. che non indica cosa ricordare, ma suggerisce percorsi di memoria da seguire, liberamente, in solitudine, silenzio, introspezione".

Così, altrettanto integrato nel tessuto urbano - anche se in modo diametralmente diverso, perché qui occorre recarvisi deliberatamente, piuttosto che intersecarlo liberamente - va considerato il frammento della Stazione Centrale di Milano che ospita il Memoriale della Shoah Binario 21: questo è pur sempre un brano dell'infrastruttura più importante della città, centralissimo, che ci ricorda che lì, di fronte al Palazzo delle ex Regie Poste, al piano terra della stazione, i deportati venivano condotti nascostamente, per essere ammassati nei carri ferroviari che un apposito meccanismo elevatore poi sollevava per instradarli al vero piano dei binari nei convogli diretti ai campi di sterminio.

Luoghi urbani specifici dunque, nei quartieri, spesso nei centri. Che oggi ospitano sempre più diffusamente - e qui il libro di Adachiara Zevi si chiude - quei tanti tantissimi segni discreti, ma per questo più che mai eloquenti, visibili nelle pieghe di tante città che sono gli Stolpersteine, le "pietre d'inciampo" che abbiamo incontrato fin da sottotitolo: piccoli sampietrini interrati davanti alle soglie di abitazioni e luoghi di lavoro di deportati razziali, politici, rom, omosessuali, testimoni di Geova, militari, con la loro superficie liscia e lucente sulla quale è inciso il nome della persona che viene ricordata preceduto da "qui abitava", "qui ha studiato", "qui lavorava", con la data di nascita, la data dell'arresto, il luogo della deportazione, la data della morte... Posti a partire dal 1992, oggi sono tantissimi, più di 50.000, tutti rigorosamente uguali, in tantissime città di venti paesi europei - più di cinquanta in Italia - a formare "una grande mappa urbana... che consente di visualizzare sia la presenza ebraica sia l'estensione della rete della resistenza al nazi-fascismo, sfatando semplificazioni e luoghi comuni...". Oggetti che "diffondendo e decentralizzando la storia, diventano uno strumento formidabile offerto ai cittadini, soprattutto ai giovani, per conoscere il loro quartiere, una prova inconfutabile che quei fatti orribili, che si pensavano accaduti lontano, si sono verificati invece sotto casa... L'intero tessuto urbano è il loro humus... È la città dunque la responsabile della memoria dei suoi cittadini caduti". Nelle loro città di oggi.

È per questo che, al termine dell'itinerario che abbiamo percorso, sia pure con passo necessariamente affrettato, possiamo dire che questo libro offre alle nostre riflessioni un duplice messaggio, positivo e incoraggiante dapprima, ma poi presto allarmante. Un messaggio positivo quando dimostra che le città possono ancora incamerare memorie; che malgrado tutto esse sono ancora (e possono esserlo ancora di più) i luoghi massimamente vocati ad ospitarne di nuove - ad attivarne, direbbe Adachiara Zevi: memorie che vogliano sopravvivere, e che altrimenti rischierebbero di scomparire. Le città dunque, con la loro fisicità, con persone che le attraversano, ci vivono, vi sostano, vi si incontrano. Ancora oggi; ma come è sempre successo, a ben guardare. Ma allo stesso tempo un messaggio allarmante: perché questa forte convinzione, ottimisticamente sostenuta dall'Autrice in questo ora non più ermetico libro, pone se pure implicitamente un drammatico interrogativo, una sollecitazione a riflettere su quello che sta succedendo nelle nostre più amate città, nelle città storiche: quelle che consideriamo preziose e tanto più belle ed amate, proprio perché rivelano fisicamente i segni della storia che le ha modellate e il trascorrere delle generazioni che le hanno percorse adattandole alle loro mutevoli esigenze. In esse constatiamo drammaticamente la quotidiana aggressione di fenomeni sociali ed economici che rischiano di estinguerne i segni delle memorie gelosamente acquisite nel tempo: sia perché perdono progressivamente i loro abitanti, i testimoni impliciti degli eventi che vi si erano succeduti, che non si rigenerano più con il ricambio delle generazioni attraverso cui la memoria si era tramandata, ridotti progressivamente dall'invecchiamento e ora falcidiati dall'esodo; e sia perché in queste stesse città ci si accanisce con indifferenza e superficialità, se non con vera efferatezza, nella trasformazione dei luoghi che avevano custodito le memorie di questi eventi. Lo avverte esplicitamente la stessa Zevi nel corso delle sue peregrinazioni: come quando, parlando del Ghetto di Roma, accenna allo smarrimento di chi oggi lo percorre, o lo vive, trasformato in una sequenza ininterrotta di ristoranti, fast food, pasticcerie e alimentari kasher. O più sopra, quando dialogando con Dario Calimani coglie la sua irritazione per i molti luoghi dello sterminio "inghiottiti dall'avidità del turismo di massa: gli stessi campi di concentramento che diventano copie di baracche imbellettate, finzioni dotate di caffetteria, libreria, cambiavalute e sala conferenze; vere rappresentazioni ad uso del visitatore, prive della loro sventurata umanità... orrore estetizzato". E in qualche pagina prima, trattando dell'United States Holocaust Memorial di Washington, aveva parlato di "americanizzazione della Shoah".

Venezia - Monumento alla partigianana
Foto di Tommaso Saccarola

Tutto ciò sta dunque accadendo, e non può non turbarci per il destino delle nostre amate città; non può non richiamarmi la mia, la Venezia di questi ultimi anni, che pure aveva accolto civilmente, anche se l'Autrice non ne parla, segni sommessi dei medesimi eventi traumatici che altrove ci aveva fatto incontrare: nelle ridenominazioni di alcuni luoghi urbani, come la lunga riva che si affaccia sul bacino di San Marco, che fu Riva dell'Impero fino al dopoguerra, e che è ora Riva dei Sette Martiri a ricordo dei sette prigionieri politici lì fucilati dai nazisti nel 1944; la stessa riva che poco più avanti, di fronte ai giardini della Biennale, è la Riva dei Partigiani, affacciata su un corpo di donna morente adagiato sull'acqua che Augusto Murer scultore e Carlo Scarpa architetto concepirono nel 1961, in memoria delle donne veneziane che avevano partecipato alla liberazione dal nazifascismo; e poi, nella più recente acquisizione dei segni delle deportazioni, le ormai numerose pietre d'inciampo - le ultime sono state posate quest'anno in occasione della Giornata della Memoria - davanti alle soglie di abitazioni del Ghetto, ma poi in altri luoghi della città, anche luoghi di lavoro, come l'università Ca' Foscari, di cittadini ebrei deportati e morti nei campi di sterminio nazisti; tanto più commoventi nei loro messaggi, a Venezia più che altrove, perché muovendoci qui tutti a piedi non si può fare a meno quotidianamente di inciamparvi.

Anche Venezia dunque, che è tutta memoria, dimostra di saperne acquisire di nuova. Ma ciò accade nello stesso momento nel quale in molti dei suoi luoghi importanti, o che importanti sono stati, altre recenti memorie si sono perse, o si stanno perdendo: come le memorie del lavoro, di quella Venezia operaia che aveva animato e rinnovato la compagine sociale del '900, i cui luoghi sono oggi asserviti al turismo, imbellettati e depurati da ogni scoria che ne ricordasse la vitalità che li animava e le tensioni che avevano ospitato - le fabbriche della Giudecca, il grande molino Stucky, il Fontego dei Tedeschi, gli squeri e le tese dell'Arsenale; ma ora anche le case, gli spazi dei cittadini, i mercati e le botteghe, i canali i ponti e i bacini: consegnati al più redditizio mercato del turismo, ad un consumo che si avvale e lucra sulla storicità di questi luoghi.
Non accade solo a Venezia, lo sappiamo bene. E dunque questo libro, che ci fa riflettere su ciò che della storia di ieri la città riesce a salvaguardare e a tramandare e, per confronto, su ciò che va quotidianamente perdendo, è un libro importante.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

il manifesto, 13 giugno 2018. Le trasformazioni di quelli che erano spazi pubblici. Anche nelle stazioni abbiamo perso lo status di cittadini, e solo come consumatori possiamo trovare ristoro. (m.p.r.)

Ci sono luoghi e spazi della vita organizzata dalle origini millenarie, che hanno conservato per secoli, rinnovandole, le funzioni per cui erano sorte. Funzioni che nel giro di pochi anni sono state svuotate del loro antico scopo e simbolicamente annichilite. È il caso delle nostre stazioni ferroviarie. L’etimo latino di stazione rimanda allo stare, fermarsi in un luogo, una pausa nel cammino. Del resto, nell’antica Roma il termine statio indicava la tappa del servizio postale, così come sarà per la posta a cavallo nel corso del medio evo e per buona parte dell’età moderna.

Sino a pochi anni fa le stazioni ferroviarie, pur continuando a essere terminali di linee che conducono nelle varie città del Paese, hanno conservato questa funzione della tradizione, che faceva dei luoghi di partenza e di arrivo degli spazi pubblici di sosta, di riposo, di attesa e anche di incontro, di conversazioni occasionali. Sotto i nostri occhi, laddove è arrivata la modernizzazione del capitalismo neoliberista, tutto è silenziosamente cambiato. Pensiamo a Stazione Termini, il terminale della capitale, che insieme alla Stazione Centrale di Milano, è stata radicalmente ristrutturata. Era un luogo per viaggiatori che sostavano, in uno spazio comune organizzato per l’attesa e per il riposo, e oggi è diventato un emporio caotico dove lo spazio circostante è letteralmente sotto assedio.

Negli androni del pian terreno e in quelli del sotterraneo, non c’è spazio che per le merci. Non esistono pareti, ma vetrine di magazzini che si rincorrono per sale e corridoi senza soluzioni di continuità. Come se non fosse già abbastanza ricca l’offerta, si aggiungono giganteschi box prefabbricati, piazzati in mezzo agli androni, negozi, vetrine, luci. In alto, dove rimane ancora spazio superstite, numerosi schermi e display, armonie sonore per le glorie dei prodotti, per l’illimitata felicità dei consumatori.

La stazione non è più una stazione. Non c’è un angolo, una panchina su cui sedersi. Solo nei sotterranei, per un’errore originario degli architetti, che hanno costruito un paio di panchine in pietra (non asportabili) attorno a delle finte fontane, ci si può sedere, ma dopo avere atteso il proprio turno, perché sono continuamente occupate e tenute d’occhio da folle di stazionanti che attendono il loro turno.

Nel primo piano, un tempo esistevano dei sedili in plastica che ora sono stati smantellati. C’è tutta la società capitalistica della nostra epoca in una sola foto. Nei corridoi di passaggio tra una sala e l’altra, i senza casa seduti su sedie pieghevoli, con accanto qualche coperta per la notte, sotto valigie che devono camuffare il bivacco regolare con finte attese di partenze. Dovunque torme di giovani seduti per terra , con i loro pesanti zaini portati in giro per il mondo, anziane signore che si appoggiano come possono sul bordo metallico che circonda la vetrina della libreria. Altri passeggeri di varia età, il popolo plurietnico delle stazioni dei giorni nostri, vagano come anime del Purgatorio in attesa del loro treno.

Non ci si può sedere nella Stazione. Lo si può fare umiliandosi, distesi su un pavimento o nei bar, nei punti di ristorazione: solo se ci si spoglia dell’abito di cittadino e si indossa quello del consumatore. Solo se si paga si ha diritto alla stazione. Il viaggiatore deve camminare, perché altrimenti si isola in uno spazio proprio e non osserva, non acquista qualcosa di cui non ha bisogno, sfugge al messaggio pubblicitario. E deve pagare anche per soddisfare le sue necessità più elementari e improrogabili. A Stazione Termini, come ormai in tanti altri luoghi un tempo pubblici, non esistono toilet, se non a pagamento. Chi vi si reca può osservare la mirabilia elettronica che si deve affrontare solo per fare la pipi. Un cancello a vetri che dà accesso al bagno solo se inserisce in apposita feritoia una moneta da 1 euro: ben 1936 lire della nostra vecchia moneta. Di sicuro, visto l’asettico nitore del luogo, il servizio viene gestito da qualche società specializzata, probabilmente quotata in borsa. Ma questo non è necessario per stabilire che il capitale oggi cerca profitti anche nelle nostre deiezioni organiche.

Dunque, Stazione Termini offre oggi l’immagine esemplare del modello di società verso cui ci trascina il capitalismo dei nostri giorni. Un spazio sociale decomposto in una miriade di presidi privati dove è impedita anche una comunità provvisoria, dove tutti devono svolgere compiti utili, quelli di consumatori, anche nei momenti di pausa e di attesa. Un frammento di vita in cui il dominio dell’economia mostra il suo volto ormai assillante ed ostile. Un microcosmo della città che muore.


Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

A Pisa e San Giuliano Terme, il 29-30 giugno 2018, una nuova tappa del percorso organizzato dalla scuola di eddyburg sul presente e sul futuro di un fondamentale strumento per il governo del territorio

Nel seminario intendiamo:

• arricchire le riflessioni critiche sul rapporto tra piano urbanistico, politiche pubbliche e iniziative civiche, attraverso un incontro pubblico;
• completare il nostro percorso con una riflessione sul rapporto tra patrimonio territoriale e spazio pubblico, attraverso una visita guidata a San Giuliano Terme;
• sottoporre a una verifica collettiva l’esito dell’attività svolta negli incontri di Pistoia e di Torino

Sede
I Cappuccini - Centro sociale,
via dei Cappuccini 2B - Pisa

Programma
Venerdì 29 giugno – ore 10.30-13.30

Spazio pubblico e trasformazioni della città esistente.
Seminario a ingresso libero e gratuito (l’iscrizione consente di riservare il posto)

Venerdì 29 giugno – ore 15.30-18.30
Fare spazio alle attività culturali: iniziative civiche, pubblica amministrazione prove di dialogo per una cooperazione virtuosa
Tavolo di lavoro – riservato agli iscritti

Sabato 30 giugno – ore 10.00-13.30
Il patrimonio territoriale come spazio pubblicoPasseggiata urbana – riservata agli iscritti

Iscrizioni
Sono ammessi 30 partecipanti alle attività riservate agli iscritti. L’iscrizione avviene con una e-mail a Monica Luperi (monica.luperi@gmail.com). Sono a carico dei partecipanti i costi di viaggio e soggiorno. Gli iscritti devono specificare se venerdì 29 partecipano al pranzo a buffet all'interno della struttura.

Qui il programma dettagliato

Analisi di esperienze in atto e percorsi da intraprendere per l'uso socialmente corretto degli spazi abbandonati per trasformare le città in luoghi in cui i valori dell'uguaglianza e della democrazia siano la regola e non l'eccezione.

«Vuoti a prendere. Esperienze autogestite e organizzate dal basso per la costruzione di pratiche comuni. Giornata di autoformazione promossa da 20 pietre, ESA e Fuorimercato».

Le città sono implose, fatte a brandelli. In parte gentrificate sotto l’assalto dei fondi speculativi, in parte degradate, abbandonate a sé stesse. Non potrebbe essere altrimenti: le città sono le fedeli concretazioni delle crescenti disuguaglianze sociali e dell’abdicazione dei poteri pubblici. Sull’utilizzo degli spazi urbani si gioca una partita fondamentale dell’assetto dei poteri economici e politici. Protagonisti sono i movimenti urbani di riappropriazione dei luoghi della socialità, a partire dalla residenza e di resistenza alla “messa a reddito” delle aree di pregio (turistiche, residenziali di lusso, commerciali, direzionali di rappresentanza… dove maggiore é la possibilità di estrarre rendite).

I nodi pulsanti di questi movimenti urbani sono i centri autogestiti dalle comunità degli abitanti. “Arche di autonomia”, le definirebbe Raul Zibechi. Aree verdi e immobili liberati e riattivati per dare vita a servizi interculturali, welfare mutualistico, piccole attività economiche cooperatistiche ed ecosolidali, coworking…, insomma, autentica “rigenerazione urbana”. Ogni città è punteggiata da lotte per la conquista di questi spazi pubblici, uniche alternative alla individualizzazione solipsistica delle relazioni umane nell’età dell’iperliberismo. Nelle crepe del lacerato tessuto urbano sono nate esperienze di tutti i tipi: dai centri sociali occupati alle case del popolo, dalle banche del tempo ai comitati di quartiere, fino ai “beni comuni” riconosciuti tramite percorsi partecipativi.

A Bologna è stato creato un Comitato per la promozione e la tutela delle esperienze sociali autogestite (ESA) che nei giorni scorsi ha organizzato assieme alla rete dei produttori Fuorimercato un incontro di “autoformazione” presso la casa del popolo "Venti pietre allo scopo di consolidare i legami di solidarietà tra le varie realtà autogestite cittadine, aumentare il loro peso contrattuale con le varie controparti proprietarie e studiare gli strumenti giuridici-normativi più idonei per poter resistere e gemmare. Anche a Bologna ogni esperienza di autogestione ha storie e contesti diversi. Alcune tengono tenacemente il punto della occupazione: CSOA, come Crash ed XM24. Altre sono riuscite a strappare convenzioni con gli enti pubblici proprietari (è il caso del centro sociale Làbas dopo le imponenti manifestazioni popolari del settembre scorso a seguito dello sgombro forzato dall’ex caserma Masini) o comodati d’uso gratuiti temporanei con i proprietari privati di immobili dismessi (è il caso del "Venti pietre" nell’ex concessionaria automobilistica di via Marzabotto e dell’associazione Pianificazioni urbane). Altri usano il regolamento dell’Amministrazione condivisa, che prevede la stipula di “patti di collaborazione e sussidiarietà” (art 118 riformato della Costituzione) tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni, promosso da Labsus in molte città italiane. Per tutti, i modelli culturali generali di riferimento sono le Giunte del buon governo zapatiste in Chiapas e le esperienze di autogoverno federaliste, ecologiste e femministe nella regione curda del Rojava (vedi il volume di Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, elèuthera, 2017, presentato all’incontro). Ma esistono molte altre esperienze più vicine a noi come quelle intraprese a Barcellona, che sono state raccontate da Lucas Ferro Solè di Podemos Catalugna.

Non esistono modelli unici – è stato detto -, ma il punto sicuramente più avanzato conquistato dai movimenti urbani in Italia è quello di Napoli [Je so' pazzo - n.d.r]. Descritti da Maria Francesca Di Tulio e Giuseppe Micciarelli dell’ex Asilo Filangieri, sono oramai una decina gli immobili di proprietà del Comune partenopeo cui è stato conferito lo status di “bene comune” in uso collettivo, autonormato dalle assemblee di gestione e riconosciuti da una serie di delibere comunali.

Da qualche tempo – su proposta del giurista Ugo Mattei, intervenuto in videoconferenza – è stata proposta la stesura di una Carta d’uso civico dei beni comuni urbani e una proposta di legge popolare nazionale che possa favorire le forme di riuso degli immobili abbandonati o mal utilizzati. Anche il Diritto deve diventare un campo di battaglia sociale per la conquista di nuovi strumenti giuridici (per produrre nuova legalità dal basso) per il “diritto alla città”, all’abitare e al vivere degnamente. I temi cruciali in discussione sono l’accesso e la gestione. É necessario liberare le amministrazioni pubbliche dal cappio del “pareggio di bilancio”.

La scelta sugli usi del patrimonio immobiliare – ad iniziare da quello pubblico, ma non solo – deve tornare ad essere una decisione discrezionale politica, cioè urbanisticamente, socialmente ed eticamente orientata, non condizionata dai “benefici economici” immediati realizzabili. Al “danno erariale” e ai “mancati introiti”, che la Corte dei Conti, ultimo anello della catena tesa dalla Troika, puntualmente contesta alle amministrazioni pubbliche che si rifiutano di “fare cassa” con la svendita dei beni pubblici, va contrapposto il concetto di “redditività sociale” dei beni comuni. Vanno, cioè, calcolati e misurati gli “impatti positivi” non monetari, extra-finanziari, quali la crescita del “capitale” umano e sociale, la reputazione e la bellezza dei luoghi. Concetti che vanno presi sul serio e fatti uscire dalla retorica corrente. Non serve scomodare premi Nobel (come la economista Elinor Ostrom) per capire che una comunità locale ricca di relazioni sociali solidali e di sistemi di auto-mutuo-aiuto crea più benessere duraturo per la popolazione che non una città privatizzata, attraversata da conflitti classisti, ostile nei confronti delle donne e degli stranieri, produttrice di disagi sociali e psicologici, inaffettività e violenza.

Certo, la condizione preliminare per consolidare e allargare le esperienze di autogestione è la mobilitazione popolare che denuncia lo scandalo dello spreco anche economico degli immobili in disuso (8 milioni di edifici abbandonati in Italia, hanno riportato Isabella Inti e Verther Albertazzi di Temporiuso e Planimetrie culturali). Va poi dimostrato attraverso azioni concrete (creazione di centri polivalenti, sportelli legali e servizi di welfare di prossimità, empori e mercati contadini, sistemi di scambio non monetari e piattaforme tecnologiche collaborative…) quali possono essere i benefici realizzabili se a gestirli sono le comunità locali. “Domini collettivi” (come recita la nuova legge che finalmente riconosce gli usi civici consuetudinari delle antiche comunaze), “Comunità patrimoniali “ (come recita la Convenzione di Faro sui beni colturali, mai ratificata dall’Italia) che adottano, curano e fanno propri luoghi e immobili percepiti come beni utili alla collettività, necessari a rendere effettivi i diritti fondamentali individuali all’abitare dignitosamente. I beni comuni sono quindi una forma di possesso che tutela i beni e socializza i benefici.

Non si tratta di sgravare gli enti proprietari (pubblici o privati) dalle loro responsabilità anche costituzionali (l’Articolo 41 sull’utilità sociale dell’iniziativa economica, privata e pubblica, è l’emblema della “Costituzione inattuata e tradita”), ma al contrario di farli uscire da uno stato di colpevole passività. In concreto: manutenzioni straordinarie, allacciamenti, guardiania e altri servizi onerosi vanno mantenuti in capo all’ente proprietario. Le autogestioni non devono nemmeno essere cavalli di Troia per l’esternalizzazione di servizi al “terzo settore”. Le assegnazioni tramite bandi, gare e concessioni (procedure apparentemente trasparenti e neutrali, che piacciono tanto ai tutori della legalità astratta e dell’equilibrio contabile del bilancio dello stato) in realtà sono trappole ideologiche che mettono in competizione i gruppi socialmente attivi, li obbligano ad aziendalizzarsi e li assoggettano alla logica del clientelismo. Per fare comunità capaci di autogoverno (dotate di capatibilities, direbbe Martha Nussbaum ) è necessario - al contrario - facilitare forme di gestione aperte, dirette, libere, responsabilizzanti. Il modello è quello delle assemblee di gestione ben organizzate in tavoli tematici e gruppi operativi, aperte a tutte e a tutti coloro che hanno qualche progetto da realizzare, la volontà di relazionarsi con l’altro da sé e il desiderio di non smettere di imparare dagli altri.

Casa del popolo Venti Pietre, Bologna, 12 maggio 2018

L'articolo è inviato contemporaneamente a Comune-info

Il 2 aprile 1968 è stato approvato il decreto interministeriale sugli standard urbanistici che sancisce l'obbligo di riservare, nei piani urbanistici, almeno 18 mq di suolo destinato a spazi pubblici e attività collettive per ogni abitante. Un obbligo posto a garanzia di un diritto sociale.

Come ci ricorda Edoardo Salzano, si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. Si può dire che l’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.

Attraverso la pianificazione urbanistica possiamo considerare la città a partire dal pubblico e dal pedonale, anziché dall'individuale e dall'automobilistico. Ogni città contiene un potenziale "sistema" formato dall'insieme delle aree qualificanti in termini naturalistici, storici, sociali, culturali, che possono essere collegate fra loro sia attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli. Un potenziale, unico e non riproducibile, che può offrire agli abitanti, alle organizzazioni sociali e alle istituzioni pubbliche gli spazi necessari per fornire, collettivamente, risposte alle esigenze e alle aspirazioni delle singole persone.

Gestire il patrimonio ereditato dall’applicazione degli standard urbanistici aprendolo alle iniziative civiche, considerare gli spazi pubblici come il fulcro della rigenerazione urbana, recuperare all’uso pubblico luoghi degradati e sottoutilizzati, guardare alla fruizione dei beni culturali come a un elemento peculiare della dimensione pubblica attraverso il quale rafforzare l’idea stessa di cittadinanza, ricomporre e riorganizzare il magma di costruzioni della città dello sprawl facendo leva sul tessuto diffuso di attrezzature e servizi di prossimità ancora riconoscibili, coniugare le esigenze di sicurezza e salubrità ambientale attraverso il palinsesto di aree verdi presenti all’interno delle aree urbane. Questi sono solo alcuni dei compiti che possono essere svolti dalla pianificazione urbanistica attraverso un impiego appropriato degli standard urbanistici.

La legge ponte e il decreto sugli standard urbanistici hanno rappresentato uno dei punti più alti della storia urbanistica italiana. Così come cinquant’anni fa, anche oggi possiamo considerare il rapporto fra metri quadri di suolo pubblico e abitanti non come una mera questione funzionale, ma come l'espressione della sostanza politica dei piani e delle politiche urbane. Anche oggi, come allora, le garanzie fornite attraverso gli standard urbanistici sono, al contempo, uno stendardo da rivendicare e una piattaforma sulla cui base andare avanti.

Nel sito della scuola di eddyburg sono consultabili i documenti raccolti in occasione delle edizioni del 2009 e del 2017 dedicate agli spazi pubblici. Qui il link alla lectio magistralis di Edoardo Salzano sugli spazi pubblici, tenuta a Pistoia nell’aprile 2015, e all'intervista sugli standard urbanistici curata da Andrea Pantaleo.

Qui le attiviste e gli attivisti che hanno dato nuova vita a un ex manicomio raccontano per eddyburg come hanno, con l'aiuto della città, rovesciata la storia delle tecniche di repressione sociale in un presente di solidarietà collettiva.


Dove era prigione abbiamo fatto libertà

Che cos’è, oggi, l’ex-OPG “Je so’ pazzo”? Per capirlo fino in fondo non si può prescindere dal racconto di ciò che è stato ieri, il riscatto e la trasformazione attuali hanno infatti radici molto profonde, sono la risposta a tante vite negate e storie mai raccontate che si sono consumate tra le mura dell’imponente struttura di via Imbriani, a Materdei, nel cuore di Napoli.

Se oggi possiamo raccontare questa storia è grazie al lavoro di tanti volontari, prima di tutto degli psichiatri, degli psicologi, degli storici, dei sofferenti psichici e delle loro famiglie, che ci aiutano quotidianamente a ricostruire la memoria di questo luogo – e a trasmetterla anche attraverso le tante visite organizzate con le scuole della città e iniziative sulla storia delle istituzioni totali che ospitiamo al suo interno – e che animano il nostro sportello di ascolto, una delle tantissime attività gratuite che si svolgono presso l’ex-OPG.

La storia del complesso edilizio

Se “OPG” sta per Ospedale Psichiatrico Giudiziario, se lo chiamiamo “ex” perché da tempo non è più un luogo di prigionia e di libertà negata, la storia racchiusa in queste mura è molto più antica e complessa di così: è nella seconda metà del Cinquecento, infatti, in particolare nel 1566, che le prime tracce di una struttura simile a una masseria vengono documentate nell'opera cartografica di Antoine Lafrery.

Fra il 1572 e il 1574 questi terreni della cosiddetta collina “Infrascata”, vengono acquistati dagli Agostiniani di San Giovanni a Carbonara, i frati Cappuccini allora risiedenti nell'antica sede del convento di Sant'Eframo Vecchio a Capodimonte, nell'attuale zona dei Ponti Rossi. La loro idea è semplice e ambiziosa allo stesso tempo: fondare una nuova chiesa e un nuovo convento di “forma quadra e sufficiente ampiezza” per potersi trasferire in via definitiva in un posto più salubre di quello abitato fino a quel momento.

I lavori di edificazione iniziano nel 1575 grazie alle elargizioni della nobildonna Fabrizia Carafa a favore dei preti mendicanti e le prime strutture vengono immediatamente descritte come “magnifiche” e “fuor dell'usato” per la loro grandiosità. Il monastero è dotato di biblioteche, archivi e di una grande farmacia; probabilmente assume col tempo la funzione di convalescenziario, una sorta di infermeria in cui le persone, pur non avendo bisogno di cure particolari, sono aiutate a “guarire” grazie a lunghi soggiorni. 160 cellette ospitano i religiosi, oltre al chiostro, i cortili, le aree comuni.


L’incendio e la ricostruzione:

da convento a ospizio carcerario

Nel 1840 un grande incendio distrugge gran parte del complesso. All'interno della chiesa vanno persi gli affreschi della volta, opera di Filippo Andreoli e l'altare di Antonio di Lucca, maestro marmoraro del centro antico. Le uniche opere rimaste sono una statua di San Francesco d'Assisi, opera di Francesco Sammartino e una statua della Madonna giunta a Napoli dal Brasile nel 1828. Il re Ferdinando II delle Due Sicilie dispone l'immediato restauro del complesso, che riapre così già nel 1841, con uno stile architettonico rinnovato, prevalentemente neoclassico, in linea col gusto artistico dell'epoca. Nonostante la pronta ristrutturazione l'equilibrio della vita conventuale dura indisturbato fino al 1865 quando, dopo l'Unità nazionale, la Legge di Soppressione degli Enti Ecclesiastici porta allo sgombero dei frati Cappuccini e tutto il comprensorio del Sant'Eframo Nuovo è sequestrato e poi destinato all'uso di “Casa di Correzione ed Ospizio Carcerario”. Libri, manoscritti e qualsiasi traccia della vita di convento sono rapidamente dispersi. Nel 1898 nuovi lavori di ristrutturazione predispongono l'intero complesso conventuale all'organizzazione architettonica degli spazi che possiamo notare ancora oggi.

Da carcere per adulti, però, graduali trasformazioni si susseguono negli anni fino all'istituzione di un vero e proprio Manicomio Criminale: nel 1912, infatti, il carcere di arricchisce di una Sezione Antropologica e Medico-Legale per detenuti con problemi psichici provenienti da tutto il Regno d'Italia. La finalità è quella di tenerli in osservazione per accertare la diagnosi ed individuare eventuali intenti simulatori dei detenuti. Nel 1921, ancora, si istituisce una vera e propria Infermieria Psichiatrica delle carceri di Napoli; nel 1923, per Decreto Ministeriale, la struttura sarà denominata “Manicomio Giudiziario”, entrando a tutti gli effetti in funzione nel 1925.

Da questo momento in poi il Sant'Eframo Nuovo è ancora una volta ampliato per far posto agli internati ed essere adattato alla sua nuova funzione. Dell'antica struttura restano i tre chiostri, due chiese sovrapposte e pochi reperti, poi trasferiti altrove.


Da carcere a manicomio criminale

Nel 1975 il manicomio è convertito in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Nel 2000 alcune zone della struttura vengono dichiarate inagibili e questo porta al progressivo trasfermento degli internati presso il Centro Penitenziario di Secondigliano. La dismissione dell'intero complesso risale al 2007.

In quasi 500 anni di storia questo posto è stato: un podere incolto posseduto da nobili, un convento, poi un carcere, un manicomio e infine un ospedale psichiatrico giudiziario. Di qui è passata la storia delle tecniche di repressione di tutta la nostra società.

Il Sant'Eframo Nuovo è sempre stato un posto isolato, enorme e imponente, eppure quasi invisibile, inaccessibile, un posto negato anche negli anni dell'abbandono, dal 2007 al 2015, quando è stato e lasciato al saccheggio, all'umidità, all'erosione.


Nasce Je so’ pazzo

Dopo otto anni di incuria e desolazione, il 2 marzo del 2015 lo stabile viene occupato da un gruppo di circa sessanta persone, giovani, studenti, lavoratori e disoccupati. Nasce così l'esperienza della comunità “Je So Pazzo”, l'interruzione di un destino di chiusura, violenze e dolore, l'apertura di tutti i cancelli.

Per noi occupanti liberare questo luogo non ha significato riempirlo come fosse un contenitore vuoto, ma confrontarsi con la storia della struttura, rispettarne la memoria, e allo stesso tempo ripensare gli spazi per le nuove esigenze. Progettare un luogo per destinarlo ad un uso pubblico (o, ancor meglio, comune) è già un rilevante atto sociale; farlo confrontandosi costantemente con la comunità che ne usufruisce, ascoltando e assecondando i differenti bisogni, lo trasforma in un atto politico.

Parlare nella nostra esperienza vuol dire inevitabilmente anche parlare della nostra città, dell’aria che tira, delle speranze e dei progetti che abbiamo per il futuro, parlare cioè di Napoli dal nostro punto di vista. In questa terra spesso ricordata solo per i “morti ammazzati”, la disoccupazione e la “monnezza”, negli ultimi anni sta cambiando qualcosa, tanto che si inizia a parlare di “anomalia”, di “laboratorio napoletano”. Di questo cambiamento facciamo parte, nel nostro piccolo, anche noi, con l’esperienza dell’ex-opg occupato

“Je so’ pazzo” proprio come la canzone di Pino Daniele che tutti abbiamo cantato o fischiettato almeno una volta, perché in una realtà dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere, preferiamo dichiararci pazzi, organizzarci per riprendere parola, costruendo – dal basso – un’alternativa al mondo grigio e disperato che osserviamo quotidianamente.


Entriamo per cambiare

È il marzo 2015 quando siamo entrati per la prima volta nell’OPG di Sant’Eframo di Materdei ci siamo trovati di fronte ad una struttura immensa, abbandonata, vandalizzata, dalla quale nel tempo avevano sottratto di tutto: utensili, fili elettrici, tubi, persino i letti e i tavoli che costituivano l’arredo delle celle. Un luogo sempre vissuto dagli abitanti del quartiere come distante, ostile, come “un buco nero” incastrato nei vicoli stretti di Materdei.

Fin dai primi giorni dalla nostra entrata, un numero incalcolabile di persone ha sentito il bisogno di venirci a trovare: chi per portare generi di prima necessità trasportando buste piene di torte, rustici, caffè e pasta al forno; chi armato di pennelli e rastrelli per dare una mano ai primi (e più che necessari) lavori; chi semplicemente per curiosare o portare un sorriso.

Se siamo riusciti a restare, nonostante le difficoltà di ogni genere, è stato solo per due ragioni: perché eravamo determinati in quanto sentivamo che quella era un’occasione unica per fare qualcosa per la nostra città e perché la gente intorno a noi ci ha voluto subito bene e ci ha aiutato in ogni modo possibile e immaginabile. Non solo pasti e coperte, ma aiuto concreto nel mettere a disposizione gratuitamente le proprie competenze. È così, grazie a questo esercito di imbianchini, mamme e bambini, avvocati, architetti, medici, cuochi e atleti che si è unito a quello di noi occupanti della prim’ora, abbiamo cominciato a recuperare gli spazi della struttura che si presentava in uno stato di abbandono, sporcizia e degrado assoluti: il primo e il secondo chiostro erano ingombri di rifiuti e quasi totalmente inaccessibili a causa della vegetazione cresciuta a dismisura negli anni, occupando percorsi e portici.

La città è con noi: aiuta e chiede

Le prime settimane sono state caratterizzate anche da numerose visite guidate alla struttura, da concerti, reading e spettacoli per la raccolta fondi, da assemblee con gli abitanti del quartiere, da nottate passate ad organizzare le attività per i mesi successivi. Era impossibile, infatti, ignorare le idee e le proposte di chi iniziava a vedere quel luogo, che fino a quel momento era stato vuoto e inospitale, come una casa di tutti, una casa del popolo, da riempire di attività sociali utili alle esigenze del quartiere e della città.

Analogamente non si sono potute ignorare le richieste, esplicite e improrogabili, dei numerosi piccoli abitanti che si sono presentati con scarpette ai piedi, pallone sotto il braccio e magliette del Napoli, che esigevano la riapertura del vecchio campetto di calcio della struttura, inaugurando così la nascita della prima attività sociale: il calcetto popolare. In contemporanea il neonato gruppo del “teatro popolare” ha provveduto a intonacare e ritinteggiare le pareti del piccolo teatro, a buttare giù il vecchio palco ormai inutilizzabile e ricostruirne uno nuovo, a sistemare le quinte, a preparare reading e spettacoli.

Ricordiamo ancora l’emozione di vedere uno dei cortili dedicati, un tempo, al passeggio all'aperto dei detenuti, pieno di spettatori venuti ad assistere al primo spettacolo auto-organizzato all’interno della struttura, noncuranti delle piantane da salotto usate come fari, dei “tubi innocenti” usati come scenografia e dell’unico leggio traballante messo al centro della scena.

Da allora, in questi tre anni abbiamo ospitato nel nuovo teatro dell’ex-OPG circa cinquanta spettacoli teatrali, decine di concerti, abbiamo dato spazio a laboratori, per adulti e bambini, a sessioni di prove di gruppi teatrali del quartiere che prima non sapevano dove riunirsi, alle prove di una banda musicale e di un’orchestra sinfonica grazie alla quale abbiamo potuto “offrire” al quartiere e alla città concerti di musica classica a ingresso gratuito, mostrando così che la cultura, anche e soprattutto quella “alta”, deve e può essere accessibile a tutti.


Aperti sei giorni su sette

Tutti gli interventi sulla struttura, necessari per renderla funzionale alle nuove esigenze, sono stati fatti nell’ottica della conservazione della memoria storica del luogo, senza cioè dimenticare che quella struttura, che ora ospita spazi di gioco, momenti di approfondimento e di dibattito, è stata, in un tempo non lontano, un luogo di sofferenza e di reclusione.

Attualmente l’ex-OPG è aperto sei giorni su sette e ospita più di sessanta attività fisse settimanali completamente gratuite: corsi sportivi (danza, boxe, kung fu, pilates, corsi di yoga, di meditazione, arrampicata sportiva); una “camera del lavoro” e uno sportello legale ai quali si rivolgono lavoratori che hanno bisogno di consulenza e che vogliono incontrarsi per organizzarsi e lottare contro i licenziamenti, il lavoro nero, la privazione dei diritti sindacali; uno sportello per i migranti che necessitano di un aiuto per svolgere le pratiche per il permesso di soggiorno, per affrontare l’iter della richiesta d’asilo, per accedere alle cure sanitarie; la scuola d’italiano e corsi di lingue.

È stato istituito anche uno sportello di ascolto psicologico e psichiatrico e un ambulatorio (ginecologico, ortopedico, oculistico, cardiologico, di medicina generale) dove si fanno visite, consulti, ecografie, giornate di prevenzione, che sono diventati un punto di riferimento senzatetto e migranti, ma anche per tutti coloro che, pur conducendo vite “regolari”, con la crisi sono scivolati nella soglia di povertà, a dimostrazione che il sistema sanitario nazionale, purtroppo troppo spesso, specialmente al Sud, non riesce a garantire l'assistenza minima necessaria. Per combattere questo impoverimento dilagante raccogliamo medicinali, vestiti, giocattoli, che, grazie all’aiuto di alcune associazioni, distribuiamo con cadenza regolare a tutti coloro che ne hanno bisogno. Abbiamo un doposcuola aperto da settembre a giugno e un asilo condiviso dove le mamme si aiutano a vicenda a crescere i più piccoli. Inoltre (siccome vogliamo il pane, ma anche le rose!) abbiamo attivato tanti laboratori artistici tra cui disegno, fotografia, pittura, teatro, laboratori creativi e artigianali per bambini.

Un laboratorio di solidarietà

Se abbiamo potuto fare, nel corso di tre anni, tutto questo, senza finanziamenti da parte di enti pubblici o privati di alcun tipo, è stato solo grazie ad un popolo generoso, che ha voglia di attivarsi e di cambiare, di mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze, che sente che l’aria sta cambiando e vuole partecipare a questo cambiamento: in tutta Napoli negli ultimi anni c’è stato infatti un fiorire di esperienze di autogestione, di attivismo dal basso, di riappropriazione e riqualificazione di spazi abbandonati a scopo sociale e abitativo.

In estrema sintesi questo è quello che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma il nostro scopo non è certo solo quello di costruire un’isola felice o un luogo destinato a supplire alle carenze dello Stato. Vogliamo essere un laboratorio di solidarietà senza tuttavia smettere di pretendere quei diritti, propri dello stato sociale, che negli ultimi anni abbiamo visto ridursi al minimo.

Le “attività sociali” – ludiche, culturali, sportive – che organizziamo non sono solo un modo per trascorrere assieme il tempo o per soddisfare bisogni che vengono trascurati o negati, ma sono l’occasione per ritrovarci, crescere e trovare delle modalità di intervento comuni sul nostro territorio e sulla nostra città, per migliorarli, per prendere la parola. Da questo punto di vista, piano “sociale” e “politico” sono per noi strettamente intrecciati, sono la trama per partecipare attivamente alla vita pubblica e da cui avviare un processo di trasformazione radicale dell’esistente.

In questo consiste per noi il “potere popolare”: nel riprendersi la possibilità di scegliere e di decidere, nel partecipare attivamente alla vita pubblica.

Ciò che ci sembra utile e importante non è solo promuovere le idee in cui crediamo e portare avanti le battaglie che riteniamo necessarie, ma innescare intorno ad esse un vero processo di partecipazione. Crediamo infatti fortemente nell'attivazione di ampie fasce della popolazione che imparino a conoscere i meccanismi decisionali, a vigilare sul loro svolgimento, a imporre alle istituzioni le loro priorità e le loro soluzioni pratiche. Riteniamo che sviluppare la democrazia significhi metterla alla prova nella pratica, per poterla concretamente realizzare; certi che, in seno al popolo, vi sono capacità di governo, competenze, energie, insomma una forza dirompente, unica, che aspetta solo di potersi esprimere concretamente. Tocca a tutti noi dimostrarlo.

Le attiviste e gli attivisti dell’ex-OPG “Je so’ Pazzo”

Napoli, 14 marzo 2018

Concepire i luoghi della cultura come infrastrutture per la vita collettiva a supporto della sfera pubblica. Una riflessione.

Pubblicato originariamente su: http://www.campodellacultura.it/discutere/luoghi-della-cultura-e-produzione-di-spazio- pubblico/

Cosa rende i “luoghi della cultura” - intesi come luoghi destinati alla produzione e fruizione di cultura - degli “spazi pubblici”, cioè delle infrastrutture per la vita collettiva a supporto della sfera pubblica?
Possiamo dire che ciò risulti da un incontro tra pratiche sociali e politiche pubbliche, cioè da processi bottom up e top down. In questo senso si dovrebbe partire dalle politiche pubbliche, cioè dalle attività di progettazione di luoghi e spazi della cultura in cui il settore pubblico svolge un ruolo di propulsore e coordinatore.
Due sono le categorie di politiche pubbliche, nel contesto locale e urbano, che tale quesito chiama in causa: quelle designate con il termine di “politiche culturali” - termine ampiamente diffuso ancorché con significati variabili - e quelle che possiamo chiamare “le politiche degli spazi pubblici” – termine assai meno familiare alle nostre pratiche di governance urbana. Le due espressioni rimandano a due diversi frames, due diverse “cornici di senso” in cui pensare, coordinare, indirizzare e comunicare una serie di azioni volte alla realizzazione di spazi destinati alla vita culturale della città. Obiettivi prioritari e risultati attesi presenteranno significativi scostamenti, importanti per valutare l’efficacia delle politiche messe in atto.
Nel primo caso, pensando in termini di politiche culturali, si adotterà necessa- riamente una visione in qualche misura astratta della cultura quale oggetto che abbisogna di spazi fisici, intelaiature organizzative, supporti amministrativi per fornire una gamma di prodotti destinati di volta in volta al consumo interno (e allora si parlerà di “servizi”) o all’afflusso di risorse esterne (e allora si parlerà di “investimenti”). La cultura in questa ottica può essere sia un “servizio” da erogare - non diversamente da quelli di welfare e non a caso oggi si incomincia a parlare di “welfare culturale” - sia una “risorsa” da sfruttare per accrescere la “competitività” di una città. All’interno del frame delle politiche culturali troviamo tanto la terminologia progettuale dei “contenitori” e degli “eventi” culturali, sempre più orientati alle politiche dette “di competizione”, quanto la terminologia amministrativa dei “servizi” culturali tendenti ad assimilarsi alla categoria più generale dei servizi sociali o “servizi” tout court, e orientata da logiche solidaristiche o anche assistenziali.
Nel secondo caso, il riferimento prioritario è quello concreto - ma non solo fisico - dello spazio pubblico quale elemento fonda- mentale dell’esperienza urbana: gli spazi pubblici sono quelli che rendono significativa la vita cittadina, che ne connotano la qualità, che favoriscono azioni e interazioni non soltanto orientate al consumo e nemmeno ad una generica socialità ma anche alla produzione di discorsi, azioni cioè di inventiva culturale e politica. Se questa è la cornice di senso dell’azione di policy, allora essa non può prescindere da una ricognizione dei luoghi esistenti e da una analisi delle loro componenti storiche, sociali, memoriali ed identitarie. E’ solo a partire da questa ricognizione che si può metter mano efficacemente al recupero di luoghi o alla progettazione di nuovi spazi, inserendoli in modo non casuale nel tessuto urbano e nelle coordinate spazio-temporali della vita cittadina. La cultura - nelle sue componenti di patrimonio materiale e immateriale - si rivela allora una componente fondamentale dello spazio pubblico, sia esso piazza o museo, biblioteca o università.
Questo secondo approccio chiama in causa la separazione tra la gamma di servizi o il repertorio di eventi culturali di cui una città dispone da un lato, e l’assetto urbanistico degli spazi che li contengono dall’altro, introducendo una terza variabile, quella delle pratiche sociali che li informano e li plasmano. Si rende allora necessario considerare la produzione di spazio pubblico anche a partire da un approccio bottom up, ricordando che l’azione progettuale ha bisogno di incontrarsi con le pratiche sociali (e viceversa). Quali sono gli snodi attraverso i quali avviene questo incontro? Una serie piuttosto ampia di studi di caso che ho avuto occasione di condurre e esaminare mi ha portato ad individuarne quattro.

1. I frames spesso individuabili attraverso il nome del luogo o del progetto. Raramente uno spazio pubblico sarà tale se conosciuto e designato solo con riferimento alla sua funzione di biblioteca, museo, università o altro. I luoghi della cultura che sono autentici spazi pubblici sono conosciuti con nomi che evocano storia, identità, sedimentazioni legate ai luoghi: il Mattatoio di Roma, la Sala Borsa di Bologna, il District Six Muesum di Cape Town. Il nome è il legame con la memoria collettiva.

2. Il radicamento (o anchoring) dello spazio-luogo nel tessuto urbano, non solo fisicamente ma in virtù delle pratiche che lo connotano. Tale radicamento dipende non solo dalle connessioni reali ma anche dalle mappe mentali. Le une e le altre sono strettamente connesse e producono quella percezione dei luoghi che è insieme sedimentata e mutevole nel tempo. Un esempio efficace di mutamento delle mappe mentali è dato dal recupero del centro storico di Cosenza, percepito appunto come il recupero alla centralità di un intero quartiere e non come la semplice realizzazione di una serie di spazi e contenitori culturali.

3. Il significato simbolico dei luoghi o spazi che talvolta si è perso ma può venire recuperato, come nel caso del convento di Santa Cristina a Bologna, diventato recentemente sede del Centro delle Donne.

4. Un timing efficace dell’azione di policy, capace di tenere insieme i momenti di comunicazione, progettazione, ascolto e realizzazione come nei casi di pianificazione strategica efficace (da Barcellona a Torino).

La partecipazione dei cittadini alla produzione di spazio pubblico appare tale quando trova il modo di esplicarsi in maniera trasversale lungo queste quattro articolazioni, assai più di quando prende la forma di “dispositivi partecipativi” formali (spesso appiattiti sulla “domanda” o incongruentemente orientati su temi tecnici o estetici) inseriti quale componente, ormai quasi d’obbligo, di un “processo decisionale” in cui queste dimensioni sono rimaste largamente inconsapevoli o trascurate.

Il nostro Paese è pieno di immobili che possono essere riutilizzati per produrre valore sociale. Possiamo seguire alcune piste di lavoro promettenti, per affrontare questa sfida.

Estratto da Community hub, i luoghi puri impazziscono, Avanzi - Sostenibilita Per Azioni s.r.l. Associazione Culturale Dynamoscopio Kilowatt, Cooperativa Sumisura, 2016

Ragionare di community hub significa mettere a fuoco situazioni problematiche, risorse potenziali, attori e fenomeni, indicando piste di lavoro promettenti.
Incontriamo, nella attività di policy design, problemi pubblici di difficile trattamento: per questa classe di problemi, non abbiamo risposte prêt-à-porter. Dopo anni di esperienze e abbondantissima letteratura, possiamo dire che ciò che va sotto il nome di rigenerazione urbana non ammette soluzioni semplici. Ciò non significa che sia un oggetto intrattabile perché troppo complicato. Significa piuttosto che le ricette sono inservibili; quando pensiamo di averle, ci stiamo molto probabilmente sbagliando. Abbiamo (dobbiamo avere) solo risposte tentative, contingenti, falsificabili. Dobbiamo costruire progetti sperimentali, che funzionino come dispositivi di indagine sulla situazione problematica che intendono trattare. Abbiamo però qualche principio d’azione, che può orientarci, perché sappiamo che ha funzionato.
Il primo principio è quello della prossimità: un progetto efficace di rigenerazione urbana richiede un esercizio di prossimità, che può essere garantito soltanto da una struttura radicata nel contesto. Disegnare e condurre efficacemente processi di rigenerazione urbana implica un lavoro di quartiere, che non si riduce alla costruzione di un qualche evento occasionale di partecipazione, ma richiede una attività svolta fianco a fianco con i gruppi e i singoli che intendono mobilitarsi.
Il secondo è l’integrazione, che va intesa non solo in termini di multidimensionalità (l’azione integrata essendo quella che riconduce ad un campo locale azioni ricadenti in più settori di policy), ma anche in termini di tensione costante che va mantenuta lungo le diverse fasi del processo di policy, a partire dal disegno, durante l’accompagnamento e no all’implementazione.
Il terzo principio è quello della co-creazione: non siamo più oggi nella condizione di tematizzare la rigenerazione urbana come una politica pubblica al cui disegno partecipano gli attori locali. La “partecipazione progettata” ha fatto il suo tempo. I soggetti riflessivi hanno smesso di esprimere domande che qualcuno raccoglierà e trasformerà in dispositivi di policy. Non hanno bisogno di chiedere, perché si costituiscono come attori e semplicemente fanno: non intendono più ingaggiare un confronto con la politics e hanno smesso di esserne fonte di legittimazione, nel momento in cui hanno iniziato a occuparsi di policies. Se la partecipazione intesa come maieutica delle volizioni della società af data ai facilitatori professionisti può essere ancora utile per le “grandi opere”, cioè per interventi di dimensioni consistenti che spesso sollevano controversie locali, essa è diventata inservibile per sostenere i processi di rigenerazione urbana. Sono questi terreni di confronto tra decisori, abilitatori, city makers, dove l’interazione può assumere forme di confrontation game, negoziato o co-creazione.

Ci sono dotazioni che non sappiamo bene come usare, patrimoni che muovono i primi passi verso la loro costituzione come risorsa, da quando hanno iniziato a incontrare attori in grado di metterne a valore le potenzialità. Il nostro Paese è pieno di immobili, per usi residenziali, industriali, terziari, che sono sfitti, dismessi o sotto-utilizzati. Sono l’esito di un gigantesco “spreco edilizio” che ha radici non recenti. A fronte di una cospicua disponibilità di stock immobiliare, le forme della domanda e i modi d’uso si stanno fortemente diversificando. Gli spazi della produzione stanno dando luogo a nuove forme di territorializzazione, strutturandosi per liere e cluster produttivi che superano, ad esempio, la tradizionale distinzione tra manifattura e servizi. Si danno fenomeni inaspettati, come ad esempio, la nascita di un neo-manifatturiero urbano, il diffondersi di un artigianato digitale, il ritorno dell’agricoltura nelle cascine in città. Nuovi spazi ibridi, che ospitano professionisti, piccole imprese, start-up, si diffondono nelle città. Le strutture che sono il deposito di passati investimenti pubblici in termini di “welfare materiale”, come le scuole o le biblioteche civiche, tendono ad aprirsi ad una molteplicità di usi, più ore al giorno, per attività che non sono quelle istituzionali. Perfino l’erogazione di servizi sociali prova ad essere esercitata al di fuori degli spazi canonici e frammista ad altri usi, andando ad occupare immobili ex commerciali (come è il caso del progetto WeMi del Comune di Milano). Sono pratiche di riuso, riciclo e upcycling che investono ormai una parte non marginale del capitale fisso territoriale, generando, a volte, impatti non trascurabili in termini di valore sociale.
Ci sono fenomeni che deviano rispetto al canone, da quello che ci ha trasmesso la tradizione o da quello che ci piacerebbe fosse ancora il canone: per questi, possiamo nutrire repulsione o curiosità, ma in ogni caso dobbiamo interrogarci su come governarli. Ad esempio, sappiamo da tempo, per via teorica, che la proprietà pubblica di un bene non è sufficiente a garantire il suo uso pubblico. Cominciamo anche ad avere diffuse evidenze empiriche che tale condizione non è neanche sempre necessaria.
Ci sono attori che cercano di produrre e diffondere innovazione, che si muovono secondo logiche di scon namento tra ambiti divenuti permeabili, tra logiche di mercato e produzione di valore d’uso. Vi è un insieme di pratiche, che possiamo sbrigativamente definire “innovazione sociale”, che produce beni pubblici il più delle volte non avendo rapporti con il settore pubblico. Sono pratiche che perseguono prospettive di utilità collettiva attraverso la forma dell’impresa. Estraggono valore sociale da beni privati, secondo regimi che non sono di supplenza nei confronti del pubblico, né di sudditanza nei confronti del classico privato for profit: sarebbe infatti riduttivo leggerli come risposte a market failures o a state failures.
Allo stesso modo, intrattenendo con il pubblico relazioni di co-creazione, sarebbe scorretto interpretarli secondo la nozione di sussidiarietà, che “raramente ricopre la cooperazione tra pari”, come sostiene Angelo Pichierri. Sono ordinamenti produttivi di “beni pubblici locali”. Costruiscono e mobilitano risorse poste in comune: il loro carattere pubblico non è un dato, ma un costrutto. In qualche caso, tendono a far tornare collettive, dotazioni che hanno visto offuscato questo loro carattere a causa di usi privatistici: è la strada, ridotta a parcheggio di automobili, reinterpretata come social street; o al mercato comunale, che di pubblico ha la super cie, che solo un sofisticato policy design può far tornare a generare impatti collettivi.
Ci troviamo dunque di fronte a problemi e risorse che richiedono soluzioni sperimentali, a fenomeni che sollecitano il riconoscimento del loro stato liminale e la cura del loro carattere anomalo, ad attori che del trespassing fanno la cifra della loro azione.
I community hub aprono a prospettive di intervento interessanti con riferimento a queste sfide. Sono strutture di servizio, che possono fornire informazioni ed erogare servizi di welfare pubblico, ma non si limitano a questo: praticano l’inclusione sociale offrendo counselling per ragazzi, spazi per il doposcuola dei bambini, sale per favorire l’incontro e la colloquialità per comunità straniere. Hanno bisogno di mettere a reddito gli spazi per potersi mantenere e pagare l’offerta sociale, per cui ci puoi trovare l’artigiano e la postazione per il giovane creativo, la start-up e l’impresa sociale, il coworking e il fab-lab. Poi magari, insieme alla cooperative che fanno inserimento lavorativo, disegnano programmi per lo sviluppo dell’autoimprenditorialità dei giovani del quartiere.
Sono spazi ibridi non per una qualche poetica alla moda, ma per necessità: devono costruire modelli di business che facciano tornare i conti e disegnare programmi funzionali che usino intensamente le infrastrutture di cui dispongono. Cambiano funzione e ospitano pratiche differenti, che si alternano nel corso della giornata o nei giorni della settimana: al mattino preparano colazioni, al pomeriggio vi si danno convegno le mamme straniere, alla sera ci si balla il tango. Lasciano spazi ai talenti culturali, ma non sono una sede espositive o un museo. Magari sono cascine, lo sono state o lo sono ancora parzialmente. Hanno praticato la temporaneità, ma solo perché tendono ad assumere una logica incrementale: il loro obiettivo è il consolidamento, non il beau geste dell’apripista che poi si dedica ad altro. Tendono ad essere ostinati. Si collocano a metà tra la pura appropriazione individualistica e l’ossessione comunitaria della condivisione a oltranza. Definiscono certamente comunità inclusive, agite da individui con sistemi di preferenze convergenti, mosse da interessi analoghi, che si riconoscono in obiettivi congiunti. Danno luogo a joint venture che erogano beni pubblici (servizi, infrastrutture) e aiutano a riprodurne (conoscenza, fiducia, riflessività, civismo): di questi, fanno lavoro e impresa. Sono un “pubblico minore”, che ambisce a dispiegare effetti su “pubblici” più ampi.
Sono un materiale interessante, perché si presentano come strumenti per orientare i processi di rigenerazione urbana, dei quali danno un’interpretazione molto più colta di quella che riescono a fornire i bandi del Governo. In primo luogo, sono appunto focalizzati sui processi, prima che sulle opere; se investono in interventi fisici o in beni strumentali, sanno bene a cosa gli servono. Può sembrare incredibile, visto dalla prospettiva della pubblica amministrazione, ma in genere intervento edilizio, funzioni ospitate e modello gestionale sono progettati insieme.
Riconoscono che il campo di intervento non è dato: la loro locality coincide con lo spazio definito dalla loro azione e dalle reti di relazioni che intrattengono con gli attori della propria rete. Il campo locale è un campo strategico: non dovendo gestire programmi area-based, possono permettersi di mettere in tensione i con ni del quartiere, costruendo reti di relazioni anche molto estese, facendo convergere su quello specifico campo locale interessi e ordini di opportunità diversi cati, che disegnano sistemi di governance relativamente sofisticati.
In questo senso, sono pratiche place-based. Il campo locale è scelto, come risultato di una decisione tra alternative: lavoriamo qui perché si danno maggiori opportunità di intervento, oppure qui la nostra azione può essere più efficace, qui abbiamo reti partenariali attive. Lavorano negli interstizi, in quelle parti non toccate o lasciate scoperte dalle politiche pubbliche. Si collocano al margine dei processi più istituzionali, pur non essendo affatto marginali (cioè condannati all’irrilevanza), perché così si può più facilmente cogliere e suscitare l’innovazione. Come sostiene Carlo Donolo infatti, oggi nel nostro paese “i fattori di innovazione si ritirano sul margine e nelle pieghe”. Porsi al margine dà modo di sperimentare una diversa prospettiva; significa scegliere di affrontare un problema aggredendolo dai bordi; significa assumere uno sguardo liminale nella consapevolezza che è strategicamente fertile.
Sanno progettare, catturano bandi: non disdegnano il grant, ma possono praticare anche schemi più complessi. Sono opera da nuovi imprenditori, che hanno superato il modello della cooperativa che gestisce servizi sociali; di operatori culturali che tendono a fare della creatività una impresa. Allo stesso modo, non c’entrano nulla con le assistenze tecniche o i professionisti dell’accompagnamento sociale, anche se a volte da questi ambiti provengono e ne costituiscono l’evoluzione. Sono il risultato dell’opera dei nuovi city makers, perché i maker urbani sono tutti quelli che completano la liera della decisione, dal progetto iniziale alla sua realizzazione e gestione.
Sono community hub perché della “comunità che viene” danno una accezione del tutto processuale, secondo una tensione progettuale che cerca dispositivi di avvio. Sono “spazi della condivisione”, dove si danno azioni orientate (a volte intenzionalmente, a volte come risultato sotto-prodotto) a ispessire il legame sociale. Alimentano potenzialità non esplorate: piuttosto che rispondere a bisogni consapevolmente espressi dalla società locale, sostengono lo sviluppo di possibilità evolutive non intese. Sono la sorpresa che apre al cambiamento. Vale la pena seguirli con attenzione.

I pubblici della cultura, a cura di Francesco De Biase, Milano Franco Angeli, 2014, pp. 294-304.

«A dire il vero, non esiste una forma architettonica propria della biblioteca. Si può dire che per le biblioteche non esiste un’architettura prestabilita come per le stazioni o per gli stadi. Io, ad esempio, non posso guardare l’aeroporto di Roissy o l’arco della Défense senza pensare che quelle costruzioni architettoniche sarebbero delle meravigliose biblioteche. In fondo, la questione dell’architettura delle biblioteche si è posta quando ci si è preoccupati dei lettori, e la biblioteca è diventata un luogo pubblico, inteso come luogo civico. Questo incontro, non privo di contraddizioni, tra libro e lettore fa in modo che l’architettura delle biblioteche sia un genere a sé stante e che la biblioteca non sia più un semplice deposito di libri».

Di biblioteche c’è bisogno, soprattutto nelle zone del paese più degradate e sfilacciate urbanisticamente, socialmente e culturalmente (larga parte del Sud, le periferie delle grandi città, i territori distrutti dall’urbanizzazione selvaggia). Dobbiamo interrogarci su quale ruolo può svolgere una “piazza del sapere” in queste realtà. Renzo Piano in un recente articolo spiegava perché è importante investire nelle periferie: «Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l’energia.. Spesso alla parola 'periferia' si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? […]La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche». Con strutture pubbliche, aggiungo io, che creino quel mix di servizi che oggi non ci sono. Sempre Piano scrive «La città giusta è quella in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si fa la spesa. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università. Andiamo a fecondare con funzioni catalizzanti questo grande deserto affettivo. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d’incontro, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità».
Howard Schultz, il fondatore di Starbucks, racconta che l’idea di portare negli Stati Uniti una catena di caffè dove fosse possibile bere un espresso decente gli venne durante un viaggio a Milano, nel 1983, quando capì l’importanza, per gli italiani, di avere un luogo dove fare una pausa e scambiare due parole con gli amici prima di tornare al lavoro o a casa. Il bar era il perfetto third place tra il luogo di lavoro e quello di abitazione, un posto dove la gente può stare insieme per il solo piacere di farlo. Negli Stati Uniti i caffè di tipo europeo non esistevano, tranne a New York e a San Francisco, e Schultz vide la possibilità di sfruttare questa assenza proponendo dei bar dove si potesse stare anche per molte ore, bere un caffè o un cappuccino, fare amicizia con degli sconosciuti. Oggi Starbucks è una multinazionale con migliaia di punti vendita.
Il tema dei luoghi dove si va per motivi apparentemente “funzionali” (bere un caffè, o una birra o tagliarsi i capelli) ma che sono in realtà dei centri di conversazione, di scambio di opinioni, di relax, veniva affrontato, qualche anno dopo, dal sociologo urbano Ray Oldenburg nel suo libro del 1989 The Great Good Place. Per Oldenburg questi spazi sono anche strumenti di controllo sui governanti, di impegno civico: in altre parole sono il tessuto connettivo di una democrazia vitale. Non tutti i luoghi pubblici vanno bene: devono avere certe qualità nascoste che li rendono più invitanti per i cittadini. Prima di tutto, devono essere posti neutrali, non connotati per l’appartenenza a una persona, un’associazione, un’organizzazione politica o religiosa. Per quanto “ecumenica”, una parrocchia resta pur sempre una parrocchia e un Rotary club, un Rotary club; al contrario, una birreria o un caffè in piazza sono aperti a tutti (anche se il loro diventare dei luoghi frequentati e amati dipende dagli habitués che ci vanno). Per Oldenburg, devono essere posti «dove gli individui possono andare e venire come vogliono, nei quali a nessuno è richiesto di fare da padrone di casa e in cui tutti si sentono a loro agio». Il secondo requisito è quello di essere dei luoghi di eguaglianza, in cui non si chiede a nessuno se fa il notaio o il pompiere, se si guadagna da vivere come operaio o come professore. «C’è una tendenza degli individui - continua Oldenburg - a selezionare i loro conoscenti, gli amici, e gli intimi fra coloro che sono più vicini come rango sociale. I third places, tuttavia, servono a espandere le possibilità [di fare nuove conoscenze] mentre le associazioni formalizzate tendono a restringerle. I third places contrastano la tendenza a essere restrittivi nel godere degli altri perché sono aperti a tutti e perché enfatizzano qualità non limitate alle distinzioni di status prevalenti nella società. Nei third places il carattere e il fascino della personalità di ognuno, non la sua posizione sociale, sono ciò che conta» (Agnoli, 2009, p. XX).
Negli ultimi anni la ricerca di luoghi “dove tutti si sentono a loro agio” e che sfuggano, almeno in parte, alle ferree leggi del commercio, ha fatto nascere esperimenti interessanti dalla Russia al Giappone, a Londra: per esempio, i caffè dove si paga il tempo di permanenza e non ciò che si consuma. Si chiamano Ziferblat, sembra che i primi siano nati in Russia, si offrono caffè e biscotti, chi vuole può portarsi il cibo da casa, c’è sempre l’wi-fi gratuito e all’uscita si pagano circa 2 euro l’ora, meno di quello che oggi costa in Italia un caffè con brioche in piedi. Lo Ziferblat (in russo significa quadrante) appena sbarcato a Londra rischia di chiudere perché non esiste una normativa che contempli questo tipo di esercizio. In quello londinese c’è anche uno spazio per il co-working, una funzione che ritroviamo in tutti i progetti.
Gli Ziferblat nascono soprattutto come luoghi di incontro, con arredamento vintage, per suggerire un luogo che è il prolungamento dello spazio domestico; spesso diventano piccoli circoli culturali, la clientela è molto varia e dipende da dove è situato lo Ziferblat. Una sveglia ti dice quanto tempo hai trascorso, qui la filosofia è far interagire le persone, riportarle dallo spazio virtuale a una realtà fisica: in un certo senso l’opposto di Starbucks che si è trasformato nello spazio-ufficio di chi lavora in casa, un luogo dove ciascuno ha lo sguardo fisso sullo schermo del proprio computer e ignora del tutto chi sta al tavolino accanto.
A Milano c’è la libreria Open, aperta il 19 novembre 2013. Open si definisce “More than Read, More than Apps, More than Design, More than Work, More than Taste, More than Events”, sei varianti che ne fanno un modello di libreria molto innovativa. Si sfogliano giornali, riviste, libri cartacei, si usano e-reader e tablet, si possono acquistare libri o e-book, il design dello studio Uda è frutto di un processo di condivisione creativa. Uno spazio di 1000 mq. dove studiare, bere un aperitivo su comodi divani ma anche prendere in affitto posti di lavoro, computer, salette di varie taglie 6,12 e 50 posti, una grande area di coworking, una piccola cucina con una zona living, spazi per corsi e attività varie. Un mix tra una biblioteca, una libreria, un caffè, un centro culturale, Open si è in parte finanziata con il crowdfunding ma offrendo qualcosa in cambio: per esempio con 10 euro hai accesso a contenuti digitali extra, con 100 euro ad una postazione di coworking per una settimana e a uno workshop.
Un esperimento ancora più ambizioso viene dall’Olanda: Seats2meet.com (che si potrebbe tradurre con “Sedie per incontrarsi”) sono nuovi luoghi la cui proposta è “l’economia della condivisione”. L’idea di base del progetto è che nel mondo ci sono sempre più persone che si muovono, che collaborano soprattutto in modo digitale, non fanno parte di nessuna struttura organizzativa, utilizzano i social network, si auto-organizzano e mettono in moto energie e creatività. Vengono definiti cittadini della società 3.0: il loro lavoro non mira all’arricchimento personale anche se acquistano prodotti e servizi con la moneta tradizionale, sono interessati soprattutto a collaborare e condividere, apprezzano il capitale sociale e la reciprocità. Sono convinti che i tradizionali luoghi di lavoro e di aggregazione stiano scomparendo o siano sempre più in crisi e che la scuola tradizionale, la fabbrica, i negozi, le biblioteche, i municipi li seguiranno a breve. Come dicono nel loro programma gli inventori di Seats2meet la sfida per l’organizzazione innovativa è aperta e utilizza la rete di contatti per stabilire una connettività permanente tra l’organizzazione, le persone e gli stakeholders. Questi luoghi sono degli hub, dei luoghi dove è possibile sfruttare il valore sociale dei network per creare forme differenti di collaborazione e di impegno individuale e collettivo. Alcuni dati: tra il 2012 e 2013 sono state prenotate 500mila postazioni di lavoro: scrivanie, uffici, spazi incontro. Seats2meet ha 60 sedi che offrono più di 2600 spazi di coworking, 275 meeting space e 250 scrivanie.
Il successo di questi esperimenti rivela l’emergere di nuovi bisogni di socialità e di cooperazione che la biblioteca deve intercettare, naturalmente a condizione di una riflessione sul mutamento del proprio ruolo. Dalla biblioteca come luogo di conservazione del sapere nella sua forma materiale (i libri) si va verso la biblioteca come luogo di sintesi tra formazione, informazione e cultura, come luogo di relazioni. Di fronte alla smaterializzazione del sapere e delle relazioni, abbiamo bisogno di un luogo dove gli incontri si materializzino e dove e l’accesso al sapere si ricomponga. La biblioteca, non essendo un servizio specializzato come un museo, è più adatta di altri luoghi culturali a svolgere questa funzione. Naturalmente, la sua architettura deve garantire la possibilità di essere isolati dal mondo ma insieme agli altri, di offrire momenti di calma, di distacco dai “rumori” della città e dai flussi della vita quotidiana, di decelerazione dalla sovrabbondanza di informazioni e di attività.
L'esempio che forse può aiutarci a capire meglio tutto questo è Sala Borsa a Bologna, tra le biblioteche italiane forse il luogo che meglio rappresenta le novità della biblioteca come spazio pubblico, ed è anche quella che più si avvicina ad alcune grandi biblioteche internazionali come la Bibliotèque du Centre Pompidou di Parigi (BPI). Anche Sala Borsa a suo modo è uno spazio polifunzionale e, come il Centre Pompidou, attira turisti, curiosi, homeless, anziani, bambini, accanto a persone che la frequentano per i servizi che offre: lettura, studio, visione, ascolto, prestito, mostre, conferenze, laboratori, caffè, urban center.
Entrambi sono luoghi che non "tracciano frontiere" che non trasmettono messaggi tipo "questo edificio non fa per te", non sono luoghi riservati alle élite, non discriminano in base al censo, tra chi ha familiarità con la cultura scritta e chi non ce l’ha. Potremmo elencare molti motivi che tengono lontane le persone dai luoghi che non sentono loro, ma a noi ora interessa analizzare quelli che invece attirano e tentare di capire perché una grande piazza coperta come Sala Borsa, che accoglie da 12 anni migliaia di persone al giorno, sia un luogo interessante da studiare.
Il primo elemento sul quale vorrei riflettere è che pur accogliendo circa 1,3 milioni di visitatori all’anno è un luogo molto sicuro e “civile”. Per capire cosa accade vale la pena consultare i post-it che è possibile leggere nel sito, “Sala Borsa mi piace perché…”

• …Truman Capote direbbe nel suo Colazione da Tiffany: 'Salaborsa? E' come Tiffany! Un luogo pacifico, dove ti senti bene e dove tutti sono cordiali
• …perché c'è una fantastica varietà di tipi umani!!
• ...posso portare il mio bimbo al caldo in inverno e allattarlo e farlo giocare con i libri morbidoni
• ....così posso scappare dai miei coinquilini
• ...perché anche a 81 anni mantiene sani e vivi
• ...mi piace molto. I love the ruins that are visible through the floor. It's great for studying and relaxing. Il caffè è bene. I enjoy the fun chairs on the first floor
• ...per le sue poltroncine con appoggio morbido tutte colorate
• ...è l'esempio concreto e vivente della social-democrazia
• ...ci sono dei libri sulla storia e la cultura armena – Narina
• ...perché qualsiasi sia il tuo dubbio, qui trovi la risposta. Perché è un edificio bellissimo. Perché mi dà pace
• ...perché 'io barbone' quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché posso acculturarmi, che non è poco.

Scorrendo questi e altri messaggi si capisce che Sala Borsa è un luogo in cui le persone si sentono bene, anche se hanno provenienze culturali ed età molto differenti; è un luogo che non discrimina , in cui le persone si sentono accettate, è una grande piazza coperta dove accade esattamente quello che accade in tutte le piazze accoglienti del mondo: si prende il caffè, si legge il giornale, alle 18 si ascolta il pianoforte, ci si dà appuntamento, si guarda una mostra, si osservano gli altri, si prende il fresco, si “acquistano” i libri nella bancarella degli amici della biblioteca, si posteggiano le carrozzine e si ricorrono i bambini che scappano.
Perché accade tutto questo? E perché le persone aderiscono spontaneamente alle stesse regole? Provo ad ipotizzare alcuni elementi, un interessante mix che incrocia aspetti architettonici, estetici, antropologici, sociologici:

• è uno spazio bello;
• si incontrano “tipi molto diversi”, la diversità di persone e di attività trasmette il messaggio che “troverò qualche cosa per me e qualcuno come me”;
• non intimidisce: anche, se molto grande è uno spazio amichevole;
• siamo di fronte ad un’offerta molteplice, il conflitto si genera quando siamo di fronte ad una sola offerta;
• si attraversa la grande e bella piazza esterna, si salgono gradini che sono un’espansione, un’estensione di quello che si trova dentro, si entra nell’esedra, uno spazio circolare abbastanza grande che non ci fa vedere oltre, si attraversa un corridoio piuttosto stretto e poi appare la grande e straordinaria piazza coperta. Tutti hanno le stesse esperienze architettoniche, tutti provano lo stesso stupore, le stesse emozioni;
• evoca uno spazio esterno ma nello stesso tempo è più intimo e conviviale, più sicuro, più protetto;
• è molto grande ma è articolata in spazi che propongono esperienze differenti: la grande piazza, la sala scuderie, i ballatoi dove si legge, si studia e si guardare cosa accade nella piazza, gli spazi per bambini e adolescenti nei sotterranei, quello per i più piccoli affacciato sulla piazza insieme al caffè, una sorta di grande spazio civico dove nessuno ti obbliga a consumare;
• la scelta di inserire i servizi dentro a un luogo che ha avuto altre vite è un valore aggiuntivo perché è il luogo stesso che mostra la sua storia. Questo facilita anche una riflessione per usare con maggiore consapevolezza gli edifici esistenti.

Questi esempi ci aiutano a ragionare sul fatto che oggi la questione dell’architettura delle biblioteche è aperta: se prima ci preoccupavamo dei libri, oggi lo scopo è fornire un servizio a delle persone, quindi più che sulla forma dell'edifico è necessario lavorare sugli interni, sulla dislocazione dei servizi, su spazi polifunzionali e trasformabili, arredi ecologici e originali. Siamo abituati a modelli di biblioteca ripetitivi, con programmi biblioteconomici fotocopia, concept standard dei servizi; se vogliamo interagire con la comunità e far diventare la biblioteca uno strumento della politica urbanistica abbiamo bisogno di varietà, creatività, originalità. Le biblioteche degli anni ’70, con arredi, colori, segnaletiche, disposizione delle scaffalature, collezioni tutti uguali, sono superate da una realtà sempre più frammentata, molteplice e multiculturale. Oggi sono necessari approcci critici e sguardi laterali: solo così possiamo rispondere all’obiettivo di realizzare un edificio pubblico utile alla città; la biblioteca, se fatta bene, per le sue caratteristiche di luogo neutro e di eguaglianza può esserlo più di altri edifici culturali.
Ma una visione più “sociale” del servizio può aiutarci ad individuare l’architettura più adatta? Di sicuro sappiamo che la biblioteca non sarà più un “monumento del sapere”: per sopravvivere dovrà essere capace di trasformarsi, di mutare pelle, di sorprendere, eccitare la fantasia e offrire ai suoi utenti attività diversificate: alfabetizzazione informatica, laboratori manuali di tutti i tipi (dalla cucina giapponese a come riparare la bicicletta, al giardinaggio). Ci saranno spazi per il cooworking, attività di ascolto, racconto, lettura; corsi per imparare a suonare uno strumento, a danzare, a recitare; feste di compleanno, di matrimonio, anniversari; corsi di lingua, di recupero scolastico, corsi per la lettura dei quotidiani, per l’uso delle nuove tecnologie, della rete, per imparare come funziona una stampante 3D o un macchina da cucire. Attività che andranno progettate e realizzate con il coinvolgimento dei cittadini e delle associazioni. Sarà un luogo dalle molte identità e dalle molte definizioni: ibrida, molteplice, sociale, aumentata.
Per la riuscita di questo progetto occorre però il coinvolgimento dei cittadini fin dalla fase di progettazione, oggi imprescindibile, e una buona localizzazione. Il resto dipende da quanto l’ambiente fisico è in grado di accogliere e facilitare le relazioni, se riesce a diventare un luogo di produzione culturale dal basso.
Oggi è la funzione sociale, economica, educativa, cognitiva -di tutti i luoghi della cultura- e tra questi le biblioteche, che giustifica la loro esistenza. Non possiamo più pensare di tenere aperte, o semiaperte, migliaia di biblioteche pubbliche per quell’11% della popolazione che oggi le frequenta . L’Italia è un territorio pressoché vergine che ha bisogno come non mai dei nostri servizi e le biblioteche devono guardare come funzionano i luoghi dove le persone si ritrovano: i caffè, i ristoranti, le nuove librerie, i mercati della domenica, i musei di recente concezione, i centri commerciali, i luoghi interattivi frequentati dai giovani, i mercati, le piazze, i centri sociali e i circoli culturali, i teatri occupati, le palestre, le stazioni, gli orti sui tetti, le social street, i luoghi di aggregazione spontanea. Molti di questi luoghi si sono evoluti e trasformati proprio a partire dalle aspettative dei pubblici.
Per le biblioteche è un po’ più complicato perché devono tenere conto di tradizioni, interessi e comportamenti consolidati nei secoli: sicuramente continueranno ad accogliere libri di carta, non solo perché legati alla conservazione del sapere ma perché i lettori di libri cartacei sono ancora un gruppo consistente. Accanto a questi, negli ultimi anni, sono fortemente aumentati gli utenti che prendono in prestito film, musica e che utilizzano le tecnologie, soprattutto Internet perché è gratuito. Da questo punto di visto i comportamenti coincidono con quelli delle librerie ma quello che fa la differenza è la gratuità e la mediazione del personale che dovrebbe aiutare la comunità ad accedere alle informazioni. La vera evoluzione delle biblioteche sta proprio nella loro capacità di rispondere ad una domanda crescente su tematiche diversificate e prima inimmaginabili.
Oggi la biblioteca sta subendo forti pressioni per il cambiamento, una pressione alla quale molti bibliotecari e amministratori vorrebbero dare risposta. Non è facile, in un momento di tagli spaventosi ai finanziamenti dei Comuni, di anni di non assunzioni, con una burocrazia ingessata, una politica sprecona e incapace di comprendere dove è più importante investire, difficoltà ad individuare nuove forme di gestione. Questo impedisce di dare delle risposte efficaci e troppo spesso abbiamo servizi inadeguati nella forma, nell’offerta, nel funzionamento, orari che non rispondono ai bisogni dei cittadini, un forte squilibrio tra aspettative, bisogni e offerta.
Non è sufficiente ascoltare i bisogni dei cittadini, dobbiamo essere capaci di anticiparli, sollecitarli, stimolarli e farci ispirare nel processo di cambiamento dagli altri luoghi della vita quotidiana delle persone. Gli studiosi delle biblioteche hanno spesso usato il concetto della serendipity per definire i servizi della biblioteca, soprattutto gli scaffali aperti: a me piace pensare che questo concetto non lo usiamo solo per i libri e per tutti gli altri media, ma per favorire quel potenziale di innovazione insito nella città e nei suoi abitanti attraverso luoghi, momenti e situazioni del tutto inaspettate, di incontri improvvisi.
Apparentemente, i luoghi esclusivamente culturali, o percepiti come tali, finiscono per essere troppo esclusivi: le persone forse si aspettano dei “centri commerciali” della cultura dove nel loro tempo libero possono vivere esperienze che siano contemporaneamente culturali e ludiche, che soddisfino bisogni di apprendimento ma anche di svago, che siano luoghi di lavoro e di vacanza, luoghi che aiutino a saper fare, saper pensare e saper vivere, luoghi di coesione sociale che aiutino ad aumentare l’intelligenza collettiva. Da questo punto di vista sono buoni esempi i musei scientifici, dove grandi e piccoli si divertono con le nuove scoperte, con i giochi interattivi che ci fanno capire come funzionano le cose, la vita dell’universo.
Alla luce di queste riflessioni come concepire un progetto di culture convergenti in cui la biblioteca possa giocare un ruolo senza che la sua specificità si disperda in un progetto generico, ma anzi ne esca rafforzata?
“Oggi dobbiamo pensare a una convergenza di tutti i servizi in entità uniche che favoriscano la partecipazione dei cittadini, l’educazione permanente, il senso di identità. Di fronte alla crisi dei bilanci delle istituzioni culturali pubbliche una razio-nalizzazione è inevitabile, in particolare per i piccoli centri, ma la convergenza non deve essere concepita in funzione difensiva, o come misura di emergenza: deve essere una scelta che viene fatta per migliorare i servizi (orari più lunghi, possibilità di fruizione da parte di pubblici diversi) e soprattutto per realizzare una politica culturale più attiva. Le istituzioni culturali hanno sempre bisogno di rinnovarsi, di adattarsi ai cambiamenti del gusto, a esplorare strade nuove: questo sarà più facile all’interno di un luogo di confronto interdisciplinare.”
Per convergenza non penso solo al mettere insieme differenti servizi culturali che condividono solo alcuni servizi come bagni, hall, guardaroba, oppure a servizi che hanno in comune alcune specificità come archivi e biblioteche, oppure biblioteche, archivi e musei. Penso a progetti capaci di interpretare lo specifico dell’ambiente in cui sono inseriti, di guardare al futuro e alle trasformazioni in atto. Alcuni città ci stanno provando: Thionville, cittadina di 42.000 abitanti situata nella regione della Mosella, dove è stato costruito un edificio di 4.500 mq. che si definisce “terzo luogo” accoglie la mediateca, piccole fabbriche di produzioni artigianali, spazi per creativi, un centro d’arte, una sala da 450 posti, l’ufficio del turismo, una caffetteria, spazi di incontro per i cittadini, le associazioni, oppure il bellissimo multicultural center dell’isola di Middelfart in Danimarca, con la grande facciata di vetro che si affaccia sul mare e accoglie una grande biblioteca, il cinema, un ristorante panoramico, un caffè, l’ufficio turistico e la nuova sala riunioni della città. Ma poi abbiamo anche progetti fantastici come la nuova biblioteca pubblica che verrà aperta nel centro di Helsiki nel 2017 anno che celebra i 100 dell’indipendenza del paese, sarà la prima biblioteca al mondo con sauna, ma funzionerà anche come centro culturale con ristoranti, cinema, spazi per mostre e per attività varie disposizione dei cittadini. Verrebbe da chiedersi come mai un Paese dove l’80% degli abitanti utilizza le biblioteche, la media dei prestiti pro capite dei finlandesi è di 17 documenti ogni anno, sente il bisogno di pensare a quale sarà la biblioteca del futuro, rinnova continuamente le loro strutture, realizza progetti sempre più creativi ed inclusivi mentre potrebbe accontentasti degli straordinari risultati raggiunti? La voglia di guardare il futuro, di interrogarsi continuamente, di non dare mai nulla per scontato: questa è la lezione che dobbiamo imparare.

Su fronte della sicurezza urbana pare spesso, anzi quasi sempre, materializzarsi l'antica metafora delle «convergenze parallele» che però non si incontrano mai (segue)

Su fronte della sicurezza urbana pare spesso, anzi quasi sempre, materializzarsi l'antica metafora delle «convergenze parallele» che però non si incontrano mai, se per caso si incontrano fanno finta di non conoscersi e tirano dritto continuando a convergere ciascuna per conto proprio. Qualche giorno fa un paio di gonzi eletti da par loro nelle file della Lega, riuscivano con la propria goffaggine mediatica se non altro a mettere in luce un episodio di cronaca che altrimenti sarebbe passato del tutto inosservato. Dato che le informative parlavano di una rapina stradale in cui erano coinvolti cittadini cinesi e italiani, i leghisti col classico automatismo da social network (che come noto non prevede di leggere, ma di far gorgogliare qualche parola chiave nel minestrone del pregiudizio) subito se ne sono usciti con un perentorio comunicato, a stigmatizzare la «inerzia del governo contro l'invasione di immigrati». Coprendosi di ridicolo, perché sarebbe bastato appunto leggere le due prime righe delle note informative, per scoprire che c'era una ragazza cinese, che aveva assai goffamente quanto spettacolarmente sventato un tentativo di «scippo veicolare» da parte di due italianissimi minorenni in motorino.

Il raggio di luce inopinatamente gettato dai due razzisti padani a prescindere sul fatto, consentiva però di vedere meglio una serie di dettagli piuttosto utili a iniziare a sviluppare un ragionamento sulla sicurezza urbana, e farlo a distanza di sicurezza di qualche anno luce da immigrazione o altre fantasie malate. C'è una ragazza, viaggia in auto attraversando uno slargo urbano, e viene affiancata dai due scippatori in motorino, che notata la borsetta (colpevolmente lasciata in bella vista sul sedile del passeggero col finestrino spalancato) provano ad arraffarla al volo. Lei si spaventa, sorpresa, fa una manovra azzardata forse maneggiando il volante senza neppure pensarci, risultato l'auto si ribalta, il motorino cade, uno degli scippatori si allontana e l'altro rimane lì a terra. Il bilancio alla fine pare addirittura festoso: due illesi, e l'unico ferito per niente grave. Ma ci sono ancora altri dettagli su cui val la pena soffermarsi, a partire dall'auto, una di quelle piccole elettriche in car sharing molto popolari soprattutto tra i giovani, che nonostante il ribaltamento spettacolare e i danni alla carrozzeria, ha dimostrato di essere molto sicura, visto che la ragazza non si è fatta niente, salvo lo spavento. Ma siamo ancora sicuri che in termini di sicurezza la vicenda si sia conclusa così gloriosamente? Certo che no.

Fanno trapelare alcune fonti, che quel ribaltamento, in effetti abbastanza singolare visto il posto, la velocità, la dinamica complessiva, si debba al concorrere della sorpresa, ma soprattutto della manovra del tutto inconsulta effettuata subito dopo aver sollevato lo sguardo dallo smartphone. Insomma, di comportamenti che fanno a cazzotti con un minimo di prudenza urbana, la ragazza ne avrebbe sommati due in un colpo solo: lasciare il finestrino aperto con la borsa in bella vista sul sedile, in una zona piena di semafori e rallentamenti a fil di cordolo, e concentrare la propria, di vista nonché di attenzione, sullo schermo della protesi elettronica anziché sulla strada da cui sono sbucati gli aggressori.
Lo fanno spessissimo, giovani o meno giovani, ma qui siamo dentro un'auto in condivisione, che fa di tanti aspetti dell'innovazione tecnologica e organizzativa una bandiera, in pratica un veicolo che funziona in sinergia, con lo smartphone (si individua, si sblocca, si collega all'utente, al suo conto corrente …) perché non fare in modo che si possano anche controllare limiti di velocità locale, o uso improprio del trabiccolo? Sicuramente qualcuno risponderà in modo evasivo, dicendo che si chiede troppo, o che è «il mercato baby» a sconsigliare questa intrusione nella libertà e stili di vita dell'utente, ma resta il dubbio. Perché per una volta l'ambiente fisico urbano sembra aver fatto piuttosto bene il proprio mestiere, a differenza di altri casi: velocità relativamente ridotta, visibilità, spazio di manovra ma non a sufficienza per danneggiare altri.

Ma si diceva siamo nel campo delle convergenze parallele che non si incontrano mai, avanzano, migliorano, combinano certamente qualcosa di buono, ma si lasciano una larga scia di questioni irrisolte da mancato virtuoso incrocio, quando invece basterebbe così poco. Basterebbe la voglia, e un'idea di fondo, si potrebbe dire. Così come accaduto nella recente, e abbastanza analoga, epidemia del New Jersey, diventato all'improvviso il protagonista delle campagne guerreggianti e ringhiose dell'assessorame nazionale e non solo. Barriere da cantiere e corsia stradale provvisoria che sbocciano ovunque, più che altro a testimoniare che «lassù qualcuno pensa alla tua sicurezza», e quasi di sicuro sono altrettanto inutili a perseguirla davvero, l'incolumità del cittadino. Hanno iniziato a proliferare, nelle città europee e italiane, dopo i vari «attacchi terroristici veicolari» verso cui si sono indirizzati i cosiddetti radicalizzati online, quella forma di guerriglia in franchising a tempo parziale praticata da dilettanti allo sbaraglio, anche se con un numero spropositato di vittime. L'arma, come noto, è un veicolo a motore lanciato sulla folla, e la barriera di cemento New Jersey, già utilizzata per esempio nei posti di blocco della polizia a restringere le carreggiate, parrebbe davvero in prima istanza una misura diretta ed efficace.

Osserva però uno studioso di terrorismo e politica internazionale, che per funzionare davvero come dice, questa politica degli sbarramenti veicolari dovrebbe in teoria chiudere tutte le strade potenziale obiettivo: impraticabile, non ultimo per questioni di costi e tempi. Ma impraticabile, aggiunge lo studioso, anche perché il New Jersey con la sua invadenza autoritaria svuota di senso l'idea di spazio pubblico inclusivo che sarebbe, a ben vedere, il perfetto antidoto al progetto totalitario del terrorismo (che non a caso colpisce in quei luoghi, oltre a considerarli il ventre molle della nostra civiltà urbana). Se chi, rappresentante eletto da noi cittadini per interpretarne in senso alto le aspirazioni, cercasse davvero di proteggere la collettività e la cultura che la sottende, volesse davvero trarre conclusioni coerenti, ne dedurrebbe che la migliore reazione all'uso di veicoli-proiettile nello spazio pubblico identitario da distruggere, è quello di ridurre quasi a zero la contundenza del proiettile, rafforzando l'identità. Ovvero, scendendo assai terra terra, regolamentare in ogni modo (velocità, accessibilità, modo d'uso) la circolazione dei veicoli a rischio negli spazi pubblici, attraverso organiche politiche di traffic calming, perseguite sia con trasformazioni fisiche, sia con strumenti smaterializzati high tech che ormai abbondano, sia con una adeguata pedagogia comportamentale, che comprende anche consapevolezza e autodifesa. Lasciando che dietro minacciose barriere grigiastre stiano i ridicoli guerrieri a fumetti di Sturmtruppen.

Vedi anche: Dal New Jersey alla città

.Esistono molte forme, storie, funzioni degli spazi pubblici, e in particolare di quelli che chiamiamo "piazze",tutte mutevoli nello spazio e nel tempo. Che vuol dire combattere «l'etica della location»? Ragioniamo. il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2017, con postilla

Una nuova barbarie insidia le nostre città: l’etica della location. Imperversa dappertutto, ma colpisce al cuore specialmente la più originale creazione della città italiana, la piazza. Tanto originale, anzi, da avere un ruolo chiave nella ricerca, promossa dall’Istituto Max Planck per la Storia dell’arte e diretta da Alessandro Nova, sul rapporto tra forma della piazza e vita politica delle città. La piazza italiana è l’erede più nobile e più consapevole dell’agorà greca e del foro romano. È luogo di discussione e d’incontro, di commercio e di scontro politico, di festa e di lutto. Teatro di rituali collettivi (come il Palio di Siena), si presta alle manifestazioni civiche, accoglie cerimonie religiose, si trasforma talora in mercato, si circonda di caffé e altri luoghi di conversazione.

A questa densità di significati e di tradizioni pensavano certo i tanti pianificatori di città nuove (per esempio in Orange County, California) che usarono la parola italiana “piazza” per designare spazi pubblici destinati ad accogliere forme di vita civica. Esperimenti che di solito non hanno molto successo, perché replicare la piazza italiana fuori d’Italia è davvero difficile senza la trama urbana che la circonda, la stratificazione storica che l’accompagna, la memoria culturale dei cittadini che vi abitano.
Questa storia secolare vacilla ormai sull’orlo dell’abisso. Da Treviso a Todi, da Pisa a Palermo, da Cagliari a Lecce capita sempre più spesso di vedere meravigliose piazze storiche invase, anzi occultate, da palcoscenici, impalcature, riflettori, sedie per spettatori, barriere, attrezzature sportive, schiere di gabinetti mobili, contenitori di rifiuti, bottiglie rotte per terra e altri detriti. Il fenomeno è così esteso e frequente che è inutile stendere una lista nera, additare al ludibrio sindaci o soprintendenti o descrivere casi singoli. Chiuse al pubblico non pagante, deturpate da invadenti strutture “provvisorie”, che però durano settimane o mesi, le nostre piazze nascondono la loro bellezza e la loro diversità, diventano tutte uguali, accolgono gli stessi concerti dalle Alpi alla Sicilia, perdono forza e carattere, si svendono per trenta denari. Il principio che governa questo degrado, in una cacofonia di rumori che appesta quartieri interi, è l’etica della location. Ma una piazza storica che venga intesa solo come location è già morta. L’idea stessa di location implica che la piazza di per sé non è nulla, non ha una funzione sua propria, a meno che non la si riempia di qualcos’altro, non importa se tornei sportivi, concerti rock, dibattiti culturali o cantanti d’opera. A pagamento, spesso, così la piazza “rende”; mentre la piazza storica, i nostri antenati non l’avevano capito, era uno sbaglio, uno spazio vuoto che di per sé non rende nulla.
Il successo di queste iniziative, tanto più perverse quanto più a lungo durano, si misura sbigliettando, contando presenze e introiti. Nessuno fa i conti di quel che si perde: il turista che in quella piazza entra una volta sola nella vita, e avrebbe il diritto di vederla, ma ne è privato perché le architetture sono nascoste dall’attrezzeria dell’evento di turno; il degrado dell’immagine civica che ne consegue; il progressivo logoramento della stessa idea di città. La piazza fu infatti per secoli il supremo spazio sociale che crea e consolida l’identità civica e la memoria culturale, perché lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni vi accade grazie al luogo e non grazie al prezzo. Sta ora diventando, al contrario, un non-luogo (una non-piazza), dove solo il prezzo conta, e la bellezza del luogo è solo uno specchietto per le allodole, si mostra e si nasconde. E questo mentre crescono intorno a noi, in un processo inarrestabile, i nuovi italiani che vengono da altre culture,e a cui dovremmo saper trasmettere valori e comportamenti senza i quali ogni discorso sulla tutela dei centri storici e dei paesaggi presto diventerà lettera morta.
Alla stessa logica, la piazza storica come un invaso vuoto da riempire e “modernizzare”, risponde anche l’incongruo aggeggio installato nel bel mezzo di piazza Sordello a Mantova con la scusa di proteggere resti archeologici. A profanare la celebre piazza, con prevedibile escalation, è stavolta un’architettura non effimera, ma ingombrante e pomposa. Perfino in una delle più preziose città d’Italia le “autorità preposte” hanno dunque perso il senso di che cosa una piazza sia? Ma i mantovani mostrano di capire, e si allunga ogni giorno la lista dei firmatari di una petizione per la pronta demolizione del goffo edificio. L’etica della location è più difficile da battere perché si nasconde dietro eventi effimeri, ma in molte città cresce la protesta e il fastidio. Riusciremo, noi italiani, a ricordarci che una piazza storica deve vivere, mostrare, difendere la propria dignità?

postilla

Ciòche Settis definisce «
una nuova barbarie che insidia le nostre città: l’etica dellalocation» è certamente un danno grave, che colpisce tutti gli spazi pubblicibelli o brutti, nobili od ordinari. Tutto ciò che era finalizzato o è finalizzabilealla fruizione da parte di tutti e può essere oggi“valorizzato”nell’interesse dipochi (o anche semplicemente all’incremento del PIL) viene stravolto a questofine. Ed è evidente che quando questa barbarie colpisce luoghi più ricchi dibellezza, di storia, di memorie ancora vive, o di usanze (e utilizzazioni) ancoraverdi o rinverdite la cosa turba di più.
Ma non vorremmo che la ricchezza dellefunzioni, dei ruoli, delle utilizzazioni cui sono soggette le piazze, mutevolinel tempo come è mutevole la storia delle città e delle società che le abitano,vengano appiattite sui loro aspetti estetici, sulle “pietre” che lecostituiscono.
Quante nobili piazze disegnate ed usate per celebrare l'orgoglio dei tiranni vennero adoperate come "location"per la ribellione vittoriosa degli oppressi? e quanti giardini costruiti per le delizie dei cortigiano trasformati in parchi pubblici per gli abitanti dei quartieri popolari? Le trasformazioni del suolo devono essere sempre orientate al miglioramento delle sue connotazioni positive, quale che sia la storicità infusa in esse.
Come icona abbiamo scelto una immagine di Gianni Berengo Gardin, "Francofonte"

Riflessioni sull'attualità degli standard urbanistici a partire dalle parole di tre grandi filosofi del novecento. Intervento introduttivo dell'incontro "Gli standard urbanistici cinquant'anni dopo", organizzato dalla Scuola di eddyburg per la rassegna Leggere la città. Pistoia, 8 aprile 2017. (m.b.)

Prima di affrontare il ruolo degli standard urbanistici nella costruzione della «vita civica» – al centro di questo incontro pistoiese organizzato della Scuola di Eddyburg –, mi preme ragionare sul valore dello spazio comune: pubblico e quindi politico. Per far ciò devo riferirmi sinteticamente alle riflessioni di tre filosofe. Simone Weil, Hannah Arendt, Françoise Choay.

I fondamenti dello spazio pubblico

Nel Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano scritto durante la Seconda Guerra, e intitolato significativamente “radicamento” (L’enracinement, 1949), Simone Weil individua i bisogni fondamentali dell’essere umano, o «esigenze dell’anima». Tra di essi è la «partecipazione dei beni collettivi». E quindi la partecipazione al loro uso. La filosofa afferma, infatti, che solo «laddove esiste [...] una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti civici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri». Altra primaria «esigenza dell’anima» è l’«uguaglianza». Essa è connessa col «riconoscimento pubblico, generale, effettivo, espresso realmente dalle istituzioni e dai costumi, che a ogni essere umano è dovuta la stessa quantità di rispetto e di riguardo».Lo Stato (la collettività), scrive la Weil, «ha il dovere di fornire la soddisfazione» del «bisogno» di uguaglianza e di proprietà collettiva del bene comune. Ed è proprio il riconoscimento di tali “diritti” che consente all’essere umano di assurgere alla civile vita associata.

Qualche anno dopo, in The Human Condition (1958, trad. it. Vita activa), Hannah Arendt riconosce lo spazio pubblico come dimensione essenziale alla condizione umana, luogo della «pluralità» e «sfera di possibilità della libertà politica». La filosofa tedesca mostra dunque l’intima connessione tra agire-insieme (politico) e spazio pubblico, o «mondo comune». In un altro passaggio di Vita activa, l’autrice si sofferma sulla città-stato greca. Troviamo qui un’importante riflessione sul “dato fisico” (importante per chi come gli urbanisti si esercita, per statuto, sul mondo fisico nell’interesse pubblico): le mura della polis – ella scrive – abbracciano e proteggono uno spazio pubblico già esistente. E, poiché «le cose del mondo hanno la funzione di stabilizzare la vita umana» (p. 98), lo spazio pubblico (costruito, conformato) è condizione non solo di esistenza della sfera politica, ma anche del suo permanere e riprodursi.

La Arendt non si esime tuttavia dal rimarcare la volatilità che affligge l’agire politico e il suo contenitore spaziale. Questa volatilità ci riporta all’oggi. Lo spazio pubblico, ella scrive, è effimero poiché «sorge dall’agire-insieme, dal condividere parole e azioni» e dura finché durano queste attività. Cessate le attività – l’agire nella polis, l’«agire-insieme» (p. 145) –, cessano di esistere anche gli spazi comuni, e il loro bisogno.

Tale dolorosa prospettiva viene lenìta, in tempi più vicini a noi, dalle acquisizioni teoriche che ci derivano dagli studi di Françoise Choay. La filosofa francese si sofferma infatti sul «ruolo instauratore» dello spazio pubblico, insistendo «sul rapporto dell’architettura [e dello spazio] con l’istituzione della società», riconosciuto che la scena architettonico-urbana costituisce il «quadro fondatore della nostra quotidianità». A tale quadro costruito – lo «spazio conviviale di contatto» della città medievale; lo «spazio scenico» rinascimentale-barocco; lo «spazio della circolazione» della Parigi haussmanniana; ma non lo «spazio delle connessioni» che caratterizza il periodo in cui oggi siamo immersi – viene attribuito un valore antropogenetico: esso contribuisce cioè alla nascita e all’esistenza della società.

«È fondamentale – rimarca la filosofa – comprendere che la facoltà di parlare e la facoltà di costruire sono le due facce della stessa competenza che fa di noi degli umani: cioè la competenza di simbolizzare». Poiché dunque l’atto di edificare «possiede la stessa dimensione simbolica del linguaggio», le opere che compongono la scena cittadina sorreggono simbolicamente la vita che vi si svolge.

Attraverso l’architettura, e lo spazio pubblico che essa determina e configura, si perpetuano nel tempo le civilizzazioni; attraverso lo spazio conformato «riusciamo a memorizzare ciò che il linguaggio esprime nell’istante», ma che nel linguaggio «è evanescente». Nel sottolineare la durata nel tempo dell’architettura, la Choay ci rincuora: lo spazio edificato è capace di rendere eterni «il nostro stato di cultura e le nostre identità umane nel tempo».

Lo spazio comune (città, edifici collettivi, spazi pubblici), grazie alla sua durata, obbliga perciò al ricordo di comportamenti sociali e ha la facoltà di «promuovere un sistema di valori giuridici e morali» nel tempo. Una facoltà interpretabile in chiave antropologica: «il processo di spazializzazione come potere inerente alla specie umana», «aboli[sce] le rotture grazie alla memoria», affermando «la fedeltà della nostra specie a se stessa in un imprevedibile processo di creazione che non può essere altro che continuazione».

Di tale facoltà dà prova la riproposizione della “villa comunale” di Chiaia nelle periferie napoletane (San Giovanni-Barra, Ponticelli, Scampìa) recuperate con un piano esemplare negli anni ’80 del post-terremoto. Il parco pubblico viene in questi luoghi riprodotto con criteri di analogia rispetto all’esempio storico, quanto a dimensioni, proporzioni e magnificenza, in base alla previsione di verde pubblico da standard ex DM 1444/1968.

Lo spaesamento e la demolizione

Le tre autorità interpellate – Weil, Arendt, Choay – ci hanno accompagnato nella definizione dello spazio pubblico come luogo, simbolo e matrice, della democrazia, della costruzione civile e antropologica, dell’uguaglianza. Tuttavia, nel trentennio neoliberista, l’ideologia che ha privilegiato l’azione privata su quella pubblica ha guidato la politica sul piano inclinato verso il privatismo; e, come conseguenza socio-spaziale, ha portato a confondere luoghi pubblici e luoghi di uso pubblico ma di proprietà privata.

Prendiamo il caso estremo dei centri commerciali. I cittadini (trasformati in utenti) interpretano quali spazi “pubblici” questi luoghi che hanno invece natura privata, che sono gestiti secondo princìpi privatistici volti all’interesse economico, e improntati al securitarismo, alla chiusura, alla selezione. Luoghi dove, in termini giuridici, il privato proprietario può esercitare lo ius excludendi alios.
La piazza, l’ambiente pubblico, è invece tradizionalmente caratterizzata da apertura, gratuità, inclusione.

Tuttavia, quando nel senso comune la città o la piazza valgono un centro commerciale, tutto è confuso e messo sullo stesso piano. Lo spaesamento va di pari passo con la disaffezione dei residenti per i luoghi centrali, che vengono loro sottratti dalla mercificazione generalizzata, dall’alienazione del patrimonio pubblico e dallo svuotamento degli edifici monumentali dalle funzioni collettive. Luoghi che diventano inoltre sempre più lontani a causa dell’inefficienza del trasporto pubblico, oggi pesantemente privatizzato.

Il cittadino frequenta diffusamente le enclosures moderne – sia per le comodità offerte (sono luoghi protetti e riscaldati), sia per le maggiori occasioni di incontro –, che così diventano luoghi di aggregazione (pur restando spazi di consumo), scene mnemoniche della vita vissuta, pur restando luoghi privati, mercantili.Tuttavia è ancor più grave il movimento inverso: il recente provvedimento detto “Daspo urbano” dimostra che la figura del sindaco è stata confusa con quella del proprietario di un centro commerciale.

Ma vorrei ora arrivare al nodo del discorso: gli standard urbanistici. L’istituto degli standard non è perfetto, come avvertirono i protagonisti. E non c’è dubbio che esso non sempre ha determinato la produzione di ambienti urbani di qualità. Negli “standard” è infatti del tutto assente la questione qualitativo-architettonica e, ciò che è più rilevante dal punto di vista urbanistico, è pure assente la questione localizzativa. Per conferire agli insediamenti qualità urbana, ambientale e sociale, le attrezzature di servizio e il verde dovrebbero infatti trovar luogo all’interno degli abitati e costituire così centralità di quartiere, evitando di intaccare il suolo agricolo o di occupare aree di difficile accessibilità incrementando in tal modo il traffico automobilistico privato.

A Bologna (1969), la città storica fu ripartita in aree dal raggio di 4-500 metri in cui furono verificate le carenze e le concentrazioni eccessive di servizi (asilo nido, scuola materna, scuola dell’obbligo, scuola superiore, assistenza, commercio, verde di quartiere etc.) e recuperati quelli necessari. Altro esempio storico può essere indicato negli arrondissements haussmanniani.

Analogamente, per la conurbazione urbana potrebbe essere applicata una suddivisione che discenda dalle ripartizioni storiche (perimetro del territorio delle parrocchie, delle Comunità da catasto storico, dei territori comunali antecendenti agli accorpamenti fascisti etc.): tale suddivisione renderebbe evidenti gli ambiti in cui localizzare attrezzature e verde pubblico da standard.

Comunque sia, stanti i difetti sopra accennati, il dispositivo previsto dal 1444/1968 rappresenta ancora, ad oggi, in quanto garanzia di universale accesso ai servizi, una valida soluzione alla domanda di:
- uguaglianza sociale (nella geografia peninsulare);
- costruzione permanente di democrazia;
- pari opportunità;
- mobilità sociale;
- benessere psicofisico.

E sarebbe perciò un istituto da difendere, da migliorare e da incrementare. Sarebbe. Uso il condizionale perché la deformazione della normativa urbanistica ed edilizia sta togliendo il terreno sotto i piedi a questa “postura” disciplinare. Vediamo, brevemente, alcune tappe della demolizione di tale fondamento della pianificazione urbanistica di segno “progressista” e quindi dell’assetto democratico del nostro mestiere, che sempre più dimentica il suo statuto sociale:
- DdL “Principi in materia di governo del territorio” detto DdL Lupi (approvato alla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005). Scrivevano, in un pamphlet pubblicato nell’occasione, Alberto Magnaghi e Anna Marson: «La nuova legge prevede l’eliminazione degli standard urbanistici minimi finora vigenti, affidando la garanzia della “dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici” (art. 7, comma 1) a “criteri prestazionali” non ulteriormente specificati, in relazione a un “livello minimo dell’offerta dei servizi” non meglio definito [...]. L’unico punto specificato è la possibilità che i servizi pubblici vengano garantiti anche con il concorso dei soggetti privati, mentre la definizione dei criteri del dimensionamento è affidata alle singole regioni»;
- la legge di attuazione (L 98/2013) del cosiddetto “decreto del fare” (L 69/2013), che va a modificare il Testo unico dell’edilizia (L 380/2001) a cui è aggiunto l’art. 2-bis (Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati): «1. Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali»;
- la bozza di riforma della legge urbanistica a firma del ministro Maurizio Lupi (2014), mai approdata in Parlamento a causa di uno scandalo che coinvolse l’estensore del progetto legislativo;
- il disegno di legge regionale «sulla tutela e l’uso del territorio» dell’Emilia Romagna, approvato in Giunta nel febbraio 2017, che introduce gli standard “differenziati”. Un ossimoro: standard è una norma, un modello uniforme di riferimento; differenziato significa «distinto a seguito di una funzionale discriminazione» (Devoto Oli).

Il DdL ER dispone una raffica di deroghe per molteplici casi e categorie di intervento; prevede diffusamente la monetizzazione degli standard e persino il loro azzeramento. Richiamo la vostra attenzione su questo punto: all’art. 9 del DdL è sancito che nei settori urbani caratterizzati «da un’elevata accessibilità sostenibile», il PUG (Piano Urbanistico Generale) può disciplinare la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana che «escludano o riducano» l’utilizzo delle autovetture private e che saranno perciò «esentati dall’obbligo del reperimento di spazi per parcheggi pubblici e pertinenziali». È sufficiente che le convezioni che normano l’accordo riportino l’assunzione dell’«impegno [da parte] dell’operatore e dei suoi aventi causa a rispettare le limitazioni all’uso di autovetture» (art. 9, comma 1, lett. e). Insomma: se il costruttore promette che non ci saranno automobili, non c’è più bisogno dei parcheggi! Basta la parola.

Alternative in atto e in potenza

Credo che gli spazi pubblici possano (debbano?) avere, oggi, una parte importante nella costruzione di una società inclusiva.
La delibera per l’ex Filangieri a Napoli è una possibilità concreta, da estendere alle altre città italiane. La delibera fa leva sulla categoria giuridica di “bene comune” e riconosce ad alcune esperienze di riappropriazione in autogestione di edifici dismessi il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico», e come tali le ritiene strategiche.
È una soluzione che non risolve il difetto di fondo, ossia che, nel caso specifico, il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico» si fonda su atti di volontà non retribuiti, di singoli o di soggetti collettivi informali che forniscono in autonomia servizi di “welfare dal basso”. Tuttavia la delibera, formalizzando legalmente attività sociali e di servizio all’abitare in essere, porta alla luce e sancisce la necessità dell’esistenza stessa di pratiche di vita aggregata ulteriori rispetto alle attuali, evidentemente insufficienti.
Nel quadro attuale, la soluzione napoletana costituisce una boccata d’ossigeno. Sulla quale sarebbe necessario elaborare una strategia valida per l’intera penisola.

La colossale operazione di svendita del patrimonio pubblico in atto rischia di vanificare un’importante occasione per dar vita ad alternative d’uso risolutive dei mali che affliggono le città, occasione che proprio la consistenza (quantitativa e qualitativa) di tale patrimonio fornirebbe. Com’è noto, nelle alienazioni giocano un ruolo di primo piano, da una parte l’Agenzia del Demanio ridotta a società per azioni, dall’altra una Cassa Depositi e Prestiti privatizzata, nonché le relative agenzie che pongono in vendita i beni pubblici con «modalità organizzative e strumenti operativi di tipo privatistico». La natura puramente economica degli attori e delle scelte distrae l’attenzione dalla natura viceversa schiettamente urbana delle ricadute della colossale mercantilizzazione in cui le città sono coinvolte. Le ricadute mutilano il progetto urbano e urbanistico, poiché sottraggono agli urbanisti, e alle comunità, il fondamento materiale del progetto: proprio quei “contenitori” che giocherebbero un ruolo fondativo nella riconfigurazione dell’habitat urbano.

Gli edifici in vendita hanno infatti – nella grande maggioranza – una posizione centrale o sono situati nella città consolidata, hanno spesso qualità monumentali e rappresenterebbero perciò una risorsa importante per restituire all’uso della cittadinanza gli edifici che sono stati luogo del potere e dei soprusi: il palazzo, la caserma, il carcere, il manicomio.

Restituire disponibilità e funzioni collettive ai contenitori intra moenia evita l’espansione e la dispersione nelle campagne, contribuisce realmente a bloccare il consumo di suolo. Contribuisce infine a restituire ai quartieri centrali quel carattere di promiscuità d’usi, che è il primo presidio contro la mercificazione e la desertificazione degli spazi urbani.

Potete scaricare qui il testo in formato pdf, con l'impaginazione corretta e con le note a piè di pagina, dove trovate i riferimenti ai testi citati e i collegamenti ai siti.
L'intervento di Ilaria Agostini ha aperto l'incontro sugli standard urbanistici, organizzato a Pistoia a conclusione della sessione della scuola di eddyburg dedicata alle strutture culturali come servizio essenziale per una società solidale e multiculturale. All'incontro hanno partecipato Ilaria Boniburini, Mauro Baioni e Edoardo Salzano. Sul sito della scuola sono pubblicati il programma della scuola e presto saranno disponibili i documenti e le presentazioni. Vi consigliamo di guardare la bellissima video-intervista a Edoardo Salzano, registrata a Pistoia il giorno precedente da Andrea Pantaleo.

Da sinistra Ilaria Boniburini, Ilaria Agostini, Mauro Baioni, Edoardo Salzano

Edoardo Salzano e Mauro Baioni
(questa foto e la precedente sono scattate da Paolo Dignatici)

A Pistoia, dal 6 al 9 aprile 2017, la quinta edizione di Leggere la città, rassegna di incontri, lezioni, mostre e laboratori, curata da Francesco Erbani. Anteprima ufficiale dell'iniziativa sarà la scuola di eddyburg dedicata alle strutture culturali (m.b.)
«La cultura è uno degli elementi che connota una comunità, la rende consapevole, interpreta i suoi bisogni, ne definisce le prospettive e le assicura la possibilità di produrre altra cultura. Inoltre è il terreno sul quale la comunità gioca le sue possibilità di essere aperta e accogliente e non viziata da identità chiuse ed esclusive. Non solo, la cultura è il primo strumento dell’emancipazione sociale e civile di ognuno». Queste parole introducono il programma della quinta edizione di Leggere la città, rassegna di incontri, lezioni, mostre e laboratori dedicata al tema "Cultura è comunità". Si svolgerà a Pistoia, capitale italiana della cultura per il 2017, dal 6 al 9 aprile.
Leggere la città è una rassegna unica nel suo genere. Rende omaggio, nel titolo, al libro di Giovanni Michelucci “Pistoia: leggere una città”. Leggere la città come un libro di pietra, leggere la città variabile, la città tenda, la città del dialogo sono tra le pagine più belle del pensiero di Michelucci che, attento al disagio urbano, al tessuto degradato e a quello marginale, mise al centro delle sue architetture le persone e il loro vivere. Filo conduttore delle cinque edizioni della rassegna è il rapporto inscindibile tra spazio pubblico e comunità.
Il programma curato da Francesco Erbani è particolarmente ricco e vede, come tutti gli anni, la partecipazione di architetti, urbanisti, sociologi, storici e filosofi, geografi ed economisti. Sono previsti oltre 60 appuntamenti ospitati nel centro storico cittadino, ai quali partecipano anche numerosi amici di lunga data di eddyburg, tra cui Vezio De Lucia, Piero Bevilacqua, Giancarlo Consonni, Ilaria Agostini, Lucia Tozzi. In apertura, come consuetudine, è prevista una lectio magistralis, tenuta in quest'occasione da Sergio Givone. Domenica sera, la conclusione è affidata a Vittorio Gregotti. Tra le molte iniziative previste ricordiamo:
- una mostra dedicata a Giovanni Michelucci, con testi disegni e modelli originali, fotografie d’epoca, video, oggetti provenienti dalla sua casa di Fiesole;
- una rassegna di incontri dedicata alle architetture che fanno comunità (il quartiere Isolotto a Firenze, il QT8 a Milano, lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli);
- una serie di ritratti di urbanisti e architetti, tra i quali Italo Insolera.
Siamo presenti anche noi, ufficialmente e felicemente, con la scuola di eddyburg dedicata alle strutture culturali come servizio essenziale per una società multiculturale e solidale. La scuola si svolge il 5 e 6 aprile, negli antichi magazzini del palazzo comunale, e costituisce una sorta di anteprima di Leggere la città. Sabato 8 alle 11, presso le sale affrescate del comune, illustreremo gli esiti del nostro lavoro e ragioneremo con Ilaria Agostini sull’attualità degli standard urbanistici, cinquant’anni dopo la loro introduzione.
Riferimenti
Qui potete consultare il programma ufficiale della manifestazione. In questo articolo un commento al riconoscimento di Pistoia come capitale della cultura 2017. Come sanno i lettori di eddyburg, abbiamo partecipato a diverse edizioni di leggere la città. Due anni fa, Eddy Salzano ha tenuto la lectio magistralis, che vi invitiamo a rileggere. (m.b.)

Un museo può essere il catalizzatore di un processo di valorizzazione territoriale che coinvolge comunità, istituzioni e imprese? Due studiosi spiegano perché è importante promuovere la costituzione di musei del territorio nel sud d'Italia (m.b.)

«(…) pensiero meridiano non vuol dire apologia del sud, di un’antica terra assolata ed orientale,

non è la riscoperta di una tradizione da ripristinare nella sua integrità. Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integralismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera.» (F. Cassano, 1996)

Può un museo contribuire alla costruzione di un percorso di identità e di senso che si fa costruzione territoriale? L’identità meridiana come fattore di costruzione civica che riconosce i bisogni, le emergenze, le disparità e propone categorie interpretative. Un museo come luogo di conservazione e di produzione della memoria della storia del Mezzogiorno, di ricerca e di educazione, per le scuole, i territori e le comunità. Un museo che parli di resilienza, di fragilità, di Appennino, di agricoltura e di cibo, di montagna e di costa, di innovazione, di migrazioni. I mutamenti in atto cambiano l’idea di Sud, o dei Sud, inteso non come dimensione geografica, ma come condizione analitica che pone al centro le fragilità, le diversità, le disparità. Il Sud come dispositivo ha prodotto nel corso nei secoli sistemi di civiltà complessi e stratificati. Se la storia contemporanea non pare dipanarsi intorno a magnifiche sorti e progressive, i processi storici del Mezzogiorno e dei suoi territori consegnano un insieme plurale di esperienze di civilizzazione – un’unità pluriverso (Purcell e Horden, 2000) che è in primo luogo incontro. In questi territori i sedimenti successivi e i caratteri molteplici delle strutture territoriali possono farsi costruzione di un’unità simbolica. Tale processo implica la costruzione di una memoria comune, precondizione perché il Mezzogiorno riconosca se stesso e immagini il suo avvenire.

Un museo può contribuire alla costruzione di una memoria collettiva, ovvero di un’identità? Come declinare questa ricostruzione attiva, questa invenzione filologicamente rispettosa, critica e consapevole? Quale passato? Come tante storie diventano la “nostra” storia? Come la conoscenza di quella storia contribuisce a scrivere il futuro? Un museo che sappia indagare la dimensione sociale, ambientale, storica e politica, culturale del Mezzogiorno oggi, secondo un modello dove i rapporti tra ricerca, formazione ed educazione siano integrati tra loro, e che, come il tempo presente, sia capace di leggere i mutamenti repentini con la tensione a interpretarli, superando la descrizione, in favore della rappresentazione di fatti che divengono già processi. I ricercatori a volte sono bravi divulgatori, qui si è chiamati a sperimentare, consapevoli che non si classificherà, forse piuttosto si mapperanno i mutamenti con meticolosità e scrupolo per la costruzione dell'atlante dei Sud, declinato al futuro.
Un museo qui si costruisce intorno a una piccola collezione permanente e si apre a mostre temporanee, anche a carattere monografico. Nel quadro di iniziative co-organizzate e co-prodotte con università, enti e istituzioni culturali italiani ed esteri, che esplorano temi, forme e strumenti.
Parafrasando David Thorp potremmo dire di pensare a un’istituzione culturale del XXI secolo che sia flessibile, sincera, democratica, multiculturale, contraddittoria e audace. Splendida quando è ricca, eroica quando non ha denaro. Deve avere la testa fra le nuvole, funzionare in maniera esemplare, avere lo spirito di squadra, i piedi per terra e un cuore grande così. Che ami i territori, si prenda cura del pubblico, tolleri il fumo e rimanga aperta sino a tardi.

Rapporti complessi tra variabili territoriali e processi di mutamento sociali ed economici in atto mostrano una progressiva marginalizzazione dell’economia italiana e del suo tessuto produttivo dalle dinamiche europee e mediterranee: un’inedita geografia della dismissione del nostro ruolo di riferimento culturale e politico prima ancora che economico. In un territorio come quello italiano a carattere marcatamente policentrico, si osserva il consolidamento delle specializzazioni come dei divari territoriali, il conflitto tra regioni e traiettorie di crescita, nel quadro di un modello di sviluppo dissipativo, che ha avuto pesanti effetti sociali, ambientali e paesaggistici. Le determinanti dei mutamenti sono riconducibili a fattori molteplici di natura sociale, economica, ambientale, istituzionale, legati a un quadro sovranazionale e globale. Se sono mutate le tendenze globali e i riferimenti macroeconomici, conseguentemente sono cambiati i paradigmi concettuali e rapporti stessi tra politiche culturali, sociali come di formazione e ricerca. Tali transizioni impongono la rilettura stessa di alcune categorie interpretative dei processi storico sociali, economici ambientali e culturali dei territori.

In questa cornice assume un ruolo chiave la formazione. Solo per citare un tema si consideri il numero degli iscritti all'università che in altri paesi continua a crescere, e in Italia negli ultimi anni si è ridotto di un quinto (Viesti, 2016). Lo scenario della formazione e della ricerca, in particolare nel Mezzogiorno, pone in luce temi connessi - tra gli altri - alla capacità di coinvolgimento dei soggetti, pubblici e privati, preposti o interessati allo sviluppo territoriale. Il quadro delle iniziative a carattere culturale nel Mezzogiorno va componendosi intorno a strutture insulari che in alcuni casi vanno sperimentando percorsi di innovazione sociale che possono trovare una valorizzazione reticolare di incontro e scambio. Lo stesso patrimonio artistico culturale e naturale del Mezzogiorno, potenzialmente in grado di determinare flussi turistici rilevanti, esprime una eterogenea capacità di attrazione. Ulteriore problematica che rende la domanda per i beni culturali modesta è il ruolo giocato dai contesti simbolo che tendono a concentrare flussi turistici in poche realtà.

Un’istituzione museale è chiamata a orientare la propria missione al principio della responsabilità sociale, nei diversi domini che caratterizzano la propria missione di istituzione culturale riconoscendo che si è chiamati a operare all’interno di sistemi caratterizzati da diversi gradi di complessità per la trasmissione della conoscenza, secondo criteri sistematici di confronto con il territorio ai suoi diversi livelli di governo, con gli attori pubblici e privati valorizzando e reinterpretando le diverse competenze e generando figure e percorsi capaci di affrontare le sfide della complessità.

Il carattere innovativo della proposta per l’istituzione di un museo dei Sud del XXI secolo è legato alla sua capacità di integrare educazione, ricerca e formazione. Questa proposta pone al centro il ruolo della territorializzazione degli strumenti e delle proposte per i molti Sud di cui si compone quello che oggi è l’arcipelago Mezzogiorno. Da qui deriva la necessità di sensibilizzare i soggetti attuatori chiamati a progettare un’offerta territoriale rispetto alle forme e alla singolarità di una domanda (anche inespressa) dei territori stessi in misura radicalmente nuova rispetto a quanto è accaduto con le politiche di intervento straordinario, la domanda diventa, in tal modo, il modello concreto dello sviluppo di un Sud che non è solo un non ancora nord (Cassano, 1996).

Le profonde trasformazioni sociali economiche e ambientali che investono la contemporaneità si inseriscono all’interno di processi di mutamento che investono la scena globale e quella locale. Un museo può configurarsi come catalizzatore di un processo di valorizzazione territoriale che coinvolge comunità, istituzioni e imprese. In questo sviluppo è utile riprendere la lezione di Bevilacqua (1998) che ha eletto il valore della bonifica italiana a principio del Novecento: “Se si voleva risanare un’area era vana fatica arginare un fiume, costruire l'anno dopo un ponte, l'altro ancora prosciugare uno stagno. Dopo un po’ il disordine idraulico riprendeva il sopravvento su tutto. Occorreva al contrario simultaneamente prosciugare lo stagno, costruire il ponte, arginare il fiume, edificare gli abitati per richiamare popolazione”. Simultaneamente si riferisce alla necessità di attivare a partire da un solido progetto culturale, economie derivate e derivabili, in un quadro che determini dinamiche sistemiche. La questione meridionale è una questione di raccordi: innescare uno sviluppo autonomo occorre accompagnare i territori e le comunità a collegarsi, a cooperare, a organizzarsi, a fare massa critica: a fare società (Bevilacqua, 1998). La consapevolezza di lavorare in un quadro d’inedita complessità - connessa alla fragilità dei sistemi sociali, economici e ambientali - impone di orientare gli obiettivi di un’istituzione culturale all’interno di un progetto territoriale unitario.

I rapporti tra la complessità delle interazioni tra codici culturali, le opportunità di accesso alle informazioni e l’annullamento della località e della distanza, la dimensione globale dei sistemi produttivi e dei mercati e, dall’altro lato, i temi connessi alle condizioni di rischio legate ai fattori naturali come alle crescenti disuguaglianze e ai divari sociali e urbani, impongono una rinnovata riflessione sul significato e sul ruolo di un’istituzione culturale nelle sue molteplici articolazioni e potenzialità. Il museo oggetto della presente proposta deve caratterizzarsi per un tasso elevato d’innovazione, legato alla possibilità di recuperare una dimensione dinamica e critica dell’educazione e della divulgazione come della ricerca e della formazione. In questa prospettiva la condizione urbana e il territorio sono letti e interpretati nelle loro componenti fisiche, morfologiche nonché socioeconomiche e culturali, lì dove gli stessi ambiti rurali si confrontano con l’urgenza di reinterpretare funzioni, modelli e flussi, in un rapporto dialettico rispetto ai mutamenti in atto nelle aree urbane.

Il percorso scientifico e strategico dentro cui è collocata la presente proposta guarda al bacino del Mediterraneo come riferimento territoriale e cognitivo delle proprie linee di ricerca e di divulgazione, sul piano identitario, culturale e politico. Le dinamiche in atto nel Mediterraneo mostrano numerosi fattori d’instabilità e di frammentazione geopolitica, sociale, urbana e demografica che costituiscono una sfida a un tempo politica, culturale e scientifica per un’istituzione museale contemporanea.
A conclusione di queste riflessioni vale la pena richiamare alcune questioni di metodo, ovvero alcuni caveant. In primo luogo, l’evidenza che il cambiamento sociale guida quello economico, non viceversa. In questo senso proviamo a recuperare un orizzonte di intervento lungo, parliamo di avvenire, per favore. Ancora, proviamo a recuperare una cornice di senso e di ruolo per l’osso d’Italia e per quello mediterraneo in genere. Infine, proviamo a ritrovare lo spessore della visione, che si configuri non come istanza - dentro logiche clientelari o neofeudali - che la comunità locale o parti di classi dirigente o intellettuali e studiosi rivolgono agli attori istituzionali, bensì l’incontro tra tutti coloro che hanno responsabilità.

Lo spazio pubblico se è veramente tale rappresenta il luogo ideale per manifestare politicamente. Quando non lo è, la manifestazione serve a mettere in risalto questo deficit democratico urbano. Los Angeles Times, 2 febbraio 2017

Mi occupo dei rapporti tra protesta politica e forma urbana da oltre vent'anni, dai tempi in cui scrivevo la mia tesi specialistica nei primi anni '90, e con terribile dilettantismo e ingenuità mescolavo storia dell'architettura e scienze politiche. Ma non credo proprio di aver mai assistito a nulla di simile a quanto accaduto in questi giorni all'aeroporto internazionale di Los Angeles e in altri del paese.

Reagendo all'ordine esecutivo con cui il presidente Trump sospendeva l'accoglienza dei richiedenti asilo, e impediva temporaneamente l'accesso al paese ai cittadini di sette nazioni islamiche, sono scesi in campo i contestatori, dall'aeroporto internazionale Birmingham-Shuttlesworth in Alabama allo O’Hare di Chicago. Hanno invaso parte degli scali di New York e San Francisco, e i terminali di Dallas, Boston, Miami, Washington, D.C., Phoenix, Seattle, Albuquerque, Denver, Missoula in Montana, Portland, Maine. Certo in termini di numeri – quantità assolute – non si trattava di manifestazioni paragonabili alla marcia delle donne il giorno dopo l'insediamento di Trump. Solo a Los Angeles, con le donne si contavano persone a centinaia di migliaia, mentre i contestatori al Tom Bradley International Terminal erano alcune migliaia, forse decine, di migliaia.

Ma per certi versi l'effetto di questa protesta negli aeroporti è stato maggiore, o quantomeno da valutare in termini diversi. Certamente più focalizzato, dato che sono tanti gli immigrati che si muovono in aereo. Ed è certamente vero che i terminal internazionali degli aeroporti americani, per quanto se ne detestino le lunghe code e le forme anonime, ben simboleggiano il tipo di cultura cosmopolita che il nazionalismo della retorica «America First» degli elettori di Trump ha stigmatizzato. Da quel punto di vista, si può quasi quasi interpretare la stessa ordinanza di Trump come una specie di contestazione, contro l'architettura della globalizzazione e della libera circolazione, delle persone e delle culture, tra questo paese e il resto del mondo.

Non credo proprio che Stephen K. Bannon, la mente dietro alla strategia dell'ordinanza, sia stato più di tanto colpito da quel caos negli aeroporti del paese. Certo la fulmineità del decreto, e l'altrettanto fulminea reazione dei contestatori, paiono identiche nel loro essere frenetiche, una caratteristica ormai tipica di questo mandato presidenziale, ma la cosa nuova delle manifestazioni negli aeroporti è il modo in cui si usa quello spazio urbano: un ambiente che consideriamo architettonicamente carente, diventa invece un vantaggio per la lotta politica. Alcune delle proteste (che hanno assunto nei vari luoghi forma di cortei, sit-in, preghiere di gruppo, o altre modalità di disturbo dell'attività degli scali) si sono svolte dentro i terminali, quegli spazi dai pavimenti lucidi, enormi come hangar, che sono quasi identici in tutto il mondo. Là dove contestatori o mezzi di informazione non sono riusciti a occupare quegli strategici spazi interni, si sono quantomeno rilevate utili informazioni normative. Alcuni giornalisti sono stati allontanati dal terminale 4 del JFK mentre si svolgeva la protesta, in quanto spazio di proprietà privata, a differenza del resto dell'aeroporto, pubblico e gestito dalla Port Authority di New York e New Jersey.

Proprio per questo genere di restrizioni, le proteste più vistose hanno avuto luogo all'esterno dei terminali, dentro quelle strette fasce dove l'aeroporto sfuma nella città, sulla linea di demarcazione tra un interno presidiato e un esterno imprevedibile e tumultuoso. A differenza della piazza pubblica, ottimo luogo per la manifestazione politica nella misura in cui è effettivamente pubblica, l'aeroporto pare un luogo adeguato, proprio per le sue carenze spaziali che di solito non notiamo. Marciapiedi strettissimi; passerelle pedonali che scavalcano i parcheggi; minuscole isolette sicure nell'asfalto per aspettare l'autobus navetta; strade perimetrali che circondano qualunque aeroporto: è questo, il palcoscenico su cui la rappresentazione risulta più efficace per i contestatori, sia perché si blocca il traffico, sia perché i mezzi di informazione ne traggono l'immagine di una folla arrabbiata e vociante.

In aeroporti già molto sovraccarichi come quello di Los Angeles, già gli spazi operano al limite ogni giorno, e il blocco definitivo, la trombosi urbana, è esattamente il risultato ottenuto e sfruttato dai contestatori. Un'informazione che ovviamente arriva anche alla controparte. Greg Lindsay - della New Cities Foundation e coautore insieme a John D. Kasarda del libro Aerotropolis: The Way We’ll Live Next - sottolinea come quel problema della terra di nessuno non sia solo spaziale, ma anche legale: «Con le proteste si capisce chiaramente come le autorità responsabili dovrebbero risolvere alcuni nodi fondamentali per impedire l'accesso. A New York il governatore Andrew Cuomo ha dovuto chiedere alla polizia della Port Authority di riaprire l'ingresso del treno, che era stato chiuso proprio per impedire che i contestatori arrivassero in metropolitana».

Non sappiamo come andrà a finire. Magari queste manifestazioni negli aeroporti si esauriranno, man mano nuove decisioni della Casa Bianca innescheranno altre diverse contestazioni. E del resto ce lo ha spiegato chiaramente Lindsay, quanto è più semplice fare ordine pubblico in un aeroporto, rispetto a un centro città. Però qualcosa mi dice che gli attivisti più attenti, in queste manifestazioni riusciranno a individuare qualche genere di modello ripetibile.

(c) Los Angeles Times, 2 febbraio 2017 - Titolo originale: Building Type: The airport as public square and protest central – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

«Sarà stravolta la piazza delle grandi proteste di massa, teatro della rivolta del maggio 2013 contro il governo conservatore islamico, repressa nel sangue dai militari di Erdogan. Arrivano una caserma e una moschea. Giù anche il palazzo dedicato del padre laico della storia moderna turca». La Repubblica online, 2 novembre 2016, con postilla (p.s.)

Sono arrivate le ruspe al Gezi Park. Tre colossi gialli dotati di leve e cucchiai dentati da qualche giorno hanno fatto la loro sinistra apparizione ai giardini che affacciano su Taksim, la piazza centrale di Istanbul.

Questo fu il teatro della rivolta del maggio 2013, repressa nel sangue dopo che migliaia di dimostranti si ribellarono alla decisione del governo conservatore islamico di abbattere gli alberi secolari per far posto a un centro commerciale. Il ministro della Cultura ha annunciato anche che il Centro culturale Ataturk, l’edificio simbolo della Turchia laica in quei giorni, a fianco del parco, sarà demolito.

Cadono in un colpo solo due emblemi di una reazione di popolo spontanea. Furono in molti a scendere in piazza per difendere l’unico polmone verde nel centro della metropoli. Donne col velo e giovani appartenenti al partito di governo, anziane armate di fionda e tifosi delle tre squadre avversarie di Istanbul uniti a braccetto. Orhan Pamuk, il Nobel per la Letteratura in quei giorni a Firenze, raccontò l’importanza del luogo e di quando la sua famiglia una notte si unì a proteggere un albero di noce perché non fosse abbattuto.

Ora, può anche darsi che tronchi e radici vengano salvati e trasferiti, dato che nel pomeriggio i giardinieri si davano da fare a dissodare il terreno. Ma i lastroni di cemento appoggiati accanto alle ruspe non promettono certo respiri ecologisti.

Il Leader ha ribadito di recente la volontà di procedere, anche se il centro commerciale non si farà più: “Una caserma militare – ha spiegato il presidente Tayyip Erdogan – verrà costruita, che lo vogliano o meno, e ospiterà un museo storico”. Quindi sarà la volta di una moschea. E poi, ha aggiunto il capo dello Stato, verrà innalzato "il primo palazzo dell'Opera della Turchia".

Il ministro della Cultura, Nabi Avci, ha giurato alla stampa che il progetto “non ha alcun approccio politico: se non lo demoliamo, il centro culturale Ataturk cadrà sulla testa di qualcuno, ormai ha completato la sua vita”.

Era l’edificio davanti al quale il coreografo Erdem Gunduz, ribattezzato l’Uomo in piedi, attuò nella sua semplicità una protesta clamorosa. Mentre le autorità erano già intervenute a sedare i disordini, proibendo assembramenti non autorizzati, Gunduz si piazzò davanti all’edificio dal quale nel frattempo era stato srotolato un enorme ritratto di Mustafa Kemal, Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, e per ore si mise a guardarlo negli occhi, in silenzio.

In breve fu imitato da centinaia di persone, e poi da decine di migliaia che in tutte le città, in ogni centro del Paese, elevavano così il loro dissenso.

Venti giorni dopo, i blindati bianchi della polizia avevano facile gioco delle barriere di cartone erette al Gezi Park, dove la gente si era organizzata con librerie e ristorantini, rivendite e ospedali da campo, a mo’ di presidio del verde pubblico. Un’immagine ora destinata al ricordo, soffocata dal nuovo cemento.

postilla

A mo' di postilla, un testo di Mathias Enard:

«… andare fino in fondo all’avenida Diagonal, dove raggiunge il mare cosi caro agli immobiliaristi e agli urbanisti moderni, per vedere un immenso cantiere un terreno disseminato di bulldozer e di betoniere, ai piedi di edifici eleganti, con vista, tra i più cari e i più moderni d’Europa, quel terreno brulicante di operai si chiamava un tempo campo de la Bota, campo dello stivale i falangisti lo avevano scelto come luogo per le fucilazioni, duemila innocenti, anarchici, sindacalisti, operai, intellettuali, erano stati massacrati sotto le finestre degli appartamenti di lusso di oggi, sommariamente condannati da una corte marziale distratta e sfinita, poi affidati a un plotone di esecuzione distratto e sfinito, prima che il loro ricordo fosse definitivamente sepolto da operai immigrati distratti e sfiniti, nel punto della fossa comune dei duemila cadaveri il comune di Barcellona costruiva il suo Forum delle culture, forum della pace e della multiculturalità, nel luogo della carneficina franchista si edificava un monumento allo svago e alla modernità, alla fiesta, una gigantesca operazione immobiliare che avrebbe dovuto fruttare milioni in entrate indirette, turismo, concessioni, parcheggi, e seppellire di nuovo per sempre i poveri vinti del 1939, i subalterni, quelli che non hanno nulla da opporre alle scavatrici e alle ruspe a parte l’elenco interminabile dei loro nomi e cognomi… »
[Mathias Enard,
Zona, 2008) Bur, 2011. Pag 223-24]

Saskia Sassen ha spiegato che cos'è e come funziona la "infrastruttura globale", l'Economist ci racconta del Sesto continente. Stiamo parlando di un altro mondo; che cosa rimane di quella che ancora oggi chiamiamo città? Il Sole 24Ore, 28 ottobre 2016

Il sesto continente. Cosi l’Economist definisce ormai da qualche anno l’insieme degli aeroporti del mondo e delle persone in perenne transito che li abitano, se pur a intermittenza. I numeri dati dieci giorni fa dalla Iata (International air transport association) confermano: nel 2016 i passeggeri sono stati 3,8 miliardi, numero superiore agli abitanti dell’Asia, il più popoloso dei nostri cinque continenti.

La Iata prevede inoltre che per il 2035 i passeggeri raddoppino a 7,2 miliardi, mentre entro il 2024 la Cina supererà gli Stati Uniti come primo mercato aereo e l’India supererà il Regno Unito com terzo.Le previsioni Iata canno di pari passo a quello sullo sviluppo degli aeroporti (i progetti più grandi sono in Asia) e quelli sul travel retail. Al contrario della popolazione di un continente reale, quella del sesto continente è in stragrande maggioranza adulta, ovvero “in età di shopping”.

Secondo la svedese Generation Research, tra le più autorevoli società di analisi del travel retail, nel 2015 il giro d’affari mondiale è stato di 62 miliardi di dollari (circa 57 miliardi di euro), in calo del 2,7% sul 2014 e nel 2016 la cifra dovrebbe essere la stessa: gli attentati e le crisi geopolitiche continuano a incidere negativamente sui flussi turistici e quindi sul travel retail.Se si guarda però agli acquisti di lusso negli aeroporti, il dato è positivo anche per il 2016: secondo l’Altagamma Worldwide Market Monitor curato da Bain&Company, negli aeroporti c’è stata una crescita del 6% a 14 miliardi, a fronte di un calo dell’1% a 249 miliardi del mercato del lusso nel suo complesso.

Tornando alle statistiche generali di Generation Research, si scopre che l’unica categoria a crescere è “Cosmesi e profumi”, con un +2,7% a 18,3 miliardi di euro, con una quota di mercato del 31,4%, quasi il doppio della seconda categoria, Wines&Spirits, che assorbe il 16,4% degli acquisti, in calo del 2,7% a 9,3 miliardi. In calo anche Tabacco, Enogastronomia, Orologi e gioielli, Elettronica e, last but not least, Moda e accessori, terza categoria per quota di mercato con il 14,5%, che ha perso il 3% e vale 8,3 miliardi di euro.Come detto all’inizio, l’Asia-Pacifico è già oggi leader nel travel retail, con una quota del 46,3%, quasi il doppio delle Americhe (seconde in classifica con il 26,7%) e più del doppio dell’Europa, terza con il 23,3%. Secondo la rivista di Singapore The Peak (che nel 2015 ha vinto il premio come Luxury Magazine of the Year), il primo aeroporto al mondo per acquisti è l’Incheon di Seul, con 7,3 miliardi e in Asia-Pacifico ci sono 5 scali con vendite superiori al miliardo. In Europa spicca il più grande degli aeroporti londinesi, Heathrow, il cui Terminal 5 assomiglia a un department store del lusso di ultima generazione, con tanto di servizio di personal shopper, prenotabile nelle lounge riservate a chi viaggia in business o in prima classe.

Le incognite maggiori per le vendite di lusso negli aeroporti (e non solo) sono i flussi turistici, fa notare Fflur Roberts, Head of luxury research di Euromonitor International: «Gli sbalzi valutari, l’incertezza economica e quella politica rendono il futuro del turismo di lusso altrettanto incerto. Basti pensare a Hong Kong: a causa dei disordini e del caos politico, dal 2013 gli acquisti di lusso di turisti stranieri sono scesi dal 15%. Un campanello d’allarme per l’intera regione asiatica e il suo travel retail».

Mentre le stazioni ferroviarie diventano sempre più scomode per i pendolari e inaccessibili per i senzacasa, l'aumento dei passeggeri ricchi ne deforma l'uso e le trasforma in grandi magazzini cattura-portafogli. E' il Mercato, baby. Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2016

L’operazione di Grandi Stazioni è sicuramente il deal più imponente del 2016 nell’ ambito retail, pur non essendo conteggiata nei volumi degli investimenti immobiliari. Non si tratta infatti di una pura operazione real estate, ma con l’immobiliare ha molto a che fare.Così ha fatto capire Paolo De Spirit, fondatore nel 2005 di Borletti group insieme a Maurizio Borletti e prima amministratore delegato di Ungaro, intervenuto ieri al convegno organizzato da Cncc, consiglio nazionale dei centri commerciali.

De Spirit ha parlato delle prospettive dell’acquisto di Grandi Stazioni Retail, la società che gestisce gli spazi commerciali delle 14 maggiori stazioni ferroviarie italiane, realizzato per quasi un miliardo di euro in cordata insieme ai due fondi francesi Antin e Icamap.

“Ogni anni almeno 760 milioni di persone transitano nelle stazioni ferroviarie, persone che hanno una capacità di spesa in aumento - dice De Spirit -. Non solo. Il trend aumenterà grazie all’Alta velocità. Rimane comunque tanto da fare. Di sicuro nel medio termine si possono raddoppiare i metri quadrati di Gla, per medio termine intendo un periodo di 5-7 anni. Bisogna lavorare sul tema di fare diventare un’esperienza il passaggio in stazione, oggi vissuto come un passaggio rapido durante il quale prestare attenzione ai borseggiatori. In futuro dovrà diventare invece un’esperienza shopping, così come sta avvenendo a Roma con il mercato centrale - merito della gestione precedente -, un posto di attrazione per il food con moltissima scelta di offerta che è aperto dalle 7 del mattino alla una di notte e attira oltre ai viaggiatori anche i romani”.L’obiettivo è concentrarsi ora su questa sfida. “Anche se come gruppo Borletti stiamo per aprire un outlet di 25mila metri quadrati” dice ancora. Ma De Spirit sottolinea come la cordata che ha messo le mani su Grandi Stazioni retail sia eterogenea e con orizzonti temporali diversi nelle scelte di investimento. “Siamo tre azionisti molto diversi - commenta - , degli altri due soci il fondo Antin è focalizzato sulle infrastrutture mentre il fondo immobiliare Icamap investe in centri commerciali e fa capo a Guillaume Poitrinal, già amministratore delegato del colosso Unibail Rodamco. Hanno quindi altre necessità di uscita dall’investimento. Noi possiamo restare a lungo termine”.

«Lo spazio delle alternative come luogo dei possibili transiti o della possibile rispondenza fra politica e società democratica. Alternative politiche e sociali, in tensione, in interazione, in equilibrio instabile fra loro. Anche in tempi difficili, incerti e rischiosi. Soprattutto, in tempi difficili». Il Sole 24Ore, 28 agosto 2016

L’idea di spazio pubblico è una delle tessere fondamentali di quel mosaico, che chiamiamo forma di vita democratica. In genere, quando pensiamo a una forma di vita democratica, più o meno decente, pensiamo a un regime politico che ospita istituzioni, norme di livello costituzionale e ordinario, procedure per la scelta di chi ha diritto temporaneo a governare, provvedimenti e scelte collettive, interpretazioni politiche alternative dell’interesse pubblico di lungo termine.

E consideriamo tutti questi elementi come elementi fondamentali di un regime di democrazia pluralistica che, grazie a regole, norme e procedure, si distingue da regimi autocratici o autoritari, di differente tipo e natura. La mia tesi è che questo quadro sia certamente fedele ma sia, al tempo stesso, fondamentalmente incompleto.

Sono convinto che uno dei tratti distintivi cruciali di una democrazia politica sia l’ampiezza e la ricchezza del suo spazio pubblico, in cui si esercita la libertà democratica per eccellenza, quella di condividere con altre cittadine e cittadini modi di valutare e proporre soluzioni di problemi collettivi fra loro alternative e confliggenti. Lo spazio pubblico, in questa prospettiva, è uno spazio sociale, e non già istituzionale.

È lo spazio delle voci di cittadinanza. Lo spazio in cui possono emergere potenzialità altrimenti non espresse, bisogni altrimenti non visibili, incertezze e ansie, speranze altrimenti opache e negate. È uno spazio pieno di dissonanze e piuttosto cacofonico. Ma quando i confini di questo spazio sono vietati o ristretti, quando viene meno l’esercizio della libertà democratica o i costi d’accesso allo spazio pubblico di una democrazia diventano terribilmente alti e ineguali per il demos, allora la qualità di una democrazia mostra un deficit significativo e, a volte, severo. E ciò non è riconoscibile o avvertibile se si resta alla prospettiva, decisiva ma incompleta, della democrazia come sistema di istituzioni, norme e procedure. La questione centrale che emerge è quella dell’allineamento o del disallineamento fra spazio sociale e 1 spazio istituzionale. Molti deficit e buona parte delle crisi entro le democrazie contemporanee emergono nelle circostanze in cui le voci di cittadinanza nello spazio pubblico, come spazio sociale, non trovano alcuna rispondenza o trovano debole rispondenza entro lo spazio istituzionale dell’esercizio del potere temporaneo di governo delle società.

Perché la democrazia si avvale nel tempo della connessione, dell’interazione e dell’equilibrio instabile fra lo spazio delle alternative politiche e quello delle alternative sociali. E la qualità stessa della rappresentanza politica e delle sue istituzioni è coerente con la variabile intensità della connessione fra i due spazi. Ora, per gettar luce sulla natura della libertà democratica, che è alla base dello spazio pubblico, può essere utile considerarla come la libertà per le persone di identificarsi e reidentificarsi collettivamente in cerchie di riconoscimento distinte e alternative fra loro nel tempo. La libertà democratica per eccellenza è la libertà delle persone di costituire e ricostituire cerchie di mutuo riconoscimento, religioso, politico, sociale, culturale, etico, selezionando fra un insieme di identità sociali possibili.

È propriamente questa pluralità delle cerchie di riconoscimento e di valore politico a generare quell’ingrediente essenziale di una democrazia che è il suo spazio pubblico. Il luogo in cui idee, credenze e convinzioni differenti e a volte inconciliabili si confrontano fra loro, mirando a ottenere adesione e consenso. Il luogo paradigmatico del parteggiare, del convertire e dell’associare, che presuppone il fatto del pluralismo e del disaccordo, che ho più volte definito quali caratteristiche essenziali per un processo politico democratico. Alessandro Pizzorno ha avanzato una illuminante proposta di indagine sulle trasformazioni dei regimi democratici e ha suggerito di guardare allo spazio pubblico come al «luogo dell’operare di uno Stato alternativo». Nel senso che lo spazio pubblico include funzioni alternative a quelle dello Stato e delle istituzioni. Ciò che si manifesta nello spazio pubblico sono le potenzialità alternative della società. In esso viene in luce ciò che in una società si rivela come ancora irriducibile, o difficilmente riducibile, all’ordine costituito. Lo spazio pubblico diventa allora qualcosa come il laboratorio della non conformità a norme date e della varietà delle identità sociali.

Lo spazio pubblico, potremmo dire, è il cantiere sempre in corso della diversità, delle alternative, degli esperimenti di vita e delle differenti mobilitazioni cognitive. Si può allora prospettare l’idea che lo spazio pubblico sia il luogo dove emergono e portano alla luce le loro disparità le forze potenziali di una società. In questo senso, possiamo dire, il luogo sociale, e non istituzionale, del pluralismo entro una forma di vita democratica. Uno spazio, sottoposto nel tempo a metamorfosi e cambiamenti, entro il quale si generano domande o pretese o aspettative che aprono, se le cose hanno successo, un varco per prospettive, esperimenti di vita e possibilità alternative.

Come ho sostenuto più volte, si tratta di una diversità intesa come carattere persistente, e non congiunturale della forma di vita democratica. Ma vorrei aggiungere: si tratta anche di una caratteristica che è il promemoria della congruenza fra democrazia e incompletezza, nel senso della rispondenza e della resilienza dei regimi democratici alla metamorfosi del paesaggio sociale. È nello spazio pubblico così inteso che si genera una varietà di versioni condivise entro alcune cerchie di riconoscimento, e non in altre fra loro differenti, dei fini di lungo termine della convivenza. E alla politica, nelle circostanze ordinarie, sarà ascritto il ruolo di rispondere con i suoi mezzi e i suoi provvedimenti al mutamento sociale, che è esemplificato dalle trasformazioni delle aspettative e delle identità collettive vecchie e nuove che rispondono, a loro volta, alla metamorfosi di interessi, ideali, bisogni e pretese confliggenti.

Ora, se il terminus a quo di una democrazia politica deve essere preservato nel tempo, è naturale chiedersi se mutamenti – economici, culturali, tecnologici, religiosi, sociali - non possano finire per distorcerne i fondamentali. Possiamo rispondere così: salvo che nei casi di perdita e regressione, che implicano l’alterazione dei vincoli propri del terminus a quo, regimi democratici mutati nel tempo dovranno soddisfare almeno la clausola della loro reidentificabilità sulla base di alcuni punti fissi. E tra i punti fissi possiamo indicare prioritariamente tanto l’esercizio della libertà democratica quanto lo spazio pubblico della controversia e della diversità. Lo spazio delle alternative come luogo dei possibili transiti o della possibile rispondenza fra politica e società democratica. Alternative politiche e sociali, in tensione, in interazione, in equilibrio instabile fra loro. Anche in tempi difficili, incerti e rischiosi. Soprattutto, in tempi difficili.

Segno dei tempi (storti) Il giornale colloca sul servizio l'occhiello "Allarme terrorismo"«Così le ong legate a governi stranieri donano decine di milioni di euro annui ai musulmani per costruire luoghi di culto nel nostro Paese Tra investimenti sospetti e la richiesta di un’intesa con lo Stato per accedere all’8 per mille». La Repubblica, 4 agosto2016

Un palazzone di quattro piani, nel popoloso quartiere di Centocelle a Roma, si prepara a ospitare oltre 800 fedeli. La struttura, un ex mobilificio di Stefano Gaggioli, è stata comprata per quattro milioni di euro dall’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii), grazie a una donazione della Qatar Charity. «Ora aspettiamo altri finanziamenti per la ristrutturazione interna — spiega Izzedin Elzir, imam di Firenze e presidente dell’Ucoii — poi la più grande moschea della periferia di Roma sarà pronta per l’inaugurazione ». I musulmani di Centocelle non sono però i soli a dover ringraziare i milioni di riyal piovuti dal Qatar: oggi in Italia non si aprono moschee senza il flusso generoso di denaro dall’estero. Ma chi sono i principali finanziatori e a chi arrivano i soldi?

I milioni del Quatar

Quella di Centocelle è solo l’ultima delle moschee che l’Ucoii è pronta ad aprire in Italia, grazie ai soldi del Qatar. «In tre anni — conferma Elzir — abbiamo raccolto 25 milioni di euro di fondi grazie alla Qatar Charity. Sono serviti per costruire 43 moschee, tra cui quelle di Ravenna, Catania, Piacenza, Colle Val d’Elsa, Vicenza, Saronno, Mirandola».

Su quella di Bergamo, per la quale l’ong del Qatar ha staccato un assegno da 4 milioni e 980mila euro, la procura indaga per truffa aggravata in seguito a una denuncia della stessa Ucoii e i lavori sono fermi. Ma cos’è la Qatar Charity? Una ong (in verità connessa al fondo sovrano del Qatar) che raccoglie donazioni per interventi umanitari e, come si legge sul suo sito, per «preservare la cultura islamica, attraverso la costruzione di moschee, centri islamici e insegnando alle persone a recitare il Corano ». Il suo protagonismo è dimostrato da alcuni comunicati ufficiali del 2013: «La Qatar Charity sta realizzando un numero di progetti importanti in Sicilia con un investimento di circa 11 milioni di riyal (circa 2.355.430 euro)». Non solo. «La Qatar Charity si sta attivando per finanziare sette altri centri islamici con circa 17 milioni di riyal in alcune città italiane: Mazara del Vallo, Palermo, Modica, Barcellona, Donnalucata, Scicli e Vittoria».

«La Qatar Charity — sostiene Valentina Colombo, docente di cultura e geopolitica dell’islam all’università Europea di Roma — sembra avere il monopolio dei finanziamenti all’islam europeo ed è stata sospettata in passato di vicinanza con ambienti estremisti. La verità è che finanzia quasi esclusivamente la galassia della Fratellanza musulmana, portatrice di una visione conservatrice della religione ». Una cosa è certa, in Italia principale beneficiaria dei soldi qatarini è l’Ucoii. «Noi accettiamo donazioni da chiunque, solo se trasparenti e senza condizioni — chiarisce Elzir — ma se vogliamo davvero dire no ai finanziamenti stranieri, dobbiamo sottoscrivere un’intesa tra lo Stato e la fede musulmana, come previsto dall’articolo 8 della Costituzione. Per poi poter accedere all’8 per mille».

I petrodollari sauditi

«Altro grande finanziatore dell’Islam italiano è l’Arabia Saudita — racconta Maria Bombardieri, sociologa a Padova — a partire dagli investimenti sulla capitale». Un esempio? La Grande moschea di Roma, retta dal Centro islamico culturale d’Italia, che oggi si qualifica come polo dell’Islam “moderato”. Chi la sostiene? «La moschea — si legge in un rapporto interno del Viminale — ha solide relazioni diplomatiche con tutti i Paesi arabi e si regge su un “patto” che comprende sauditi (grandi finanziatori), marocchini (gestori sul piano amministrativo e politico) ed egiziani (su quello teologico, fornendo gli imam formatisi nell’università di Al Azar)».

Il regno dell’Arabia Saudita investe ufficialmente da anni nelle grandi moschee simbolo delle principali capitali europee. Mentre le ricche famiglie saudite finanziano centri più piccoli, tramite contatti informali con singole associazioni islamiche.

Il governo turco, tramite il ministero degli affari religiosi, sostiene invece il Ditib: organizzazione ufficiale dei musulmani turchi all’estero. In Italia hanno tre piccoli centri a Milano, Imperia e Reggio Emilia. Anche i ministri di culto arrivano da Istanbul, per periodi di tempo determinato.

Stessa politica seguita dal Marocco: fornisce imam e finanzia le sue comunità in Italia, tramite la tesoreria di Stato marocchina che ha una voce di spesa dedicata ai luoghi di culto. E la maggior parte dei musulmani d’Italia oggi proviene appunto dal Marocco (quasi 500mila). A rappresentarli c’è la Confederazione islamica italiana, benedetta da re Muhammad VI. Infine il Kuwait: in Italia non risultano grandi investimenti, molte invece le moschee in Germania costruite con i suoi soldi.

Tra collette ed elemosina

«La fonte principale di sostegno delle comunità musulmane restano però l’autofinanziamento e le collette tra i fedeli — precisa Bombardieri — anche perché l’elemosina è uno dei cinque pilastri dell’islam ». Così si finanziano le comunità senegalesi e bangladesi. «Anche la Coreis vive per ora di quote associative — spiega Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità religiosa islamica italiana — per arrivare all’8 per mille ci vorrà prima un’intesa con lo Stato italiano e per questo è necessario che le associazioni musulmane presentino un bilancio delle proprie attività: solo così si potrà capire chi ha diritto di mettersi al tavolo».

Intanto Pallavicini ha presentato la sua proposta al Viminale: «Sul modello francese, costituiamo una fondazione per le opere di culto dell’Islam italiano, gestita da ministero e associazioni riconosciute, dove far confluire finanziamenti pubblici e stranieri alla luce del sole e senza rischi di condizionamenti ».

Ministri inviati per periodi di tempo determinato e sostegno alle comunità di riferimento: è questa la scelta di Turchia e Marocco. C’è poi il Kuwait: marginali per ora i contributi nella nostra penisola, sono molti invece gli edifici che ha aiutato a fondare in Germania Da anni l’Arabia Saudita investe nei grandi templi simbolo delle principali capitali europee. Come quella di Roma, che oggi si qualifica come polo moderato. Mentre le ricche famiglie del Regno foraggiano i centri più piccoli tramite contatti informali con singole associazioni

«I no della Curia fiorentina alla realizzazione di una grande moschea». Da un NO perentorio, dopo la svolta di papa Bergoglio, la Curia approda a un SI ipocrita che tortuosamente nega un diritto costituzionale. La Repubblica, ed. Firenze, 3 agosto 2016

Mai dire la verità, specie se è ovvia. Lunedì ho scritto che se Firenze non ha una moschea, non è per colpa del destino cinico e baro, ma a causa di una irresponsabile catena di ‘no’ che non è estinta, ma si è solo ipocritamente travestita da ‘sì’. Un ‘sì’ vanificato da troppe condizioni. Le risposte non si sono fatte attendere. Prima è arrivata quella della Curia, affidata al sito del settimanale diocesano «Toscana Oggi». Vi si legge che «non risulta in nessun modo che Betori abbia espresso preclusioni in questo senso».

A me, invece, risulta. Durante l’incontro con la stampa del dicembre 2010, l’arcivescovo disse testualmente: «Non si può pensare Firenze fuori dalle sue radici cristiane. Per fare il loro Duomo a Firenze i cattolici hanno atteso mille anni … La moschea mi piacerebbe che fosse l’esito di un cammino, e non il suo presupposto». La moschea come esito di un cammino lungo mille anni?

L’anno prima Betori aveva emesso un altro altolà: «I modi vanno misurati e verificati su proposte concrete che, a loro volta, devono tener conto anche dei connotati storici della città, piena di simboli cattolici. Dobbiamo essere aperti a altre presenze, ma rispettosi della nostra storia». Nel marzo del 2011, poi, la Nazione sintetizzava così il punto di vista di Betori: «No alla moschea, sì ai luoghi di culto».

E nella lunga intervista al vescovo si leggeva: «Che cosa dobbiamo assicurare? Un luogo di culto? Ma la moschea è soltanto un luogo di culto? … Bisogna essere chiari: la moschea non è solo uno spazio per la preghiera è anche un luogo di cultura, d’istruzione. Non si può equiparare a una chiesa. Ci sono risposte molto articolate: per venire incontro al bisogno religioso non ho bisogno di una moschea, ma di più luoghi di culto».

Poi qualcosa è cambiato: l’elezione di Francesco (marzo 2013) ha reso impresentabile questa linea palesemente ostile. Ma intanto si erano persi anni cruciali.

E a giudicare dal resto della nota di Toscana Oggi la virata è più di forma che di sostanza. Si continua, infatti, a scrivere che «non mancano spazi nella città dignitosi e adeguati per un centro religioso che non può ridursi a un grande ambiente, ma richiede spazi articolati e che siano integrabili con il resto del territorio » (tradotto: no a una grande moschea). E si aggiunge che donare una chiesa sconsacrata alla comunità islamica «suonerebbe come una rinuncia del cattolicesimo alla propria stessa identità ».

Ebbene, da cristiano trovo questa posizione incomprensibile: perché l’unica identità cristiana è l’amore senza condizioni. Così come trovo inaccettabile che un pastore si nasconda dietro una cortina ipocrita di parole: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5, 37).

La posizione della Curia non è meno sconcertante dal punto di vista della Costituzione. La nota di
Toscana Oggi condiziona infatti la realizzazione della moschea ad «una chiara adesione di tutte le comunità religiose presenti nel Paese ai principi concernenti la persona e la società codificati nella Costituzione italiana». In perfetta sintonia l’editoriale di ieri di Paolo Ermini sul Corriere Fiorentino: la moschea si potrà fare solo quando la città «la considererà un arricchimento, non un pericolo», e solo «a condizione che i musulmani che vivono e lavorano in mezzo a noi sottoscrivano il patto di lealtà con i nostri principi costituzionali». Una posizione più da Libero che da Corriere della Sera: coerentemente accompagnata dalla censura di Ermini a papa Francesco, accusato di «confondere». Quel che Betori ed Ermini non comprendono è che la Costituzione che credono di difendere riconosce ai cittadini italiani di fede islamica diritti che non possono essere sottoposti ad alcuna condizione.

Un terzo dei compagni di classe dei miei figli sono italiani musulmani dall’accento fiorentino: e nessuno ha il diritto di chieder loro alcunché. Esattamente come nessuno avrebbe avuto il diritto di chiedere alcunché ai cattolici ai tempi del terrorismo nord irlandese. Senza dire che un fantomatico esame costituzionale boccerebbe senza appello molti prelati cattolici (si pensi alla condizione femminile). Solo uno spaventato provincialismo travestito da difesa identitaria può continuare a confondere Islam e terrorismo. Ma il futuro di Firenze guarda altrove.

«La Corte Ue boccia la proroga delle concessioni balneari in Italia. Diritto europeo contrario al rinnovo senza gare». Altraeconomia, 17 luglio 2016 (c.m.c)

A fine aprile l’Agenzia nazionale del turismo (ENIT) ha lanciato su Twitter l’hashtag #WilkommeninItalien (Benvenuti in Italia): è una campagna di comunicazione rivolta ai turisti tedeschi (10,8 milioni di presenze nel 2015), con l’obiettivo di portarli -anche nell’estate 2016- sulle spiagge italiane: una distesa lunga oltre 3mila chilometri di sabbia e ghiaia (sui circa 8mila trecento della linea di costa), su cui insistono lidi attrezzati, chioschi, bar, ristoranti.

Sono circa 30mila le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa: in cambio di un canone versato allo Stato, i titolari hanno l’obbligo di curare la pulizia del litorale, e affittano ombrelloni, sdraio e lettini, offrendo -spesso- servizi aggiuntivi, come cabine o attività di ristorazione, e assicurando un servizio di guardiania, con la presenza di bagnini. Anche se operano sulla terraferma, le norme più importanti che regolano il loro rapporto con lo Stato sono contenute nel Codice della navigazione: è un testo approvato con Regio decreto nel 1942, quasi 75 anni fa, e oggi si scontra con la legislazione europea, in particolare quella della Direttiva CE 123 del dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno.

Secondo la cosiddetta Direttiva Bolkestein (che prende il nome dall’ex commissario europeo olandese, Frederik) fanno parte di questo mercato anche i servizi legati al settore turistico, e quindi anche le modalità di affidamento delle spiagge: le concessioni devono avere una scadenza, ed essere contendibili.

In questi dieci anni l’Italia avrebbe dovuto prevedere meccanismi ad evidenza pubblica per assegnarle, ma non lo ha ancora fatto, creando una situazione che è “nebbiosa”, come racconta Stefano Gazzoli, presidente di Fiba Confesercenti Toscana Nord, uno dei sindacati dei balneari: «Quattro successivi governi non hanno voluto affrontare un problema, e hanno evitato di andare a confrontarsi con l’Europa come invece hanno fatto altri Paesi».

Oggi i balneari italiani tengono aperti i lidi grazie a una proroga delle concessioni al 2020 (che è stata dichiarata illegittima dalla Corte di giustizia dell’Unione europea il 14 luglio 2016). «I media hanno affrontato la questione portando all’attenzione del pubblico un solo tema, quello delle ‘aste’, e sottolineando come i canoni di concessione che paghiamo siano troppo bassi (nel 2015 variavano tra 1,29 euro/m2 all’anno per le aree scoperte a 5,73 euro/m2 per quelle occupate da strutture di difficile rimozione, ndr), ma non che in questi anni abbiamo bussato alle porte del governo chiedendo di adeguare, cioè innalzare, i canoni, senza trovare ascolto».

Al ministero del Turismo c’era Michele Vittoria Brambilla. Tra i gestori di beni pubblici in concessione -categoria cui appartengono i ricchissimi signori delle autostrade, i cavatori, chi imbottiglia acque minerali e chi estrae petrolio «a tempo indeterminato»- nessun altro ha mai chiesto di pagare di più.

Per comprendere la vera posta in gioco, dobbiamo tornare al Codice della navigazione: nel 2009 il governo ha abrogato il secondo comma dell’articolo 37, quello che stabiliva un «diritto di insistenza» in sede di rinnovo della concessioni.

«Quando nel 2000 ho acquistato il ‘Bagno Oliviero’, a Marina di Massa, ho fatto un investimento pensando anche ai miei figli -racconta Matteo Campatelli, segretario dell’Associazione Riviera Apuana-: immaginavo che avrebbero potuto ereditare la concessione e il bagno». Con la fine del «diritto d’insistenza» (così lo definisce Gazzoli), il tacito rinnovo della concessione -oggi avviene ogni 6 anni- è però diventato un miraggio. Che si trasforma in un problema macroscopico leggendo l’articolo 49 del Codice della navigazione: alla fine di una concessione, «le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso».

«È una norma fuori dai tempi, e in pratica ci dice che le nostre aziende hanno valore pari a zero» sottolinea Gazzoli, secondo cui il 90 per cento degli operatori del settore è rappresentato da società di persone o srl a carattere familiare. Quanto disposto dal Codice -spiega- «contraddice tra l’altro le valutazioni dell’Agenzia delle entrate, che per calcolare il prezzo di mano uno stabilimento balneare, quando c’è da formare un atto di compravendita valuta tre fattori: la struttura, le attrezzature e l’avviamento, ovvero i clienti e la storia del lido».

Ma i paradossi sono anche altri, e Gazzoli può spiegarli a partire dalla sua storia: «Nel 2006 ho acquistato uno stabilimento balneare (è il Bagno Sara, in località Poveromo, a Massa, ndr) e l’anno successivo ho acceso un mutuo da 600mila euro per la ristrutturazione». Le banche hanno concesso un prestito per 25 anni, «e acceso un’ipoteca sullo stabilimento balneare, ma oggi io non so se sarò ancora qui nel 2032». Tra gli interventi realizzati c’è, tra l’altro, un impianto fotovoltaico da 20 kW, che garantisce al Bagno Sara la totale autonomia energetica: «Il contratto con il GSE (Gestore servizi energetici, ndr) per la fornitura di energia rinnovabile m’impone di restare ‘collegato’ alla rete per almeno 20 anni, e cioè fino al 2028, mentre il Codice della navigazione in caso di mancato rinnovo della concessione mi obbligherebbe a smontarlo, e portarlo via».

380 gestori di stabilimenti balneari toscani hanno avviato un procedimento giudiziario con l’obiettivo di far dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 49 del Codice della navigazione, che «rappresenta di fatto un esproprio» sottolinea Gazzoli. Lo hanno fatto con un Atto di citazione -presso il Tribunale di Firenze-, al quale hanno allegato perizie sul valore aziendale di una ventina di lidi, redatte da tecnici indipendenti: «Il 24 marzo c’è stata una prima udienza, e in novembre dovrebbe essere fissato un confronto con la Corte costituzionale -spiega Stefano Gazzoli-. Le perizie ci dicono che le nostre ‘aziende’ valgono tra i 500mila e i 2 milioni di euro».

Di fronte all’Atto di citazione, la Regione Toscana ha fatto «un passo verso di noi», sottolinea Gazzoli: il Consiglio ha approvato a inizio maggio una nuova legge (la numero 31 del 2016) sulle concessioni demaniali marittime, che riconosce un valore d’indennizzo pari al 90% a favore dell’eventuale gestore uscente.

«È un messaggio al governo» riconosce Gazzoli, che ricorda quale sia la contropartita richiesta dalla Regione Toscana ai balneari, e che il presidente di Confesercenti Toscana Nord condivide: «Viene vietato il subaffitto della concessione: abbiamo l’obbligo di gestirla in proprio. Lo trovo corretto».

In tutta Italia oggi l’affitto è concesso, come spiega l’architetto Corinna Artom, responsabile del settore Demanio marittimo della Regione Liguria, anche se rappresenta una “distorsione”. Fino agli anni Novanta -spiega Artom- «si potevano affittare solo le attività accessorie, come la gestione del bar, mentre il concessionario doveva svolgere l’attività principale». Per dipanare tutti i fili di questa matassa servirebbe, intanto, chiarezza. Il primo passo potrebbe essere un censimento che definisca quante siano le concessioni in essere, quale la superficie media, quanti i subaffitti. «Il sistema informativo delle aree demaniali, gestito dal ministero delle Infrastrutture, non è a regime» racconta Artom. La Regione Liguria coordina il tavolo tecnico della Conferenza delle Regioni sul demanio marittimo, quello che dialoga con il governo in vista dell’approvazione del decreto: «Si è d’accordo sull’esigenza di tutelare i concessionari esistenti», mentre l’esecutivo pare intenzionato a mettere all’asta i rinnovi.

A marzo 2016 la senatrice Manuela Granaiola (eletta a Viareggio) ha presentato un disegno di legge sul demanio marittimo -il cui iter non è nemmeno iniziato in Commissione-, che introdurrebbe nell’ordinamento alcuni elementi “qualitativi” per valutare il comportamento dei balneari, commisurando la durata massima della concessione al rispetto di criteri ambientali e paesaggistici e alla regolarità contributiva e assicurativa del personale. Meccanismi di «premialità ambientale», ragione Sebastiano Venneri, vicepresidente nazionale di Legambiente, che sono «fondamentali nella gestione di un territorio delicatissimo come il litorale italiano: ogni concessione dovrebbe prevedere vincoli ambientali e controlli severi. Eventuali abusi, potrebbero essere puniti con la revoca».

Legambiente Turismo, insieme all’associazione Donnedamare (donnedamare.it), promuove il progetto Lidi sostenibili. «È figlio del nostro manifesto» spiega Beatrice Bolla, una delle 50 Donnedamare, che gestisce i Bagni Mafalda Royal a Varazze (SV). Nel loro decalogo si legge: «I balneari sono le sentinelle del rispetto dell’ambiente delle riviere».

A Castiglion della Pescaia un nuovo giardino che è una molteplice esperienza didattica. Una ricreazione che avvicina alla natura, e insieme ri-crea: conferisce nuova vita agli "scarti" di vite precedenti. La Repubblica, 16 luglio 2016

«Se non tornerete come bambini, non entrerete nel paradiso», cioè nel giardino di Dio. È questa frase del Vangelo di Matteo a martellare la fantasia camminando, in stato di grazia, nel “Viaggio di ritorno”: che è uno spettacolare parco di sculture contemporanee nel sud della Toscana. Il ritorno annunciato dal titolo, infatti, è un ritorno alla comunione infantile con la natura e con l’umanità: e il giardino è capace di infondere una serenità da oasi, appunto, paradisiaca.

Tutto comincia nel 2002, quando Rodolfo Laquaniti — bioarchitetto nato in Calabria, e laureatosi a Firenze, dove si manteneva facendo il modello per le sfilate di Pitti — lascia la città per ristrutturare un casale, nella Maremma di Castiglion della Pescaia. Qui, guardando alla tradizione tosco-romana che porta dal cinquecentesco Parco dei Mostri di Bomarzo al Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle a Capalbio, Laquaniti decide di far nascere un giardino di statue. Ma non lo fa acquistando i materiali nobili della tradizione italiana, ma andando in cerca degli scarti industriali, raccogliendo i rifiuti che ingombrano e lordano il nostro paesaggio: dalle lamiere alle bottiglie di vetro, dai vestiti ai tubi futuribili piovuti dai caccia militari che decollano dalla vicina base di Grosseto.

Seguendo le regole della bio-architettura — e dunque disposti secondo i punti cardinali, in comunione con la luce e con i venti — , i rifiuti si sono trasformati in grandi e piccole installazioni: la monumentale Balena che incanta i bambini, e che promette di restituirci migliori (come Giona, o Pinocchio) al mare della vita; la Sfera luminosa, alta otto metri, i cui vetri di fonderia si illuminano magicamente al tramonto; l’Arca dei migranti, che fa capire che questo paradiso non è una fuga dalla realtà, ma un luogo dove attingere la forza per cambiare il mondo. E poi una vera rivelazione: dentro un capannone sfilano in silenzio cento figure umanoidi, un esercito di mutanti costruiti di immondizia e guidati da un cavaliere solenne e inquietante. Una schiera imprevedibilmente bella: che ricorda quella degli armati medievali del Museo Stibbert a Firenze, se solo si potesse ibridarla con la fauna intergalattica del bar di Guerre Stellari.

Laquaniti non è l’unico artista che trasforma i rifiuti in arte. Il più famoso è forse Vik Muniz, il cui straordinario lavoro nelle discariche brasiliane è stato raccontato al mondo dallo struggente Waste Land (2010). E fa una certa impressione ricordare che al centro di quel film c’è l’enorme, infernale immondezzaio di Jardim Gramacho, nello stato di Rio de Janeiro, poi chiuso nel 2012. Lì un sobborgo che si chiamava Jardim, cioè giardino, e che era dotato di una preziosa zona umida, era stato trasformato in una delle discariche più grandi del mondo: simmetricamente, nel “Viaggio di ritorno” italiano i rifiuti si trasformano in un giardino incantato.

Tuttavia, quando Laquaniti parla delle sue opere non parla mai di rifiuti, ma di «scarti»: e guarda questi materiali con lo sguardo amoroso di chi ha raccolto un trovatello, di chi ha saputo scoprire il genio negli occhi di un incompreso. È lo stesso linguaggio di colui che potrebbe essere il più appassionato visitatore del giardino maremmano: papa Francesco, che ha fatto della riflessione sugli «scarti» e sugli «scartati» dalla società un perno della sua predicazione. Tanto da volere, negli aulici Giardini Vaticani, le sculture di Alejandro Marmo, un artista di Buenos Aires che è stato scartato lui stesso (finendo tra quelli che il papa chiama i giovani «né né», quelli che né studiano né lavorano), e che si è riscattato trasformando in opere d’arte gli scarti industriali che raccoglieva nelle baraccopoli argentine dove incontrò l’allora arcivescovo Jorge Maria Bergoglio, il quale aveva già bene in mente che «la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra angolare» (secondo la profezia cristologica del Salmo 117).

Per realizzare il suo giardino, Laquaniti ha lasciato Firenze, che è ormai la capitale mondiale di un’arte ridotta a lusso. Un’arte in vendita, che celebra l’onnipotenza del mercato e il culto del denaro. Remotissima da tutto questo è la frase che Bergoglio disse a Marmo: «Tu hai un dono di Dio, abbine cura e non venderti». Perché — e ora è il papa che scrive — «il ruolo dell’artista è contrastare la cultura dello scarto», e denunciare «la sporcizia più brutta: il dio denaro ».

Conoscere il giardino del “Viaggio di ritorno” significa comprendere tutto questo: perché esiste anche un’altra arte, un’arte che serve a tornare. A tornare umani.

«Reclusione, formazione, coscienza. Altro che spostare i penitenziari dal centro alla periferia. È importante che il carcere sia una presenza visibile nella città, per incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte». Il manifesto 8 giugno 2016 (m.p.r.)

«Vendere San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale in cambio di penitenziari nuovi»; «Il piano carceri: via dai centri storici. Le nuove prigioni solo in periferia»; «Carceri, è polemica. L’operazione vendita non convince tutti». Sono i titoli di la Repubblica del 27 e 28 maggio 2016, mentre il dibattito-convegno tra funzionari e operatori della giustizia insieme a magistrati, avvocati e docenti universitari riguardo ai «cambiamenti nell’area penale per le professioni sociali», tenutosi il 27 maggio presso l’Università di Milano-Bicocca, pone l’accento sulle misure alternative al carcere come antidoto alla recidiva e sui rapporti sempre più stretti che il carcere deve avere con il territorio. Al tempo stesso l’iniziativa del Ministro della Giustizia di dare avvio, nel maggio del 2015, agli «Stati Generali dell’esecuzione penale» ha portato alla costituzione di 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori, studiosi e volontari del settore come anche detenuti, per la definizione di «un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto».

Nell’aprile di questo anno il Comitato degli esperti, che ha coordinato a livello nazionale i tavoli tematici, ha presentato e discusso a Rebibbia il documento finale degli Stati Generali, constatando che «il problema dell’esecuzione penale è un problema culturale, prima ancora che normativo» e facendo capire «come sia socialmente ottusa, oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella società sana e produttiva». Un percorso dunque attraverso il quale «la società offre un’opportunità ed una speranza alle persone» e dà a se stessa «un’opportunità ed una speranza di diventare migliore».

Affermazioni queste di civiltà giuridica e sociale al tempo stesso, ma che sono in contraddizione con quanto la stampa nazionale mette in luce, riferendosi alla vendita delle carceri situate nei centri storici e soprattutto alla costruzione di nuovi penitenziari nelle periferie. Se la politica dell’esecuzione penale va verso la prospettiva del ridimensionamento delle misure detentive e di un allargamento di quelle «di comunità» e gli operatori tutti ritengono di grande utilità il lavoro di rete sul territorio per la riduzione della recidiva e la progressiva inclusione sociale delle persone detenute, eliminare le carceri dal centro e costruirle in periferia assume il valore simbolico di un disegno che intende, come afferma Luigi Manconi, rimuovere il male, che si pensa essere dentro il carcere, nascondendolo allo sguardo dei cittadini.

È comunque la risposta che si ritrova nelle città di tutti i paesi dove poveri, bambini di strada e persone marginali devono essere nascosti agli occhi del mondo in nome del decoro. Così la società, pur essendoci totalmente immersa, nega la violenza e cerca di allontanarla da sé, nascondendo la propria parte negativa nell’idea di esorcizzarla, ma questa, se non accolta e riconosciuta, ritorna più potente che mai e prende il sopravvento. Si deve allora guardare al carcere come al luogo dove, in certe circostanze e attraverso dolorose esperienze, fare i conti con la propria ombra apre la strada per addentrarsi nei sotterranei dell’anima o del nostro lupo interiore verso un ulteriore percorso, lungo e faticoso, di conoscenza di sé che porta al riconoscimento dei nostri demoni ed alla ricomposizione ad unità delle nostre parti scisse in un gioco di luci e ombre come anche in un andare e venire tra dentro la galera e fuori nella comunità.

Per dare parola alle tante voci della galera, attraverso le quali la città può forse avere l’idea che i delinquenti sono in realtà persone come noi, vorrei dire della mia esperienza pluriennale di docente che tiene corsi universitari in carcere parlando di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio. Con la firma dell’accordo tra l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia la formazione in carcere assume una rilevanza istituzionale che dà la possibilità di sviluppare attività di ricerca, culturali e didattiche presso alcuni Istituti penitenziari lombardi e presso l’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano e dello stesso provveditorato. La convenzione è rivolta a tutto il personale degli istituti penitenziari, alle persone detenute, ai docenti e agli studenti dell’ateneo, con la possibilità di organizzare in carcere corsi, stage, tirocini e laboratori.

Così una mattina entro in carcere con il gruppo di studenti frequentanti e incontriamo il gruppo di detenuti che intendono seguire le lezioni. Si lavora sul conflitto e sulla mediazione con se stessi che significa fare i conti con il nostro doppio, ma anche con la molteplicità delle nostre identità e con le proiezioni delle nostre ombre. Il corso evidenzia come le storie dei partecipanti si intrecciano quasi a sovrapporsi le une alle altre in un altalenarsi tra singoli e gruppi, tra coscienza individuale e coscienza collettiva, come due sguardi differenti che si confrontano. Alla fine del corso la valutazione degli elaborati e la presentazione degli stessi nella forma di una rappresentazione teatrale. Questo corso ha poi dato luogo alla scrittura collettiva, detenuti e studenti, di un libro dal titolo università@carcere. Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono.

Ci si deve sempre ricordare che per andare oltre la sofferenza è necessario incontrarla nella sua dimensione tragica e certamente il carcere è tragedia e le storie narrate nel libro ne sono una viva testimonianza. È necessario, d’altra parte, indicare una via lungo la quale i sentimenti messi a nudo e violati trovano un luogo di mediazione per potersi esprimere e per potere dare e prendere la parola. È quindi importante che il carcere sia una presenza molto visibile nella città per potere incontrare le nostre maschere e quelle degli altri o, in altri termini, incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte.

Si deve quindi investire non in mura o allontanando il carcere dallo sguardo dei più, ma in formazione e lavoro come in attività ludiche per tutti, sia verso la persona detenuta sia verso chi, a vario titolo, lavora nel carcere e nella comunità.

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