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Sviluppo: quale e quanto. È il titolo di questo incontro. Incomincio dal «quanto». Perché la quantità, e la sua continua dilatazione, è indubbiamente la categoria che meglio caratterizza la società moderna, in tutte le sue principali espressioni. Cito alla rinfusa cose diversissime. Popolazione, agglomerati urbani, macchine di ogni tipo, reti stradali, trasporti, mezzi di comunicazione, burocrazie, traffici, carta stampata, spettacolo, pubblicità, scolarizzazione, turismo, velocità, informazione, ricerca: tutto ciò e molto altro nel secolo scorso ha conosciuto aumenti spettacolari.

In questo processo occorre però tener presente un rapporto che illumina e definisce la particolare qualità del fenomeno quantitativo. Nella seconda metà del Novecento la popolazione mondiale è raddoppiata, e continua a crescere. Nello stesso periodo il prodotto dell'economia mondiale si è moltiplicato per sette, e anch'esso continua a crescere. Ma, mentre l'aumento demografico desta preoccupazioni e sollecita (seppure in modo disorganico e da più parti contrastato) politiche destinate a contenerlo, la crescita produttiva si è imposta in modo sempre più netto come l'asse portante della politica economica e sociale del mondo, da tutti auspicata come irrinunciabile, con dogmatica sicurezza e ossessiva insistenza indicata come strumento risolutivo di ogni problema.

Ma siamo certi che lo sia davvero? Che questo continuo moltiplicarsi e ingigantirsi di fatti quantitativi, tutti d'altronde carichi di un'altissima, a volte rivoluzionaria, valenza qualitativa, sia la migliore garanzia per il nostro benessere e per il futuro del mondo? E le sinistre, e con esse il sindacato, come si collocano di fronte a questo interrogativo? O, meglio, se lo pongono?

Facciamo l'esempio dei problema occupazione. Ne avete già parlato a lungo, dicendo cose molto interessanti. Ma forse non è inutile aggiungere qualche altra considerazione. Tradizionalmente il rapporto tra quantità di produzione e quantità di occupazione è stato di regola proporzionale e biunivoco. Oggi di questo rapporto s'è persa ogni certezza. Il più drammatico crollo occupazionale si è registrato mentre il Pil continuava a salire. Né in seguito la crescita produttiva, forzata al di là di ogni reale bisogno e utilità sociale, ha sanato la situazione. Un parziale recupero, lo sapete bene, si è determinato solo a prezzo di precarizzazione selvaggia e sempre più esoso sfruttamento del lavoro. E il fenomeno riguarda tutto il mondo. L'International labour office parla di un miliardo di disoccupati e sottoccupati, un terzo della forza lavoro del pianeta.

Ciò nonostante di fronte a questa drammatica situazione la parola d'ordine, delle sinistre come delle destre, continua ad essere «crescita». Con una evidente sottovalutazione della rivoluzione informatica, della sua capacità di sostituire in misura sempre maggiore non solo il lavoro manuale ma anche quello mentale. E con una sostanziale rinuncia a utilizzare il progresso tecnico a favore dei lavoratori: paradossalmente infatti, quando sarebbe possibile ridurre fortemente la necessità di lavoro umano, la quantità di lavoro erogato va aumentando dovunque: sia complessivamente sia singolarmente. E questo in definitiva porta alla mancanza di una vera politica occupazionale, anche da parte delle sinistre, costringe a un'azione meramente difensiva di fronte alle «leggi» del capitalismo neoliberistico: secondo le quali il lavoro cessa di essere un diritto, perde il suo valore di cittadinanza e di appartenenza sociale (come l'attacco sistematico al welfare dimostra), scade a una variabile soggetta a tutte le incertezze, di durata, di mansione, di orario, di salario, in conformità alle «compatibilità» aziendali.

Ma un altro aspetto del grande mutamento, nei mondo economico mi pare non venga adeguatamente considerato. Oggi tutte le politiche poste in essere dall'imprenditoria mondiale al fine di ingrossare fatturati, migliorare efficienza produttività competitività, aumentare il Pil, cioè a dire in nome degli stessi obiettivi di continuo da tutti invocati, anche dalle sinistre e dai sindacati, di fatto si traducono in strumenti di ulteriore sfruttamento del lavoro: dalla flessibilizzazione nelle sue mille forme, alle ristrutturazioni aziendali operate mediante pesanti tagli di personale, al boom della finanziarizzazione, al fenomeno sempre più vasto della delocalizzazione, che di volta in volta mette sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori. In proposito, a evidenziare la logica che presiede alle politiche economiche neoliberiste, mi pare serva ricordare che le borse americane premiano, con vistosi rialzi delle loro azioni, le imprese che «snelliscono (organico».

Davvero in questa situazione è difficile capire perché si continui a insistere sulle vecchie politiche produttivistiche, a inseguire le destre nella rincorsa della competitività ad ogni costo, della modernizzazione non importa quale, della crescita produttiva indiscriminata, adeguandosi a un'economia sempre più separata dalla realtà sociale e dai suoi bisogni; al cui interno nemmeno il più moderato riformismo riesce ormai a trovare qualche spazio.

Per un lungo periodo la crescita produttiva nella forma dell'accumulazione capitalistica parve in qualche misura favorire il progresso sociale, anzi oggettivamente lo favorì. Fu allora che i movimenti operai, pur senza mettere in discussione il sistema dato, seppero conseguire importanti vittorie, sfruttando la parzialissima e ambigua, ma fondamentale, convergenza di interessi tra impresa e lavoro: quando - sia pure tra mostruosi squilibri, abusi e iniquità - la tendenza espansionistica del capitale incontrava l'esigenza di maggior reddito delle popolazioni industrializzate, a garantire insieme allargamento dei mercati e crescente benessere.

Questo tipo di rapporto il neoliberismo non lo consente più. È la sua stessa ratio a vietarlo, il suo impianto non solo strutturale ma concettuale. L'iniquità è organica alla competitività senza freni che domina il mercato globalizzato, e detta le regole di un'economia unicamente e forsennatamente impegnata alla produzione di quantitativi sempre crescenti di merci, in tempi sempre più stretti, a costi sempre più bassi: il tutto inevitabilmente a scapito del lavoro. Quali merci si producano d'altronde non importa, né per quale utilità, né con quali conseguenze. Ciò che conta è solo la smisurata dilatazione di un consumo che ben poco ha ormai a che vedere col benessere delle masse, e di fatto non ha altro fine che se stesso.

È vero, oggi tra le sinistre si va ormai diffondendo la consapevolezza che la crescita degli ultimi decenni sul piano sociale non ha pagato, che anzi il neoliberismo ha fortemente aumentato le distanze tra ricchi e poveri, non solo a livello internazionale ma all'interno stesso dei paesi più affluenti. E sempre più insistenti si fanno i dubbi sulla possibilità di conciliare obiettivi con tutta evidenza confliggenti, come competitività e welfare, crescita e solidarietà, modernizzazione e occupazione; sempre più premono interrogativi su come poter difendere le idee di giustizia, costitutive dell'esistenza stessa delle sinistre, all'interno del sistema attuale. E si torna a citare - ma ormai come una vecchia e stanca giaculatoria - la necessità di un nuovo modello di sviluppo, che però nessuno finora ha neppure tentato vagamente di abbozzare.

E questo è il più grave peccato delle sinistre, le quali hanno del tutto mancato una seria analisi critica di una società ormai identificata con una straripante produzione di merci, e impegnata nella riduzione a merce di ogni rapporto e ogni dimensione dell'esistenza; di fatto identificando lo sviluppo sociale con una crescita meramente quantitativa, in tal modo avallando come progresso quella perversione del consumo che è il consumismo, e ignorandone l'azione corruttrice, che diffonde il prevalere incontrastato di valori materiali e acquisitivi, a seminare individualismo aggressività e spregiudicatezza.

Su questa via le sinistre, o quanto meno una loro parte non trascurabile, hanno finito per adagiarsi su una deriva coincidente con la favola raccontata dalle destre: secondo cui la continua e crescente produzione di ricchezza toccherà prima o poi dimensioni tali da raggiungere tutti, fino a eliminare fame e miseria. Non eliminando le disuguaglianze, no. Perché, dice la favola, sono proprio le disuguaglianze a sostenere la competitività, a migliorare produzione e consumo, e così a creare ancora e ancora ricchezza, di cui a tutti, o quasi tutti, toccherà una piccola fetta.

O magari perché no una fetta grossa. Non è questa la magia del capitalismo? Non si son fatte così le fortune più vistose? Non mi soffermo sulla palese inaccettabilità per le sinistre di una politica che prevede e teorizza, come normale strumento di strategia economica, la disuguaglianza sociale, fino all'esclusione di individui, gruppi, interi paesi. Vorrei piuttosto esaminare la questione da un altro lato, e domandare: quale futuro, o meglio quanto futuro, può avere un progetto fondato sulla produzione illimitata di ricchezza?

La produzione, di qualsiasi tipo, è consumo di natura: minerale, vegetale, animale. Ma la natura terrestre, cioè il nostro pianeta, è una quantità data e non estensibile a piacere, e in quanto tale non è in grado di alimentare indefinitamente un'economia in continua crescita, fornendole le quantità di natura a ciò necessaria. E nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare indefinitamente gli scarti che ne derivano, i rifiuti (solidi, liquidi, gassosi). Parrebbe un'ovvietà, anzi è un'ovvietà, che però nessuno, o pochissimi, soprattutto tra economisti e politici, di destra o di sinistra, sembrano considerare tale.

Il problema ambiente oggi nessuno più lo ignora. È sotto gli occhi di tutti lo squilibrio degli ecosistemi, che sconvolge il clima tra uragani, alluvioni, frane, desertificazioni; che va devastando il mondo e le nostre vite tra malattie da smog, intossicazioni, innumerevoli nuove patologie ignote alla medicina tradizionale, insicurezza di ciò che mangiamo beviamo respiriamo; che produce milioni di senza-casa, di profughi, di morti. A lungo però tutto questo le sinistre lo hanno ignorato.

E ancora oggi (sebbene nessuno più ormai si sottragga al dovere di una citazione, in osservanza del «politically correct») la materia non sembra degna di attenzione nel momento delle scelte politiche decisive. Come se la crisi ècologica nulla avesse da spartire con economia, produzione, lavoro, i grandi temi della Politica con la maiuscola. Come se non fosse invece la conseguenza diretta e inevitabile di un modello economico che si regge sulla crescita illimitata e pertanto, inevitabilmente, sulla rapina della natura, sulla continua rottura del limite. Come se tutto ciò, tra l'altro, non costituisse un rischio per la stessa economia: alcune scarsità, acqua e petrolio in primis, già allarmano infatti la macchina produttiva mondiale, e né il mercato né le tecnologie più avanzate sembrano avere soluzioni in mano.

Forse trovate che io stia spaziando tra problemi che non riguardano il sindacato. Non direttamente almeno. Ed è vero che la funzione specifica del sindacato appartiene a un ambito più circoscritto, in sostanza identificabile con la tutela del lavoro e dei lavoratori; mentre tocca ad altri istituti la elaborazione delle politiche del paese e del loro confronto in ambito internazionale. Ma in una società come l'attuale, definita e radicalmente mutata dalla complessa fenomenologia della globalizzazione, io credo che anche decisioni settoriali, non possano essere assunte senza aver presente il quadro degli immani problemi che scuotono il mondo.

Se la globalizzazione ha aperto nuovi spazi alla valorizzazione dei capitali, fornendo all'industria planetaria manodopera a costi irrisori, e creando nel Sud del mondo condizioni di sfruttamento da protocapitalismo. Se condizioni analoghe spesso si producono anche nei nostri paesi tra le masse sempre più numerose dei migranti, tra l'altro fatalmente trascinando al ribasso i salari di tutti. Se i consumi in Occidente sono saliti al punto che un quinto della popolazione del pianeta si appropria di due terzi delle risorse. Se nonostante la continua crescita produttiva nel Sud del mondo ancora si muore di fame, mentre in Occidente si muore di obesità da iperalimentazione. E se, di fronte a un'economia che in complesso continua a deludere, impantanata in una crisi infinita, a un dato momento soltanto la guerra si pone come unico strumento capace di far quadrare i conti del sistema.

Se questa è la verità dei mondo, il mondo del lavoro non la può rimuovere, nel momento in cui si confronta con i suoi problemi e ne cerca soluzione. E non solo perché in qualche misura questa verità è presente anche tra noi, in un Occidente dove disoccupazione e precarizzazione, attacco allo stato sociale, aumento dei poveri e impoverimento dei ceti medi, vengono imposti come condizione alla crescita economica, data come infallibile strumento di futura prosperità per tutti. Ma perché proprio nel confronto tra il grande mondo e la nostra realtà, mi pare si evidenzi in modo ineludibile l'insostenibilità non solo ecologica ma sociale e politica dell'attuale paradigma economico, dunque la necessità di un diverso modo di produzione scambio e consumo. E in questo i sindacati possano dare un contributo tutt'altro che secondario.

Oggi non è più tempo di sovversioni politiche traumatiche, di rivoluzioni armate e sanguinose. Di tutto ciò abbiamo avuto abbastanza. E d'altronde oggi non si tratta di espugnare il Palazzo d'inverno. Si tratta di rimettere in causa un sistema-mondo che con il suo dogma iperproduttivistico e iperconsumistico, e con l'imposizione del mercato come regolatore indiscusso non solo dei meccanismi economici ma della società intera, ha capillarmente penetrato e inquinato cultura, costume, coscienze, fino a determinare comportamenti, desideri, progetti di vita. E delegittimarlo è possibile solo mediante una rivoluzione dolce ma radicale, consapevole e decisa, da attuarsi per gradi ma con costante tenacia, con un'azione molteplice, presente anche nel quotidiano minore, fermamente orientata a contrastare i valori oggi dominanti. Un'azione che muova dal netto rifiuto di una politica come quella praticata finora dalle sinistre, non solo italiane, sostanzialmente incapace di una linea diversa da quella delle destre.

Un tipo di politica che a volte si ritrova anche nell'azione del sindacato. La lotta per la salvaguardia del posto di lavoro, e quindi la difesa della fabbrica, è la strada da sempre seguita come la più naturale, che ancora oggi scatta ad ogni crisi come un riflesso immediato. Ma oggi si impongono interrogativi di cui ieri non c'era motivo. Per fare un solo esempio. Fabbriche gravemente inquinanti, ad alto rischio per i lavoratori e l'ambiente: è il caso di salvarle ad ogni costo? Una riconversione, con riprofessionalizzazione del personale - come d'altronde sovente si fa - non dovrebbe essere sempre presa in considerazione come la soluzione da preferire?

Ma anche altre domande di volta in volta bisognerebbe porsi: se e quanto serva ciò che si produce; se risponda a bisogni reali o non si tratti di oggetti destinati al consumismo più futile che poi la pubblicità s'incaricherà di dimostrare indispensabili; se non esistano altre necessità insoddisfatte, dunque con diritto di priorità; e quali siano le ricadute dei prodotti in questione, sul piano ecologico, sanitario, culturale, sociale, umano.

Una molteplicità di scelte, anche minori e minime, operate a questo modo, costituirebbe parte non piccola di una rivoluzione non traumatica ma Incisiva, in quanto netta, continua e sistematica negazione dei criteri che guidano l'economia capitalistica, basati unicamente sulla valutazione di quantità e profitto conseguibili, e ignari di ogni altra esigenza. Per questa via, in una realtà come la nostra, straripante di merci ma gravemente carente sul piano dei servizi pubblici e sociali, sarebbe forse possibile progressivamente spostare il baricentro dell'economia dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni sociali.

Le conseguenze, anche se inizialmente limitate, sarebbero però tutt'altro che trascurabili, anche nell'immediato. Sul piano occupazionale innanzitutto: perché mentre nell'industria la tecnica sempre più largamente va sostituendo le persone, nessuna attività sociale può prescindere dalla presenza umana. E ai fini degli equilibri ecologici: perché la produzione sociale, a differenza di quella industriale, non inquina. Ma soprattutto per l'avvio di un diverso modo di progettare, pensare, vivere il lavoro, e quindi la produzione e il consumo.

Vi sembrano sogni, pii desideri? E però da qualche tempo stanno accadendo cose insolite. Da più parti, da gruppi di giovani, circoli di intellettuali, nuove riviste, convegni, spezzoni del movimento altermondialista, giungono segnali di rifiuto dell'orgia consumistica, di dubbi sulla bontà indiscussa della crescita illimitata. Alcuni addirittura a gran voce chiedono «decrescita». E, fatto davvero non trascurabile, di recente la Cina, di fronte al sempre più drammatico deterioramento ambientale del paese, e all'aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, ha deciso di contenere di un terzo il tasso di aumento del proprio Pil. Infine tra i segnali di questo tipo non posso tralasciare il nostro incontro: che i sindacati si interroghino su materie come quelle dibattute oggi non mi pare davvero di scarso significato.

Dino Greco si diceva convinto di una evidente crisi del capitale. Ne sono convinta anch'io. Sono gli stessi meccanismi dell'accumulazione che spesso ormai sembrano girare a vuoto, inceppati tra crisi e scandali a ripetizione. Forse a riprova che crescita illimitata non esiste, né in natura né nella storia. Forse anche a ricordarci che dopotutto il capitalismo è un fenomeno storico, e come tutti i fenomeni storici ha avuto una nascita e avrà prima o poi una fine. È una verità che le sinistre una volta tenevano presente, a supporto del loro stesso esistere e agire. Una verità forse da recuperare.

la traduzione in italiano è qui

Par leur accumulation et par leur caractère unilatéral, les commémorations du soixantième anniversaire du Débarquement sont en train d'installer, dans la conscience collective des jeunes générations, une vision mythique, mais largement inexacte, concernant le rôle des Etats-Unis dans la victoire sur l'Allemagne nazie.

L'image véhiculée par les innombrables reportages, interviews d'anciens combattants américains, films et documentaires sur le 6 juin, est celle d'un tournant décisif de la guerre. Or, tous les historiens vous le diront : le Reich n'a pas été vaincu sur les plages de Normandie mais bien dans les plaines de Russie.

Rappelons les faits et, surtout, les chiffres.

Quand les Américains et les Britanniques débarquent sur le continent, ils se trouvent face à 56 divisions allemandes, disséminées en France, en Belgique et aux Pays Bas. Au même moment, les soviétiques affrontent 193 divisions, sur un front qui s'étend de la Baltique aux Balkans.

La veille du 6 juin, un tiers des soldats survivants de la Wehrmacht ont déjà enduré une blessure au combat. 11% ont été blessés deux fois ou plus. Ces éclopés constituent, aux côtés des contingents de gamins et de soldats très âgés, l'essentiel des troupes cantonnées dans les bunkers du mur de l'Atlantique. Les troupes fraîches, équipées des meilleurs blindés, de l'artillerie lourde et des restes de la Luftwaffe, se battent en Ukraine et en Biélorussie. Au plus fort de l'offensive en France et au Benelux, les Américains aligneront 94 divisions, les Britanniques 31, les Français 14. Pendant ce temps, ce sont 491 divisions soviétiques qui sont engagées à l'Est.

Mais surtout, au moment du débarquement allié en Normandie, l'Allemagne est déjà virtuellement vaincue. Sur 3,25 millions de soldats allemands tués ou disparus durant la guerre, 2 millions sont tombés entre juin 1941 (invasion de l'URSS) et le débarquement de juin 1944. Moins de 100.000 étaient tombés avant juin 41. Et sur les 1,2 millions de pertes allemandes après le 6 juin 44, les deux tiers se font encore sur le front de l'Est. La seule bataille de Stalingrad a éliminé (destruction ou capture) deux fois plus de divisions allemandes que l'ensemble des opérations menées à l'Ouest entre le débarquement et la capitulation.

Au total, 85% des pertes militaires allemandes de la deuxième guerre mondiale sont dues à l'Armée Rouge (il en va différemment des pertes civiles allemandes : celles-ci sont, d'abord, le fait des exterminations opérées par les nazis eux-mêmes et, ensuite, le résultat des bombardements massifs de cibles civiles par la RAF et l'USAF).

Le prix payé par les différentes nations est à l'avenant. Dans cette guerre, les Etats Unis ont perdu 400.000 soldats, marins et aviateurs et quelques 6.000 civils (essentiellement des hommes de la marine marchande). Les Soviétiques quant à eux ont subi, selon les sources, 9 à 12 millions de pertes militaires et entre 17 et 20 millions de pertes civiles. On a calculé que 80% des hommes russes nés en 1923 n'ont pas survécu à la Deuxième Guerre Mondiale. De même, les pertes chinoises dans la lutte contre le Japon -- qui se chiffrent en millions -- sont infiniment plus élevées -- et infiniment moins connues -- que les pertes américaines.

Ces macabres statistiques n'enlèvent bien évidemment rien au mérite individuel de chacun des soldats américains qui se sont battus sur les plages de Omaha Beach, sur les ponts de Hollande ou dans les forêts des Ardennes. Chaque GI de la Deuxième guerre mondiale mérite autant notre estime et notre admiration que chaque soldat russe, britannique, français, belge, yougoslave ou chinois. Par contre, s'agissant non plus des individus mais des nations, la contribution des Etats Unis à la victoire sur le nazisme est largement inférieure à celle que voudrait faire croire la mythologie du Jour J. Ce mythe, inculqué aux générations précédentes par la formidable machine de propagande que constituait l'industrie cinématographique américaine, se trouve revitalisée aujourd'hui, avec la complicité des gouvernements et des médias européens. Au moment ou l'US-Army s'embourbe dans le Vietnam irakien, on aura du mal à nous faire croire que ce serait le fait du hasard...

Alors, bien que désormais les cours d'histoire de nos élèves se réduisent à l'acquisition de « compétences transversales », il serait peut-être bon, pour une fois, de leur faire « bêtement » mémoriser ces quelques savoirs élémentaires concernant la deuxième guerre mondiale :

- C'est devant Moscou, durant l'hiver 41-42, que l'armée hitlérienne a

été arrêtée pour la première fois.

- C'est à Stalingrad, durant l'hiver 42-43, qu'elle a subi sa plus lourde défaite historique.

- C'est à Koursk, en juillet 43, que le noyau dur de sa puissance de feu -- les divisions de Panzers -- a été définitivement brisé (500.000 tués et 1000 chars détruits en dix jours de combat !).

- Pendant deux années, Staline a appelé les anglo-américains à ouvrir un deuxième front. En vain.

- Lorsqu'enfin l'Allemagne est vaincue, que les soviétiques foncent vers l'Oder, que la Résistance -- souvent communiste -- engage des révoltes insurrectionnelles un peu partout en Europe, la bannière étoilée débarque soudain en Normandie...

Eddytoriale 46 del 1° giugno 2004

Pubblico e privato sono due parole che si possono dire in molti modi. Un tempo le separava una linea chiara, sì che le virtù pubbliche, a quel tempo tutte maschili, risplendevano a spese dei vizi privati, occultandoli o omettendoli; molti uomini pubblici apparentemente tutti d'un pezzo vivevano in realtà, e gradirebbero tuttora vivere, di quella scissione. Poi delle virtù pubbliche si sono impadronite anche le donne, per giunta rifiutandosi di considerare vizi le passioni private, nonché di occultarle o di ometterle. La linea chiara si è spezzata e privato e pubblico, o come meglio disse il femminismo personale e politico, da allora sono entrati in circolo: o si potenziano o si urtano, o si sostengono o si sgambettano; dipende da chi muove la partita. Accade alla corte reale d'Inghilterra con Lady D. come alla Casa bianca col sexgate come al comune di Cosenza; e quasi sempre a muovere è una donna. Muove la regina anche a Cosenza, dove il sindaco Eva Catizone - 39 anni, separata dal marito, vicina no global e pacifisti, eletta nel 2002, sulla base della designazione di Giacomo Mancini, da una coalizione di centrosinistra oggi scossa da non pochi problemi - un bel giorno decide di rendere pubblica la sua scelta privata di mettere al mondo un figlio da sola, o come si dice da single, senza riconosciuta paternità e dandogli il proprio cognome. Lo fa con un'intervista al Quotidiano della Calabria - «con una donna, Lucia Serino, perché mi fidavo di più» -, cui seguono altre interviste in tv e la prima pagina della Gazzetta del Sud, e seguiranno servizi nazionali e copertine di settimanali. Complice agosto, la storia fa notizia, perché è la protagonista stessa a politicizzarla. Da donna, si sente in sintonia con i tempi: dice che vuole questo figlio anche se il padre non lo riconosce, che gli farà lei da madre e da padre, che anche la Consulta ha messo in questione il patronimico, che la legge sulla procreazione assistita va abolita perché non aiuta ma ostacola il desiderio di maternità. Da sindaco, si sente in sintonia con la sua città e vuole che la sua città si metta in sintonia con lei: «La mia vita privata è necessariamente anche pubblica, fra un sindaco e la sua città c'è un rapporto carnale, io sono sicura di interpretarne lo spirito, ci sono gesti di libertà che servono a trasformare le infrastrutture mentali più di centinaia di strade o di ponti». Ci sono gesti di libertà che servono anche a stroncare le insidie sempre in agguato del gossip politico, che non si era risparmiato di associare i recenti eventi politici dell'amministrazione cosentina - rottura del patto federativo fra il il Pse di Giacomo Mancini jr e i Ds, ingresso in giunta di Ds e Margherita che prima la appoggiavano dall'esterno -, al legame tra il sindaco e il segretario regionale dei Ds Nicola Adamo. Legame non segreto ma non ufficiale. Fino a ieri.

Ieri infatti la notizia raddoppia, perché a sorpresa il padre del bambino si manifesta, a sua volta tramite un'intervista, questa volta alla Gazzetta: «Penso di essere io», dice Nicola Adamo sotto un titolo a sette colonne sulla «delicatissima vicenda». Stessa tecnica mediatica, stesso intrigo di pubblico e privato, ma il linguaggio cambia e il senso si capovolge: il tormento al posto dell'entusiasmo, la confessione al posto dell'annuncio, i sensi di colpa al posto della gioia, l'errore al posto del desiderio. Il dirigente ds avrebbe preferito che la vicenda «si risolvesse in una dimensione privata», ma vista la mossa di lei non c'era più scampo: «la mia coscienza non poteva più reggere, i miei genitori mi hanno inculcato il principio dell'onestà, quando si sbaglia meglio ammettere le proprie colpe, non fuggo e non mi nascondo, non voglio che il nome del nascituro resti ignoto, non potevo avallare un nuovo gioco di società, il toto-partner del sindaco». No, quel figlio non era previsto e lui non desiderava una nuova paternità, ma «la scelta finale non poteva che essere di Eva». Seguono le scuse agli amici, la richiesta di perdono a moglie e figli, l'evocazione dell'esempio di Emanuele Macaluso che nel suo ultimo libro racconta di essere stato in carcere per adulterio: «Vecchi tempi che insegnano a essere coerenti e ad addossarsi il peso degli errori». C'è la sintonia di un sindaco con la città, e c'è la sintonia di un dirigente col super io delle istituzioni, dalla famiglia al partito.

Eva Catizone si chiude in un rigido no-comment: bisogna tutelare l'oggetto d'amore anche, forse soprattutto, quando rischia di essere compromesso. Anche quando prima evapora dalla scena erotica, poi ricompare sulla scena mediatica. La città intanto ha reagito al meglio: fiori e auguri al sindaco in quantità. Il bambino si chiamerà Filippo come il nonno, padre adorato di Eva che faceva il ginecologo dalla parte delle donne ma «non ha mai fatto un'interruzione di gravidanza».Con la sua nascita sua madre ne festeggerà altre due, quella del più grande planetario del Mediterraneo e quella del percorso museale sui maestri del Novecento, da Consagra a Warhol a Botero, realizzato grazie alla donazione del mecenate newyorchese Carlo Bilotti alla sua città natale.

L’immagine qui accanto mi è arrivata con lo spam quotidiano il giorno stesso che un’amica mi aveva segnalato l’articolo

Vladimir Ilic Lenin è morto il 21 gennaio 1924, ottanta anni fa, e ci chiediamo se l'imbarazzato silenzio che circonda il suo nome non significhi che è morto due volte, che è morta anche la sua eredità. Effettivamente la sua insensibilità nei confronti delle libertà personali è estranea alla nostra sensibilità liberale e tollerante. Chi oggi non si sente rabbrividire al ricordo delle parole con cui Lenin liquidò la critica che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari facevano del potere bolscevico nel 1922? «In verità, le prediche che fanno i menscevichi e i socialisti rivoluzionari rivelano la loro vera natura: "la rivoluzione si è spinta troppo oltre(...)". Ma allora noi replichiamo: permetteteci di mettervi di fronte a un plotone di esecuzione per aver detto queste parole. O vi astenete dall'esprimere le vostre opinioni oppure, se insistete ad esprimerle pubblicamente nelle circostanze attuali, in un momento in cui la nostra posizione è di gran lunga più difficile di quando le guardie bianche ci attaccavano apertamente, non potete biasimare altri che voi stessi se noi vi trattiamo alla stessa stregua degli elementi peggiori e più perniciosi delle guardie bianche». Questo atteggiamento sprezzante nei confronti del concetto liberale della libertà spiega la cattiva reputazione di cui Lenin gode fra i liberali. La loro tesi si basa soprattutto sul rifiuto della classica contrapposizione marxista-leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: come non si stancano di ribadire anche i liberali di sinistra del calibro di Claude Lefort, la libertà è intrinsecamente «formale», per cui la «libertà reale» equivale all'assenza di libertà. Lenin è ricordato soprattutto per la sua famosa risposta: «Libertà - sì, ma per chi? Per fare cosa?». Per lui, nel caso appena citato dei menscevichi, la loro «libertà» di criticare il governo bolscevico equivaleva in effetti alla «libertà» di minare alle basi il governo dei lavoratori e dei contadini, a favore della controrivoluzione ...

Oggi come oggi, dopo la terrificante esperienza del socialismo reale, non è forse più che evidente in che cosa consiste l'errore di questo ragionamento? In primo luogo, esso riduce una costellazione storica a una situazione chiusa, in cui le conseguenze «oggettive» degli atti di una persona sono completamente determinate («indipendentemente dalle vostre intenzioni, quello che voi adesso state facendo serve oggettivamente a ....»). In secondo luogo, il suo «oggettivismo» apparente ne copre l'opposto soggettivismo: sono io a decidere il significato oggettivo delle tue azioni, dato che sono io a definire il contesto di una situazione: ad esempio, se io considero il mio potere l'espressione immediata del potere della classe operaia, chiunque si oppone a me è «oggettivamente» un nemico della classe operaia.

Ma è proprio questa la conclusione del discorso? In che modo funziona di fatto la libertà nelle democrazie liberali? Per quanto la presidenza di Bill Clinton rappresenti alla perfezione la terza via della (ex) sinistra odierna subalterna al ricatto ideologico della destra, il suo programma di riforme dell'assistenza sanitaria costituirebbe comunque, nelle condizioni di oggi, un atto fondato sul rifiuto dell'ideologia imperante del taglio della spesa pubblica: in un certo senso, Clinton avrebbe «fatto l'impossibile». Non c'è da stupirsi, quindi, che tale programma sia fallito: il suo fallimento - forse l'unico evento significativo, ancorché negativo, della presidenza di Bill Clinton - conferma una volta di più la forza materiale del concetto ideologico di «libera scelta». Sebbene la grande maggioranza della cosiddetta «gente comune» non fosse adeguatamente informata in merito al programma di riforma, la lobby medica (due volte più forte dell'infame lobby degli armamenti!) riuscì a inculcare nell'opinione pubblica l'idea fondamentale che, con l'assistenza medica universale, si sarebbe in qualche modo minacciata la libera scelta in questioni attinenti alla medicina.

A questo punto tocchiamo il centro nervoso dell'ideologia liberale: la libertà di scelta, questione di cruciale importanza nelle nostre «società del rischio» - come le definisce Ulrich Beck - in cui l'ideologia dominante tenta di «venderci» quella stessa insicurezza che è provocata dallo smantellamento dello stato sociale, spacciandola per l'opportunità di nuove libertà. Dovete cambiare lavoro ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine invece che su un lavoro stabile a lungo termine? Perché non vedere in questo la liberazione dai vincoli di un lavoro fisso, la chance di reinventare continuamente la propria vita, di prendere consapevolezza di sé e di realizzare i potenziali latenti della propria personalità? Non potete più fare affidamento sui sistemi pensionistici e mutualistici tradizionali, per cui dovete scegliere una copertura integrativa e pagare di tasca vostra? Perché non percepire in questo un'ulteriore possibilità di scelta: una vita migliore adesso, o una maggiore sicurezza a lungo termine? E se vivete con angoscia un frangente del genere, l'ideologo post-moderno o della «seconda modernità» vi accuserà immediatamente di essere incapace di assumere la libertà completa, di «rifuggire dalla libertà», in un'immatura adesione alle vecchie forme di stabilità. Meglio ancora, se questo si iscrive nell' ideologia del soggetto inteso come individualità psicologica, gravida di capacità e tendenze naturali, ciascuno interpreterà automaticamente tutti questi mutamenti come risultati della propria personalità, e non come conseguenza del fatto di essere sballottato come un fuscello dalle forze del mercato.

Fenomeni come questi rendono più che mai necessario oggi riaffermare la contrapposizione fra libertà «formale» e libertà «reale», in un senso nuovo e più preciso. Consideriamo la situazione dei paesi dell'Est europeo intorno al 1990, quando il socialismo reale stava crollando. All'improvviso, la gente si è trovata catapultata in una situazione di «libertà di scelta politica»senza che le venisse posta la domanda fondamentale: quale tipo di nuovo ordine desiderava realmente? Prima le si disse che stava entrando nella terra promessa della libertà politica; subito dopo, la si informò del fatto che questa libertà comportava privatizzazioni selvagge, lo smantellamento della sicurezza sociale, ecc. ecc.. La gente ha ancora libertà di scelta, se vuole, può tirarsi indietro; ma no, i nostri eroici concittadini dell'Est europeo non volevano deludere i loro maestri occidentali, e quindi hanno perseverato stoicamente nella scelta che non avevano mai compiuto, convincendosi che era loro dovere comportarsi da soggetti maturi, consapevoli che la libertà ha il suo prezzo ...

A questo punto si dovrebbe rischiare di reintrodurre la contrapposizione leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: il nocciolo di verità nella caustica replica di Lenin ai suoi critici menscevichi è che la scelta veramente libera è una scelta in cui io non mi limito a scegliere tra due o più alternative all'interno di un insieme prestabilito di coordinate, ma scelgo invece di modificare quell'insieme stesso di coordinate. L'intoppo nella «transizione» dal socialismo reale al capitalismo è stato che la gente non ha mai avuto la possibilità di scegliere l'ad quem di tale transizione: all'improvviso si è vista catapultata (alla lettera) in una situazione nuova, in cui si trovava di fronte ad un nuovo insieme di scelte prestabilite (puro liberalismo, nazionalismo conservatore ....).

È questo il senso delle ossessive tirate di Lenin contro la libertà «formale», in questo consiste il loro «nocciolo razionale» che vale la pena di salvare ancora oggi. Quando Lenin sottolinea che la democrazia «pura» non esiste, che noi dovremmo sempre chiederci a chi giova la libertà specifica presa in considerazione, qual è il suo ruolo nella lotta di classe, Lenin mira per l'appunto a salvaguardare la possibilità di una vera scelta radicale. In questo consiste, in ultima analisi, la distinzione tra libertà «formale» e libertà «reale»: la libertà «formale» è la libertà di scelta all'interno delle coordinate dei rapporti di potere esistenti, mentre la libertà «reale» designa un intervento che mina alle basi queste stesse coordinate. In sintesi, Lenin non intende limitare la libertà di scelta, bensì conservare la scelta fondamentale. Quando si domanda quale sia il ruolo di una libertà all'interno della lotta di classe, quello che ci chiede è per l'appunto questo: questa libertà contribuisce alla scelta rivoluzionaria fondamentale, oppure la limita?

Lo spettacolo televisivo più popolare degli ultimi anni in Francia, con indici di ascolto altissimi, che hanno addirittura doppiato il successo dei reality shows tipo Il Grande Fratello, è stato C'est mon choix su France 3. Si tratta di un talk show che ospita ogni volta una persona che ha effettuato una scelta particolare, determinante per tutta la sua vita: uno che ha deciso di non indossare mai biancheria intima, un altro che cerca continuamente di trovare un partner sessuale più adeguato per il padre e la madre, e così via. I comportamenti stravaganti sono ammessi, addirittura incoraggiati, ma con l'esclusione esplicita delle scelte che possono disturbare il pubblico : ad esempio, una persona che scelga di essere e agire da razzista è esclusa a priori. Non si può immaginare un esempio più calzante di quello che la «libertà di scelta» rappresenta realmente nelle nostre società liberali. Possiamo continuare ad effettuare le nostre piccole scelte, a «reinventare noi stessi» compiutamente, a patto che queste scelte non incidano veramente sull'equilibrio sociale e ideologico generale. Per fare una cosa davvero di sinistra, C'est mon choix avrebbe dovuto concentrarsi per l'appunto sulle scelte «spiazzanti»: invitare come ospiti persone che fossero razzisti impegnati, cioè persone la cui scelta incide veramente, fa la differenza. È anche questo il motivo per cui, oggi come oggi, la «democrazia» è sempre più un falso problema, un concetto talmente screditato dal suo uso prevalente che, forse, si dovrebbe correre il rischio di abbandonarlo al nemico. Dove, come, da chi sono effettuate le decisioni chiave riguardanti i problemi sociali globali? Avvengono nello spazio pubblico, con la partecipazione impegnata della maggioranza? In caso di risposta affermativa, è di secondaria importanza vivere in uno stato a partito unico, o altro. In caso di risposta negativa, è di secondaria importanza che si viva in un sistema di democrazia parlamentare e di libertà delle scelte individuali.

Quanto alla disintegrazione del socialismo di stato venti anni fa, è doveroso non dimenticare che, approssimativamente nello stesso periodo, è stato inferto un colpo durissimo anche all'ideologia dello stato sociale delle socialdemocrazie occidentali, che ha cessato anch'essa di operare come immaginario coesivo delle passioni collettive. L'idea che «l'epoca dello stato sociale è tramontata» è ormai largamente acquisita e condivisa. L'elemento comune a queste due ideologie sconfitte è il concetto che l'umanità, in quanto soggetto collettivo, ha la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo ed impersonale, di guidarlo nella direzione desiderata. Attualmente, tale concetto viene sbrigativamente accantonato come «ideologico» e/o «totalitario»: di nuovo, si percepisce il processo sociale come dominato da un Fato anonimo, che trascende il controllo sociale. L'ascesa del capitalismo globale si presenta a noi nelle vesti del Fato, contro cui non è possibile combattere: o ci adattiamo, oppure la storia ci lascia indietro, ci travolge. L'unica cosa che si può fare è rendere il capitalismo globale quanto più umano possibile, combattere per un «capitalismo globale dal volto umano» (questo è, o piuttosto era, in ultima analisi, la terza via)

La nostra scelta politica fondamentale - essere socialdemocratico o cristiano-democratico in Germania, democratico e repubblicano negli Stati uniti, ecc. - non può non ricordarci l'imbarazzo della scelta quando chiediamo un dolcificante artificiale in un bar: l'alternativa onnipresente fra bustine rosa e bustine blu, fra sweet'n'low e dietor, e la ridicola pervicacia con cui ognuno sceglie fra le due evitando quella rosa perché contiene sostanze cancerogene o viceversa, servono semplicemente a evidenziare l'insignificanza totale dell'alternativa. E lo stesso discorso si ripete per la Coca e la Pepsi. Ancora, è un fatto ben noto che il pulsante «chiudi porte» degli ascensori è quasi sempre un placebo assolutamente inefficace, piazzato lì soltanto per dare ai singoli individui l'impressione di partecipare, di contribuire in qualche modo alla velocità del viaggio in ascensore; ma quando premiamo quel pulsante, la porta si chiude esattamente alla stessa velocità di quando ci limitiamo a premere il pulsante del piano. Questo caso estremo di falsa partecipazione è una metafora efficace della partecipazione degli individui nel processo politico della nostra società «postmoderna» ...

È questo il motivo per cui, attualmente, tendiamo a evitare Lenin: non perché egli fosse un «nemico della libertà», ma piuttosto perché ci ricorda i limiti ineluttabili (imprescindibili) delle nostre libertà; non perché non ci offra una scelta, ma piuttosto perché ci ricorda il fatto che la nostra «società delle scelte» preclude qualsiasi vera scelta.

(traduzione di Rita Imbellone)

Se c’è, in che consiste lo “spirito europeo” ? La Costituzione europea appena approvata lo rispecchia? Si possono dare subito le risposte.

Lo “spirito europeo” è lo “spirito critico” . E nessuna Costituzione, inevitabile frutto di compromessi, può rispecchiare lo “spirito critico” . Al senso di quest’ultima espressione, tuttavia, non si accede facilmente.

Lo spirito critico è lo spirito dell’Europa perché, comparso a un certo punto della storia dell’uomo, in Grecia, si è allargato sino a dominare tutti gli eventi del continente europeo, e nonostante tutto tende oggi a estendersi sull’intero pianeta. Nessun altro “spirito” è stato in grado di far questo.

Per millenni gli uomini vivono nel mito, cioè accettando le consuetudini culturali della società in cui vivono o, prima ancora, facendosi guidare dai loro impulsi. Poi, cinque secoli prima di Cristo, nell’antico popolo greco viene alla luce la volontà di dubitare di ogni consuetudine e di ogni impulso, e di respingere tutto ciò che si lascia respingere.

A questa volontà i Greci hanno dato il nome di “filosofia” . “Filosofia” è sinonimo di “spirito critico” . O ne è la radice. Respingendo i “sepolcri imbiancati” ed esaltando la “retta intenzione” Gesù è un grande sostenitore dello spirito critico — anche se sarà tradito da molti che si porranno al suo seguito. Il cristianesimo autentico è la religione filosofica per eccellenza, si è detto. Ed è giusto, per quel tanto che il cristianesimo è critica dei sepolcri. Alla base della libertà, della democrazia, del rispetto della dignità dell’uomo, che la Costituzione europea dichiara di promuovere, c’è quello spirito, cioè la lotta contro le antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione dei loro comandi.

L’atteggiamento critico si estende sin dove gli è possibile. Non si ferma sin quando gli è possibile detronizzare tiranni e abbattere idoli. Si ferma cioè solo dinanzi all’innegabile — e l’innegabile autentico è la verità. “Filo- sofia” significa, alla lettera, “cura per ciò che è luminoso ( saphés )” ; e la verità è per essenza ciò che si mantiene nella luce.

Tutte le forme della cultura e della civiltà europea tengono al loro centro questa volontà di verità. Che non può essere regolata da leggi esterne — e in questo senso è “anarchica” — , ma solo dalla legge che prescrive di respingere tutto ciò che può esser respinto — e in questo senso è sommamente non anarchica. È palese l’anima comune della verità, della scienza moderna e della crescente razionalizzazione dell’agire in Europa. E anche dell’arte europea — la quale conduce sì nel sogno, ma perché ha costantemente dinanzi i connotati della veglia, cioè della verità del mondo, da cui vuol prendere provvisorio o definitivo congedo. Il rapporto alla verità divide gli uomini perché di fronte a essa ogni individuo deve essere solo e perdere in qualche modo di vista quel che fanno gli altri. Non guardava in questa direzione Gesù, quando diceva di esser venuto a portare la spada? Nessuna meraviglia se, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, gli Stati europei, come le antiche città greche, e ripetendo la diaspora degli individui rispetto alla verità, siano così differenti, divergenti, in lotta e liberi gli uni dagli altri. Una libertà, questa, che non ha nulla a che vedere con le degenerazioni dello spirito critico, come la libertà che è licenza delle masse europee e occidentali, o come l’inerzia culturale che trasforma in un dogma lo stesso spirito critico. Del quale il cristianesimo, nel suo sviluppo storico, è stato un grande nemico.

Si comprende quindi che cosa stia al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto inserire nella Costituzione europea il riconoscimento delle nostre “radici cristiane” . È breve il tragitto che ( indipendentemente dalle intenzioni) conduce da questo riconoscimento a quello della sopravvivenza di tali radici e dunque al riconoscimento che l’Europa è uno Stato cristiano — con l’inevitabile conseguenza che una condotta di vita non cristiana sarebbe una violazione della Costituzione europea. È un’affermazione dello spirito critico che l’Europa non abbia i suoi “Patti Lateranensi” .

Fuori discussione, dunque, l’importanza della Costituzione europea. Ma è ancora un passo formale. Più decisivo è come l’Europa possa disporre, sul piano della politica estera, di una “capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari” ( art. 40 della Costituzione).

L’Europa non può allontanarsi dagli Stati Uniti, ma può esserne un interlocutore credibile e dunque un valido alleato solo se è militarmente forte. Penso alla forza che, in un mondo sempre più pericoloso, non può essere improvvisata, e che però esiste già, ed è l’armamento nucleare russo. Europa e Russia stanno già da tempo riavvicinandosi.

Come potrebbe essere diversamente? Se si prospetta l’aggregazione della Turchia all’Europa, come ignorare, oltre al resto, che lo “spirito critico” ha condotto in Russia al tramonto del comunismo? Detto questo, il passo più decisivo incomincia a questo punto: gettar luce nell’abisso inesplorato da cui lo “spirito critico” è emerso.

Chi è Emanuele Severino

Norberto Bobbio ovvero il significato di essere laico. È difficile frenare l’emozione per la morte di un uomo che, protagonista storico della vita intellettuale e morale di un Paese e voce fra le più grandi della cultura europea di mezzo secolo, è anche una persona cui ci legano affetti, ricordi, momenti di vita vissuta, il debito per la chiarezza con cui ci ha aiutati a trovare e a percorrere con più sicurezza la nostra strada. Norberto Bobbio ci lascia a un’età veneranda, in cui la morte rientra nella grande legge delle cose contro la quale è querulo protestare, ma ci lascia in un momento in cui il nostro Paese e il clima culturale in genere avrebbero bisogno della sua chiarezza, ancor più che in passato.

Bobbio è un grande laico, non nel senso stupido e scorretto in cui viene correntemente usata questa parola, quasi significasse l’opposto di credente o religioso. Bobbio ha insegnato che laicità non è un credo filosofico specifico, ma la capacità di distinguere le sfere delle diverse competenze, ciò che spetta alla Chiesa da ciò che spetta allo Stato, ciò che appartiene alla morale da ciò che deve essere regolato dal diritto, ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede.

Pochissimi come Bobbio hanno testimoniato la laicità quale attitudine critica ad articolare le proprie idee, religiose o irreligiose, secondo principi logici non condizionati da alcuna fede; la cultura - anche quella cattolica - è sempre laica, così come la dimostrazione di un teorema anche se fatta da un santo della Chiesa obbedisce alle leggi della matematica e non ai paragrafi di un catechismo. Bobbio incarna questa laicità intesa quale dubbio rivolto pure alle proprie certezze, capacità di aderire a un’idea senza restarne succubi, libertà dalla smania di idolatrare come di dissacrare, moralità umanistica che si oppone sia al fazioso moralismo inacidito sia alla pacchiana disinvoltura etica; laicità che distingue il pensiero e l’autentico sentimento - sempre rigoroso - dal fanatismo ideologico e dalle viscerale reazioni emotive, ancor più funeste del dogmatismo.

Tutto questo Norberto Bobbio l’ha vissuto, testimoniato e difeso sui fronti più diversi: con i suoi memorabili studi filosofici e giuridici, che fanno di lui un raro maestro, un vero classico, di cui altri parleranno a fondo con la dovuta competenza; col suo insegnamento universitario in quella nostra grande Torino che è stata capitale di una possibile Italia più civile; con la sua milizia etico-politica e la sua presenza generosa e creativa nella vita culturale. Si potrebbero citare molti esempi di questo suo servizio. Vorrei ricordarne due, apparentemente minori rispetto a tante battaglie di cinquant’anni e più di storia italiana. Uno è la sua testimonianza appassionata e lucida - da vero laico, in un clima di intollerante faziosità abortista - della realtà della vita nascente e dei conseguenti diritti del nascituro.

Un altro è la ferma, malinconica e impopolare chiarezza con la quale - in un momento in cui il caso di una bambina adottata o affiliata irregolarmente e contesa da famiglie diverse aveva scatenato una psicosi collettiva di sentimentalismo insofferente della legge - aveva rivendicato, contro la marea vincente dell’enfasi strappalacrime, la necessità di rispettare la legge, con tutti i prosaici e talora gretti limiti che ciò spesso comporta. Ma andrebbero ricordate tante altre battaglie, ad esempio la difesa della scuola pubblica contro gli indecenti favori a quelle private.

La sua lucidità concettuale, scolpita nel profilo grifagno, si nutriva di un cuore sensibile e generoso, tanto capace di affetto, di amicizia e di ironia. Proprio per questo egli ha difeso i «valori freddi» della democrazia - l’esercizio del voto, le formali garanzie giuridiche, l’osservanza delle leggi e delle regole, i principi logici - sapendo che sono essi a permettere agli uomini, a ogni individuo in carne ed ossa, di coltivare personalmente, liberamente i propri valori e sentimenti «caldi», l’amicizia, gli affetti, l’amore, le passioni e le predilezioni d’ogni genere. Questi valori caldi sembrano e sono più concreti del suffragio universale, della divisione dei poteri o degli articoli di un codice, ma devono all’osservanza di quei principi la possibilità di essere completamente coltivati e vissuti.

Oggi c’è più che mai bisogno di personalità come Norberto Bobbio, in una temperie culturale assai poco laica, in cui si confondono e pasticciano politica, morale, diritto e pappa del cuore e trionfa una sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica, che mette spesso il soggetto all’accusativo e il complemento oggetto al nominativo, scambiando così i ruoli tra le vittime ed i colpevoli; in cui non ci si scandalizza di chi scambia il governo della cosa pubblica col perseguimento dell’interesse privato, regredendo ad una barbarie premoderna e cancellando secoli di civiltà liberale, che aveva lavorato controlli e garanzie per impedire abusi di potere.

Non è laico fare una guerra - giusta o sbagliata, opportuna o inopportuna - senza dichiararla né trasformarla in una specie di guerra morale o religiosa, scandalizzandosi d’incontrare, in questo intervento armato, resistenze che in un ottica di guerra è legittimo cercare di stroncare ma di cui in un’ottica di guerra è curioso stupirsi. Non è laico confondere le colpe morali o i delitti degli avversari con le loro responsabilità politiche, che sono altra cosa, né con quelle penali e civili, che sono ancora un’altra cosa. Mai come oggi è necessaria la parola di un maestro come Bobbio, maestro nell’individuare i rapporti e le distinzioni fra diritto e morale, e fra morale e politica, la cui confusione - che porta così spesso ad aberranti ingiustizie - sembra essere sempre più coltivata.

Quando Ceausescu, il satrapo romeno, cadde, poteva essere comprensibile che qualcuno ritenesse necessaria, in quel momento, la sua eliminazione, ma assumendosi allora la responsabilità di questa terribile sospensione del diritto, anziché stimolare una tragicomica legalità come il processo farsa in cui il suo avvocato difensore chiede per lui la pena di morte. Uomini come Norberto Bobbio aiutano a resistere a questo crescente analfabetismo concettuale e morale, che somma litri a chili e ragiona o meglio induce a ragionare con le viscere anziché con la testa.

Bobbio non ha combattuto il fascismo con le armi in pugno, come un Valiani, non era un eroe, ma non si è mai atteggiato a tale e la sua lezione morale di chiarezza non è per questo minore. Ha avuto, com’è inevitabile e fisiologico, delle critiche, quando l’egemone cultura antifascista - di cui egli era uno dei più alti rappresentanti e che ha avuto la sua grandezza ma anche certi limiti - è entrata in crisi dinanzi a una realtà italiana radicalmente cambiata. Che nel clima spesso becero-giulivo di questi nostri anni ricevesse anche dei cachinni era prevedibile. Non sarebbe da laici darvi troppa importanza.

Cari amici, i problemi che ponete sono molti e vorrei focalizzarmi su uno soltanto. Voi dite che molti intellettuali nel nostro paese sembrano conquistati da un fatalismo a valenza ottimistica, quasi che il vaticinio di Montanelli (lasciate che l’Italia assaggi Berlusconi per qualche anno e poi se ne accorgerà) suoni come invito all’evasione anziché stimolo a più lucida passione civile. A prima vista non direi. Anche se in ogni tempo è esistita la divisione tra coloro che si arroccano nella loro torre d’avorio e coloro che s’impegnano, non passa giorno che non assista a severe e appassionate denunce su quanto ci accade d’intorno, e mi pare che sui pericoli che corre la nostra democrazia si sia creato il fronte di una minoranza vocale abbastanza vigile.

Però sono vere due cose. Una, che se vado in edicola e compero tutti i giornali esistenti, mi accorgo che il fronte critico si esercita solo su alcuni giornali schierati all’opposizione, e in parte anche su una stampa che, per quanto si voglia «indipendente», non può tacere su alcuni eventi scandalosi; però ci sono lettori che comperano invece gli altri giornali, e che rimangono del tutto impermeabili a queste critiche. Pertanto il rischio è che l’antiberlusconismo sia diventato materia da club, praticato da coloro che sono già d’accordo, così che le denunce (che ci sono) lasciano intoccati proprio quei nostri connazionali ai quali chiederemmo un esame di coscienza sul voto che hanno dato qualche anno fa. E allora si comprende, anche se non si giustifica, la reazione di coloro che, pur stando all’opposizione, ci invitano a smetterla col gioco al massacro nei confronti del primo ministro, che rischia di diventare materia di civile e divertita conversazione per membri dello stesso circolo ricreativo i quali, trovandosi tutti d’accordo nelle loro deprecazioni virtuose, si convincono di avere salvato almeno l’anima.

Da cui una prima riflessione, su cui ritornerò alla fine: il fronte critico nei confronti del nuovo regime raggiunge soltanto l’udienza che di queste critiche non ha bisogno.

Veniamo ora ai casi del nostro sfortunato paese. Ogni giorno si sentono reazioni energiche (e per fortuna anche da parte dell’opinione pubblica di altri paesi europei, forse più che da noi) al colpo di Stato strisciante che Berlusconi sta cercando di realizzare.

Ci siamo accorti tutti che era male impostata la discussione se Berlusconi stesse instaurando un regime, sino a che la parola «regime» ci evocava automaticamente il regime fascista, e allora era se non altro onesto ammettere che Berlusconi non stava mandando i dissidenti a Ventotene, non stava mettendo i ragazzi in camicia nera, non ricostruiva la camera dei fasci e delle corporazioni e così via.

Infatti non era ancor chiaro che, regime essendo in genere una forma di governo (così come ci sono regimi democratici, regimi monarchici e così via), Berlusconi sta instaurando giorno per giorno una forma di governo autoritario, fondato sull’identificazione del partito, del paese e dello Stato con una serie di interessi aziendali. Lo fa senza procedere con operazioni di polizia, arresto di deputati, o abolizione violenta della libertà di stampa, ma mettendo in opera una occupazione graduata dei media più importanti, e creando con mezzi adeguati forme di consenso fondate sull’appello populistico.

Di fronte a questa operazione si è affermato, nell’ordine, che: (i) Berlusconi è entrato in politica al solo fine di bloccare o deviare i processi che potevano condurlo in carcere; (ii) come ha detto un giornalista francese, Berlusconi sta instaurando un «pedegisme» (pdg essendo in Francia il président directeur général, il boss, il manager, il capo assoluto di una azienda); (iii) Berlusconi realizza il progetto avvalendosi di un’affermazione elettorale indiscutibile, e quindi sottraendo agli oppositori l’arma del tirannicidio, in quanto debbono opporsi rispettando il volere della maggioranza, e quello che possono fare è solo convincere parte di questa maggioranza a riconoscere e accettare le considerazioni del cui elenco la presente è parte; (iv) Berlusconi, sulla base di questa affermazione elettorale, procede facendo approvare leggi concepite nel suo personale interesse e non secondo quello del paese (e questo è il pedegisme); (v) Berlusconi, per le ragioni sopra esposte, non si muove come uno statista e neppure come un politico tradizionale, ma secondo altre tecniche – e proprio per questo è più pericoloso di un caudillo dei tempi andati, perché queste tecniche si presentano come apparentemente adeguate ai principî di un regime democratico; (vi) come sintesi di queste ovvie e documentate osservazioni, Berlusconi ha superato la fase del conflitto d’interessi per realizzare ogni giorno di più l’assoluta convergenza d’interessi, e cioè facendo accettare al paese l’idea che i suoi personali interessi coincidano con quelli della comunità nazionale.

Questo è certamente un regime, una forma e una concezione di governo, e si sta realizzando in modo così efficace che le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà ed amore per l’Italia ma semplicemente al timore che l’Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero estendersi all’Europa intera.

Tutte queste osservazioni (e persuasioni) sono vere, condivise e condivisibili, e io non direi che sinora si sia manifestato soltanto disinteresse, ignavia, accettazione dell’inevitabile, con tutte le tentazioni di negoziazione e inciucio che ne conseguono.

Il problema è che l’opposizione a Berlusconi, anche all’estero, procede alla luce di una settima persuasione, che secondo me è sbagliata. Si ritiene infatti che, non essendo uno statista, ma un boss aziendale solamente inteso a mantenere gli equilibri precari del proprio schieramento, Berlusconi non si accorga che il lunedì dice una cosa e il martedì il suo contrario, che non avendo esperienza politica e diplomatica sia incline alla gaffe, parli quando non deve parlare, si lasci sfuggire affermazioni che è costretto il giorno dopo a rimangiarsi, confonda a tal punto il proprio utile particolare con quello pubblico da permettersi con ministri stranieri battute di pessimo gusto sulla propria consorte – e via dicendo. In questo senso la figura di Berlusconi si presta alla satira, i suoi avversari si consolano talora pensando che abbia perduto il senso delle proporzioni, e confidano pertanto che senza rendersene conto corra verso la propria rovina (ipotesi Montanelli).

Credo che invece occorra partire dal principio che, in quanto uomo politico di nuovissima natura, diciamo pure post-moderno, Berlusconi sta mettendo in atto, proprio coi suoi gesti più incomprensibili, una strategia complessa, avveduta e sottile, che testimonia del pieno controllo dei suoi nervi e della sua alta intelligenza operativa (e se non di una sua intelligenza teorica, di un suo prodigioso istinto di venditore).

Colpisce infatti in Berlusconi (e purtroppo diverte) l’eccesso di tecnica del venditore. Non è necessario evocare il fantasma di Vanna Marchi – che di queste tecniche costituiva la caricatura, sia pure efficace per un pubblico sottosviluppato. Vediamo la tecnica di un venditore di automobili. Egli inizierà dicendovi che la macchina che propone è praticamente un bolide, che basta toccare l’acceleratore per andare subito sui duecento orari, che è concepita per una guida sportiva. Ma non appena si renderà conto che avete cinque bambini e una suocera invalida, senza transizione di sorta, passerà a dimostrarvi come quella macchina sia l’ideale per una guida sicura, capace di tenere con calma la crociera, fatta per la famiglia. Quindi di colpo vi dirà che se la prendete vi dà i tappetini gratis. Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l’insieme del suo discorso come coerente, gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sola sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi sarete fissati su quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere. Deve fare in modo di parlare molto, con insistenza, per impedire che facciate obiezioni.

Molti ricorderanno quel tal Mendella che appariva in televisione (non una volta, come fanno gli spot delle grandi aziende, ma per ore e ore, su un canale dedicato) per convincere pensionati e famiglie di medio e basso reddito ad affidargli i loro capitali, assicurando rendimenti del cento per cento. Che, dopo aver rovinato alcune migliaia di persone, Mendella sia stato preso mentre fuggiva con la cassa, è un altro discorso: aveva tirato troppo la corda e troppo in fretta. Ma tipico di Mendella, se ricordate, era presentarsi alle dieci di sera dicendo che lui non aveva interessi personali in quella raccolta di risparmi altrui, perché era semplicemente il portavoce di una azienda ben più ampia e robusta; ma alle undici affermava energicamente che in quelle operazioni, di cui si diceva l’unico garante, aveva investito tutto il suo capitale, e quindi il suo interesse coincideva con quello dei suoi clienti. Chi ha inviato i soldi non si è mai accorto della contraddizione, perché ha scelto evidentemente di focalizzare l’elemento che gli infondeva maggior fiducia. La forza di Mendella non stava negli argomenti che usava, ma nell’usarne molti a mitraglia.

La tecnica di vendita di Berlusconi è evidentemente di tal genere (vi aumento le pensioni e vi diminuisco le tasse) ma infinitamente più complessa. Egli deve vendere consenso, ma non parla a tu per tu coi propri clienti, come Mendella. Deve fare i conti con l’opposizione, con l’opinione pubblica anche straniera e con i media (che non sono ancora tutti suoi), e ha scoperto il modo di volgere le critiche di questi soggetti a proprio favore.

Pertanto deve fare promesse che, buone cattive o neutre che appaiano ai suoi sostenitori, si presentino agli occhi dei critici come una provocazione. E deve produrre una provocazione al giorno, tanto meglio se inconcepibile e inaccettabile. Questo gli consente di occupare le prime pagine e le notizie di apertura dei media e di essere sempre al centro dell’attenzione. In secondo luogo la provocazione deve essere tale che le opposizioni non possano non raccoglierla, e siano obbligate a reagire con energia. Riuscire a produrre ogni giorno una reazione sdegnata delle opposizioni (e persino di media che non appartengono all’opposizione ma non possono lasciar passare sotto silenzio proposte che configurano stravolgimenti costituzionali) permette a Berlusconi di mostrare al proprio elettorato che egli è vittima di una persecuzione («Vedete, qualsiasi cosa dica, mi attaccano»).

Il vittimismo, che sembra contrastare col trionfalismo che caratterizza le promesse berlusconiane, è tecnica fondamentale. Ci sono stati esempi anche simpatici di vittimismo sistematico, come quello di Pannella che è riuscito per decenni ad occupare le prime posizioni nei media proclamando che tacevano sistematicamente sulla sue iniziative. Ma il vittimismo è anche tipico di ogni populismo. Mussolini ha provocato con l’attacco all’Etiopia le sanzioni, e poi ha giocato propagandisticamente sul complotto internazionale contro il nostro paese. Affermava la superiorità della razza italiana e cercava di suscitare un nuovo orgoglio nazionale, ma lo faceva lamentando che gli altri paesi disprezzassero l’Italia. Hitler è partito alla conquista dell’Europa sostenendo che erano gli altri a sottrarre lo spazio vitale al popolo tedesco. Che è poi la tattica del lupo nei confronti dell’agnello. Ogni prevaricazione deve essere giustificata dalla denuncia di una ingiustizia nei tuoi confronti. In definitiva il vittimismo è una delle tante forme con cui un regime sostiene la coesione del proprio fronte interno sullo sciovinismo: per esaltarci occorre mostrare che ci sono altri che ci odiano e vogliono tarparci le ali. Ogni esaltazione nazionalistica e populistica presuppone la coltivazione di uno stato di continua frustrazione.

Non solo, il poter lamentare ogni giorno il complotto altrui permette di apparire sui media ogni giorno a denunciare l’avversario. Anche questa è tecnica antichissima, nota anche ai bambini: tu dai uno spintone al tuo compagno del banco davanti, lui ti tira una pallina di carta e tu ti lamenti col maestro.

Un altro elemento di questa strategia è che, per creare provocazioni a catena, non devi parlare solo tu, bensì lasciare mano libera ai più dissennati tra i tuoi collaboratori. Non serve passargli ordini, se li hai scelti bene partiranno per conto proprio, se non altro per emulare il Capo, e più dissennate saranno le provocazioni meglio sarà.

Non importa se la provocazione va al di là del credibile. Se tu affermi, poniamo, che vuoi abolire l’articolo della Costituzione che difende il paesaggio (d’altra parte che altro sono le proposte di elevare la velocità ai centocinquanta orari, o i progetti tecnologici e faraonici in spregio alle esigenze ecologiche?), l’avversario non può non reagire, altrimenti perderebbe persino la propria identità e la propria funzione di oppositore come garante. La tecnica consiste nel lanciare la provocazione, smentirla il giorno dopo («Mi avete frainteso») e lanciarne immediatamente un’altra, in modo che su quella si appunti e la nuova reazione dell’opposizione e il rinnovato interesse dell’opinione pubblica, e tutti dimentichino che la provocazione precedente era stata semplicemente flatus vocis.

L’inaccettabilità della provocazione consente inoltre di raggiungere altri due fini essenziali. Il primo è che, in fin dei conti, per alta che la provocazione sia stata, costituisce pur sempre un ballon d’essai. Se l’opinione pubblica non ha reagito con sufficiente energia, questo significa che persino la più oltraggiosa delle strade potrebbe essere, con la calma dovuta, percorribile. Questo è il motivo per cui l’opposizione è costretta a reagire, anche se sa che si tratta di pura e semplice provocazione, perché se tacesse aprirebbe la strada ad altri tentativi. L’opposizione fa dunque quello che non può non fare per contrastare il colpo di Stato strisciante, ma così facendo lo corrobora, perché ne segue la logica.

Il secondo fine che si realizza è quello che definirei l’effetto bomba. Ho sempre sostenuto che se fossi uomo di potere impegolato in molti e oscuri traffici, e se venissi a sapere che entro due giorni scoppierà sui giornali una rivelazione che porterebbe alla luce le mie malefatte, io avrei una sola soluzione: metterei o farei mettere una bomba alla stazione, in una banca, o in piazza all’uscita dalla messa. Con ciò sarei sicuro che per almeno quindici giorni le prime pagine dei giornali e l’apertura dei telegiornali saranno occupate dall’attentato, e la notizia che mi preoccupa, seppure apparisse, sarebbe confinata nelle pagine interne e passerebbe inosservata – o comunque toccherebbe solo di striscio un’opinione pubblica preoccupata da ben altri problemi.

Un caso tipico di effetto bomba è stata la sparata sul kapò seguita dalla sparata di rinforzo del leghista Stefani contro i turisti tedeschi beoni e schiamazzatori. Gaffe incomprensibile, dato che suscitava un incidente internazionale e proprio all’inizio del semestre italiano? Niente affatto. Non solo (ma questo è stato effetto collaterale) perché sollecitava lo sciovinismo latente di gran parte dell’opinione pubblica, ma perché in quegli stessi giorni si discuteva in parlamento la legge Gasparri, con la quale Mediaset affossava definitivamente la Rai e moltiplicava i dividendi. Ma io (e chissà quanti altri come me) me ne sono reso conto solo ascoltando, mentre guidavo in autostrada, Radio Radicale in diretta dal parlamento. I giornali dedicavano pagine e pagine a Berlusconi gaffeur, al fatto se i turisti tedeschi sarebbero scesi ugualmente in Italia, al problema lancinante se Berlusconi con Schröder si fosse davvero scusato oppure no. L’effetto bomba ha funzionato alla perfezione.

Potremmo rileggerci tutte le prime pagine dei quotidiani degli ultimi due anni per poter calcolare quanti effetti bomba sono stati prodotti. Di fronte ad affermazioni sesquipedali, come quella che i magistrati sono soggetti da cura psichiatrica, la domanda da porsi è quale altra iniziativa questa bomba stia facendo passare in secondo piano.

In questo senso Berlusconi pedegista controlla e dirige le reazioni dei suoi oppositori, le confonde, può usarle per mostrare che quelli vogliono la sua rovina, che ogni appello all’opinione pubblica è una canagliata ad hominem.

Per finire, la strategia delle mosse eccessive produce sconcerto negli stessi media che dovrebbero criticarle. Si consideri la faccenda Telekom-Serbia. A uno storico del futuro sarà chiaro che, in questa ridda di insinuazioni ed accuse, sono in gioco sei diversi problemi. Vale a dire: (i) se l’affare Telekom-Serbia è stato un cattivo affare; (ii) se era politicamente e moralmente lecito fare transazioni con Milosevic´, in un’epoca pre-Kosovo, quando il dittatore serbo non era ancora stato messo al bando dalle nazioni democratiche; (iii) se in questo affare sono stati impiegati denari pubblici; (iv) se il governo era tenuto a sapere che cosa stesse accadendo; (v) se il governo l’ha saputo e ha dato il suo consenso. Tutti questi punti sono di carattere squisitamente politico ed economico e potrebbero essere discussi sulla base dei fatti (quando, come, quanto). Il sesto punto è invece se qualcuno abbia preso tangenti per consentire un affare illecito e dannoso per l’Italia. Questo punto sarebbe di rilievo penale ma potrà essere discusso solo sulla base di prove ancora a venire. Ebbene, scegliete un italiano a caso e chiedetegli se ha chiare queste distinzioni e se sa di che cosa si stia parlando quando si protesta contro i veleni o si sollecita un’inchiesta. Solo pochi articoli di fondo hanno messo in chiaro l’esistenza non di uno ma di sei problemi, per il resto i media sono stati trascinati in una ridda convulsa di esternazioni quotidiane, le une che riguardavano i punti (i)-(v) e le altre che riguardavano il punto (vi), ma senza che il lettore o il telespettatore abbiano avuto il tempo di capire sia che le questioni erano sei sia di quale si stesse parlando. Per stare dietro alla ridda di esternazioni, che confondono abilmente i sei punti, anche i media sono costretti a confonderli – il che è poi quello a cui l’operazione mira.

Se questa è la strategia, sino a ora si è dimostrata vincente. Se l’analisi della strategia è giusta, Berlusconi ha ancora un grande vantaggio sui suoi avversari.

Come ci si oppone a questa strategia? Il modo ci sarebbe, ma assomiglia al suggerimento di McLuhan, che per bloccare i terroristi (che vivevano sull’eco propagandistico delle loro iniziative e sul malessere che diffondevano), proponeva il black out della stampa. La conseguenza era che forse non si sarebbe diventati megafono dei terroristi, ma si entrava in un regime di censura – che è poi quello che i terroristi speravano di provocare.

È facile dire: concentri le tue reazioni solo sui casi veramente importanti (leggi sulle rogatorie o sul falso in bilancio, Cirami, Gasparri e via dicendo) ma se Berlusconi lascia capire che vuole diventare presidente della Repubblica metti la notizia in un trafiletto di sesta pagina, per obbligo d’informazione, senza stare al suo gioco. Ma chi accetterebbe questo patto? Non la stampa specificamente di opposizione, che si troverebbe immediatamente a destra della stampa «indipendente». Non la stampa indipendente, per la semplice ragione che il patto presupporrebbe un suo schieramento esplicito. Inoltre questa decisione sarebbe inaccettabile per qualsiasi tipo di medium, il quale verrebbe meno al suo dovere/interesse, quello di approfittare del minimo incidente per produrre e vendere notizie, e notizie piccanti e appetibili. Se Berlusconi insulta un parlamentare europeo non puoi relegare la notizia tra i fatti di cronaca o gli stelloncini di costume, perché perderesti le migliaia di copie che ti fa guadagnare il battage sul gustoso avvenimento, con pagine e pagine di opinioni divergenti, interpretazioni, pettegolezzi, ipotesi, reazioni salaci.

Naturalmente potrebbe darsi che questa strategia non abbia il respiro di una strategia: che sia una tattica utile per vincere alcune battaglie ma non per vincere una guerra. Anzi, potrebbe essere una tattica buona per sfiancare l’esercito avversario ma non per vincere una battaglia campale.

In secondo luogo potrebbe accadere che questa tattica inebrii, abitui, dia un senso di impunità: a un certo punto Berlusconi potrebbe diventarne vittima egli stesso, ripetere compulsivamente le sue mosse, senza rendersi conto che agli occhi di moltissimi è diventato la caricatura di se stesso.

Ma tutte queste sono ipotesi, e potrebbero essere dannose in quanto rassicuranti. Non rimane dunque che prendere una decisone, sia pure sulla base della semplice ipotesi che sia buona e sia realizzabile: visto che, sino a che il gioco ce l’ha in mano Berlusconi, l’opposizione deve seguirne le regole, l’opposizione deve prendere l’iniziativa adottando – ma in positivo – le stesse regole berlusconiane.

Questo non comporta che l’opposizione dovrebbe finire di «demonizzare» Berlusconi. Si è visto che se non reagisce alle sue provocazioni in un certo senso le avalla, e in ogni caso manca al proprio dovere istituzionale. Ma questa funzione di reazione critica alle provocazioni dovrebbe essere assegnata a un’ala dello schieramento, impegnata a pieno tempo. E dovrebbe manifestarsi su canali alternativi. Se è vero, come è vero, che i media ancora liberi dal controllo berlusconiano raggiungono solo i già convinti, e la maggior parte dell’opinione pubblica è esposta a media asserviti, non rimane che scavalcare i media. A modo proprio i girotondi sono stati un elemento di questa nuova strategia, ma se uno o due girotondi fanno rumore, mille ingenerano assuefazione. Se debbo dire che il telegiornale ha celato una notizia non posso dirlo attraverso il telegiornale. Debbo tornare a tattiche di volantinaggio, distribuzione di videocassette, teatro di strada, tam tam su Internet, comunicazione su schermi mobili posti in diversi angoli della città, e a quante altre invenzioni la nuova fantasia virtuale può suggerire. Visto che non si può parlare all’elettorato disinformato attraverso i media tradizionali, se ne inventano dei nuovi.

Contemporaneamente, a livello dell’azione più tradizionale dei partiti, delle interviste, della partecipazione a programmi televisivi (ma sorprendendo l’avversario con l’esternazione inattesa) l’opposizione deve fare partire le proprie provocazioni.

Cosa intendo per provocazioni di opposizione? La capacità di concepire dei piani di governo, su problemi su cui l’opinione pubblica sia sensibile, e di lanciare idee su futuri assetti del paese tali da obbligare i media a occuparsene almeno con lo stesso rilievo che danno alle provocazioni di Berlusconi.

In spirito di puro machiavellismo (stiamo parlando di politica) ritengo che, salva la dignità, il progetto provocatorio potrebbe andare al di là delle proprie effettive possibilità di realizzazione. Tanto per fare un esempio da laboratorio, la pubblicizzazione di un piano che prevedesse, poniamo, una legge che la sinistra al governo vorrebbe fare subito approvare, che proibisse a un solo soggetto di avere più di una stazione televisiva (e o un giornale o una stazione), scoppierebbe come una bomba. Berlusconi sarebbe obbligato a reagire, questa volta in difesa e non in attacco, e facendolo darebbe voce ai suoi avversari. Sarebbe lui a dichiarare l’esistenza di un conflitto (o di una convergenza) d’interessi, e non potrebbe attribuirne il mito alla volontà perversa dei suoi avversari. Né potrebbe accusare di comunismo una legge antimonopolio che mira ad allargare gli accessi alla proprietà privata dei media.

Ma non è necessario spingersi a ipotesi fantascientifiche. Un piano per il controllo del rincaro dei prezzi dovuto all’euro, toccherebbe da vicino anche coloro che non si sentono coinvolti dal conflitto d’interessi.

Insomma, si tratterebbe di lanciare di continuo, e in positivo, proposte che lascino intravedere all’opinione pubblica un altro modo di governare, e che mettessero la maggioranza alle corde, nel senso che sia obbligata a dire se ci sta o non ci sta – e in tal senso essa sarebbe costretta a discutere e difendere i propri progetti e a giustificare le proprie inadempienze – non potendo arroccarsi sull’accusa generica a una opposizione rissosa. Se tu dici alla gente che il governo ha sbagliato a fare questo o quello, la gente potrebbe non sapere se hai ragione o torto. Se invece dici alla gente che tu vorresti fare questo o quello, l’idea potrebbe colpire l’immaginazione e gli interessi di molti, suscitando la domanda sul perché la maggioranza non lo fa.

Solo che, per elaborare strategie del genere, l’opposizione dovrebbe essere unita, perché non si elaborano progetti accettabili e dotati di fascino se ci si impegna dodici ore al giorno in lotte intestine. E qui si entra in un altro universo, e l’ostacolo insormontabile pare essere la tradizione ormai più che secolare per cui le sinistre di tutto il mondo si sono sempre esercitate nella distruzione delle proprie eresie interne, anteponendo le esigenze di questa lotta tra fratelli alla battaglia frontale contro l’avversario.

Eppure, solo superando questo scoglio si può pensare a un soggetto politico capace di occupare l’attenzione dei media con progetti provocatori, e di battere Berlusconi usando, almeno in parte, le sue stesse armi. Se non si entra in questa logica, che può anche non piacere, ma è la logica dell’universo mediatico in cui viviamo, non rimane che fare dimostrazioni contro la tassa sul macinato.

Pubblichiamo il Questionario scritto da Paolo Flores D’Arcais e sottoposto a Umberto Eco come linea-guida della sua analisi

QUESTIONARIO IN FORMA DI TESI

Dinnanzi al regime berlusconiano, non è venuto il momento, per l’intellettuale che ha il privilegio di ‘ farsi ascoltare’, di impegnarsi in prima persona?

Non è necessario ‘allargare’ l’Ulivo, oltre i partiti, alla società civile, per dare nuovo slancio ai movimenti e autenticità all’opposizione?

Premessa

Le righe che seguono non vanno prese come un vero e proprio questionario. Piuttosto, come una traccia, che indica gli argomenti che presumibilmente stanno a cuore a molti lettori, e che ciascuno, nel rispondere, può utilizzare a suo modo, concentrandosi nel proprio intervento su alcuni punti o anche su uno solo dei temi, o aggiungendone altri eccetera. Con la più totale libertà.

1. Una sorta di schizofrenia etico-politica sembra conquistare il paese anche nella sua maggioranza di cittadini criticamente consapevoli: una mitridatizzazione, forse. Sempre più numerose sono le persone, anche di vocazione moderatissima, che riconoscono una dichiarata finalità di regime nell’azione berlusconiana di malgoverno (da ultimo Rivera, ex golden boy calcistico, oggi cautissimo politico della Margherita). Ma alla consapevolezza analitica non corrisponde adeguata «ragion pratica», l’imperativo cioè di un coinvolgimento anche personale nell’azione democratica di contrasto, ora che troppi e reiterati fatti, concordemente univoci, certificano l’avvenuto superamento della soglia che dichiara «la repubblica in pericolo».

Siamo al punto che la più autorevole testata della destra economica internazionale, bibbia ebdomadaria dell’establishment capitalistico e compassata cheerleader giornalistica della signora Thatcher e di Bush padre e figlio (e dello spirito santo del liberismo senza remore), l’Economist insomma, insiste pervicacemente in una vera e propria «crociata» per sensibilizzare l’Occidente conservator-finanziario a non sottovalutare la tabe anti-liberaldemocratica rappresentata dal berlusconismo, e annesso rischio di contagio populista in Europa a danno delle libere (ma soprattutto liberiste) istituzioni: tanto comunitarie che dei singoli Stati.

Ma gli intellettuali democratici nel nostro paese sembrano conquistati da un fatalismo a valenza ottimistica, quasi che il vaticinio di Montanelli («Per decidere di liberarsene l’Italia deve assaggiarlo fino in fondo») suoni invito al divertissement e all’evasione anziché stimolo a più lucida passione civile.

E allora, se il cumularsi delle gesta e delle minacce governative contro la convivenza liberaldemocratica ha ormai esondato (come in effetti) il livello di guardia, non è giunto il momento della decisione per un impegno civile – e dunque politico, di «movimento» – esplicito personale e diretto, al di là di quello indiretto erogato con la capacità e le realizzazioni professionali, da parte di chiunque (una percentuale assai modesta) abbia modo di praticare davvero il diritto all’espressione della libera opinione, goda cioè, in virtù di autorevolezza o notorietà pubbliche, del privilegio massmediatico di «essere ascoltato»?

2. Prodi ha lanciato la proposta di una lista unica dell’Ulivo per le prossime europee. Il fondatore della Repubblica, Eugenio Scalfari, ha commentato che «l’operazione ha un senso se allarga l’Ulivo alla società civile oltre che ai partiti». Analogo il significato, sebbene non la formulazione letterale, dell’appassionata difesa della proposta Prodi svolta da Furio Colombo sul quotidiano di cui è direttore, l’Unità. Senza tale allargamento alla società civile, in effetti, la proposta di Prodi suonerebbe incongrua perché – come immediatamente notato anche da Massimo D’Alema – «con una legge che fa eleggere un deputato con lo 0,7 per cento, avremmo interesse a presentarci con dieci liste, non con una». Fare alle europee – dove si vota con un proporzionale quasi perfetto – il pieno dei voti dei cittadini che oggi si oppongono a Berlusconi – e che ormai nel paese rappresentano una cospicua maggioranza – è dunque possibile solo in due modi: o differenziando al massimo l’offerta attraverso la presentazione di numerose liste, che coprano tutte le sfumature dei punti di vista dell’opposizione, quale si è espressa sia in parlamento che nelle manifestazioni di massa della Cgil, dei girotondi e dei no global, oppure accogliendo la proposta unitaria di Prodi, ma con un rigore tale da renderla attraente e vincente anche in regime di proporzionale.

In che modo, dunque, va realizzato l’allargamento dell’Ulivo «alla società civile oltre che ai partiti»? Come evitare che tale allargamento si riduca al mero inserimento di qualche personalità non direttamente espressione degli apparati, a replica – in formato ridotto, oltretutto – delle esperienze (niente affatto diprezzabili per l’epoca) degli «indipendenti di sinistra»? Chi dovrebbe avanzare le candidature della società civile? Come andrebbe utilizzato lo strumento Internet, che nella scelta del candidato democratico alla Casa Bianca si sta dimostrando un fattore entusiasmante ed efficacissimo di innovazione e partecipazione (e che tale si era già dimostrato nella realizzazione della manifestazione di piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002)? E si deve tentare, in questo allargamento dell’Ulivo alla società civile e oltre i partiti, di coinvolgere anche i partiti di opposizione che dell’Ulivo non fanno parte (lista Di Pietro e Rifondazione)?

3. La Costituzione europea è molto deludente, e forse più che deludente. Radica il diritto di veto di ciascun governo in tutti gli ambiti decisionali significativi, consegnando così le istituzioni comunitarie a una potenziale paralisi permanente, e allontanando ogni prospettiva di sovranità dei cittadini europei – attraverso rappresentanti eletti e non attraverso i governi – su di esse. Fa di un liberismo irrazionale, sempre meno temperato e corretto da politiche di welfare, l’unico «nord» di un percorso che non prevede la nascita dell’Europa come autentico soggetto politico, delimitato nei suoi confini agli ambiti geopolitici dove siano già sufficientemente sviluppate le precondizioni culturali e sociali di una democrazia liberale autentica, epperciò forte di istituzioni democratiche tali da rendere effettiva la sovranità dei cittadini e di fare dell’Europa un partner a pari titolo – per dignità, compattezza, influenza – degli Stati Uniti d’America.

Come impedire che questa cattiva Costituzione, benché votata come provvisoria, non finisca per condizionare e bloccare ogni conato di Stato federale democratico europeo, favorendo invece una deriva che nell’allargamento indiscriminato delle istituzioni comunitarie a paesi non ancora sufficientemente democratici (ai loro governi, del resto) veicoli solo una nuova subalternità di questa non Europa agli Stati Uniti?

Perché fino qui l’opinione pubblica e il mondo intellettuale non si sono dimostrati sensibili al peso che il futuro dell’Europa avrà nel futuro di ogni paese e quindi di ogni cittadino? Cosa è possibile fare, fin da ora e nel futuro più prossimo, per rendere i cittadini europei (e quelli italiani intanto) consapevoli della posta in gioco e partecipi delle decisioni, attraverso azioni collettive capaci di spostare i rapporti di forza?

4. Un quotidiano di destra – il Riformista – ha parlato con tono tanto enfatico quanto soddisfatto di «fine del biennio rosso», intendendo con l’iperbole il venir meno della stagione dei movimenti, e il ritorno prepotente e definitivo del «primato dei partiti» (questo e non altro, del resto, è stato il senso che i politici di professione hanno sempre conferito al vessillo più volte inalberato del «primato della politica»). Ma è davvero realistico pensare che i movimenti – intesi nel duplice e intrecciato sistema, giornalisticamente definito come girotondi e no global – abbiano concluso la loro parabola? O non è più ragionevole ipotizzare che essi seguano, strutturalmente e per loro natura, un andamento carsico che vedrà alternarsi momenti di grande mobilitazione popolare a periodi di attività locale scarsamente visibile e quasi sotterranea, a pause di approfondimento culturale e magari di «compromessi» politici, a incertezze e andirivieni di frammentazione in mille rivoli e a ritorni di massa inaspettati e inediti, benché dichiarati ormai impossibili dal coro unanime del pensiero unico d’ordinanza?

E nel caso la stagione dei movimenti fosse davvero conclusa, non si tratterebbe di una sciagura anche per l’opposizione partitico-parlamentare, visto che senza il tanto osteggiato (dai finti riformisti) «biennio rosso» (la cui novità, semmai, è stata di non essere affatto «rosso», benché radicalmente intransigente sui valori di eguaglianza e libertà, e capace di un antagonismo democratico niente affatto ideologico, tanto possibile – e anzi irrinunciabile – quanto dimenticato dalle opposizioni ufficiali) i partiti del centro-sinistra sarebbero ancora invischiati nell’immobilismo delle loro paure, nella morta gora di una ricorrente vocazione all’inciucio, nella palude delle pulsioni alla divisione permanente e autoreferenziale? Senza il vituperato «biennio», oltretutto, la pratica della non opposizione non si sarebbe forse tradotta in una non crescita di consensi elettorali, mentre è proprio nella vitalità dei movimenti – che hanno indotto riflessi di iniziativa oppositoria anche negli zombie partitici – la chiave per capire l’inversione del trend elettorale a svantaggio di Berlusconi?

Cosa è oggi possibile fare, allora, per dare nuovo slancio ai movimenti? E cosa possono fare gli intellettuali per promuovere una più intensa stagione di consapevolezza civica e di azione democratica? Cosa è auspicabile che intervenga nel rapporto tra girotondi e no global, al di là degli intrecci già operanti (che vedono centinaia di migliaia di cittadini partecipare a entrambi i tipi di iniziativa, e numerosi circoli e associazioni locali militare in entrambe le costellazioni)? Quali sono i temi su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione e la mobilitazione? Quali strumenti di comunicazione è possibile inventare per contrastare il monopolio dis-informativo e massmediatico berlusconiano? È possibile, auspicabile – e in che modo incentivabile – una convergenza su singoli temi tra i «centomovimenti» e associazioni intellettuali di impegno e peso democratico del tipo Libertà e giustizia? Su quali temi? Con quali modalità? E fra tutte queste espressioni della società civile e i partiti? E con quali modalità, perché non si finisca – come già troppe volte in passato – nell’uso strumentale (anzi in un vero e proprio «usa e getta») della società civile da parte degli apparati di partito?

Non c’è infine il rischio che, qualora nulla di quanto (ottimisticamente?) immaginato, sebbene in forma interrogativa, più sopra, venga traghettato dai desideri alla realtà, Berlusconi possa recuperare l’attuale crescente deficit di consensi? Resta infatti più che mai operante il paradosso per cui al venir meno dei consensi per il governo video-peronista non corrisponde un allargarsi della fiducia nei confronti dell’opposizione, almeno nella sua attuale configurazione partitica. E fino a che questo maledetto cerchio magico, che i dirigenti dell’opposizione fin troppo spesso alimentano con la loro mediocrità, insipienza e presunzione, non verrà spezzato, un ritorno di fiamma del berlusconismo, anche solo come rassegnazione, resterà sempre minacciosamente in agguato.

5. Mettiamo i piedi nel piatto. La maggior parte dei dirigenti del centro-sinistra manifesta nei fatti (e spesso anche nella idealizzazione verbale) la convinzione che si possano sottrarre consensi a Berlusconi solo non parlando dei crimini di Berlusconi, si possano guadagnare voti solo fingendo che Berlusconi e il suo governo non siano un oltraggio permanente a tutti i principî della democrazia liberale, ma un mero episodio di malgoverno conservatore. Con ciò, tuttavia, non solo si apprestano (nel caso la dismisura degli eccessi e delle aggressioni berlusconiane al minimo sentire democratico procurasse alle opposizioni una vittoria elettorale) a ripercorrere l’intero cursus dis-honorum dei passati inciuci, e relative sciagure per il paese (sempre meno reversibili), ma rendono anche altamente probabile il recupero berlusconiano, che si nutre della mancanza di un’alternativa radicalmente credibile, di una differenza radicalmente percepibile e solo perciò appetibile e affidabile.

In questa sudditanza alla prepotenza e dunque alla il-logica berlusconiana è la ragione della critica severa che dai movimenti e da singole personalità intellettuali è venuta ai dirigenti delle opposizioni parlamentari, critica di cui questi ultimi non comprendono, con la severità, l’essenziale generosità.

A forza di non trattare Berlusconi per quello che è (e che non ha mai nascosto di voler essere), infatti, siamo arrivati a questo: che nella sua guerra permanente contro Benjamin Constant, Tocqueville e addirittura Montesquieu (cioè contro il lato liberal-conservatore, moderato e garantista, dell’orizzonte democratico) la maggioranza berlusconiana ha sempre più decisamente praticato i sentieri dell’eversione istituzionale, ed è ormai probabilmente oltre il semplice corteggiamento del reato di «associazione a delinquere a fini eversivi per sovvertire le istituzioni repubblicane», secondo la formula del portavoce di Forza Italia. Ma le forze (?) di opposizione, non avendo avuto fin qui il buon senso di denunciare neppure sotto il profilo politico l’oltraggio permanente alla democrazia liberale operato dalle violenze massmediatiche e dalle scorrerie legislative della maggioranza, e avendo deciso di non denunciare il vulnus rappresentato da Berlusconi neppure dopo una sentenza che ha certificato al di là di ogni ragionevole dubbio il salasso di legalità e il mercimonio di sentenze organizzato sistematicamente negli anni dall’azienda e dai più stretti compari del Cavaliere, hanno lasciato agli eversori di regime l’agio di raddoppiare l’arroganza con la tracotanza, e di far seguire all’aggressione il cachinno di una commissione parlamentare d’inchiesta contro l’eversione... dei giudici imparziali! Il mondo alla rovescia.

Cosa si deve chiedere alle opposizioni perché pongano fine a questa deriva di masochismo che cresce nutrendosi del fallace alibi della «conquista del Centro»? Come è possibile esercitare la pressione sufficiente perché gli apparati dirigenti dei partiti ritrovino la lucidità elementare di una politica di opposizione adeguata all’oggetto cui devono opporsi?

6. È stato detto infinite volte, anche in piazze gremite da milioni di cittadini, che il paese democratico non avrebbe più dovuto tollerare, in un futuro di normalità che veda il centro-sinistra sostituire Berlusconi al governo, le sciagurate omissioni perpetrate nel primo quinquennio ulivista, 1996-2001: sul conflitto di interessi, sul monopolio televisivo berlusconiano, sulle leggi anticorruzioni e sull’intensificazione della lotta antimafia, sul rafforzamento dell’autonomia dei magistrati, e via rimpiangendo. Come è possibile garantirsi effettivamente che un secondo quinquennio «più che ulivista» non si impantani nel piccolo cabotaggio del quieto vivere (che cova poi, quasi ineluttabilmente, qualche exploit di indecenza bipartisan)? Come non precipitare, per la buonissima causa di sconfiggere comunque Berlusconi, nelle sventure sempre meno rimediabili di una nuova delega in bianco?

Due libri tornano a interrogare il mito della figlia di Edipo per leggere in termini radicali la crisi della politica: «Antigone e la philìa. Le passioni fra etica e politica» di Francesca Brezzi e «La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte» di Judith Butler. Antigone come figura della relazione, di un possibile intreccio fra etica e politica, di un individuo non più scisso fra ragione e passione. Antigone come figura della crisi dell'ordine patriarcale nella parentela come nella polis, e di un desiderio post-edipico che apre a una nuova antropologia del presente

«Ad alcune tragedie si torna, ma altre, come Antigone, sembrano tornare. Non per essere scavate e rivelare nuovi sensi, ma come allusive, rivissute. Quanto l'Antigone ricorrente nei nostri anni ci parla dell'Antigone sofoclea, e quanto invece di noi?». Così Rossana Rossanda quindici anni fa, introducendo la sua rilettura della tragedia di Sofocle (traduzione di Luisa Biondetti, Feltrinelli , 1987), pensata per un ciclo di seminari del Centro culturale Virginia Woolf di Roma sull'onda di due spinte: la stagione di conflittualità radicale che in tutta Europa aveva scosso lo stato negli anni 70, e la fioritura, nello stesso decennio, dell'interrogazione femminista sull'eroina greca. Solo nove anni prima Kluge e Schloendorff avevano filmato, in Germania d'autunno, i funerali che il sindaco di Stoccarda aveva concesso ai detenuti del gruppo terrorista Baader-Meinhof uccisi nel carcere di Stammheim, funerali che altre città avevano rifiutato replicando a distanza di 2400 anni il divieto di Creonte sulla sepoltura di Polinice. E solo dodici anni prima Luce Irigaray aveva riletto Antigone in uno dei libri inaugurali del femminismo della differenza, Speculum, facendone una figura dell'esclusione femminile dal linguaggio e dalla polis e del ritrovamento della genealogia materna. L'una e l'altra spinta autorizzavano a ripensare il mito portandosi oltre il sedimento, pure molto spesso, di alcuni secoli di precedenti e autorevolissime interpretazioni. E oggi? Antigone non smette di tornare, come ha dimostrato di recente un convegno ad essa dedicato tenutosi nelle università di Cagliari e di Roma Tre. Ma perché, e da dove continuiamo, o riprendiamo, a interrogare il mito della figlia di Edipo murata viva dal tiranno di Tebe Creonte per aver dato sepoltura al fratello Polinice, morto in battaglia, reo di avere cercato di spodestare il tiranno e perciò condannato a non ricevere l'onore delle esequie? Lo scenario si è spostato. Non si tratta più di leggere attraverso Antigone il conflitto fra uno stato autoritario da una parte e i tentativi di sovvertirlo dall'altra, e nemmeno quello fra uno stato patriarcale e l'esclusione femminile dall'altra. Entrambe queste dicotomie si sono complicate. La maschera autoritaria, anzi ormai dichiaratamente guerrafondaia e poliziesca, della macchina statale, se per un verso dà luogo a forme micidiali di controllo biopolitico sul corpo individuale e sociale, per l'altro verso non riesce a nascondere le rughe profonde che solcano il volto del Leviatano, la sua crisi di legalità, legittimità e consenso, la sua incapacità di garantire il funzionamento dei cardini basilari del contratto sociale moderno. Il fronte della sovversione e della resistenza si è a sua volta ri-formato su scala sovranazionale, come nel caso del movimento no-global, o de-formato, come nel caso del terrorismo suicida. Quanto ai dispositivi di esclusione dalla polis, si sono fatti più feroci nei confronti degli «stranieri», migranti legali e illegali che forzano i confini materiali degli stati e quelli giuridici della cittadinanza, ma si sono viceversa capovolti in dispositivi di inclusione forzata verso le donne di casa nostra, dividendo le stesse strategie politiche femminili nei confronti dello stato: a più di trent'anni dalla rivoluzione femminista nulla ci autorizza a disegnare un conflitto lineare fra le donne e la polis, di fronte a un panorama complesso abitato dall'estraneità ma anche dall'assimilazione femminile, dalle Antigoni che tuttora sfidano lo Stato ma anche dalle torturatrici arruolate - a correzione della celebre lettura hegeliana del testo di Sofocle - al fianco dei fratelli nella militarizzazione dello Stato.

Reinterroghiamo Antigone, insomma, a partire da stati tanto più tentati da strette autoritarie quanto più diventano obsolescenti, da campi di detenzione come quello di Guantanamo che al corpo del nemico non negano la sepoltura bensì lo statuto dell'umano, da migrazioni che fanno saltare i confini della cittadinanza, da un femminismo diviso che in parte è diventato di stato e in parte rilancia viceversa la sua sfida originaria allo stato. Ma a maggior ragione torniamo a interrogarla, perché tutto questo panorama ci parla di una crisi radicale della politica, che dunque alle radici della politica ci riporta: su quel bordo fra antropologia della comunità e organizzazione della polis su cui la tragedia di Sofocle si colloca e si snoda.

E' da questo spirito di radicale interrogazione sulla crisi della politica che prendono le mosse due recenti letture dell'Antigone, l'una della filosofa italiana Francesca Brezzi ( Antigone e la philìa. Le passioni fra etica e politica,Franco Angeli), l'altra della filosofa californiana Judith Butler ( La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati; di Butler avremo presto occasione di tornare a parlare, perché Meltemi sta per mandare in stampa Vite precarie, un testo che raccoglie le sue analisi politiche successive all'11 settembre, mentre Sansoni ha da poco pubblicato il suo testo più classico, Gender Trouble, col titolo - opinabile - Scambi di genere). Entrambe dichiaratamente collocate nel solco delle interpretazioni femministe della tragedia, la leggono tuttavia diversamente, pur condividendo in partenza l'intenzione di superarne le tradizionali interpretazioni in chiave dicotomica o essenzialista: quelle che oppongono troppo semplicisticamente la polis al ghenos, il diritto al sangue, la sovranità alla trasgressione, l'uomo alla donna.

Per Francesca Brezzi - il cui libro ha fra l'altro il pregio di ripassare in rassegna tutte le principali letture della tragedia, da Hegel a Goethe, Heidegger, Brecht, Lacan, da Maria Zambrano a Marguerite Yourcenar, Luce Irigaray, Rossanda, Martha Nussbaum, Adriana Cavarero - si può trovare nell'Antigone una chiave per reinventare la politica facendola incontrare con l'etica, per uscire dai paradossi odierni di democrazie incerte fra l'universalismo e il comunitarismo, per disegnare i lineamenti di una nuova cittadinanza. Figura non di un ghenos prepolitico, bensì dell'irruzione sotto il segno della philìa nella polis in guerra sotto il criterio dell'amico-nemico, Antigone apre a una politica della relazione, in cui etica e politica non si scontrano ma si intrecciano. Figura non della separazione fra diritto e morale e fra pubblico e privato, bensì della sua denuncia, Antigone apre a un «divenire cittadini» non più diviso fra ragione di stato e passione personale. Figura non dell'esclusione femminile dalla sfera pubblica, bensì del tentativo femminile di proclamare il diritto d'esistenza nella sfera pubblica di leggi altre da quelle della sovranità, Antigone apre a un ripensamento dell'individuo sessuato, incarnato, fonte sorgiva di diritto e di un «universalismo contestuale», contro la concezione moderna dell'universalismo astratto incardinata sull'individuo neutro. Donna, combattuta ma non scissa fra due leggi e due lingue antinomiche, quella della polis e quella del sangue, Antigone diventa la figura dell'antropologia sessuata di una nuova politica possibile, non più fallogocentrica e non più imprigionata nelle sue tradizionali antinomie, ragione o passione, testa o corpo, diritto positivo o morale, amico o nemico. E la philia, espunta dallo statuto moderno della politica ma non assente nello scenario greco delle sue origini, torna in soccorso della politica morente nelle nostre democrazie di inizio millennio.

Non basta però la Donna a Judith Butler per riedificare la politica; perché notoriamente, per la filosofa californiana, anche «la Donna» è una costruzione del discorso fallogocentrico con cui l'ordine politico è imparentato; e perché prima di essere riedificata, la politica occidentale abbisogna ancora di essere decostruita, disossata, smontata nelle sue strutture primarie e nelle sue segrete complicità con le strutture dell'ordine simbolico. Perciò Butler, grande maestra nel corpo-a-corpo del pensiero femminista con la tradizione filosofica, si muove con agilità corsara fra la lettura della tragedia di Hegel e quella di Lacan; ma non per contrapporre la psicoanalisi alla politica, il dramma del desiderio singolare al dramma della comunità, bensì per reinsediare la questione del desiderio nel cuore della polis. E rilegge a sua volta Antigone con l'intenzione di mettere a tema i rapporti che intercorrono fra l'ordine simbolico e l'ordine sociale, fra l'ordine della parentela e l'ordine della polis, fra l'ordine fallocentrico della sessualità incentrato sul tabù dell'incesto e l'ordine della legge e della normatività.

Non è dunque «la donna», Antigone riletta da Butler, perché essa, come dimostra la contaminazione del suo linguaggio con quello di Creonte, non incarna l'identità di genere bensì la sua dislocazione nella recita dei ruoli sessuali; né incarna le ragioni della parentela contro la ragion di stato. Figlia dell'amore incestuoso fra Edipo e Giocasta, e a sua volta soggetto di due amori incestuosi, verso Edipo e verso Polinice, rappresenta piuttosto la crisi della parentela, il punto in cui il tabù dell'incesto vacilla; e contemporaneamente la crisi dell'ordine politico, che all'ordine simbolico fondato sul tabù dell'incesto è legato da nessi strutturali. E il problema di Antigone non è di entrare in quell'ordine, bensì di rivelarne i divieti costitutivi e i limiti invalicabili, che la lasciano sospesa, né dentro né fuori la polis, né morta viva, destinata a un'esistenza senza luogo, senza rappresentanza e senza rappresentazione possibile.

La rivendicazione di Antigone si intitola il libro di Butler, e non è difficile scorgere quale sia la rivendicazione di Judith che emerge dalla sua rilettura del mito. Contro il femminismo di stato, che dallo stato chiede protezione, legittimazione e riconoscimento, Butler rilancia la sfida antiistituzionale originaria del femminismo. Contro la ragion di stato, rilancia le ragioni di coloro che ne sono esclusi o dannati. Contro la teoria e la vulgata lacaniana dell'ordine simbolico come ordine astorico e immutabile, ripropone il problema - cruciale nel femminismo italiano - del rapporto fra ordine simbolico e ordine sociale. Contro la teoria strutturalista della parentela incardinata sull'Edipo, ma anche contro i movimenti identitari femministi e gay che spesso finiscono con l'uniformarvisi al di là di ostentate trasgressioni, rilancia la sfida di parentele eterodosse e mobili, e di una sessualità non anti-edipica ma post-edipica, in cui il desiderio non sia vincolato alla norma sociale e simbolica dominante.

Siamo sulla West Coast americana, dove la radicalità politica fa tutt'uno con la radicalità sociale, e Butler si sente autorizzata a lanciare la sua sfida dalle nuove configurazioni sociali che la parentela assume nelle famiglie allargate, nelle madri single, nelle coppie gay, nelle famiglie smembrate dei migranti; e dalla «malinconia» che avvolge, nella sfera pubblica, queste figure di «irregolari», insieme ad altre - detenuti, clandestini e quant'altri - ancor più tragicamente marchiate dalla normatività biopolitica e a sospese a loro volta in una condizione fra l'umano e il non umano. Ma noi possiamo rilanciare ancora altrimenti e diversamente la sua sfida, inoltrandoci ulteriormente sul terreno della crisi della politica. Scrive Butler che Antigone non segnala la questione del deficit della rappresentanza, bensì «la possibilità politica che si apre quando si palesano i limiti della rappresentanza e della rappresentazione». E' un tema noto alla critica della politica portata avanti dal femminismo italiano e dalle sue pratiche; critica e pratiche, per restare al gioco, a loro volta tenute dall'ordine del discorso dominante in una condizione sospesa, né politica né impolitica, destinate - come Antigone- a restare senza rappresentanza e senza rappresentazione dentro lo statuto tradizionale, convenzionale, normativo della politica. Condizione qualche volta malinconica, ma tutt'altro che infelice. Viviamo nell'epoca in cui, scrive Butler, «la politica è entrata nella catacresi»: non ha più nome proprio, è uscita dai suoi confini, è - in tutti i sensi - «fuori di sé». Il desiderio di politica che muove la politica oltre i suoi confini deputati, il desiderio femminile di politica che ha già spostato e modificato quei confini, è un desiderio tombale, come quello di Antigone secondo Lacan, o è piuttosto generativo di una nuova nascita della politica? Perciò interroghiamo ancora quel mito. Con e contro Lacan: Antigone, encore.

Si veda anche Antigone e l'alba del diritto, di Gustavo Zagrebelsky

12 gen 2004 - Il caso Parmalat sottolinea che il rafforzamento dei controlli dopo il caso Enron non è ancora sufficiente. Le riforme, negli ultimi due anni, non sono mancate, ma hanno tutte un loro rovescio. I dirigenti che commettono azioni illegali oggi rischiano di più, è vero, ma la tentazione di trasgredire resta uguale: l’imperativo del rendimento è sempre più pressante, il valore in Borsa resta il primo criterio degli investitori e l’ossessione degli amministratori delegati.

Erich Le Boucher

Parmalat ou le capitalisme pousse au crime

Le scandale Enron, le courtier américain qui a fait faillite il y a deux ans, était une histoire sans joie. Un conseil d'administration laisse, bouche bée, les dirigeants de la septième compagnie américaine se lancer dans "une comptabilité à haut risque"(comme l'a qualifié par euphémisme le rapport du Sénat des Etats-Unis) pour améliorer ses résultats et camoufler l'état réel de ses actifs. Vingt mille salariés ont perdu leur emploi et leur épargne-retraite. La chute d'Enron jette un discrédit sur tout le système capitaliste américain.

On s'est amusé un peu plus cette année avec un autre scandale, celui de Tyco, dont le patron, Dennis Kozlowski, s'est fait payer par son entreprise une gentilhommière de 2,5 millions de dollars et un joli yacht. Ce qui l'a coulé, c'est qu'il a mis en note de frais la facture de 2 millions de dollars de la party d'anniversaire de sa femme comprenant des serviteurs en soldats romains huilés, des nymphes dansantes, un gâteau représentant une femme nue à la poitrine très généreuse et, le clou, un David de Michel-Ange urinant de la vodka en continu.

LA PALME DU COMBLE

On n'a pas ri du tout, par contre, quand furent découverts les abus chroniques de certains gestionnaires de fonds de placement américains grugeant des millions d'épargnants. Encore que leurs méthodes boursières d'achats-ventes "tardifs" (après la clôture) ou bien encore de market timing (entrer et sortir très rapidement pour profiter des microvariations) ont retenu l'attention des connaisseurs.

De même a-t-on pu décerner, non sans révérence, la palme du comble au patron de la Bourse de Wall Street qui, chargé de faire régner l'éthique et l'honnêteté entre ses colonnes, s'était attribué un pharaonique salaire de 140 millions de dollars. Mais, en gros, les nombreux scandales d'entreprises, qui ont fait de nouveau en 2003 les gros titres des journaux économiques, n'avaient rien de rigolo.

FIERTÉ NATIONALE

Puis est venue l'Italie, pardon pour le cliché, pays de la comédie. Parmalat, son PDG propriétaire, Calisto Tanzi, ses faux comptes dans ses vraies filiales offshore. Nous n'avons affaire ni à la saga high-tech d'un élève modèle de la déréglementation des marchés électriques, ni à l'embastillement musclé d'un oligarque enrichi lors des privatisations russes douteuses, pas plus qu'au brillant PDG français de GlaxoSmithKline dont le parachute était si doré qu'il a fait scandale à Londres.

Non, laitier au pays du jambon, quarante ans d'existence, fierté nationale, modèle de ce capitalisme familial italien devenu empire mondial, 36 000 salariés, Parmalat a monté la plus grande fraude d'Europe. Ainsi, deux ans après Enron et malgré le renforcement drastique des systèmes de surveillance, une grande entreprise a réussi à rouler banques, autorités boursières et auditeurs italiens et étrangers les meilleurs.

Le gros poisson est passé entre les mailles du filet grâce à un complexe réseau de 137 filiales opérationnelles et 20 filiales financières, et à un nombre, semble-t-il important, de complices aux bons endroits. Le système mis au point avait, certes, un côté professionnel difficile à repérer : quand l'auditeur Grant Thornton demande un relevé des comptes ouverts auprès de la Bank of America, une réponse lui arrive, sous en-tête officiel, faisant état d'un solde de 3,9 milliards de dollars. Grant Thornton est rassuré. Or c'est un faux. Mais le système avait aussi son côté bricolé, qui aurait dû être découvert : le directeur général d'une trentaine de filiales n'était autre que le responsable du standard téléphonique...

MOYENS DE POLICE

La justice travaille, et la suite promet d'être aussi cocasse qu'instructive. Il reste à comprendre pourquoi Calisto Tanzi, le PDG qui détient le contrôle de l'entreprise familiale, s'est lancé dans cette folie. Il semble que le point de départ remonte à 2002 : le groupe, qui s'est endetté pour grossir, n'arrive plus à rembourser ses obligations et doit s'inventer du cash pour rassurer ses créditeurs.

Quoi qu'il en soit, Parmalat vient souligner que le renforcement des moyens de police depuis l'affaire Enron ne suffit pas. Les réformes engagées depuis deux ans n'ont pas manqué, mais elles ont toutes leur revers. La transparence ? "Le meilleur des manteaux, sous lequel se cache l'opacité le plus légaliste", comme le note le professeur de droit Marie-Anne Frison-Roche. Les codes de bonne conduite ? Les voleurs sont les premiers à les signer. L'indépendance des administrateurs ? C'est choisir l'incompétence pour écarter la complicité. Le concept est peu pratique. La menace de la prison ? Elle est sûrement efficace mais, comme viennent de s'ouvrir les premiers procès d'Enron, on va voir si elle est vraiment mise en application.

En réalité, si les patrons risquent plus gros, la tentation de transgression reste égale. Les entreprises baignent dans un contexte où l'impératif de rentabilité est de plus en plus pressant. Le cours de Bourse reste le premier critère des investisseurs, et donc l'obsession des PDG. Hier, une honnête rentabilité industrielle comme celle de la transformation du lait suffisait. Aujourd'hui, il faut plus.

LES ARMES DU FRIC-FRAC

Le capitalisme "pousse au crime", comme le notent Olivier Pastré et Michel Vigier (Le Capitalisme déboussolé, éd. La Découverte). Or il donne, dans le même temps, les armes du fric-frac : la comptabilité "créative" et les places offshore qui donnent aux directions financières les moyens de traverser impunément les limites de la légalité.

Toutes les entreprises ne tombent pas dans la délinquance. Loin de là. Le nombre de patrons voyous reste, malgré tout, très limité. Mais leurs dégâts dans l'opinion sont terribles. Selon un sondage de l'American Entreprise Institute, seuls 16 % des Américains estiment que les patrons ont "des principes d'honnêteté et d'éthique", contre encore 25 % en 2001. Et l'année 2004 nous promet de nouveaux croustillants exploits.

Eric Le Boucher

IL NATALE è passato, il Capodanno è vicino e i nostri cuori si sono colmati di affetti e di memorie presenti e lontane nello spazio e nel tempo.

Nonostante tutto. Nonostante la durezza dell´attualità che sussegue, ci circonda, ci angoscia, ci ferisce: i morti in battaglia, i morti degli agguati, i morti dei terremoti, i morti per caso. No, non è stata una pausa sia pur breve agli affanni e alle cure quotidiane, ma appena un respiro, un sollievo fugace, una festa colorata in un mondo sempre più buio, illuminato da lampi di tenebra.

Nella nostra Italia per fortuna non c´è un clima di tragedia, la sorte e il carattere del nostro popolo ce l´hanno finora risparmiato. I problemi che ci troviamo a fronteggiare sono gravi per noi ma piccoli rispetto alle dimensioni planetarie del mondo globalizzato.

Appena una settimana fa eravamo alle prese con il rinvio della legge Gasparri alle Camere e con la bancarotta di Parmalat. Si aspettava con curiosità il decreto preannunciato dal governo sul destino di Rete 4 e l´esito della vicenda che ha coinvolto migliaia di lavoratori, di azionisti, di creditori della grande azienda di Collecchio.

Le due questioni avevano e hanno implicazioni economiche, politiche, giudiziarie che ancora debbono manifestarsi, ma gli atti compiuti in questi pochi giorni sembrano ragionevoli, quasi che il buon senso e il lume della ragione abbiano una volta tanto prevalso sugli animal spirits dei contendenti in campo. Personalmente ne ho ricevuto un´impressione positiva ed ecco perché.

Per Parmalat si è fatto quanto era necessario e urgente fare: separare la struttura industriale da quella finanziaria e truffaldina, nominare un commissario esperto con pieni poteri, perseguire i reati commessi, studiare e indagare sui buchi neri dei mancati controlli in attesa di procedere a un più efficace sistema ordinamentale. Gli impazienti disegni del ministro Tremonti di creare una nuova Autorità per la tutela del risparmio, che avrebbe dovuto nascere come una Minerva armata dalla testa d´un piccolo Giove con il visibile intento di condurre nelle mani del potere politico la struttura creditizia del paese, sono stati bloccati.

L´opposizione ne ha messo in luce la pericolosità; una parte della maggioranza ne ha condiviso l´allarme e ha imposto al governo una soluzione più saggia e responsabile: accrescere i poteri finora troppo scarsi della Consob sulle imprese e sugli operatori finanziari, attribuire in prospettiva il controllo sulle concentrazioni bancarie all´Autorità antitrust lasciando alla Banca d´Italia la vigilanza sugli istituti di credito e sulla stabilità del sistema.

Si tratta d´un percorso ragionevole e condivisibile, insieme a quello di rafforzare le sanzioni contro chi falsifica i bilanci e truffa gli azionisti e i creditori; l´opposto di quanto fece il governo appena un anno e mezzo fa con la legge che depenalizzava quel reato. L´arresto di Calisto Tanzi va ovviamente nella giusta direzione.

Resta naturalmente da vedere come ed entro quanto tempo questi propositi e questi impegni già assunti di fronte alla pubblica opinione si materializzeranno, ma è importante che siano stati indicati come la sola strada da percorrere.

Non illudiamoci tuttavia che maggiori sanzioni e più efficaci controlli siano sufficienti a moralizzare il nostro capitalismo finanziario restituendolo alla sana funzione di canalizzare il risparmio verso investimenti produttivi di ricchezza reale. Se infatti la crisi Parmalat, come altre analoghe esplose sui mercati della finanza e del credito mondiali, fosse un fenomeno sporadico dovuto all´impegno perverso di alcuni truffatori, le misure previste sarebbero sufficienti a impedirne o almeno a renderne ancor più saltuario il ripetersi.

Sappiamo invece che quelle crisi provengono da una tendenza del mercato a privilegiare il rialzo dei valori azionari rispetto ai profitti ottenibili dalla conduzione produttiva delle aziende. Derivano cioè dalla tendenza degli amministratori ad anteporre scenari di breve termine a considerazioni e strategie industriali a medio e lungo periodo. Sappiamo infine che la finanziarizzazione della ricchezza ha ricevuto un impulso irresistibile dalla pratica delle stock options riservate al management determinando bolle speculative a ripetizione e spingendo i vertici aziendali a concentrarsi sulla speculazione piuttosto che sugli investimenti e sulla ricerca innovativa.

Nei giorni scorsi si è molto discusso sul tema delle mele marce e di quelle schiette, arrivando alla conclusione consolatoria che le mele buone siano la stragrande maggioranza e quelle guaste un´inevitabile eccezione che conferma la regola.

È sperabile che sia così; probabilmente amministratori e manager sono quasi tutti animati da oneste e lungimiranti intenzioni, ma questa conclusione è priva di reale significato. Se la struttura del sistema favorisce oggettivamente la speculazione finanziaria rispetto al profitto dell´industria, le buone intenzioni soggettive vengono relegate nel libro dei sogni mentre la prassi inclinerà verso il malaffare.

Questa è purtroppo la verità. Per correggerla i controlli e le dure pene giudiziarie - pur necessari - non bastano né bastano le prediche sull´etica negli affari delle quali son piene tutte le bocche. Occorre prosciugare l´acqua dentro la quale prosperano i frutti velenosi del capitalismo speculativo; occorrono strumenti di vigilanza sovranazionali che fronteggino il malaffare sovranazionale. Altrimenti le buone intenzioni saranno parole scritte sull´acqua, senza effetti se non quelli di metter l´anima in pace ai moralisti e lasciare campo libero ai truffatori.

La qualità della classe dirigente politica non è elemento secondario per educare all´etica gli uomini d´affari. Ed è qui che conflitti di interessi così abnormi come quello presente e irrisolto al vertice del nostro governo costituiscono un elemento portante di corruttela e di diffusa disponibilità a calpestare sia l´etica sia la legalità.

Sul decreto-legge che definisce la procedura esecutiva della sentenza della Corte concernente Rete 4 la mia opinione dissente dai giudizi totalmente negativi espressi da molti esponenti dell´opposizione, a cominciare da Francesco Rutelli. Mi sembrano infatti giudizi preconcetti e forse poco attenti alla sostanza di quel provvedimento, sul quale c´è anzitutto da dire che esso era previsto dalla stessa sentenza della Corte dove si impone al potere legislativo di provvedere all´esecuzione del dispositivo affinché riceva concreta attuazione.

Quella sentenza, come ricordiamo, era stata in qualche modo scavalcata dalla legge Gasparri che, divenuta volontà del Parlamento, aveva deciso di accordare tredici mesi di tempo all´Autorità delle comunicazioni per accertare se il famoso digitale terrestre si fosse nel frattempo diffuso modificando il livello di concorrenza nel mercato televisivo.

Su questo specifico punto il messaggio di rinvio di Ciampi osserva che il tempo di accertamento è sproporzionatamente lungo e l´eventuale sanzione contro Rete 4 non è prevista con data certa e con attore specificato.

Affermare che il decreto-legge è frutto d´un compromesso di dubbia efficacia tra il Quirinale e il governo, tenuti presenti questi aspetti preliminari, mi sembra del tutto sbagliato poiché il testo del decreto soddisfa non parzialmente ma interamente ciò che il Quirinale chiedeva: data breve e certa (quattro mesi) per l´accertamento sulla diffusione della nuova tecnologia digitale, esecutività affidata - se il digitale non avrà avuto adeguata diffusione - all´Autorità delle comunicazione. La quale, in base ai poteri riconosciutile dalla vigente legge Maccanico, dovrà a quel punto oscurare le frequenze fin qui utilizzate da Rete 4. Quanto al livello di diffusione del digitale tale da adempiere a quanto richiesto, esso è chiaramente definibile dalla sentenza della Corte in almeno il 50 per cento della popolazione televisiva.

Certo è sempre possibile che nuove trappole siano inventate dal governo per sottrarre il proprietario di Mediaset ai rigori della sentenza recepiti nel decreto-legge, come è sempre possibile che la maggioranza parlamentare rinvii al Quirinale la Gasparri così com´è. Personalmente non credo che ciò avverrà. Ma il decreto-legge porta intanto a casa un risultato preciso: abroga quanto previsto dalla Gasparri riguardo a Rete 4. Quella questione non può più essere ripristinata nel testo originario poiché è stata decisa in difformità dal decreto e sarà legge nei prossimi sessanta giorni.

Non vedo dunque un compromesso ma piuttosto l´accettazione completa delle tesi del Quirinale.

Resta in piedi in tutta la sua mostruosità il conflitto d´interessi del presidente del Consiglio e bene ha fatto l´opposizione a denunciarlo ancora una volta in questa occasione. Ma chi ha parlato di un giorno funesto per la democrazia quello in cui il decreto è stato emanato ha preso una solenne cantonata: è stato invece per la democrazia italiana un giorno di vittoria, ottenuto nonostante il conflitto d´interessi e dovuto alla provvida decisione con la quale il Quirinale ha fatto valere i poteri che la Costituzione affida al capo dello Stato in difesa di se stessa.

La trattazione di questi due argomenti pertinenti alla nostra attualità mi ha allontanato dalle questioni ben altrimenti immanenti al nostro vivere in questo mondo e in questo tempo, delle quali avevo accennato all´inizio.

Non vedo altro modo di tornarci se non trascrivendo qui un passo della prima Elegia Duinese di Rainer Maria Rilke. Tratta degli angeli, dei morti e delle cose che essi lasciano nel mondo che hanno per breve tempo abitato e al quale, con la loro effimera presenza, hanno comunque dato un effimero senso.

È una preghiera laica, forse la più intensa tra le varie preghiere possibili.

Con questo spirito la dedico, insieme al mio augurio, a tutti i nostri lettori e a tutte le persone consapevoli e piene d´amore per gli altri.

«Certo è strano non abitare più la terra

non agire più gli usi da così poco appresi,

e alle rose e alle altre cose piene di promesse

non dare più il senso di un umano futuro;

ciò che eravamo in mani illimitatamente ansiose

non essere più, e anche il proprio nome

abbandonare come un giocattolo infranto.

Strano non desiderare più i desideri.

Strano quel che stretto si teneva vederlo dissolto

fluttuar nello spazio. È penoso essere morti: un continuo ricercare,

faticosamente in traccia

di un poco di eternità. Ma i viventi compiono

tutti l´errore di tracciar troppo netti confini.

Gli angeli (dicono) spesso non sanno se vanno

tra i vivi o tra i morti. L´eterna corrente

trascina attraverso entrambi i regni ogni età,

ed entrambi sovrasta con il suo suono»

SIAMO IL CURIOSO PAESE la cui maggioranza al governo è incline a considerare belligeranti, categoria fantomatica, i militi di Salò, cioè coloro che presero le armi al servizio illegale del fascismo morente. E che ora, in occasione della guerra in Iraq, considera belligeranti i connazionali andati in quel tormentato paese al soldo di imprese private che collaborano con gli occupanti americani. Una definizione internazionale di questi connazionali è impossibile: non sono soldati ma vanno in giro armati, non sono in guerra ma collaborano con i vincitori di una guerra non dichiarata, si dichiarano operatori di pace ma in realtà operano a vantaggio della parte che ha aggredito e conquistato l'Iraq. Attribuire a questi connazionali una missione di pace e di democrazia sembra piuttosto arduo: sono chiamati per garantire la logistica di imprese americane, non gradite alla maggioranza degli occupati, non si sa bene da quale comando dipendano, se aziendale o militare. È comprensibile che si sia creato un sentimento di solidarietà fra gli italiani di casa e questi caduti nelle mani degli occupati durante un'avventura che riguarda loro personalmente ma non la loro patria. La quale ha già mandato tremila soldati regolari per dare una mano agli americani e non ha certo interesse a che dei privati, per le loro private ragioni, si schierino apertamente, nonostante la nostra sempre più assurda pretesa di essere super partes.

E pur con tutta la comprensibile solidarietà con i nostri connazionali finiti nei guai per i loro interessi privati, non si capisce perché il nostro governo abbia incoraggiato una parte della pubblica opinione e dell'informazione a farne degli eroi che meritano funerali a spese dello Stato e cortei con bandiere nazionali sventolanti. Sono osservazioni poco gradite alla risorgente demagogia, al risorgente e un po' irrazionale nazionalismo, per cui basta anche meno a meritare accuse di disfattismo quando non di tradimento, ma ogni persona ragionevole dovrebbe convenire che queste confusioni, questa mancanza di chiarezza nei nostri comportamenti con il resto del mondo sono rischiosissimi, potrebbero incoraggiare quell'avventurismo che ci costò mezzo secolo fa perdite e sofferenze atroci. È preoccupante la mancanza di memoria, la facilità con cui ci ritroviamo in cortei per «rompere le reni» a qualcuno che con ogni probabilità ce le romperebbe.

Chi è Giorgio Bocca

In Internet si può trovare un´immensa quantità di materiali relativi alla storia del Novecento, presenti in siti di mezzo mondo. Trattati, foto di gruppo che riportano ad eventi grandi e piccoli, carte dei mutevoli confini tra i paesi, statistiche economiche e militari, manifesti, discorsi registrati di uomini politici, scene di vita quotidiana, prime pagine di quotidiani, articoli di storici. Un mare internazionale di conoscenze, suggestioni, elementi e prospettive di indagine, accessibili all´istante dal proprio PC, che è inimmaginabile condensare in un libro di testo, e che rispetto a un libro è assai più difficile manipolare a fini politici (un tema da poco discusso su queste pagine in occasione d´un convegno del Gramsci romano e d´un libro di Giuliano Procacci). Quanto basta per chiedersi se essi, opportunamente selezionati e strutturati, non potrebbero arricchire notevolmente lo studio e l´insegnamento della storia del secolo scorso, in primo luogo nelle scuole superiori.

Il quesito se lo è posto un paio d´anni fa la Fondazione per la Scuola di Torino, che ha già promosso altri progetti di ricerca sull´insegnamento della storia contemporanea in Europa. Il quesito è stato girato ad un gruppo di ricercatori che presso il locale Dipartimento di Scienze dell´Educazione si occupa da tempo dello sviluppo di corsi multimediali «assistiti dalla Rete». Tale espressione vuol significare che un testo predisposto dal docente d´una data materia viene fittamente intessuto di rimandi a siti Web, o a documenti presenti in essi, i quali valgono come citazione, illustrazione o approfondimenti dell´argomento svolto in un dato luogo del testo. Il tutto avviene in tempo reale: i documenti richiamati dal Web tramite Internet compaiono sullo schermo, provenendo da un dipartimento di storia o un centro di ricerca o un archivio di differenti paesi, per i pochi secondi o minuti necessari per illustrare un determinato tema, per tornare subito dopo là da dove sono venuti. Il risultato è un corso online di Storia del ?900: 1914-1989, di cui è sin da ora disponibile a chiunque vi sia interessato - e a titolo gratuito, poiché la finalità delle due istituzioni è esclusivamente educativa - il modulo che copre il periodo dalla fine della II guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino (www.fondazioneperlascuola.it oppure www.far.unito.it). Dato che il corso non vuole essere un manuale di altro genere, bensì una proposta di temi che nei manuali adottati nelle scuole trovano per forza di cose uno spazio limitato, questo modulo è centrato sui processi di mondializzazione. Il modulo cronologicamente precedente, 1914-1945, sarà invece dedicato ai totalitarismi. Anch´esso verrà pubblicato online entro poche settimane.

Lo sviluppo d´un corso multimediale di storia online assistito dalla Rete pone a chi vi lavora non pochi problemi, oltre a quelli derivanti dalla necessità di concepire una struttura d´insieme flessibile e pur tuttavia solida, e dal disegno delle singole pagine. Anzitutto il Web è diventato ormai un coacervo mostruoso nel quale i motori di ricerca pescano indiscriminatamente, presentandoli fianco a fianco sullo schermo, gemme e spazzatura; oppure un dotto saggio francese sulle conseguenze geopolitiche del Trattato di Versailles e gli orari in cui un docente dell´università di Bielefeld o di Chicago tiene un corso sul trattato stesso. Trovare un documento (termine che designa qui qualsiasi oggetto visibile o udibile su un PC: testi e immagini, discorsi e canzoni, tabelle e carte geografiche) che sia al tempo stesso di buona qualità quanto a contenuti e forma, nonché strettamente pertinente al testo che si vuole illustrare, è un lavoro lento e faticoso che richiede una specifica preparazione. Per dire, una ricercatrice specializzata nella ricerca di materiali storici nel Web riesce a trovare uno o due siti al giorno aventi le suddette caratteristiche; ed i rimandi presenti nel modulo del corso di cui parliamo (i cosiddetti links) sono al momento oltre quattromila.

Più delicata è la decisione di includere o meno nel tessuto del corso siti o documenti che palesano un determinato orientamento ideologico. Nessuno può essere tanto sprovveduto (o così vorremmo credere) da pensare che di un medesimo avvenimento si possano redigere due o più versioni storiche di livello scientifico comparabile, che però affermano l´una l´opposto dell´altra. Ma anche una storia di comprovata qualità scientifica può trovare utile la consultazione di documenti o siti aventi orientamenti differenti. Toccherà in primo luogo all´insegnante far emergere il particolare orientamento di un dato testo o sito Web, e il contributo che i suoi contenuti, paragonati ad altri, possono dare a una visione equilibrata di un evento o di un periodo. Dove equilibrata non potrà tuttavia mai significare bipartisan. Impegnarsi in un qualsiasi lavoro di storia, seppure introduttiva, implica per necessità, come ebbe a scrivere Max Weber, un «prendere parte» per determinati valori, principi etici, punti di riferimento culturali, poiché sono essi, ed essi soltanto, che consentono una scelta nella infinità estensiva ed intensiva del reale che i documenti propongono. Valori che collocano in primo piano la scrupolosa ricerca e critica delle fonti, ma che in essa non si esauriscono.

Peraltro, a confronto dei suoi autori e consulenti (tra cui vi sono ovviamente storici e storiche di professione), un corso come questo pone problemi assai più complessi agli insegnanti che ne vorranno fare uso, nelle diverse modalità della presenza - cioè in aula - e della distanza. In aula, l´insegnante dovrà dimostrare una grande padronanza del sistema, delle sue numerose espansioni collaterali, con la possibilità che passando di sito in sito a fronte delle curiosità degli studenti finisca per trovarsi su terreni poco conosciuti. Per contro l´erogazione a distanza del corso - che forse dovrà essere preceduta da una presentazione in aula, visto che la sua struttura d´insieme è complicata - adduce alla possibilità che gli studenti di una medesima classe seguano percorsi assai differenti tra loro, in rapporto alle rotte di navigazione che liberamente si potranno costruire. Il che porta a formulare domande cruciali: che cosa veramente apprende uno studente che segua un corso online del genere? Apprende meglio le stesse nozioni, oppure si perde in una rete disordinata di dati e di idee? Oppure, ancora, si forma una mappa cognitiva del tutto diversa rispetto a quella che gli trasmette un testo cartaceo? E con quali metodi si valuta una preparazione per tal via acquisita?

Sono domande alle quali solamente insegnanti e studenti potranno dare delle risposte. A tale fine saranno organizzati nei prossimi mesi appositi incontri. Questo corso di storia assistito dalla Rete è una proposta che i due enti culturali che lo hanno promosso e realizzato considerano del tutto aperta: a critiche, contributi migliorativi, approfondimenti teorici e metodologici, e magari, perché no, rifiuti motivati di utilizzare il mezzo multimediale in ambito storico. Con la speranza che vengano, le une e gli altri, dopo aver trascorso almeno qualche ora nel percorrere le variegate ramificazioni del corso, che una mappa concettuale richiamabile in ogni momento permette comunque di tenere sempre sotto controllo. La storia della storia del ‘900 in Internet è appena cominciata.

ROMA - «Mi sento antifascista e basta. Il discorso potrebbe chiudersi qui, per me è un problema del passato». Una biografia a prova di revisionismo: per Vittorio Foa è tutto molto più semplice. Condannato a 15 anni di carcere dai tribunali speciali di Mussolini, Foa fu liberato nel ?43, partecipò alla Resistenza e venne eletto alla Costituente. Nell´eterno dibattito sul passato che non passa, si schiera d´istinto con il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «Il capo dello Stato ha non una ma tre volte ragione quando difende la Costituzione e le sue radici. Apprezzo le sue parole e anche i suoi gesti, compreso l´ultimo...», dice alludendo al rinvio della legge Gasparri alle Camere. Ma non si tira indietro se si vuole avviare un vero confronto delle idee «lontano dalla politica immediata». E ammette: «Dobbiamo ancora fare un po´ di conti con la storia, questo sì».

Ciampi è tornato a difendere la nostra Carta costituzionale, «figlia» del Risorgimento e della Resistenza. È una risposta alle parole del presidente del Senato Pera che aveva condannato il «mito» della lotta di liberazione?

«Non so interpretare con esattezza le dichiarazioni di Pera. Tante volte sui problemi di attualità gli ho sentito dire delle cose molto terra terra. Diciamo questo: se il presidente del Senato parte dalla domanda "l´Italia del Ventennio è stata antifascista oppure no", la questione è effettivamente aperta. È una pagina di storia ancora da completare, costruita nel tempo su un grande equivoco».

Quale equivoco?

«Nell´immediato dopoguerra, per l´abilità sia di De Gasperi sia di Togliatti, s´impose l´idea che l´Italia avesse partecipato al conflitto dalla parte dei vincitori. Si riuscì a far dimenticare che l´Italia la guerra l´aveva persa dimostrando il contrario. Come? Una delle strade fu quella di dire che gli italiani erano sempre stati antifascisti».

Era la verità?

«No, non era vero. È un mito che abbiamo costruito noi, da una parte con la Resistenza, dall´altra con il comportamento di De Gasperi alla conferenza di pace. Ma l´aver dimenticato di non essere stati antifascisti ha voluto dire cancellare anche altre cose della nostra storia. Con alcuni effetti negativi».

Quali?

«Ci sono dei difetti che ci siamo trascinati dietro nel tempo. Una non sufficiente comprensione di che cos´è la legalità e in ultima analisi lo Stato. Si è creato qualcosa di malato nell´unità nazionale».

Allora è vero che c´è stata una mitizzazione della Resistenza?

«La mia è anche un´autocritica. Noi abbiamo lavorato fortemente per creare un´immagine dell´Italia del periodo fascista non compromessa con il regime. Questo è sicuramente un elemento mitologico, non corrispondente alla realtà, che siamo riusciti a far entrare di prepotenza nella storia del dopoguerra».

Fu un errore?

«Cancellare l´idea di un Paese compromesso con il fascismo? No, io penso che allora fu una cosa straordinariamente utile, penso che abbiamo fatto molto bene. Però oggi cerchiamo di non rendere troppo virtuoso il passato. Perché di questo passato abbiamo ancora tante cose di cui rendere conto. Dalle colonie ai rapporti con il resto dei Paesi europei, per fare due esempi».

A questo punto è giusto dire che la Costituzione italiana nasce dall´antifascismo?

«Figuriamoci se io voglio negare il valore dell´antifascismo nella nostra Costituzione. Ma un po´ di conti con la storia li dobbiamo fare. Pera parte da qui? Non lo so. Ripeto: spesso e volentieri sui problemi di attualità gli ho sentito esprimere dei giudizi un po´ terra terra».

Stavolta però anche lei dice che la Resistenza è stata trasformata in un mito deformando un po´ la realtà.

«Io dico che allora, cinquant´anni fa, abbiamo fatto la scelta giusta presentando gli italiani come un popolo di antifascisti. Fu un bene per tutti. Adesso è giusto dire che io ero antifascista e insieme a me tanti altri. Ma altri italiani non lo erano».

Pensa che il Polo strumentalizzi la storia di ieri per influenzare il confronto politico di oggi?

«Penso che sarebbe opportuno fare i conti con l´Italia di prima, di cinquant´anni fa, l´ho detto. Senza confondere però questo piano con il dibattito fra gli schieramenti attuali. Lo dico amichevolmente al presidente Pera: non bisogna utilizzare i giudizi storici per la politica immediata. Perché rendersi la vita più difficile di quello che già è?».

A VOLTE la politica sconfina nell'antropologia; non è buon segno, è l'indice d'una malattia o quanto meno di una anomalia, d'un disagio più o meno consapevole ed è il caso nostro. Si discute infatti da mesi, anzi da anni, se convivano sul territorio della Repubblica due Italie, o forse più, due modi di percepire la realtà, animati da passioni diverse, da diversi interessi e da contrapposti disegni e finalità. Due modi insomma di concepire il bene comune talmente dissimili da alimentare non solo competizione ma addirittura odio nei confronti di chi la pensi ed operi su una sponda opposta alla propria.

Alcuni spiriti nobili cercano di sopire quell'odio e quell'incompatibilità tra le due opposte sponde costruendo un qualche ponte di comunicazione, ma finora non sembra che queste esortazioni abbiano avuto esito positivo. Sembra sempre più remota nel tempo l'esortazione manzoniana rivolta all'Italia che ancora non c'era: "Una d'arme, di lingua, d'altare / di memorie, di sangue, di cor". D'arme? Non è un buon test nel caso italiano. Di lingua? Non direi.

D'altare? Siamo un popolo genericamente cattolico (battezzato) e largamente miscredente. Di memorie? Ognuno ha le proprie e tutte sono assai labili. Quanto al sangue e al cuore, meglio lasciar perdere, siamo frutto di un melting pot che potrebbe gareggiare con gli Stati Uniti d'America.

Del resto la stessa elencazione manzoniana non era un'affermazione ma un'esortazione e tale è rimasta nonostante il lungo tempo (quasi due secoli) intercorso da allora. Resta poi da vedere se una unità così compatta ed estensiva sarebbe un fatto positivo o invece limitante. Comunque irreale in un mondo dove l'interdipendenza globale sta risvegliando particolarità e piccole patrie che cercano di contenere l'omogeneità tecnologica dei mercati.

Ma l'odio? La politica italiana è dominata veramente dall'odio contro l'avversario? Mi sono posto questa domanda mentre vedevo scorrere sul piccolo schermo le notizie sulla campagna presidenziale americana cominciata con nove mesi di anticipo sull'esito finale.

Il candidato Bush accusato d'alcolismo e d'imboscamento militare ai tempi della guerra in Vietnam; il candidato Kerry accusato di avere un'amante e per di più segreta. E così s'andrà avanti fino al prossimo novembre, colpo su colpo, denuncia di vizi privati veri o supposti, pur di far uscire di pista l'avversario.

Da noi, nonostante la nostra accertata faziosità, accuse del genere non sarebbero tollerate, farebbero semmai uscir di pista chi le mettesse in circolazione. La privacy dei nostri uomini politici è generosamente salvaguardata, i puritani arrabbiati non allignano in casa nostra e chi si atteggiasse ad esserlo si vedrebbe ritornare addosso quelle accuse con un devastante effetto boomerang. Dunque si discute di idee, non di persone, anche se è vero che le idee camminano sulle gambe di uomini e donne in carne ed ossa.

* * *

Due Italie però ci sono davvero. Qualche cosa in comune ce l'hanno. Poco. Per il resto (molto) differiscono. Cercherò di descrivere i tratti più rilevanti ricorrendo alla memoria storica e all'esperienza personale, compiuta per mia fortuna da un osservatorio privilegiato e testimoniale. C'è un'Italia che privilegia la felicità immediata, ora, subito, possibilmente tutto. Da uno che se ne intendeva fu definita l'Italia da bere.

Quest'Italia, questi italiani, mettono l'accento sui diritti e in primo luogo sul diritto, appunto, alla propria individuale felicità. Reclamano la piena libertà dallo Stato, visto piuttosto come un'entità di ostacolo che limita quella libertà, si intromette in questioni che non dovrebbero riguardarlo, si arroga poteri di scelta e di orientamento che sono di esclusiva pertinenza dell'individuo e - al massimo - della famiglia.

Quest'Italia, questi italiani, hanno molta fiducia in se stessi, hanno spirito di intrapresa, vogliono vincere la loro gara personale, il successo professionale rappresenta la misura del valore quale che sia il campo d'applicazione e il terreno di gioco. Le istituzioni in genere sono guardate con sospetto, non sono produttive, dovrebbero essere ridotte al minimo. Ad esse si attribuisce soprattutto il compito di sgombrare gli steccati che rallentano la corsa dei migliori.

Coloro che restano indietro nella corsa non debbono certo essere abbandonati, ma aiutati e assistiti e sono appunto le istituzioni e lo Stato a doversi dar carico di quell'incombenza senza tuttavia smarrire il criterio-base dell'efficienza. Compito dello Stato, oltre a quello di tutelare la libertà degli individui a fare da sé, è dunque quello di occuparsi di quel "terzo debole" della società che non ce l'ha fatta. Istruzione pubblica, sanità pubblica e pubblica assistenza siano dunque riservate al "terzo debole", i liberi e forti capaci di correre più velocemente provvederanno con criteri privatistici alla propria istruzione e alla propria sanità.

Quest'Italia, questi italiani del tutto e subito, puntano anche sul miracolo, sulla vincita improvvisa, sulla lotteria, che sono altrettante scorciatoie verso la felicità.

Infine: quest'Italia è anche individualmente generosa per quanto invece è collettivamente avara ed anche crudele in nome dell'efficienza. L'efficienza deve contenere una sua spietatezza poiché questa è la garanzia del migliore impiego delle risorse e quindi anche della successiva equità sociale.

Aggiungo per finire questa prima "scheda", che questi italiani contribuiscono robustamente a far girare la ruota dei meccanismi sociali. Se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. E ancora: una siffatta tipologia c'è al Nord come al Sud, la si ritrova in tutti i ceti e in tutte le età. Spesso convive nello stesso individuo con la tipologia opposta poiché le contraddizioni sono un tratto presente nell'umana natura.

* * *

Non ho dato, ovviamente, alcun giudizio di valore nella descrizione di un tipo di italiano, né potevo darlo. Ma vediamo per grandi linee la tipologia contrapposta.

C'è un'Italia per la quale la felicità immediata non deve compromettere quella futura. Accanto al diritto individuale alla felicità c'è il diritto delle generazioni che seguiranno ad ereditare le risorse accantonate anche per loro. Si parla molto in questo periodo dei diritti dell'embrione e se ne parla a proposito e a sproposito. Ebbene, esiste anche, eccome se esiste, una società embrionale, generazioni ancora bambine o non ancora concepite, i cui potenziali diritti divengono doveri per gli adulti di oggi.

Per questa Italia le istituzioni e lo Stato debbono darsi carico di far valere questi doveri e debbono farlo attraverso regole e normative che valgano per gli individui e per le istituzioni medesime. La cosiddetta società da bere suscita in questi italiani una viva diffidenza. A torto o a ragione essi la fanno coincidere con un processo di dilapidazione di quel fondo di risorse che funge da presidio e da lascito per le generazioni future e va perciò amministrato con oculata prudenza.

Quest'Italia si appassiona anch'essa alla libera competizione ma non accetta che l'equità sociale venga dopo. L'equità è, in questa visione del bene comune, un elemento fondante che dev'essere contestualmente presente e far parte delle condizioni di gara. Il valore dell'eguaglianza si materializza attraverso una costante analisi delle posizioni-occasioni di partenza che debbono essere assicurate a tutti dall'intervento regolatore e moderatore delle pubbliche istituzioni. Giustizia e libertà insieme sono due valori portanti; l'uno non può sopravvivere senza l'altro, in mancanza di che si crea un danno irreparabile a tutti e a ciascuno.

Quest'Italia, proprio perché modula la felicità presente con quella futura, ha una concezione del tempo assai meno istantanea e una più vigile percezione dei processi storici. Custodisce quindi una sua memoria che rafforza l'identità collettiva. E' tuttavia possibile che il complesso di questi connotati indebolisca in qualche misura quella "spietatezza sociale" che ravviva lo spirito di intrapresa.

Ho già avvertito prima che le due tipologie qui descritte in controluce possono ed anzi sicuramente sono presenti anche nello stesso individuo. Comunque si intrecciano all'interno delle società in misura direttamente proporzionale alla loro complessità. Il problema non è ovviamente quello di abrogare l'una o l'altra di queste due Italie, ma di capire in quali fasi storiche l'accento dominante cada sull'una piuttosto che sull'altra e di mantenere in ogni caso condizioni aperte alla reversibilità dell'una al posto dell'altra.

* * *

Non è neppure il caso di avvertire, e lo osservo soltanto per completezza d'informazione, che le due tipologie qui descritte, con le numerose varianti che ciascuna di esse contiene, sono presenti in tutte le società moderne ed evolute. Ci sono due Americhe che si contrappongono, due inglesità, e così via in Francia, in Spagna e in tutto l'Occidente la duplice polarità è un dato di realtà ed è essa che sta alla base dei valori occidentali.

Credo non sia azzardato dire che la prima tipologia qui descritta sia stata all'origine delle fortune politiche del berlusconismo e che la seconda si riconosca nel centrosinistra. L'accoglienza riservata ieri pomeriggio a Romano Prodi al Palalottomatica ne è un'efficace conferma. Se oggi si colgono al centrodestra alcuni segnali di crisi ciò dipende dal fatto che una parte almeno delle aspettative suscitate sono appassite, si sono rivelate fallaci, da parte di molti sono addirittura apparse menzognere.

Per questo da qualche tempo Berlusconi è su una sorta di graticola politica: i suoi alleati, ma soprattutto una parte non trascurabile dei suoi elettori, si sono sentiti in qualche modo traditi; la felicità promessa a corta scadenza non si è realizzata; al contrario sono emersi consistenti segnali d'impoverimento individuale e sociale, disfunzioni del sistema, fondati timori che alcune delle previste riforme accrescano il disagio invece di lenirlo.

Direi che il pendolo tra una "dominante" e l'altra si stia spostando e di conseguenza potrà forse spostarsi l'esito elettorale. Il centrosinistra ha imboccato finalmente la via maestra. Veda ora di non smarrirla. Quanto al problema dell'odio, ha ragione chi lo rifiuta ed esorta a rifiutarlo. Resta il fatto che, tra i tanti problemi che ogni paese deve risolvere e noi come gli altri, ne abbiamo uno tutt'altro che trascurabile; noi abbiamo infatti da risolvere anche il problema Berlusconi e l'anomalia con la quale egli fa tutt'uno e che infatti non esiste in quelle proporzioni in nessun paese del mondo evoluto.

Nessuno dei suoi avversari politici lo odia. Alcuni hanno addirittura tentato - sbagliando - di costituzionalizzarlo. Ma non è costituzionalizzabile perché la sua è un'anomalia permanente. Saperlo e ricordarlo non è segnale di odio ma semplicemente di regola del gioco. Con lui purtroppo le regole non valgono per la semplice ragione che non le rispetta e non le ha mai rispettate. Perciò con lui non si può giocare e se ne stanno ora accorgendo anche i suoi alleati e i suoi elettori.

(15 febbraio 2004)

50° anniversario trasmissioni TV in Italia

Cinquant’anni fa nasceva la televisione. Prima di parlare di com’era la Rai di quei primi anni, proviamo a guardare dall’altra parte dello schermo. Lì vediamo comparire per la prima volta una nuova figura, il telespettatore. In seguito verrà studiato come un vero e proprio tipo umano, e declinato in vari modi, come teleabbonato, ad esempio, o teledipendente. Ma è così da subito? Secondo lei quando si afferma questa nuova figura e come si modifica nel tempo?

«Mi sono fatto una domanda: come mai in Italia non esistono i grandi giornali popolari che in altri paesi vengono diffusi in milioni di copie? Il motivo non è che gli italiani non leggono. Il motivo è che la televisione è intervenuta prima che potessero nascere questi giornali e quindi si è impossessata di questo lettore popolare, carpendo la sua attenzione. La televisione nel 1954 esplose, e in brevissimo tempo conquistò il proprio lettore, dapprima sorprendendolo, suggerendogli reazioni di stupore, e poi via via trasformandolo in un cliente fisso che non aveva più nemmeno la forza di rinunciare a quella che era divenuta ormai una abitudine inestirpabile».

Dunque il telespettatore nasce insieme alla televisione?

«Certo, la sua non è una nascita misteriosa. Naturalmente non nasce immediatamente come figura passiva, ma lo diventerà, quando non sarà più lui a scegliere ma si farà scegliere a priori, quando non avrà più bisogno di compiere uno sforzo di consapevolezza. In quel momento nasce il lettore passivo, come oggi, un lettore a cui puoi dare tutto quello che vuoi e le reazioni non sono mai tali da mettere in crisi la sua figura. Perché ormai è una figura costruita per sempre. Quando un lettore diventa permanente anche la varietà dei giudizi diventa un fatto automatico. Può maledire la televisione, ma questo non influisce nel suo atteggiamento di fondo. Le critiche di questo lettore immutabile non servono a correggere la televisione. La sua diffidenza non produce nulla».

Abbiamo creato il telespettatore, o lettore, eterno?

«Sì, ma accanto al lettore passivo ne può nascere un altro. Come quello che, non per vantare ciò che abbiamo fatto, era stato creato dalla nostra rete tre. Un nuovo lettore che è sparito insieme alla rete. Sono lettori aggiuntivi, che durano il tempo delle motivazioni che hanno provocato il loro interesse».

Torniamo all’interno dello schermo, andando un po’ avanti in questa ricostruzione per grandi temi. Anni ’60: un decennio di grandi cambiamenti, non solo per il ’68. Nella cultura italiana c’è un grande rinnovamento di linguaggi e approcci alla realtà. Tutto questo viene recepito dalla televisione?

«Affatto. Negli anni ’60 la televisione è pedagogica. E’ la televisione dalla DC e vuole sopperire alle deficienze della scuola, alla mancanza di quei mezzi che consentono alle persone di avere notizie base. L’analfabetismo era alto, la povertà del meridione era a livelli ottocenteschi. La televisione quindi seguiva un progetto pedagogico. Naturalmente fatto a immagine di chi la dirigeva. Ovvero la DC, con il suo schema di valori molto essenziali: piccolo perbenismo, piccola devozione, che doveva servire anche a costruire elettori che conservassero per cinquant’anni questo partito che ormai si identificava con un’Italia modesta, mediocre, senza prospettive che non fossero quelle di una vita più o meno composta, grigia».

Insomma: non ha recepito nulla.

«Ovviamente la televisione nasce come nuovo linguaggio, ma di cui non vengono sfruttate le potenzialità. Viene vissuto solo nella sua valenza strumentale, non nella sua valenza creativa, nella sua autonomia espressiva. E’ visto come uno strumento su cui far viaggiare una vecchia cultura».

Ma allora quando avviene un cambiamento? Forse nel decennio successivo?

«Negli anni ’70, con la fine della direzione Bernabè, quando cominciarono a uscire le prime sentenze della corte, cominciarono a comparire le prime televisioni locali, poi nacque anche la Fininvest: fu in quel periodo che la Rai iniziò a cambiare. La situazione non le consentiva più di vivere la sua mediocre compostezza, per quanto potesse avere un suo valore. Perché è vero che quella televisione contribuì a creare un linguaggio unico, come è vero che per la prima volta i disgraziati uniti dalla miseria del sud appresero che esisteva il romanzo, i Promessi Sposi o Delitto Castigo; ogni venerdì poi c’era il teatro… Ma fu alla fine degli anni ’70 che la televisione per la prima volta divenne televisione: cominciò a pensare a sé stessa e a essere utilizzata non soltanto come strumento di educazione di base ma anche per proporre trasmissioni innovative come Televacca di Benigni o L’altra domenica di Arbore. E poi finalmente si arrivò alla nostra Raitre, nell’87 che costruiva un’offerta sul presupposto che la televisione fosse non più uno strumento ma essa stessa un linguaggio, e quindi capace di produrre conoscenze aggiuntive, rispetto al cinema o al teatro o alla letteratura. In quel momento la televisione, colta nel suo potenziale più profondo, divenne il grande linguaggio della realtà».

Quale fu la grande novità? Che il contatto con la realtà non avveniva più solo attraverso le grandi inchieste giornalistiche?

«Esattamente. Una volta esistevano i documentari e le inchieste. Noi li abbiamo aboliti e abbiamo iniziato ad offrire in diretta la realtà. Il linguaggio del giornalista era un linguaggio manipolato. Noi invece mettevamo “in scena” la realtà, mostrandola, scoprendola allo spettatore, non interpretandola. L’occhio era libero di guardare quello che voleva. Fino a quel momento la televisione italiana era stata molto attenta a quello che capitava all’estero, mentre nascondeva la politica interna o la manipolava, la dolcificava. Noi allora ci siamo detti: facciamo quello che la televisione fino ad oggi non ha fatto. Non occupiamoci di politica estera, non facciamo più cinema o teatro: apriamo la televisione sulla realtà interna. E questa è stata la grande invenzione che ha contagiato tutte le reti televisive».

Quale fu l’influenza della televisione privata sulla Rai, fu inizialmente positiva?

«La televisione privata ha avuto inizialmente un effetto positivo, perché ha costretto la televisione pubblica a scuotersi, a liberarsi da un paternalismo soffocante. Le televisioni di Berlusconi nacquero come emittenti locali e poi divennero televisioni nazionali. Nell’87 sfidarono la Rai. E la Rai fu costretta ad accogliere la sfida. In quell’occasione nacque la nostra Raitre. E nella stessa occasione nacque il primo Celentano, che distrusse il varietà con la miscela dei generi. Lasciò sorpresi i critici che il giorno dopo dissero immediatamente che la televisione non si poteva mettere in mano a un dilettante. E invece quel dilettantismo fu compreso immediatamente dal grande pubblico. Fu una grande novità. Ruppe gli schemi, al di là dei suoi sermoni basati su un cattolicesimo di destra. E da allora il varietà non è più andato avanti».

Si è perso oggi il nuovo rapporto con la realtà inventato dalla sua Raitre?

«No, la televisione è ancora quella la televisione, ma in chiave degenerata. E’ ancora una televisione come racconto, come “il romanzo della realtà”, ma la realtà adesso è quella dei “cessi”. Questa è la differenza: noi fissavamo l’occhio della telecamera sulla realtà sociale, storica e politica; loro lo hanno piazzato sul “cesso”. E non c’è nessun motivo per raccontarlo».

Dunque dagli anni ’80 ad oggi nessuna novità?

«Una sì: la fiction nazionale. Quella non esisteva. Ma anche la fiction è un modo di dolcificare, addomesticare temi che apparentemente appartengono all’attualità. Certo, c’è stata La meglio gioventù. Ma il livello medio è molto basso. Questo perché non si capisce che la televisione è un grande linguaggio, che non è condannata ad essere quello che oggi c’è».

Ma come e quando potrà cambiare?

«Di sicuro non potrà cambiare fino a quando le televisioni non conosceranno l’autonomia. Perché la prima condizione della creatività è l’autonomia. Ma le televisioni non sono autonome: sono in mano o del potere politico o del potere economico. La Rai a questo punto è quanto di peggio, perché oggi il potere politico è peggio del potere economico. Questo ha determinato un personale molto basso, servo dei politici, che non è lì per fare televisione, non ha nessuna competenza particolare. La televisione di oggi è fatta da dilettanti».

In passato era diverso?

«Anche noi eravamo arrivati a Raitre per una nomina politica. Ma coloro che ci avevano nominato avevano capito che avrebbero ricavato maggiore vantaggio se avessero difeso la nostra autonomia. Pertanto avevano deciso di non disturbarla. Per convenienza, s’intende. Avevano capito che in termini d’immagine avrebbero guadagnato di più non disturbando la nostra autonomia che chiedendo di assumere quella persona, di far lavorare quell’attore loro amico. Fu Veltroni ad avere questa accortezza, fu furbissimo. Una furbizia che dimostra ancora oggi nella gestione del comune».

«Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la sua stessa Casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo all'umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te». Queste parole di un sermone di John Donne sono state messe da Hemingway a epigrafe di «Per chi suona la campana». E per una strana forma di associazione mi sono tornate in mente le immagini di Guantanamo. Stentavo di collocarlo, il carcere di Guantanamo, (a Cuba, ma a Cuba non c’è Fidel Castro?). Poi la confusione si è chiarita con quella base americana appesa come un cappello all’estremità dell’isola per confermare un possesso. E quei prigionieri chiusi nelle gabbie sotto un sole rovente, accucciati in terra, sono apparsi a un tratto in tutta la loro orrenda disumanità.

Ma ho girato la testa come se appartenessero a uno sfogo passeggero, a quelle allergie che seguono una grave malattia e per un paio di giorni riempiono il corpo di bolle. Prima o poi finirà, mi sono detta. Ma è stato quando le fotografie dall’Iraq sono cominciate ad arrivare una più atroce dell’altra come un fiume che ha rotto gli argini, che ho ripreso in mano «Per chi suona la campana» per rileggermi le parole scritte da John Donne quattro secoli fa: e ho capito che quelle fotografie mi riguardano in prima persona. La campana suona per me: io sono la soldatessa che ride e si fa fotografare accanto alla sua vittima nuda, sono il soldato stravaccato che sorveglia il container dove i prigionieri incappucciati sono legati alle pareti come bestie, peggio delle bestie. Sono quello che li tortura e li bastona a morte. Questa è la democrazia nella quale mi riconosco. Questa la libertà in cui credo come bene supremo. Il pensiero dà la nausea, è intollerabile. L’«Osservatore Romano» ha scritto che è stato sfregiato l’uomo. Ma insieme all’uomo è stata sfregiata la nostra anima, se l’anima esiste. I soldati americani sono solo lo strumento, la mano che si sporca di sangue. Alle loro spalle c’è la nostra civiltà e i princìpi in cui mi identifico. L’humus sul quale si è sviluppata la mia coscienza. Non è neanche che io sia più colpevole di un francese o di un tedesco, di uno spagnolo, perché tremila soldati italiani sono in Iraq, né lo sono meno perché da sempre mi rifiuto alla parola guerra (quegli orribili eufemismi di guerra umanitaria e eunduring freedom. Tutto questo non c’entra più. Sono colpevole per i valori che ho sempre difeso e invece mi restituiscono dei corpi mutilati, torturati, offesi. Nel secolo che abbiamo alle spalle le dittature, ma soprattutto il Nazismo, hanno incarnato la negazione dei nostri valori, e sul Nazismo prima (e sulla dittatura di Stalin poi) abbiamo rovesciato tutto il male e l’orrore, tutta la spazzatura del mondo. Senza farci troppe domande. Senza chiederci come mai il Nazismo avesse potuto crescere e germogliare così rigogliosamente proprio all’ombra delle nostre splendide cattedrali e al suono sublime della nostra musica, nel conforto di una letteratura e di un pensiero filosofico che per secoli hanno tracciato un percorso di luce. Un percorso che dopo aver superato come nelle favole le sette montagne e i sette mari, sembrava averci finalmente condotti a piantare la bandiera della Democrazia ai piedi dell’Uomo.

E oggi (la mia domanda non è retorica ma solo piena di ansia) come è possibile uscire indenni da questo stritolamento dei valori. Oggi che la bussola va impazzita alla avventura e il calcolo dei dadi più non torna... per dirla con Montale, quale risposta dare e darci a chi si illude, come a suo tempo con Hitler, che sia sufficiente trovare un colpevole per avere la coscienza a posto. Questo vorrei chiedere a quanti si accapigliano nell’intento di liberarsi subito dell’insopportabile fardello e lo riducono a questione di date: smobilitare immediatamente oppure a giugno. Aspettare l’Onu o un nuovo governo nato da libere elezioni (?!), in una confusione di distinguo che assomiglia a una demenziale Torre di Babele. Per non parlare di chi si mette il prosciutto sugli occhi e pensa che sia sufficiente tracciare un cerchietto rosso intorno a qualche uomo o donna in divisa. Come se tutto si riducesse a una questione di date e di particolari e non fosse in gioco l’Uomo nella sua dignità e i suoi diritti. A me i bersaglieri in Iraq con il ciuffo di piume trapiantato sull’elmetto in ricordo di un tempo lontanissimo di fanfare e biciclette, i nostri «ragazzi» come a qualcuno piace chiamarli, infagottati di armi da capo a piedi fra le case sbriciolate e o carri armati simili a mastodonti giallastri, provocano un senso profondo di pena. Cosa ci fanno a migliaia di chilometri da casa, accecati dal fumo e dalla polvere? Chi difendono? Chi?

Hemingway ha scritto «Per chi suona la campana» nel 1940. La guerra civile spagnola era finita da poco, nel modo più disastroso per la libertà. L’Europa aveva appena iniziato il suo conflitto più devastante, genocidi e infamie che avrebbero scavato come vermi la nostra civiltà dall'interno. Oggi le parole che in quel lontano 1940 Hemingway prese in prestito da John Donne danno suono assordante. Sono campane a martello per ognuno di noi: come Crono stiamo infatti divorando i nostri figli: la Libertà, la Giustizia, il Diritto. La Pietas.

Vorrei tanto cercare conforto nelle parole di quel grande statista con il sigaro in bocca che negli anni più bui dell’aggressione nazista galvanizzò la resistenza inglese: «La democrazia - disse - è il peggiore dei regimi, a eccezione di tutti gli altri». Se esiste ancora, anche se mutilata nei suoi valori, salviamola la democrazia. È urgente.

Se dovessi spiegare ai miei figli perché da giovane ho sbagliato tutto (analisi e previsioni), partirei da due notizie di questi giorni. Che sono l’una il perfetto completamento dell’altra, lo yin e lo yang della sconfitta della mia generazione, o peggio, della sua riduzione a parodia delle precedenti.

La prima notizia è che il candidato John Kerry (buon ultimo di una lunga lista) rischia la Casa Bianca perché, dicono, ha fatto sesso fuori dal matrimonio. La seconda notizia è che la multinazionale alimentare Monsanto ha brevettato il frumento con il quale in India si fa il pane. Incrociando i due dati, trovo l’esatto ribaltamento dei presupposti sui quali, in gioventù, avevamo fondato, in parecchi, la speranza di diventare degli adulti migliori di quanto siamo poi effettivamente diventati.

Rimangono sostanzialmente inalterati, nonostante lo sfrenato consumismo erotico o forse anche in virtù di quello, i fondamenti della morale sessuale, la sacralità della Famiglia, le gabbie arrugginite che con tanta goffa (e spesso patetica) fatica si cercò, nei Sessanta e Settanta, di forzare, «fate l’amore non la guerra», Porci con le ali, Reich e Bataille letti male ma letti, e la sequenza finale di Zabriskie Point con i frigoriferi che esplodono, gonfi di ipercibo, e decine di giovani coppie nude che si abbracciano nel deserto silenzioso, datatissimo sogno erotico, e umanistico, di un tempo sepolto per sempre. Viceversa sono dissolti, ridicolizzati quei vincoli e quei limiti alla sfrenatezza economica, alla concupiscenza mercantile, che ci parevano i soli leciti e indispensabili per preservare equità e diritti, per proteggere i deboli e contenere la protervia dei forti.

Si può brevettare, dall’alto di un grattacielo di cristallo, il pane di un popolo povero (e presto l’acqua e l’aria) senza che nessuno, qui da noi, nell’Impero del Companatico, avvampi di vergogna. Ma l’adulterio resta capo d’accusa di uno sconcio impeachement popolare, della cupa forca moralista sempre eretta sulla piazza mediatica americana. Il controllo collettivo dei mezzi di produzione fu l’utopia (malamente abortita) del Novecento, trionfa al suo posto il controllo collettivo dei mezzi di riproduzione, le tracce di sperma di Bill Clinton sull’abitino della sciagurata Monica sono agli atti dell’eterno maccartismo sessuale, e le vecchie agendine di John Kerry, con gli appuntamenti sentimentali, gli bruciano nelle tasche come e più di qualunque altra forma di eventuale corruzione politica.

Ci spiegano, quelli che sanno, che non è l’adulterio in sé, è la menzogna a turbare l’opinione pubblica del Paese-guida. È una giustificazione che contiene in sé un’altra e ben più evidente menzogna: non è affatto vero che siano le bugie a scuotere e disgustare gli elettori d’Occidente, i Capi hanno mentito ripetutamente, senza troppi danni, sulle armi di Saddam, mentono abitualmente sul lobbismo affaristico che spesso ne anima le mosse politiche (trasparente solo sulla carta: nessun legislatore occidentale si presenterebbe ai suoi elettori dichiarando che questa o quella legge è stata scritta a vantaggio dei suoi "trasparenti" finanziatori, o peggio dei propri porci comodi personali), mentono oppure omettono di intervenire sul gigantesco ring della sopraffazione economica planetaria, del wrestling finanziario e borsistico, dell’assolutismo monopolistico malamente contenuto dalla foglia di fico dell’antitrust (vedi Bill Gates).

Sono solo le omertà sul sesso quelle che fanno gridare alla menzogna, nel Primo Paese del mondo libero: dunque non è la menzogna in sé, è l’immagine sessuale del candidato il vero casus belli, è l’incrinatura di quei ridicoli presepi familiari esposti così impudicamente nelle convention, con il Padre virtuoso, la Moglie e Madre devota, figli e figlie costumati e sorridenti. Il puzzo di ipocrisia, di melassa propagandistica che si sprigiona da quella retorica familiare, è profumo per le narici delle folle. Che un marito esemplare possa anche essere, in politica e nella vita, un gran figlio di puttana, è duramente provato dalla prassi di tutti i secoli e di tutti i Paesi, chissà quante Collecchio ci sono, laggiù nel Far West. E chissà, viceversa, quanti bigami, o donne avventurose, potrebbero gestire o già gestiscono con maggiore probità la cosa pubblica.

Che strano, beffardo destino ha avuto quella vecchia parola magica così di moda nei dintorni della mia lontana adolescenza, «liberazione». Si è inverata a tutti i livelli soltanto nelle cose economiche, libero è il mercato, liberissimi i mercanti, sempre più libera da vincoli sindacali la compravendita della forza lavoro, addirittura libertino lo spirito con il quale il mondo ricco vive la sua orgia finanziaria, senza regole, senza censura, con appena qualche gemito di indignazione delle anime buone (preti, cantanti rock, dame premurose, marxisti in pensione, io) quando si scopre che a cucire i palloni e le scarpe sono i bambini di lande lontane e poverissime, però sottratti, almeno, per la premurosa sollecitudine del libero mercato, al traffico d’organi o all’affitto sessuale dei nostri schifosi turisti in andropausa.

Brilla la Cina, a comprovare quanto possibile, e gloriosamente funzionale, sia la convivenza tra libertà economica e repressione dei diritti individuali. Un paradosso esemplare, che mette a nudo, nella forma quasi parodistica di un Marxismo-Liberismo insieme dittatoriale e apertissimo alle carte di credito, l’attuale condizione mondiale della Morale: l’individuo è libero di fare soldi, secondo il suo talento e la sua fantasia, e nessuna pulsione economica può essere giudicata perversa o "contronatura", le unioni tra cordate le più spurie, tra interessi i più incestuosi, non sono oggetto di dibattito come le unioni tra omosessuali. Deve esistere un misterioso e onnipotente Clero, da qualche parte, che ha deciso in conclave che la Grazia arride a chiunque dimostri di meritarsela guadagnando o speculando o sfruttando, Dio è comunque con lui. Di tanta liberalità, ben poche tracce sono arrivate a lambire la libertà di spirito e di corpo. Audience pasciute mostrano il pollice verso al candidato adultero. La forma del pene di Bill Clinton è stata analizzata in pubblico dibattimento, in mancanza di altre ogive mai reperite nei deserti iracheni.

Per il peccatore occidentale non c’è lapidazione, come nell’Islam più atroce, ma l’ostracismo sì, quello è sempre in agguato. E la scena finale di Zabriskie Point meriterebbe un remake (satirico? realistico?): non copule di giovani amanti nudi, in quel deserto, ma strette di mano tra consiglieri d’amministrazione in abito blu (gli stessi del film, che hanno deciso di invecchiare con ben altra sceneggiatura?). È questo il solo ritratto oggettivo della Libertà nell’epoca di John Kerry, della Monsanto, della guerra in Iraq, cioè dell’epoca anche vostra e mia.

Paolo Mieli, della cui intelligenza sono estimatore da lunga data anche se spesso discordo dalle conclusioni alle quali approda, ha dedicato da qualche settimana la sua attenzione ad una fase della recente storia italiana che finora non sembrava controversa e neppure controvertibile. Si tratta di quella fase cominciata col governo Tambroni del 1960, con i moti di piazza che ne seguirono, con l’incubazione e poi la realizzazione del centrosinistra con il primo governo Moro del 1963 e infine con il declino del medesimo centrosinistra che si verificò con il secondo governo Moro del ‘64 e da cui mai più si riprese.

Poiché Mieli dispone di svariate tribune e di un influente «réseau» di amicizie giornalistiche sulla cui tastiera suona con la scioltezza elegante d’un virtuoso, su questi temi è riuscito ad orchestrare una vera e propria campagna di stampa (sul Corriere della Sera con amichevoli rimbalzi sulla Stampa e nei "talk show" di Giuliano Ferrara e Pierluigi Battista) della quale in verità non si riusciva a comprendere quali fossero le intenzioni e lo sbocco. Perché mai rispolverare vicende vecchie di quarant’anni e con scarsissima attinenza con l’attualità?

Ma poiché Mieli, tra le tante qualità, ha quella d’essere un "passista" che viene fuori alla distanza, il miglior partito fu quello di aspettare gli esiti di questo suo esercizio intellettuale a puntate. Adesso il nostro passista ha finalmente tagliato il traguardo nel senso che le motivazioni di questa sua campagna risultano ormai esplicite. Riassumo brevemente le sue tesi.

1) I moti di piazza del ‘60 a Genova, a Roma e in molte altre città italiane furono un’indebita interferenza di una supposta volontà popolare manovrata dai comunisti, i quali volevano a tutti i costi favorire la nascita del centrosinistra.

2) Bisogna dunque aver ben chiaro in testa che le proteste stradaiole - pur lecite costituzionalmente - sono sempre foriere di guai poiché sovvertono lo svolgersi ordinato della democrazia parlamentare che ha i suoi luoghi deputati ed esclusivi nella dialettica dei partiti entro i recinti del Parlamento.

3) Il famoso "golpe" del generale De Lorenzo, appoggiato ai servizi di sicurezza e al Comando generale dell’Arma dei carabinieri, non fu affatto un "golpe", non sovvertì le istituzioni, non provocò né moti di piazza né sedizione di corpi militari.

4) La campagna di stampa che rivelò il preteso "golpe" e ne drammatizzò gli effetti politici fu una forzatura se non addirittura una montatura.

5) Da quella montatura scaturirono conseguenze nefaste e addirittura la motivazione alla nascita del terrorismo brigatista il quale, con la scusa di contrastare un golpismo della destra sempre latente, decise di prendere le armi ed entrare in clandestinità. Si deve pertanto anche alla montatura d’un golpismo inesistente la fosca stagione degli anni di piombo e le vittime che essa seminò sul suo cammino.

Spero d’aver esposto con onesta chiarezza le tesi di Mieli. Non mi erano chiare all’inizio, mi sono chiarissime adesso. In quell’arco di anni che va dal ‘60 all’81 sono stato per ragioni al tempo stesso professionali e civili testimone non secondario. L’Espresso prima e poi Repubblica furono i giornali che con maggior vigore si occuparono di quelle vicende. Il golpismo di De Lorenzo fu rivelato dall’Espresso durante il periodo della mia direzione; Repubblica a sua volta fu il giornale che più di tutti sposò la tesi della fermezza contro il terrorismo delle Br. Mi sento dunque direttamente chiamato in causa dall’amico Mieli.

All’epoca dei fatti in questione egli era molto giovane, più o meno diciottenne nel Sessantotto che visse come giovanissimo redattore dell’Espresso e simpatizzante di Potere operaio; trentenne durante gli anni di piombo e ormai giornalista di vaglia all’Espresso e più tardi a Repubblica. Quindi testimone anche lui di quanto accadde allora e testimone partecipe di testate che avevano scelto senza ipocrisie la loro linea e formulato la loro diagnosi.

Certo le opinioni possono cambiare, la storia merita di essere continuamente rivisitata. Non è facile capire però se quella rivisitazione contribuisca al mutamento delle opinioni o se piuttosto sia il mutamento a produrre nuovi esiti storiografici. Personalmente inclino verso questa seconda ipotesi. Sta di fatto che considero aberranti le conclusioni di Mieli sulla filiazione del terrorismo da quella che egli chiama la «forzatura» del preteso «golpe». E spiego perché.

***

Tralascio "l’introibo" di Mieli sul governo Tambroni e sulla caduta provocata da moti di piazza patrocinati dal Pci. Lo tralascio per brevità non senza però osservare che i comunisti non furono affatto contenti della nascita del centrosinistra. Temevano infatti - e dal loro punto di vista non sbagliavano - che l’arrivo del partito di Nenni al governo avrebbe ancor più approfondito il solco tra il Psi e il Pci avvicinando i socialisti ai socialdemocratici di Saragat e alla Dc e aumentando la ghettizzazione politica del Partito comunista. Qualche dirigente di quel partito coltivò per breve tempo l’ipotesi che i governi di centrosinistra potessero essere l’anticamera di una apertura a sinistra estesa fino al Pci, sia nella sostanza dei programmi sia nelle formule parlamentari; ma un’ipotesi del genere era del tutto fuori dalla realtà e fu infatti rapidamente abbandonata tantopiù con la nascita del secondo governo Moro che vide l’uscita dal governo della sinistra socialista e il suo passaggio all’opposizione nel partito di fronte alla maggioranza guidata da Nenni e da De Martino.

Tutta la successiva storia dei rapporti tra Psi e Pci, per finire con lo scontro asprissimo tra Craxi e Berlinguer, conferma quanto dico. Cade dunque la tesi che sta alla base dei ragionamenti di Mieli e cioè che i moti anti-tambroniani fossero patrocinati dal Pci per favorire la nascita del centrosinistra, mentre è certamente vero che a Porta San Paolo, a Genova, a Bologna, a Modena, a Reggio, i giovani comunisti scesero in piazza insieme ai socialisti, ai repubblicani, ai cattolici di sinistra, ai radicali, come è sempre accaduto in Italia tutte le volte che l’antifascismo è ridiventato un valore fondante e repubblicano minacciato e da difendere.

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È stato un "golpe" il tentativo del generale De Lorenzo? Caro Paolo (l’ho già scritto rispondendo ad una lettera dell’ultimo numero del nostro Venerdì) si tratta di intendersi sulla parola. Se per "golpe" si vuol definire una sedizione di corpi armati che rovesci con la forza le istituzioni legittime, allora De Lorenzo non fece nessun golpe poiché le istituzioni non furono rovesciate. Idem più tardi nei confronti del golpe Borghese, tentato pochi anni dopo e anch’esso finito nel nulla per la defezione all’ultima ora di chi avrebbe dovuto sponsorizzarlo.

De Lorenzo in realtà dette il suo nome e la sua opera ad un confronto, certamente temibile per le fragili strutture democratiche del nostro Paese.

Utilizzò ai fini del complotto il Sifar guidato dal suo pupillo generale Allavena e il Comando generale dei carabinieri con la sola eccezione del vicecomandante, generale Manes, il quale fu ostracizzato e tenuto all’oscuro dei piani predisposti e, quando ne ebbe sentore, li denunciò pubblicamente.

Le predisposizioni, attivate con lo stimolo costante dell’allora Capo dello Stato Antonio Segni, sfociarono nel famoso "Piano Solo" che prevedeva l’enucleazione di centinaia di comunisti, socialisti, sindacalisti, democratici, il loro trasporto in Sardegna, la requisizione di navi e aerei per la bisogna, l’occupazione dei principali palazzi pubblici a cominciare dalla televisione.

Quando sull’Espresso rivelammo queste circostanze (era il maggio del 1967) ne seguì un processo clamoroso a metà del quale - e dopo avere ascoltato come testimoni tutti i componenti dello Stato maggiore dell’Arma e i comandanti delle divisioni - il pubblico ministero Occorsio chiese l’assoluzione dei giornalisti dell’Espresso e la remissione degli atti alla Procura per procedere contro il querelante. La richiesta non fu accolta, il governo Moro (il terzo o il quarto del centrosinistra) oppose il segreto di Stato, i giornalisti furono condannati. Ho viva memoria di come i grandi giornali e in particolare il Corriere della Sera seguirono quel processo e la sua conclusione, relegandolo in spazi marginali e parlandone, appunto, come una montatura giornalistica. All’epoca Repubblica non era ancora nata e la pelle dei grandi quotidiani nazionali aveva lo spessore di quella dei rinoceronti.

Seguì un’inchiesta parlamentare; lo Stato maggiore dell’Arma che aveva negato tutto davanti ai giudici sotto giuramento, ammise tutto dinanzi alla Commissione d’inchiesta parlamentare, certo comunque dell’impunità e infatti gli fu data.

Questa è la storia. La provano gli atti di giustizia e i documenti parlamentari.

***

Il risultato politico di quel complotto di De Lorenzo fu molto chiaro. Era in atto tra il maggio e il giugno del ‘64 una grave crisi politica ed economica; il business italiano, già colpito dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, tremava al pensiero che i socialisti volessero attuare la nazionalizzazione dei suoli edificabili, che avrebbe spezzato la speculazione sulle aree ed avrebbe impresso un corso diverso allo sviluppo delle città, delle coste, insomma del Paese.

Si verificò in quei mesi un esodo di capitali verso la Svizzera e altri luoghi di riparo che non ha precedenti nella nostra storia.

In queste condizioni fu deciso, nel business e nei palazzi del potere a cominciare dal Quirinale, che bisognava dare una svolta netta alla politica italiana. De Lorenzo predispose e si tenne pronto.

Anche Moro sapeva e con lui tutti i capi dorotei della Dc. Con la consueta abilità Moro decise di piegare i socialisti per arginare il complotto e le sue conseguenze. Nenni fu convocato e messo al corrente. Da vecchio "politicien" misurò le forze e cedette. Nel comitato centrale del suo partito spiegò la sua decisione confessando che aveva sentito il «rumore delle sciabole». A me lo confermò personalmente quando, essendo io stato eletto deputato, lo sollecitai a schierare il gruppo parlamentare socialista contro le conclusioni perdonatorie della Commissione d’inchiesta. «Se lo facessi - mi disse - il governo cadrebbe. Dovetti cedere allora, non posso impuntarmi oggi» .

Ora, caro Mieli, se tu non hai ricordi e documenti che diano una versione diversa di questi fatti, non mi pare che ci siano alternative. E se non ci sono alternative in punto di fatto, resta dunque assodato che la fine del centrosinistra riformatore avvenne sotto il ricatto di una minaccia militare appoggiata da consistenti forze politiche. Come vuoi chiamare un fatto di questo genere? Un fatto sicuramente eversivo, un’interferenza infinitamente più grave e fuori dalla Costituzione di fronte alle proteste stradaiole dei ragazzi con la maglietta a righe contro il governo Tambroni.

Quanto al terrorismo, farlo discendere dalla nostra campagna di stampa del ‘67 mi sembra un esercizio che nessun acrobata potrebbe portare a termine.

Forse ti sei dimenticato che prima degli omicidi delle Br c’erano state le stragi di Piazza Fontana e di Brescia.

Una persona della mia età può avere la memoria debole, ma tu no, non ancora.

A giugno si vota per il rinnovo del parlamento europeo.

L’obiettivo primario di questa campagna elettorale è ottenere una vittoria sul centrodestra e battere Berlusconi.

A questo appuntamento il centrosinistra si presenta con una lista unica del polo riformista costituita da DS, Margherita e SDI, e con una pluralità di liste espressioni della società civile e della sinistra: Lista Di Pietro-Occhetto, PdCI, Verdi, Rifondazione Comunista. La lista del polo riformista suscita molte perplessità sia per i contenuti moderati che esprime sia per le modalità con cui è nata. Essa appare del tutto inadeguata rispetto alla " radicalità" manifestata dai movimenti su temi e valori decisivi per contrastare il centrodestra e per affermare una proposta di governo alternativa. Non ha una base programmatica certa e sicura e rischia, qualora si tornasse a vincere, di dar vita ad un esecutivo debole e non confortato sul piano del programma dal consenso popolare.

Paradossalmente le forze politiche di sinistra che non si riconoscono nella lista riformista pur avendo una base programmatica più chiara e condivisa, si presentano divise nell’illusione che ancorandosi alla propria identità il risultato elettorale possa essere migliore. Tuttavia esse, pur con limiti, hanno manifestato una maggiore sintonia e apertura nei confronti delle sollecitazioni espresse da gran parte dei movimenti che sono in prima fila nella lotta contro la guerra, contro il neoliberismo per la tutela del lavoro e dei diritti universali, per una democrazia partecipata, per un nuovo modello di sviluppo più equo nei confronti col Sud del mondo e rispettoso degli equilibri ecologici.

L' obiettivo di sconfiggere una destra ormai chiaramente eversiva dell'ordine costituzionale potrà realizzarsi se l' alleanza di centro sinistra potrà contare su una sinistra unita e plurale che dia ampia garanzie sul terreno della difesa del lavoro e delle conquiste sociali, della legalità, della piena valorizzazione della democrazia costituzionale , oggi minacciata, e che recuperi molti elettori che hanno disertato le urne in questi anni. Questo chiedono milioni di elettori, che sono stati protagonisti dei movimenti che si sono sviluppati nel paese e che hanno rappresentato l'autentico motore dell'opposizione al governo Berlusconi.

La Lista riformista e la frammentazione delle liste a sinistra non corrispondono a queste aspettative. Lo riteniamo un errore. Tuttavia siamo consapevoli che, per il carattere proporzionale di queste elezioni, quello che conterà sarà il voto complessivo che otterranno tutte le liste dell'attuale opposizione, nessuna esclusa. Al tempo stesso sappiamo che oggi nessuna delle liste di sinistra che non si riconoscono nella Lista riformista può aspirare a diventare, da sola, il polo di una nuova aggregazione a sinistra che appare matura e non più rinviabile. Per questo pensiamo che non sia necessario dividerci, riproponendo un sterile diatriba di appartenenza su quale di queste liste votare. Esprimeremo un voto differenziato, a partire dalle nostre diverse storie, esperienze e sensibilità, chiedendo loro di sentirsi coerentemente impegnate in un percorso riconoscibile di ricostruzione di una sinistra autonoma, visibile, plurale.

Il nostro voto sarà un voto "in prestito " che nessuna delle liste in questione potrà considerare come l'affermazione della sua linea e identità, ma solo come una fiducia temporaneamente accordata in vista di una diversa prospettiva per una sinistra unita che si confronta con le sue posizioni con altri soggetti che esprimono, allo stato delle cose, un punto di vista moderato all’interno di una più larga coalizione democratica.

Rivolgiamo un invito a tutti coloro che condividono queste nostre considerazioni a sottoscrivere l'appello e a promuovere, a breve, un incontro per porre all'ordine del giorno l'apertura - dopo le elezioni europee - di una Fase costituente per una nuova aggregazione della sinistra.

Per aderire: Franco Ottaviano, tel . 065561229 - 3494921234 -
ottaviano.franco@tiscali.it

Franco Ottaviano, Antonio Castronovi, Aldo Carra, Vittorio Parola, Gerardo Marletto, Sandro Morelli, Carlo Siliotto, Aldo Garzia, Armando Cipriani, Mario Cocco, Stefania Tuzi, Grazia Tuzi, Antonella Stanganelli, Claudio Canestrari, Bruno Ceccarelli, Stefano Rizzo, Sergio Sammarone, Tiziana Silvani, Antonio Thiery, Assunta Vanocore, Giovanni Nicolai, Marco Cordella, Gigliola Fioravanti, Marina Minicuci, Raffaele Calabretta, Paolo Berdini , Maria Rosaria Fanuele, Giovanna Ricoveri,, Lorenzo Musella, Isabella Temperelli, Angelo Palloni, Marina Montacutelli, Maurizio Melani, Roberto Mazzantini, Maurizio Antonio Petrachi, Enza Talciani, Giulia Barrera, Tiziana Cristofani, Marco Tulli, Lorenzo Gallico, Anna Lisa Comes, Marcello Cicirello, Gianni Ruocco, Carlo Drago, Silverio Corvisieri, Milena Sarri, Rosalia Grande, Luca Lo Bianco, Mirella Duca, Bruno Principe, Ivano Di Cerbo, Mauro Pepe, Antonella Marrone, Francesca Parola, Mauro Belardi, Anna Paola Bonanni, Paolo Ciofi, Maria Teresa Palazzolo, Carlota Benitez, Maria Adelaide Palmieri, Franco Falasca., Marzia Savelli, Luigi Barbato, Massimo Trebitsch, Bruno Giarolli, Celeste Ingrao, Sabbatini Giancarlo, Pietro Rella, Antonella Zagaroli, Franco Mazzetto, Francesco Granone, Gennaro Lopez, Tarcisio Bonotto, Maria Luisa Chiavari, Ruggero Donati, Elisabetta Papini, Marcello Marani, Giuliana Todini, Anna Maria Pulcini, Piero Leone

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Tra gli articoli pubblicati nei giorni scorsi da questo giornale Alfredo Reichlin prima e Alberto Asor Rosa poi hanno sollevato alcuni problemi che stanno particolarmente a cuore a chi,come me, spera con tutto il cuore che l'Italia possa superare la crisi che oggi la attanaglia.

E, nella sua intervista, Sergio Cofferati ha ricordato obbiettivi e comportamenti politici che il centro-sinistra dovrebbe assumere con maggiore chiarezza.

Stiamo vivendo una crisi non solo economica e sociale che fa vivere sempre peggio le famiglie italiane, i giovani e gli anziani, ma anche politica e culturale per l'attacco violento che la maggioranza di governo sta perpetrando da due anni e mezzo a questa parte ai valori della democrazia repubblicana, all'indipendenza della magistratura, alla legalità della vita pubblica, alla pluralità dell'informazione, alla formazione e all'istruzione delle nuove generazioni.

Reichlin ha sottolineato a ragione la difficoltà che hanno ancora le forze politiche dell'Ulivo a trasmettere all'opinione pubblica il messaggio politico complessivo che pure affermano di voler sostenere e che dovrebbe articolarsi in un progetto politico e culturale per un'Italia profondamente rinnovata. Ci ha ricordato che, in mancanza di un simile messaggio, incertezze e confusione rischiano di non far comprendere agli italiani la partita impegnativa che inizia con le elezioni europee e che ci porterà, nel giro di due o tre anni, al confronto finale con la Casa delle libertà.

Asor Rosa, da parte sua, ha sottolineato il valore importante ma sicuramente non compiutamente unitario (questa é una constatazione ancor prima che un giudizio) della lista che raccoglie Democratici di sinistra e Margherita con l'ulteriore apporto dei Socialisti democratici e dei Repubblicani europei, collocandosi su un crinale moderato sotto la guida di Romano Prodi.

Mi ha colpito, confesso, il fatto che nessun giornale italiano abbia dato rilievo nei giorni scorsi al progetto di partito europeo di centro (ma che significa in un sistema bipolare?) che Prodi vorrebbe realizzare con il partito francese UDF di Giscard D'Estaing e che disegna assai bene il carattere moderato, della nuova aggregazione che si vorrebbe costruire a livello continentale.

Asor Rosa, riallacciandosi a una sua precedente analisi, ha affermato anche, che a differenza dei moderati, la sinistra non si vede, spezzettata come é in piccole aggregazioni che non hanno fatto finora quello sforzo unitario richiesto dalla situazione. E su questo punto ha sicuramente ragione: non si capisce perché liste che dicono di collocarsi tutte a sinistra della lista cosiddetta unitaria non arrivino in tempi brevi a una federazione con un programma comune e un'alleanza di fondo esplicita e comunicata in tempo agli elettori.

Proprio perché la maggioranza delle forze politiche del centro-sinistra (se non di elettorato perché questo è ancora da verificare ancora) sta tentando di arrivare all'obbiettivo del partito moderato, diventa necessario e urgente, pur all'interno di un'alleanza che si riconosce all'Ulivo, formare una federazione di forze di sinistra che costituisca un'alternativa credibile allo sbocco immaginato dai due maggiori partiti del centro-sinistra.

È quello che accade in tutta Europa, magari in partiti come quello laburista o quello socialdemocratico tedesco caratterizzati al proprio interno da tendenze moderate e radicali, ed egualmente presenti in una maggioranza di centro-sinistra.

Noi sappiamo che non è prevedibile nel nostro paese la riduzione al bipartitismo ma si può lavorare per raggiungere l'obbiettivo di far convivere all'interno dell'Ulivo forze politiche diverse per formare una coalizione di governo che accolga sia il centro moderato (che sta diventando, a quanto pare, particolarmente affollato) che una sinistra più radicale.

Non si capisce perché in Italia non possa o non si voglia realizzare una simile coalizione. Credo sia necessario e urgente raggiungere un livello di convivenza capace di far coesistere tendenze differenti senza arrivare allo scontro costante, spesso privo a volte del rispetto necessario ad ogni alleanza.

Le ragioni di questa difficoltà consistono, a mio avviso, nella storia della sinistra italiana; nella difficile transizione dal partito comunista al partito democratico della sinistra; nella mancata elaborazione di una nuova piattaforma politica e culturale dopo il crollo del comunismo di osservanza sovietica; nella debolezza nel nostro paese di una cultura politica democratica, pur dopo il crollo dell'impero sovietico.

Che fare a questo punto?

Innanzitutto è necessario che le componenti moderate e quelle più radicali del centro-sinistra dialoghino tra loro nel rispetto reciproco e che l'Ulivo costituisca con chiarezza l'obbiettivo strategico per l'una come per l'altra componente. Il modo migliore per favorire questo processo non é lo scontro verbale, personale o ideologico ma il confontro sui progetti che pure stanno fiorendo in molte istituzioni e che devono costituire la piattaforma unitaria del futuro programma della coalizione.

Senza trascurare il fatto che oggi gli italiani non hanno bisogno né voglia di leggere lunghi programmi ma l'esigenza assai forte di individuare gli obbiettivi di metodo e di contenuto propri di un'alleanza politica del centro-sinistra: dalla difesa della Costituzione repubblicana alla costruzione di un'Europa democratica alla politica dei diritti e dei lavori, alle esigenze di una legalità che realizzi i princìpi della Costituzione a cominciare da quelli fondamentali della libertà e dell'eguaglianza.

In questo senso è necessario che una costituente dell'Ulivo possa finalmente attivarsi e proseguire con un lavoro assiduo aprendo le porte a tutte le forze, dai partiti ai movimenti, che vi si riconoscono.

Molte centinaia di lettori che mi hanno scritto in questi giorni mostrano di aver capito perfettamente che il mio difficile addio ai Democratici di sinistra é nato da ragioni di dissenso aperto sulla linea politica e non da motivi personali. Chi scrive intende lavorare ancora per l'Ulivo accanto a tutti i compagni che si riconoscano in questa coalizione in qualsiasi posizione si collochino giacché la battaglia è comune, l'obbiettivo è per tutti quello di lottare, con metodi democratici, contro una maggioranza di governo che è fallita e sta portando il paese a un declino disastroso.

A differenza di quel che pensa il Riformista o il Giornale di Belpietro io non ho traslocato da nessuna parte perché ero e resto a sinistra, ero e resto un cittadino dell'Ulivo e mi batto per obbiettivi che, almeno a parole, sono condivisi non da una lista particolare ma da tutti quelli che vogliono un grande Ulivo che includa davvero tutte le forze del centro sinistra, compresa Rifondazione comunista.

Quanto al programma per le prossime competizioni elettorali oggi non sarebbe difficile concordare su una piattaforma comune.

La battaglia di questi tre anni ha chiarito che noi vogliamo un'Europa politica, culturale ed economica autonoma dagli Stati Uniti e assai diversa da quella che la destra sostiene; che il modello di Stato sociale per cui ci battiamo prevede modernizzazione ma, nello stesso tempo, tutela dei diritti dei lavoratori; che la Costituzione repubblicana va difesa nei suoi valori e principi fondamentali e che non è il caso di dare a un primo ministro poteri più o meno assoluti come lo scioglimento delle Camere; che la politica economica fin qui fatta deve cambiare, pena l'argentinizzazione della crisi italiana.

Inoltre non possiamo permettere che l'art. 21 della Costituzione sulla libertà di espressione venga abrogato in silenzio: l'informazione è il problema centrale della democrazia contemporanea.

Voltiamo pagina rispetto alle polemiche dei mesi e anni scorsi e concentriamo tutta la nostra attenzione sulla battaglia ormai iniziata. Chi scrive, come è noto, non è un politico di professione ma, negli ultimi dieci anni almeno, preoccupato sempre di più per le sorti della sinistra e dell'Italia, ha partecipato intensamente alla vita politica e intende continuare a farlo accanto a coloro che vorranno lavorare tutti insieme per la rinascita di un Ulivo che colmi la frattura ancora aperta tra il mondo della politica e la gran parte degli italiani.

Non si vince da soli ma insieme agli italiani, anche quelli che non si occupano di politica.

FONDAMENTALE per un ordinamento liberale, la parità dei diritti per tutti i cittadini offre l’opportunità di prendere parte alla vita politica, formare associazioni, esprimere le proprie opinioni. E apre inoltre le porte alla partecipazione ad attività economiche e istituzioni sociali, tra cui in particolare la scuola. Le garanzie costituzionali in ordine a questi diritti sono il risultato eminente di una lunga lotta per i diritti civili, che ha segnato gli ultimi due secoli.

Spesso però la legge non basta a garantire questi diritti. Lo stesso diritto di voto ha scarso significato per chiunque dipenda totalmente da altre persone o istituzioni. E anche l’uguaglianza davanti alla legge rimane una promessa priva di contenuti per chi non disponga dei mezzi, o semplicemente del necessario grado di informazione per ottenerla. Il diritto a un’istruzione commisurata al proprio talento comporta varie forme di incoraggiamento. Di fatto, una delle maggiori aspirazioni nel campo del progresso sociale del Ventesimo secolo fu quella di rivestire di sostanza sociale il concetto astratto di parità dei diritti: un obiettivo che implica la necessità di incoraggiamenti attivi, ad esempio attraverso l’informazione e l’educazione politica. Per dare concreta attuazione al diritto all’istruzione è stato necessario impegnare risorse per dare aiuti economici agli studenti, attraverso prestiti o borse di studio. Ma nonostante tutti questi interventi, la parità dei diritti continuava a trovare ostacoli particolarmente tenaci. Alcuni settori importanti della popolazione continuavano ad essere scarsamente rappresentati negli ambienti di maggior prestigio e successo: in particolare le donne, ma anche alcune minoranze culturali, e segnatamente quelle definite da una caratteristica estranea a qualsiasi scelta personale, quale il colore della pelle.

Tra i grandi manager, ministri o titolari di cariche governative, ma anche tra i docenti, medici o avvocati era raro trovare esponenti di questi gruppi, tanto da far sospettare l’esistenza di una barriera invisibile. A giocare a sfavore delle donne e dei neri era forse l’arroccamento su una certa cultura istituzionale. Per garantire reali diritti di cittadinanza a tutti non bastavano dunque le garanzie legali e l’informazione, e neppure il sostegno finanziario.

La decisione coraggiosa di porre rimedio a queste inveterate ingiustizie ricorrendo a una politica di nuovo tipo, almeno per un periodo di tempo limitato, è stata presa per la prima volta negli Stati Uniti. Si è proceduto al varo di una serie di norme, che complessivamente hanno preso il nome di "affermative action", in base alle quali l’accesso a tutta una serie di uffici o mansioni - ad esempio nella polizia o nell’esercito, così come a percorsi di studio, di insegnamento o altro - doveva essere riservato, per una data percentuale, ai membri dei settori o gruppi che in precedenza avevano subito discriminazioni. La vigilanza sull’affermative action era affidata alla Corte suprema degli Usa.

In tutti i casi in cui è stata applicata seriamente, l’affermative action si è dimostrata innegabilmente positiva; ciò vale in particolare per i paesi a popolazione un tempo omogenea, che si trovano oggi a confronto con gruppi di colore, di religione musulmana, o comunque appartenenti a una minoranza identificabile e negletta. Ora però, proprio mentre si guarda all’America per trovarvi un modello di politica da adottare, l’affermative action incomincia a suscitare una serie di dubbi, tre dei quali appaiono di particolare importanza.

Primo: non si corre il rischio di provocare nuove ingiustizie nel senso opposto, o in altri termini, di discriminare chi un tempo era privilegiato? Negli Stati Uniti questo problema è stato affrontato per la prima volta dalla Suprema Corte nel caso di uno studente bianco che si era visto negare l’iscrizione alla facoltà di medicina, benché i suoi titoli accademici fossero superiori a quelli di altri candidati. In Gran Bretagna gli alunni delle scuole private rischiano ora di trovarsi in posizione di svantaggio a causa della pressione delle università, che tendono a favorire l’iscrizione di un maggior numero di studenti provenienti dalle scuole statali. Tutto ciò ci riporta alla ben nota vexata quaestio: può la parità coesistere con l’eccellenza?

Secondo: la parità di rappresentanza a tutti i livelli corrisponde davvero al desiderio e all’esigenza di tutti i gruppi e settori della popolazione? In molti Paesi, la «femminizzazione» della professione di insegnante non ha danneggiato nessuno; e molti altri hanno tratto benefici dallo spirito imprenditoriale di minoranze cinesi ed ebraiche. Non corriamo il rischio di inseguire un’idea troppo meccanica, confondendo il superamento di privilegi e svantaggi con la cancellazione delle diversità?

Terzo: con l’affermative action non si rischia di generare in alcuni casi un nuovo tipo di rigidità settoriale, con effetti distruttivi su quella stessa società civile che si voleva costruire? E si è davvero certi, ad esempio, che le donne siano sempre le migliori sostenitrici degli interessi del loro genere?

La stessa domanda si potrebbe applicare ai membri di gruppi religiosi e di minoranze etniche, e persino di alcune classi sociali. C’è da rabbrividire al pensiero di un Parlamento i cui membri siano prescelti in prima istanza in base al criterio di appartenenza a un gruppo bisognoso di affermative action. E di fatto, in taluni paesi la democrazia non riesce a dar vita a un governo efficiente e immaginativo proprio perché mira soprattutto a dare spazio ai gruppi più consistenti.

Per tornare al punto di partenza: l’affermative action è stata ed è tuttora una coraggiosa mossa finale nella lotta per i diritti civili universali, non solo sulla carta ma nella realtà; ma non deve diventare un principio permanente nell’ambito di un ordinamento liberale.

Se c’è una normativa che necessita di una «sunset clause», ovvero di una clausola di temporaneità, che ne imponga la revisione entro un termine prestabilito, questa è l’affermative action. In questo senso la flessibilità della Corte suprema degli Stati Uniti è ammirevole. Altrove, la soluzione migliore sarebbe probabilmente quella di includere nelle legislazioni dei singoli Stati e negli statuti delle organizzazioni una clausola che preveda il decadimento della norma per l’affermative action dopo un periodo di cinque, o al massimo di dieci anni. Certo, si dovrebbe prevedere la possibilità di un rinnovo del provvedimento. Ma nulla è più efficace di una scadenza prefissata per imporre lo sforzo mentale di una revisione approfondita.

Abbiamo chiesto a Betty Leone, segretaria Cgil, un commento ai risultati del nostro sondaggio sul senso dell'8 marzo

L'otto marzo intanto ha senso come giornata che ricorda il percorso di emancipazione e di liberazione delle donne. Non capisco non ho mai apprezzato tutta questa polemica - l'otto marzo serve, non serve? -, tutti i grandi eventi hanno le loro celebrazioni e nessuno si preoccupa di questo. Io credo che l'otto marzo celebri la presa di parola delle donne nella storia. E avrebbe senso anche solo per questo. Poi, per me che sono una sindacalista, non è solo una celebrazione: abbiamo fatto assemblee e riunioni nei posti di lavoro e anche con le pensionate, io in particolare con le pensionate perché ora mi occupo di loro.

All'ordine del giorno abbiamo messo come è difficile vivere per le donne oggi, il fatto che le pensioni delle donne sono molto più basse di quelle degli uomini e che la maggior parte della povertà italiana è rappresentata da donne, pensionate e sole. Quindi esiste un problema che riguarda la condizione delle donne, alla quale va data una risposta. Noi vogliamo dare uno spazio alla manifestazione nazionale unitaria dei pensionati che faremo il 3 aprile: a questa particolarità e difficoltà di essere donna anche da anziana.

Se poi pensiamo alle giovani, diciamo che le giovani continuano a essere discriminate nel mercato del lavoro, perché è vero che l'occupazione femminile cresce, ma cresce prevalentemente nel precariato e quando i posti precari si stabilizzano, si stabilizzano quelli dei maschi e assai meno quelli delle ragazze, e questo è un altro dato statistico molto importante. Quindi esistono ancora molti problemi alle difficoltà che le donne devono incontrare pur in questa parità apparente.

Poi non voglio parlare della fatica terribile delle donne anche per tenere insieme il lavoro e la famiglia. E poi c'è la rappresentanza sociale e la democrazia: possiamo dire che le donne sono ancora escluse dalla rappresentanza politica. Perché sono una minoranza esigua. Quindi esiste un problema di come si rappresenta una condizione femminile nella politica, non ce ne possiamo dimenticare.

Infine siamo in un mondo globalizzato, le donne nel mondo rappresentano il 70 per cento dei poveri. Producono la metà del cibo e sono la maggioranza della forza lavoro ma guadagnano soltanto il 10 per cento del reddito mondiale e hanno meno dell'1 per cento delle proprietà. Basta questo per dire che esiste ancora una discriminazione. Certo meno forte e più nascosta nel mondo industrializzato che è passato per l'emancipazione, come nel nostro paese. Ecco perché dico che l'otto marzo come celebrazione della capacità di parole delle donne nella storia è soprattutto una speranza.

(*) Segretario generale Cgil con delega ai pensionati

Rifare la Dc? Questo, alla fine, potrebbe essere uno dei risultati delle prossime elezioni europee. Lo diciamo senza spirito polemico, anche perché una Dc rifatta, in confronto al putridume del centro-destra attuale, sarebbe una vera e propria manna. Ma se cosi fosse, bisognerebbe che la sinistra-sinistra (ormai è meglio scrivere il termine in questo modo, a scanso di equivoci) si ponesse seriamente il problema di rifare a propria volta qualcosa - “qualcosa di sinistra”, come troppo tempo fa diceva Nanni Moretti, ora silenzioso.

Che ci sia nell'aria una voglia di Dc lo induciamo da vari segni. Primo: le ripetute mosse di Rutelli in direzione di un atteggiamento bi-partisan sulle pensioni e ora sulla “riforma” della magistratura. Secondo: una lunga intervista alla deputata Ppe Marcelle de Sarnez, che esce sulla rutelliana “Europa” (3 marzo), in cui, sotto il titolo “È tempo della nuova Europa”, si enfatizza il senso neo-centrista delle discussioni in corso fra Prodi e Bayrou per la costituzione di un nuovo gruppo di centro al Parlamento europeo, “una nuova offerta - precisa la de Sarnez - che dovrebbe essere proposta prima delle elezioni europee del 13 giugno”. Il che risolverebbe dunque la questione di dove andranno gli eletti della lista unitaria italiana nel nuovo Parlamento. Sappiamo bene che questo non è il proposito della componente Ds di questa lista; ma non è indifferente, per tale componente, sapere che questo è il proposito dell'altro principale partner dell'impresa; e verosimilmente anche degli altri due - Boselli e Sbarbati.

Terzo segno, molto più indiretto, della voglia di centro. Miriam Mafai (Repubblica del 3 marzo) suggerisce esplicitamente ad Amato, incaricato di formulare il programma della lista unitaria, di pensare a una candidatura di Emma Bonino per le prossime elezioni europee. Difficile sostenere che la Bonino rientri nel piano di una nuova Dc; ma certo conferirebbe alla lista un indubbio sapore di centro, date le posizioni liberiste che i radicali non si sono mai stancati di sostenere in questi anni.

Non sembra affatto esagerato ritenere che segnali come questi - scelti qui a caso, tra i tanti che si vedono sempre più spesso, primo fra tutti la posizione sulla guerra in Iraq - dovrebbero essere tenuti più francamante presenti nella sinistra del centro-sinistra. Si può assistere senza reagire al delinearsi di simili posizioni? Esagerando un poco il senso dell'intervento di Miriam Mafai, possiamo accontentarci del fatto che il nuovo centro europeo prodiano-rutelliano si dia una colorata “di sinistra” assumendo le iniziative e lo spirito laico-libertario della Bonino? È vero che una tale assunzione potrebbe mandare in aria l'accordo con Bayrou e l'UdF - che trovano già troppo laici i liberali europei di Watson; ma, come si è visto nel voto sulla fecondazione assistita, anche il laicismo della Bonino sarebbe verosimilmente destinato a naufragare davanti ai problemi di coscienza di Rutelli e dei suoi. Con il risultato che il centro si identificherebbe sempre più con una nuova Dc. Ripetiamolo, che accada questo ci sembra assolutamente positivo - sia per la chiarezza del panorama politico, sia per l'effetto di vera e propria “disinfestazione” che avrebbe sul Ppe e anche sul centro-destra italiano. Ma che cosa ne sarebbe, in tutto ciò, della sinistra ?

L’altro giorno uno dei miei figli, che ha ricevuto per Natale «Il gioco del ca... lcio», nel bel mezzo di una partita è venuto a chiedermi cosa significasse «Jus Primae Noctis». Non è male come domanda per un bambino di sette anni. Gli ho chiesto cosa mai c’entrasse «Il gioco del calcio» con lo «Jus Primae Noctis» e mi ha portato subito un bel mazzo di carte, che fanno parte del gioco. Una specie di imprevisti e di probabilità genere «Monopoli». «Il gioco del ca... lcio» con tanto di puntini di sospensione ammiccanti, vagamente volgari, del tipo dico e non dico, è un formidabile gioco da tavolo, vendutissimo in tutti i negozi di giocattoli, prodotto dalla «Giochi Preziosi». Il proprietario della «Giochi Preziosi», Enrico Preziosi, è l'ideatore del gioco ma è anche il presidente del Genoa. Attraverso un tabellone, i giocatori devono fingersi presidenti di una società di calcio, e tirando i dadi debbono vincere lo scudetto. Soltanto che il tutto è regolato da duecento carte che rappresentano imprevisti e penalità.

In queste duecento carte c'è lo spaccato più paradossale, deteriore e ridicolo di questo paese. Non servono a comprare giocatori, o a fare schemi di gioco. Le carte si usano per un fine alto e assai praticato: corrompere, pagare gli arbitri, nascondere abusi, cancellare risultati sfavorevoli, divertirsi con le veline, inanellare strafalcioni grammaticali, comprare Porsche, Mercedes e Ferrari, menare i calciatori delle squadre avversarie, doparsi e far sparire le provette delle analisi.

Pagando con denaro sonante. Ho letto la carta che mio figlio aveva pescato senza capirne il significato. Dice: «Alcuni vostri giocatori chiedono di poter portare mogli e fidanzate in trasferta. Glielo concedi, poi ripristini lo Jus Primae Noctis». Gli ho spiegato che lo «Jus Primae Noctis» è una leggenda che si tramanda dal medioevo ma che non è mai esistito. Ma cercando di spiegarglielo mi sono accorto che sfondavo una porta aperta. Perché «Il gioco del calcio» della Giochi Preziosi, è una perfetta radiografia di questo paese, in versione gioco da tavolo. Mi sono seduto al tavolo con i miei figli, e ho giocato una partita. In meno di un'ora sono riuscito a commettere qualunque tipo di irregolarità, e come in una patetica commedia degli anni Sessanta, ho messo sul piatto tutto il denaro che potevo per raggirare, dire una cosa e pensarne un'altra, truccare partite, arrivando a una media inglese invidiabile.

Pugni, provette e «testoni»

Ho cominciato pagando 150 «testoni» (questa è la moneta del gioco) perché i miei giocatori sono «Risultati positivi all'antidoping. Resteranno fermi per 2 giornate per accertamenti. Oppure (con 150 testoni per ogni giocatore) andranno persi i prelievi campione e tutti tornano in campo». Tanto per spiegare a Guariniello come si sta al mondo. Poi nel bel mezzo di un derby ho pescato una carta che diceva: «Al termine di una partita un tuo giocatore colpisce con un pugno un avversario. Tu lo nomini addetto alle pubbliche relazioni. Ti costa 100 testoni». Ho pagato un manesco addetto alle pubbliche relazioni. Tutto normale, naturalmente, come nella realtà. Mi sono preso una sponsorizzazione a peso d'oro perché «Dopo che l'ennesimo scandalo a luci rosse investe la vostra squadra, una azienda di profilattici decide di sponsorizzarvi: 100 testoni per ogni giocatore». Sono stato denunciato per calunnia (ma è poca cosa, me la caverò) perché: «Pensando di non essere in onda durante una trasmissione sportiva fai degli apprezzamenti sulle abitudini sessuali delle mogli di alcuni presidenti. Vieni denunciato per calunnie. Multa di 300 testoni».

La palla quadrata

Sono entrato in un mondo che sembrava alla fine più vero di tutti. Mi sono passati davanti tutte le trasmissioni spazzatura sul calcio ho ripassato le love story estive di calciatori e veline, i presidenti rissosi, gli arbitri che fischiano poco o troppo. Ma soprattutto ho capito il messaggio profondo e autentico. Basta pagare, bastano i soldi, e tutto è possibile. Anche far diventare una palla da rotonda a quadrata. Inutile fare dei moralismi su questo concetto, inutile dire che è un gran bell'esempio per dare una coscienza etica ai nostri figli. Il signor Preziosi fa il presidente di una squadra di calcio, e presentando il gioco dice che è divertente. Allora mi convinco che se stai al gioco devi farlo fino in fondo. Come un James Bond di provincia pesco una carta che mi dice: «Fai trovare una avvenente ragazza in camera ad un arbitro prima della prossima partita e scopri che questo è omosessuale. Giochi con uno svantaggio di -4». Ho perso una partita con l'Inter solo per questo. Mi auguro che ci sia una carta dove posso far trovare un avvenente ragazzo all'arbitro, almeno per recuperare la prossima partita.

Naomi e l’insalatina

Niente, il calcio è molto macho, e certe cose non si fanno. Posso consolarmi con una cenetta con Naomi Campbell, ma solo perché mi accusano di essere razzista: «Vieni accusato di razzismo. Per smentire questa voce portate fuori a cena Naomi Campbell. Ti costa 200 testoni solo per un insalatina». Manca l'apostrofo nell'insalatina, ma è poca cosa. Il razzismo, che è una forma tremenda e preoccupante negli striscioni da stadio degli ultrà di certe squadre, mi torna addosso due giri dopo. E non posso che esibire la mia Porsche di pelle nera per togliere di mezzo ogni dubbio: «Vieni accusato di razzismo. Per smentire questa voce dichiari che la pelle nera ti piace, tanto che hai pure gli interni della Porsche in pelle nera». Il doppio senso, la battuta, l'uso continuo nei testi di punti esclamativi e puntini di sospensione mi rincuora. È un'Italia gridata quella che si riflette nel tabellone e nelle carte lucide di questo gioco. Tutta discoteche, orgette con ragazze bellissime, situazioni alla Boldi e altre amenità. In un incontro a luci rosse a cui partecipa la mia squadra intera (immagino la confusione) quegli ingrati dei giocatori non mi invitano neppure, la domenica successiva non li faccio giocare. Ufficialmente li punisco per il loro comportamento immorale. Nei fatti perché mi hanno escluso.

Non c’è niente da capire...

Per tutto il gioco, eccetto lo «Jus Primae Noctis», ai miei figli non ho dovuto chiarire niente, avevano capito perfettamente come si doveva giocare e di che cosa era fatto quel campionato di calcio. Ma non c'era proprio da stupirsi. D'altronde anche loro avevano regalato Rolex d'oro a più di un arbitro, giustificato assalti ai pullman della squadra avversaria, blandito Galliani, e polemizzato con Roberto Bettega. Ma io stavo per vincere, e mi accorgevo che più corrompevo tutti più aumentava il mio patrimonio in soldi. E i punti in classifica. Qualcosa che non mi era affatto nuovo. Se non fosse stato per quell'ultima carta, che ho sprecato come fossi uno scemo. La carta, intitolata «Dai massaggiatori alle massaggiatrici!», che dice: «Coinvolti in un giro di piacevoli massaggi tutti i tuoi calciatori. Rischiano la squalifica per cinque giornate! Oppure, decidi di coprire la cosa pagando i giornalisti e la Magistratura con 200 testoni per ogni giocatore». Ho detto che no che è un reato gravissimo cercare di corrompere i magistrati, e che di solito si va in prigione. Mio figlio mi ha chiesto perché ho detto «di solito». Ma la sarei cavata anche quella volta, c'era da giurarci, male che andava spostavo il processo a Brescia o a Catanzaro, o mi facevo promulgare qualche legge ad hoc. Alla peggio un decreto. E invece, come fosse un soltanto un gioco e non lo specchio di un paese, mi sono fermato cinque giri. Ho perso il campionato. Per rifarmi ora aspetto una nuova versione del Monopoli. Dove non accumuli solo case e alberghi e terreni, ma apri società alle isole Cayman, fai debiti per miliardi, e truffi i risparmiatori. Ma questa è un'altra storia...

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