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In occasione del quarantennale del Progetto Fori, riprendiamo dall'archivio di eddyburg un estratto della postfazione al libro di Antonio Cederna "Mussolini urbanista" in cui si ripercorrono la storia, le speranze e il tradimento.




L’urbanistica del ventennio torna d’attualità
"Mussolini urbanista" viene pubblicato in un momento particolare per Roma, nel quale storie passate, cronache del momento e destini della città si intrecciano nuovamente (21). Luogo di incontro è il Foro Romano, la cui sistemazione impressa in epoca fascista con la costruzione della via dei Fori Imperiali (22) è direttamente chiamata in causa allorché, il 21 dicembre del 1978, i giornali riprendono un appello del soprintendente ai beni archeologici, Adriano La Regina, riguardante le «gravissime condizioni» in cui versano i monumenti dell’area archeologica centrale.

L’incipit dell’appello è memorabile: “Una serie di accurati rilievi e controlli sui monumenti del centro di Roma hanno dimostrato che, senza ombra di dubbio, nel giro di pochi decenni, perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana” (23).

La corrosione dei marmi antichi è la conseguenza diretta dell’inquinamento dell’aria dovuto alle industrie, al riscaldamento delle abitazioni e ai gas di scarico delle automobili. Per capire come si era giunti ad una tale situazione, occorre ricordare che le sistemazioni dell’epoca fascista avevano mutato radicalmente l’assetto dell’intera città. Via dei Fori Imperiali era divenuta nel secondo dopoguerra l’apice di una consistente direttrice d’espansione e l’area dei fori, da periferica qual’era nel 1870, si era venuta a trovare al centro di un nuovo grande quadrante urbano, sempre più soffocato dal traffico e perciò inquinato. Negli anni in questione si calcola che oltre 50.000 veicoli, lo stesso numero di automobili che oggi interessa l’autostrada del Sole nel tratto fra Bologna e Firenze, percorrano quotidianamente via dei Fori Imperiali, aggirando il Colosseo, ridotto a gigantesco spartitraffico (24).

“Via del Mare e via dell’Impero [oggi via dei Fori Imperiali, ndr]... due strade che hanno rovesciato tutto il traffico dei quartieri meridionali di Roma, dai colli e dal mare, su piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo e quindi sul corso Umberto (cioè su una strada tracciata venti secoli prima), congestionando tutto il centro di Roma fino alle inverosimili parossistiche condizioni attuali di completa paralisi della circolazione” (25).

L’allarme del soprintendente è raccolto immediatamente da Cederna, in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera». “Stiamo dunque pagando, come era da aspettarsi, la nostra lunga incuria e la nostra tenace indifferenza per la conservazione del patrimonio storico-artistico e per i problemi dell’ambiente in generale” (26).

Il rammarico per ciò che è accaduto prelude, come d’abitudine, ad un’indicazione sul diverso indirizzo che deve essere impresso alle politiche urbanistiche, nazionali e locali. “È un problema che coinvolge tutta la politica nazionale, stato regioni comuni, purché ci si renda conto che la salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico può essere garantita solo da un governo del territorio, dell’ambiente che sia finalmente nell’interesse pubblico” (27).

Nel concludere l’appello, il soprintendente è altrettanto esplicito: la conservazione dell’area archeologica non richiede una semplice opera di salvaguardia, bensì una più complessa modifica dell’assetto urbano. “Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città” (28).

Torna così d’attualità la proposta, nata nel secolo precedente, di costituire un grande parco archeologico che comprenda l’intera area dei Fori, tra il Campidoglio e il Colosseo e si protenda verso la campagna romana, lungo il tracciato della via Appia (29).

Il grande cuneo Campidoglio-Fori-Appia Antica taglia in due l’intero settore sud della città e costituisce una vera e propria pausa di silenziosa e immutata bellezza nella sterminata e caotica periferia costruita negli anni Cinquanta e Sessanta. È il cosiddetto progetto Fori: non una specifica proposta di piano, bensì un complesso di idee, studi e proposte progettuali presentate a cavallo tra il 1979 e il 1985 riguardanti l’area archeologica centrale di Roma compresa tra il Campidoglio e il Colosseo e le sue connessioni con la sistemazione più generale della città.

Rispetto all’originaria ideazione, il «parco archeologico più grande e più importante del mondo» (30) acquista necessariamente un significato più ampio: elemento di attrazione per turisti e visitatori da tutto il mondo, museo di se stesso, possibile luogo di incontro per i romani, area verde di incommensurabile valore per una città priva delle dotazioni minime, elemento unificante il centro storico, la periferia e la campagna circostante. Gli interventi principali riguardano:
“- lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e quindi l’esplorazione archeologica per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano, ampliando il centro storico e arricchendo Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città;
- il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane [...];
- la creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra-moenia del parco archeologico centrale”
. (31)

Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali (32) e di parte delle strade circostanti il Colosseo mette in discussione l’assetto viario a scala urbana, sollecitando un deciso decentramento delle funzioni attrattrici di traffico, dal centro storico verso il settore est della città, in un’area appositamente dedicata dal piano regolatore (33). La portata del problema e i termini della sfida travalicano di gran lunga l’archeologia e la conservazione dei beni culturali e richiedono un ripensamento complessivo e una forte azione di governo della città.

Alla guida del governo cittadino, per la prima volta nel dopoguerra, c’è un’amministrazione di sinistra, guidata da Giulio Carlo Argan, storico dell’arte. Argan, e ancor più il suo successore Luigi Petroselli, funzionario del partito comunista, percepiscono la possibilità di mutare il volto della capitale attraverso il progetto Fori. Roma si può affrancare dalla sua immagine degradata, al centro come in periferia, per proporsi al mondo ed essere vissuta dai propri cittadini in modo completamente diverso, realizzando così una sintesi tra la sua connotazione popolare e il rango di metropoli internazionale cui essa aspira. Nei giudizi di alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, si coglie l’ampio respiro delle proposte.

Così si esprime Antonio Cederna: “Col grande parco da piazza Venezia all’Appia antica, la cultura, l’archeologia diventano determinanti per l’immagine di Roma: l’urbanistica moderna riscopre la funzione strategica dei vuoti, degli spazi liberi dell’ambiente paesistico” (34).

Così l’urbanista Italo Insolera: “Il progetto Fori propone una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’antico non vi è più inteso come “monumento” né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare” (35).

Così il soprintendente Adriano La Regina: “Il grande parco archeologico compreso entro il perimetro delle Mura aureliane di fatto esiste già... e occorre solamente organizzarlo diversamente. Occorre in primo luogo sottrarlo alla sua condizione di spazio utilizzato per l’attraversamento veicolare e, in alcuni ambiti, come riserva di esclusivo interesse turistico. [...] Si dovranno nuovamente rendere agibili gli spazi già in antico destinati all’uso pubblico: le piazze quali luoghi di sosta e di attraversamento, le strade come viabilità ordinaria pedonale”(36).

Così l’assessore alla cultura Renato Nicolini: “Tutto al contrario di quello che credono i superficiali e i dogmatici, la difesa attiva del patrimonio storico e dell’identità culturale di una città, può coincidere con la sua affermazione come metropoli. [...] Questo è, secondo me, il senso vero del progetto Fori, almeno nella forma che aveva assunto per la giunta Petroselli. Al centro di Roma, proprio a rendere evidente la trasformazione della città, da città burocratico-industriale in qualcosa d’altro, città di servizi, metropoli postindustriale, non ci debbono più essere i ministeri, ma il grande parco archeologico che partendo dall’Appia Antica arriva fino al Campidoglio” (37).

Il sindaco Luigi Petroselli è colui che più di tutti coglie l’importanza della posta in gioco e comprende «la ricerca e la possibilità di conquista e di riconquista di una nuova identità cittadina e insieme [...] di unificazione della città intorno a nuovi valori» (38).

2. Dalla discussione all’abbandono della proposta
Per quanto ampia, l’adesione di urbanisti, archeologici, storici dell’arte, architetti e altri uomini di cultura non si rivela tuttavia sufficiente per costruire il necessario consenso attorno alla proposta (39).
Mentre il degrado dei monumenti aveva acceso lo sdegno di tutti e favorito un altrettanto unanime consenso sulla necessità di intervenire urgentemente, né il progetto di sistemazione dell’area archeologica, né tanto meno l’idea di trasformazione della città ad esso legata vengono compresi appieno e condivisi. Al contrario, un lungo e acceso dibattito accompagna l’elaborazione dei progetti.

Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali, perno dell’operazione, diventa ben presto il punto attorno al quale si coagula il dissenso. Nonostante il successo della chiusura domenicale al traffico, avvenuta per la prima volta il 1° febbraio 1981, il dibattito sul destino della strada aperta da Mussolini prende una piega indesiderata: la demolizione è ritenuta un provvedimento troppo radicale, inessenziale al recupero dei monumenti e foriero di conseguenze indesiderabili sul traffico e sulla vita quotidiana della città (40).

A nulla valgono le considerazioni dei due sindaci, né l’opinione di Giulio Carlo Argan, che aveva coniato l’espressione «o i monumenti o le automobili», né quella di Petroselli, che si era domandato retoricamente: “si devono accettare i livelli e le condizioni del traffico e della circolazione come dati immutabili ai quali piegare la vita dei cittadini, o piuttosto la vita dei cittadini si deve organizzare finalizzando le condizioni e i livelli del traffico ... ad un nuovo rapporto tra sviluppo e progresso civile che costituisce il terreno privilegiato della sfida sulla modernità di Roma?” (41)

Comincia ad insinuarsi l’idea che la rimozione della strada nasconda una sorta di rivalsa o di accanimento nei confronti di quanto realizzato sotto il fascismo42. Il quotidiano «Il Tempo» lancia una campagna di forte opposizione, dando risalto alle polemiche sollevate da alcuni studiosi che si richiamano al Gruppo dei Romanisti (43).


“La chiusura della ex via dell’Impero e la restituzione del tracciato degli antichi Fori fu, ne convengo, soltanto l’indizio di un organico disegno urbanistico: era senza dubbio opportuno, per alleggerire la congestione del centro, chiudere quello che Cederna chiama, giustamente, un tronco di autostrada nel cuore di Roma, com’era senza dubbio opportuno ridare ai Fori l’antica spazialità mutilata. Ma Petroselli, che ideò l’operazione, vi annetteva un senso politico: cancellare un macroscopico segno della retorica fascista che con quella via destinata alle parate militari s’immaginava di ricalcare la via dei trionfi imperiali. Che la progettata chiusura di quello scenario di maccheronica romanità implicasse un’idea politica si rese conto l’amministrazione pentapartita, che s’affrettò a bloccarla e a restituire quel condotto stradale al fasto delle parate militari. Un brutto, ma eloquente, segno” (44). Non sorprende, dunque, che il governo centrale neghi ogni sostegno economico a proposte che eccedano la mera conservazione dei monumenti (45).

Non è solo la diatriba ideologica ad alimentare il dissenso. Altrettanto decisivi sono il mancato appoggio del mondo della cultura e il sostanziale disinteresse della politica nazionale. L’acme del dibattito si raggiunge nei primi mesi del 1981, in concomitanza con alcune iniziative di grande significato prese dall’amministrazione comunale che fanno presagire un’accelerazione degli eventi in favore della costituzione del parco e della rimozione di via dei Fori imperiali: nel dicembre del 1980 si dà inizio allo smantellamento di via della Consolazione e si approva la chiusura parziale di piazza del Colosseo; nel febbraio, come detto, comincia la chiusura domenicale di via dei Fori Imperiali. Diversi archeologi, storici dell’arte, architetti e giornalisti esprimono le proprie perplessità (46).

Bruno Zevi e Paolo Portoghesi contestano l’idea di città sottesa al progetto Fori. Mario Manieri Elia, Vittorio de Feo, e Carlo Aymonino chiedono più tempo per discutere le priorità e i contenuti delle proposte: «Nessuno deve montare in cattedra: un’idea di città, oggi, la si può costruire tutti insieme e in un tempo non breve» (47). Anche nel mondo politico le proposte non trovano la necessaria sponda: come ricordato, il governo nazionale è contrario e lo stesso partito comunista, che pure guida l’amministrazione comunale, guarda con «sostanziale disinteresse» al dibattito sulla questione dei Fori (48). L’improvvisa morte di Petroselli, nell’ottobre 1981, costituisce lo spartiacque per l’avvenire del grande progetto urbanistico legato alla sistemazione dell’area archeologica e l’inizio del suo abbandono.

La nuova amministrazione guidata da Ugo Vetere si muove inizialmente in sostanziale continuità con la giunta precedente, ma gradualmente si fa strada l’idea che sia preferibile ricondurre il progetto Fori nell’alveo strettamente conservativo assicurando, grazie ai finanziamenti statali, gli interventi di manutenzione del patrimonio archeologico e rimandando tutte le altre operazioni ad un tempo successivo che non verrà mai. Le proposte della Soprintendenza e del Comune divergono progressivamente: il percorso congiunto si conclude con il Progetto per la valorizzazione dell’area dei Fori imperiali e dei Mercati Traianei, elaborato nell’ambito del Coordinamento settore archeologico, presentato pubblicamente dal sindaco Ugo Vetere il 12 gennaio 1983 (49).

La Soprintendenza prosegue lo sviluppo dell’idea iniziale. Incarica un gruppo di esperti coordinati da Leonardo Benevolo di elaborare una proposta definitiva. Benevolo si avvale della collaborazione dei funzionari della Soprintendenza, coordinati da Francesco Scoppola, nonché di progettisti di eccezionale valore: lo studio Gregotti per la parte più strettamente architettonica, Guglielmo Zambrini per la parte trasportistica, Ippolito Pizzetti per il verde. Cederna e Insolera sono esplicitamente ringraziati da Benevolo per la «lunga consuetudine di lavoro comune». Contestualmente Italia Nostra promuove la redazione di una proposta di Piano per il Parco dell’Appia Antica, curata da Vittoria Calzolari. Le due proposte vengono presentate al pubblico ma rimangono prive del necessario sostegno amministrativo e urbanistico: per la loro realizzazione infatti devono essere finanziati e coordinati interventi statali e comunali, raccordando tra loro politiche dei trasporti e pianificazione urbanistica (50).

L’amministrazione comunale, impegnata su un numero impressionante di fronti (lavori pubblici, periferie abusive, case popolari, completamento della metropolitana), prende tempo. Si consolida la posizione di quanti negano che la trasformazione dell’area archeologica centrale sia l’indispensabile premessa per una riqualificazione complessiva della città. L’assessore al centro storico Aymonino ritiene che la «complessità culturale e le difficoltà di gestione» del «più importante problema di scienza urbana che si sia presentato in Italia dal dopoguerra» rendono indispensabile un tempo lungo (51).

Piero e Roberto Della Seta sottolineano il sostanziale ripensamento: “Il progetto Fori abbandona i binari di una incisiva iniziativa politica, che lo aveva caratterizzato all’inizio, per acquietarsi in una stanca attività burocratica, in cui man mano si smarrisce” (52).
A conti fatti, la lentezza con cui si procede si rivela esiziale. Il Comune sceglie la strada di un concorso internazionale di idee, ma la giunta cade prima che sia indetto il concorso e, alle elezioni, viene sconfitta (53).

3. Gli sviluppi successivi
Nei vent’anni che separano il 2006 dagli avvenimenti sopra ricordati, nessun amministratore ripropone il progetto Fori al centro della politica urbanistica comunale. Non lo fanno i sindaci delle giunte a guida democristiana (Signorello, Giubilo) e socialista (Carraro), né quelli di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni, attualmente in carica). Con il passare del tempo si consolida la convinzione che «l’utopia di una renovatio urbis»54 basata sul progetto Fori sia destinata a rimanere tale, per le troppe resistenze che essa incontra e per l’impegno, economico e amministrativo, che essa richiede. Non è un caso isolato: a Roma come in tutto il resto d’Italia, con rare eccezioni, si registra il “progressivo appannarsi di ogni «progetto per la città»: inteso questo non come disegno redatto a tavolino o sommatoria di singoli progetti, ma come idea generale capace di assommare le singole volontà e mobilitare al meglio le varie spinte particolaristiche, come insieme di norme comportamentali fissate per assicurare un migliore uso dell’aggregato urbano e sole capaci di dare contenuto al concetto stesso di convivenza”(55).

Liberata dall’abbraccio “fatale” con la trasformazione urbanistica immaginata nel progetto Fori, la sistemazione dell’area archeologica prosegue il suo corso, seppure con grande lentezza.
I finanziamenti sono assai modesti e i tempi di realizzazione non seguono la tabella di marcia prevista. Nel 1988 il programma iniziale viene finanziato nuovamente ma, come lamenta Cederna, le risorse sono ridotte (56). Vengono avviati i primi sondaggi archeologici nel Foro di Nerva che preludono al successivo scavo, iniziatosi nel 1995, con il quale si dà concretamente avvio al progetto per la realizzazione del Parco archeologico dei Fori Imperiali, inserito nell’ambito del Piano per il Giubileo del 2000, e proseguito con gli scavi dei fori di Traiano e di Cesare. Si interviene anche per migliorare la fruizione pubblica dell’area, altro elemento qualificante delle proposte nate alla fine degli anni Settanta. Sono presi alcuni provvedimenti significativi, in particolare dalla giunta Veltroni, le cui iniziative possiedono una certa continuità con il programma dell’«Estate romana» ideato da Renato Nicolini (57). L’apertura gratuita della via Sacra, avvenuta nel 1997, che permette tuttora una magnifica promenade dall’Arco di Tito al Campidoglio, può essere vista come il primo passo per restituire al Foro quella funzione urbana ipotizzata vent’anni prima dal soprintendente
La Regina “È stato il modo di restituire al Foro una funzione veramente urbana. Questo è un modello di ampliamento di cui tenere conto per l’assetto futuro, mettendo a tacere chi vuole sempre e comunque mercificare tutto” (58).

È in questa prospettiva che la Soprintendenza ripresenta, nel 2005, una nuova proposta di sistemazione, affidata all’architetto Massimiliano Fuksas. Diversamente dal passato, non si prevede l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, tuttora presente e utilizzata dalle auto, sebbene crescano di anno in anno le limitazioni alla circolazione a causa dell’inquinamento atmosferico (59). Come aveva ipotizzato anche Cederna, gli scavi sono potuti proseguire per anni senza creare alcun problema, e questo ragionevole compromesso avrebbe lasciato aperta ogni soluzione, se il Ministero per i beni e le attività culturali, il 20 dicembre 2001, non avesse apposto un vincolo di tutela all’insieme delle sistemazioni viarie operate durante il fascismo tra piazza Venezia e le mura aureliane, riconoscendovi un valore culturale. Quali ragioni hanno portato a conferire al simbolo della «maccheronica romanità» un valore storico, al pari di molte altre realizzazioni della prima metà del Novecento che certamente lo possiedono, considerandolo come un elemento intangibile da restaurare e curare con attenzione? Certamente hanno avuto un peso coloro che riconoscono un valore all’insieme delle opere realizzate nel ventennio, giudicate il tentativo di conferire a Roma «il volto di una capitale»: capitale laica per Giorgio Ciucci, politica, morale e culturale (sic!) per Vittorio Vidotto (60). Un’importanza non secondaria deve essere anche attribuita al fatto che, sebbene nata come «macabra scenografia», via dei Fori Imperiali si è trasformata nel dopoguerra in un importante teatro di manifestazioni pacifiche e democratiche (61). Probabilmente, più di ogni altra cosa, ha prevalso un certo spirito di conciliazione con il passato, lasciando in secondo piano le considerazioni urbanistiche, una volta di più incomprese o ritenute inessenziali (62).

La conclusione di questa vicenda lascia un velo di amarezza. La politica e la cultura non hanno compreso il messaggio contenuto in Mussolini urbanista. È stato abbandonato progressivamente, senza nemmeno un esplicito rifiuto, il progetto che più di ogni altro poteva trasformare il volto della capitale attraverso la pianificazione urbanistica in modo esemplare per il resto della nazione. Tuttavia, se è vero che «non c’è futuro senza memoria del passato» e «nulla di peggio dell’assuefazione agli errori commessi», i moniti e i ragionamenti, i sarcasmi e le proposte di Cederna continuano ad essere un riferimento, tanto attuale quanto indispensabile.

Note
21 Il principale testo di riferimento per la comprensione delle vicende accadute tra il 1978 e il 1983 e delle cronache relative al dibattito allora suscitato è I. Insolera, F. Perego, Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma, Laterza, Roma-Bari, 1983. Gli avvenimenti sono sintetizzati con grande efficacia anche in De Lucia,
Se questa è una città, p. 121-127. Il punto di vista dell’amministrazione comunale e le iniziative assunte tra il 1983 e il 1985 sono descritti in R. Panella, Roma Città e Foro. Questioni di progettazione del centro archeologico monumentale della capitale, Officina Edizioni, Roma 1989 e in C. Aymonino, Progettare Roma Capitale, Laterza, Roma-Bari 1990. Una riflessione di segno opposto a quello di Cederna, Insolera e De Lucia, è formulata in Manieri Elia, Roma capitale: strategie urbane e uso delle memorie.
22 Originariamente via dell’Impero. Le vicende relative alla sistemazione di piazza Venezia e delle aree attorno al Campidoglio sono descritte nel capitolo terzo di Mussolini urbanista. Alla costruzione di via dell’Impero è dedicato il capitolo quinto.
23 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 212. L’agenzia trova un’ampia eco sui giornali di allora: ne parlano il 21 dicembre stesso il «Corriere della Sera» (I monumenti di Roma vanno a pezzi, articolo di Cederna) e «Paese Sera» (La lebbra del marmo uccide i monumenti); il 23 dicembre, «La Stampa» (Fra vent’anni avremo solo le foto dei preziosi monumenti dell’antica Roma); il 31 dicembre, «L’Unità» (Lo smog cancella il passato e ipoteca il futuro). Cfr. Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 213 e seg. «Ritengo che molti di noi serbino il ricordo persino delle parole che aprono il comunicato» (Manieri Elia, Roma capitale, p. 551).
24 A. La Regina, Roma: continuità dell’antico, in Roma, continuità dell’antico. I fori imperiali nel progetto della città. Electa, Milano 1981, p. 11.
25 Cederna, Mirabilia urbis, p. 455.
26 Cederna, I monumenti di Roma vanno a pezzi.
27 Ibidem.
28 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 212.
29 Gli scavi dell’area archeologica centrale, promossi da Pio vii agli inizi dell’Ottocento, proseguiti sotto l’amministrazione napoleonica e, dopo il 1871, dal governo italiano, avevano portato ad ipotizzare una passeggiata archeologica intorno alle rovine romane e ad un grande parco, esteso dal Campidoglio alla via Appia. Scrive Insolera: «Non se ne farà nulla, ma l’idea era posta, e durerà per sempre». (Insolera, Perego, Archeologia e città, p. xviii). Cederna ricostruisce le vicende relative alle sistemazioni di fine Ottocento nella relazione alla proposta di legge n. 3858, 26 aprile 1989, «Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica», riportata in Il parco archeologico più grande e più importante del mondo, «Bollettino di Italia Nostra», 265 (1989), p. 21 e nel Cd-rom allegato a Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna. Ricostruzioni storiche del periodo postunitario sono contenute anche in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 1-30 e in
La Regina, Roma: Continuità dell’antico, p. 54-94. Cfr. anche L. Barroero, A. Conti, A. M. Racheli, M. Serlo, Via dei Fori Imperiali.La zona archeologica di Roma: urbanistica, beni artistici e politica culturale, Marsilio, Venezia 1983.
30 Cfr. nota precedente. L’area della zona monumentale individuata nel 1887 è di 227 ha; il comprensorio dell’Appia Antica interessa oltre 2500 ha.
31 Cederna, Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica.
32 L’eliminazione di via dei Fori Imperiali consentirebbe di ampliare l’area di scavo archeologico, poiché sotto il suo sedime (la carreggiata è larga più di venti metri, che in alcuni punti diventano cento con le sistemazioni a verde ad essa circostanti) sono collocati parte dei fori di Traiano, Augusto e Nerva, ricostituendo l’unitarietà dell’area archeologica, tuttora tagliata in due dall’asse stradale. L’ipotesi di soppressione è avanzata pubblicamente da La Regina nell’aprile del 1979. Nel luglio successivo il sindaco Argan conia, in una lettera aperta all’Ordine degli ingegneri, lo slogan “o i monumenti o le automobili”. Pochi giorni dopo, La Regina precisa la proposta mediante un’agenzia di stampa e raccoglie l’immediata adesione, pubblicamente espressa, del sindaco e degli assessori della giunta comunale Calzolari e Nicolini. Cfr. Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 219 e 233-35.
33 Si tratta del comprensorio noto come Sistema direzionale orientale (SDO). «Trasferendo nello SDO alcuni milioni di metri cubi di attività direzionali, a cominciare dai ministeri, si alleggerisce il centro, si pone un argine alla sua terziarizzazione selvaggia e si possono recuperare immobili alla residenza» (A. Cederna, Tra critica e proposta, «Bollettino di Italia Nostra», 265, 1989, p. 5). Occorre dire che è avvenuto l’esatto contrario di quello che ipotizzava Cederna: il progetto SDO è stato abbandonato, i ministeri non sono stati decentrati, il centro storico ha perso drammaticamente popolazione.
34 Cederna, Tra critica e proposta, p. 7.
35 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. xvii.
36 La Regina, Roma: continuità dell’antico, p. 14. Per il soprintendente è essenziale conferire ai Fori la loro originaria funzione di luogo di incontro, eliminando la separazione tra area archeologica e città e restituendo tali spazi all’uso dei cittadini.
37 R. Nicolini, Introduzione a C. Aymonino, Progettare Roma Capitale, p. 7.
38 Seconda conferenza cittadina sui problemi urbanistici, Roma 1982 (Comune di Roma), p. 217, riportato in De Lucia, Se questa è una città, p. 122. Cederna, commemorando Petroselli su «Rinascita» del 16 ottobre 1981, parlerà dello “scandalo” prodotto dalla determinazione del sindaco nel sostenere il progetto Fori e nell’avviare le prime iniziative concrete.
39 Sul «Corriere della Sera» del 14 marzo 1981 è pubblicato un appello sottoscritto da 240 studiosi, italiani e stranieri. Il testo integrale e le firme sono riportate in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 341. Cfr. anche De Lucia, Se questa è una città, p. 124.
40 Le voci del dissenso sono raccolte in particolare dal quotidiano «Il Tempo». Timori relativi alle ripercussioni della chiusura della via dei Fori Imperiali sul traffico ricorrono anche negli interventi degli storici dell’arte, tra i quali Federico Zeri che interviene con alcuni articoli su «La Stampa»nel febbraio del 1981.
41 L. Petroselli, [Presentazione], in Roma: continuità dell’antico, p. 9.
42 Bruno Palma su «Il Tempo»dell’11 agosto 1979 apre la polemica domandandosi retoricamente se l’idea della soppressione della strada si debba a cultura urbanistica o a «rabbia politica».
43 Il Gruppo dei Romanisti è un movimento culturale fondato negli anni ’20, al quale sono appartenuti alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, come Ojetti, Muñoz e Giovannoni. Nel febbraio del 1981 viene pubblicato da «Il Tempo» un appello dei Romanisti contro la rimozione della via dei Fori Imperiali, giudicata una «gravissima perdita difficilmente giustificabile», con Cederna è guerra di penna. Cfr. in particolare l’articolo di Cederna pubblicato sul «Corriere della sera» del 6 febbraio 1981 e le successive repliche in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 324-332.
44 G. C. Argan, Prefazione, a P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 11.
45 Il governo si era dichiarato disponibile a finanziare gli scavi: nel gennaio 1979, poco tempo dopo l’appello del soprintendente, era stata istituita una Commissione nazionale di studio, presieduta dallo storico dell’arte Cesare Gnudi (1910-1981). Conclusi i lavori della commissione, con un parere determinato sull’urgenza di provvedere alle opere di riparo dei monumenti, ma decisamente vago sui provvedimenti urbanistici, nel maggio del 1980 era stato assegnato per decreto un finanziamento straordinario di 180 miliardi di lire per attuare gli interventi ritenuti indispensabili e urgenti dalla commissione, convertito l’anno successivo nella Legge 23 marzo 1981, n. 92 «Provvedimenti urgenti per la protezione del patrimonio archeologico della città di Roma». Nei due anni intercorsi tra la nomina della commissione e l’approvazione della legge era montata la polemica contro la demolizione di via dei Fori Imperiali, cosicché mentre il precedente ministro, Biasini, aveva avuto un atteggiamento possibilista, sia pure tra mille tentennamenti, il nuovo ministro, Vernola, aveva preso subito posizione contro la rimozione.
46 Agli inizi del 1981 il «Messaggero», il «Corriere della Sera» e l’«Unità» pubblicano il resoconto di una serie di tavole rotonde, nelle quali i principali esponenti della cultura accademica esprimono la loro opinione. Parallelamente vengono organizzati incontri pubblici di dibattito a palazzo Braschi (3 marzo 1981) e alla Casa della cultura (6 febbraio e 28 maggio). Dal 26 al 29 marzo si tiene la Seconda conferenza urbanistica cittadina, promossa dall’amministrazione comunale.
47 Retrospettivamente Manieri Elia assume una posizione nettamente contraria alle proposte urbanistiche, giudicando «arbitrario e incoerente» lo slittamento di prospettiva dal programma di restauri alla «proposta di una sterminata operazione di trasformazione urbana» (Roma capitale, p. 554).
48 V. De Lucia, Peccato capitale, Edizioni Il Manifesto, Roma 1993, p. 20.
49 I lineamenti della proposta sono descritti in Tutto il progetto Fori, «Bollettino di Italia Nostra», 219 (1983), p. 49-63, con scritti – tra gli altri – di La Regina, Aymonino, Insolera, Quilici, Rossi Doria. L’intervento del sindaco è pubblicato in Piano per il Parco dell’Appia Antica, Roma 1984 (Italia Nostra, sezione di Roma).
50 I primi studi e orientamenti programmatici della Soprintendenza sono presentati al pubblico in due mostre nella Curia al Foro Romano nel 1981 e nel 1985. Cfr. rispettivamente Roma: continuità dell’antico e Forma. La città antica e il suo avvenire, Catalogo della Mostra itinerante, 1985-1987, De Luca, Roma 1985. Cfr. L. Benevolo, Roma, studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale, De Luca, Roma 1985. Sulla proposta di Piano per l’Appia Antica cfr. il Piano per il Parco dell’Appia Antica. Successivamente la Soprintendenza commissiona uno sviluppo del progetto relativo all’area dei Fori con approfondimenti relativi sia alla fattibilità economica, sia alle iniziative di inquadramento (assetto della viabilità, formazione del nuovo PRG, decentramento dei ministeri) che richiedono il coordinamento di altri soggetti pubblici. Cfr. L. Benevolo, F. Scoppola, Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, De Luca, Roma 1989 con scritti, tra gli altri, di De Lucia (Le esigenze di Roma capitale) e Cederna (Distruzione e ripristino della Velia).
51 C. Aymonino, Un tema grandissimo di scienza urbana, «l’Unità», 8 marzo 1981, ripreso in Archeologia e disegno urbano, «Casabella» 482 (1982). Aymonino ritiene con ciò di superare «una semplicistica vendetta dell’urbanistica radicale». Anche per Manieri Elia occorre «evitare gli estremismi» e «resistere alle tentanti semplificazioni e ai roboanti schematismi». Le difficoltà operative sono sottolineate da Raffaele Panella: «i grandissimi risultati conseguiti praticamente a costo zero con i pochi ma incisivi interventi di ricongiunzione del Foro al Campidoglio e al Colosseo, ... le iniziative dell’Estate romana e la chiusura domenicale di via dei Fori non potevano ripetersi ed estendersi senza compiere un salto di scala. Anzitutto in termini di investimenti». Cfr. R. Panella, Roma città e Foro, p. 49.
52 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 259.
53 Gli atti propedeutici al concorso sono formalizzati in una serie di delibere della giunta comunale (8 maggio 1984 e 27 dicembre 1984) e del consiglio comunale (10 luglio 1984). Cfr. R. Panella, Roma Città e Foro, p. 382-385.
54 Così definita da La Regina in Roma: continuità dell’antico, p. 13.
55 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 265. L’abbandono progressivo della pianificazione generale in favore di una serie di singoli interventi di trasformazione urbana, dettati dalle opportunità del momento senza curarsi del loro inquadramento complessivo, costituisce la mutazione più evidente dell’urbanistica italiana degli ultimi venti anni. Cederna, assieme a Edoardo Salzano e Vezio De Lucia, può essere a buon diritto annoverato tra i pochi che hanno giudicato negativamente e avversato la crescente deregulation. Sulle conseguenze nella capitale, cfr. P. Berdini, Il Giubileo senza città, Editori riuniti, Roma 2000 e, per un punto di vista opposto, M. Marcelloni, Pensare la città contemporanea: il nuovo piano regolatore di Roma, Laterza, Roma-Bari 2003. Sul dibattito nazionale, cfr. gli scritti degli autori citati in eddyburg.it.
56 Cederna sottolinea la differenza tra i fondi destinati nel decennio precedente al restauro dei monumenti romani e quelli spesi per la costruzione di autostrade, 24 contro 18.000 miliardi di lire. A. Cederna, Il parco archeologico più grande e importante del mondo, in «Bollettino di Italia Nostra», 265 (aprile-maggio 1989), p. 21.
57 Il 25 agosto 1977 il cinema si accende nella basilica di Massenzio dando inizio all’Estate romana, programma di spettacoli estivi all’aperto che si è svolto ininterrottamente dal 1977 al 1985, in una serie di luoghi significativi della città, nel centro e nella periferia.
58 Le proposte sono presentate in una mostra al Colosseo che si è tenuta dal luglio 2004 al gennaio 2005. Cfr. Forma: la città moderna e il suo passato, a cura di A. La Regina, M. Fuksas, D. O. Mandrelli, Electa, Milano 2004.
59 Fuksas immagina la strada come «un nastro sostenuto da ponti sotterranei» ipotizzando l’estensione della sua pedonalizzazione per «almeno sei mesi l’anno». Cfr. F. Giuliani, Ponti sotteranei, passerelle e l’antica Roma torna a vivere, «La Repubblica», 30 giugno 2004. Va ricordato che con l’amministrazione Rutelli sono riprese anche le domeniche pedonali.
60 Cfr. G. Ciucci, Relazione storica sugli interventi architettonici e urbani a via dei Fori Imperiali, allegata come parte integrante del provvedimento di vincolo ai sensi dell’art. 2 del Dlgs 29 ottobre 1999, n. 490 apposto con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali; Vidotto, La capitale del fascismo, p. 405-406.
61 Questa tesi è sostenuta ad esempio da Manieri Elia.
62 Un perfetto esempio di travisamento è contenuto nella citata relazione di G. Ciucci che motiva il provvedimento di vincolo monumentale. Ciucci sostiene che «l’avvio della questione Fori Imperiali nel 1982 ha come obiettivo finale l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, senza porsi il problema della sua storia, della sua funzione urbanistica, della sua immagine consolidata: l’interesse è concentrato solo nello scavo archeologico» [corsivi nostri].
Tratto da
Baioni M (2006), Mussolini urbanista e il pensiero di Cederna, in A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego.

Il 21 aprile del 1979, invitato in Campidoglio dal sindaco Argan per le celebrazioni del 2732° anniversario della fondazione di Roma, il soprintendente Adriano La Regina formula per la prima volta l’ipotesi della chiusura della via dei Fori.

Il quarantennale sarà ricordato il prossimo 16 aprile dallo stesso Adriano La Regina, con una conferenza organizzata dall'Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli.
L'opinione di Vezio De Lucia si può leggere qui.

VALORI. 13 giugno 2018. Tutti i nodo vengono al pattine, gli errori svelati, i colpevoli additati. Intervista a Paolo Berdini sulla lunga e tortuosa vicenda dello stadio della Roma oggi sotto i riflettori della giustizia. Con riferimenti (e.s.)

«L'intervista a Paolo Berdini, urbanista ed ex assessore della Giunta Raggi: “Lo stadio a Tor di Valle è un progetto che sfama solo interessi privati”»

Probabilmente saranno i 9 arresti legati alla costruzione dello stadio della Roma a determinarne lo stop. Ma in Campidoglio era arrivata anche una pila di ricorsi e atti di opposizione: 31 in tutto. Si sono opposti i comitati di pendolari e residenti, preoccupati per la viabilità che andrebbe in tilt, gli ambientalisti in allarme per l’Ecomostro e il rischio speculazione, il Codacons che giudica l’operazione “illegittima”, i Radicali. E ancora gruppi di ingegneri e architetti, compreso Paolo Berdini, urbanista di fama internazionale, assessore all’Urbanistica e Lavori Pubblici per 8 mesi durante la giunta Raggi, che ha spedito in Comune un suo documento per chiedere di fermare l’approvazione della variante urbanistica.

«Sulla questione “stadio della Roma calcio” i Cinquestelle e Virginia Raggi hanno cancellato le promesse fatte in campagna elettorale. Una inversione a U rispetto alle posizioni nettamente contrarie all’opera espresse quando Roma era guidata da Ignazio Marino».

Professor Berdini, il suo è stato uno dei soli quattro nomi di assessori rivelati dalla Raggi prima delle elezioni. In teoria avrebbe dovuto essere fra gli inamovibili. Che è successo invece?

È successo che ho dovuto osservare un progressivo cambio di rotta rispetto a quanto i Cinquestelle hanno sempre affermato quando erano all’opposizione, sia a Roma sia a livello nazionale.

Quando ha iniziato a collaborare con loro?

Ho iniziato nel 2013 con il gruppo 5 Stelle alla Camera per scrivere una legge per bloccare il consumo di suolo. Quel testo fu trasformato in una proposta di legge e pubblicizzato in giro per l’Italia. Poco dopo, i 4 consiglieri pentastellati al Comune di Roma (tra i quali la stessa Raggi), all’opposizione della giunta Marino, mi chiesero di collaborare alle azioni contro il progetto stadio. Nel programma quindi la loro posizione era chiarissima.

Poi con la vittoria alle elezioni comunali di giugno 2016, il cambio di rotta…

Sono stato scavalcato nella ricerca di un compromesso con Pallotta e soci. Una cosa molto grave, soprattutto perché dopo mesi di lavoro era arrivato il parere negativo dagli uffici dell’assessorato Urbanistica contro quello sciagurato progetto. E invece si riapre il “tavolo di confronto” con la speculazione fondiaria.

Non la stupisce che una forza politica di rottura, come affermano di essere i 5 Stelle, nonostante una clamorosa vittoria elettorale, abbia accettato quel progetto?

Ovviamente. Si avvertiva in città una tensione positiva enorme: dopo gli scandali dell’amministrazione Alemanno e Mafia capitale, governava Roma una forza pulita libera da interessi oscuri. Forse è mancata quella indispensabile cultura politica che può permettere di affrontare le sfide più difficili. Sullo stadio si sono spaventati di una eventuale richiesta di risarcimento da parte dell’AS Roma. Qualcosa di simile era già accaduto nei mesi scorsi per il progetto di recupero del compendio immobiliare dell’ex Fiera di Roma di via Cristoforo Colombo, ma in quell’occasione nella mia posizione ero stato spalleggiato da Marcello Minenna e Carla Raineri (assessore al Bilancio e capo di gabinetto, dimessisi a settembre in polemica con Raffaele Marra, ndr).

Ha ricevuto pressioni di gruppi finanziari per un via libera al progetto?

Personalmente no. Ma è evidente che importanti istituti bancari hanno interesse a poter finanziare un progetto faraonico come questo. E alla stessa Unicredit conviene se Parnasi, che è un importante debitore della banca, si rafforza economicamente.

E i 5 Stelle che vantaggio traggono?

Avevano già detto no alle Olimpiadi – secondo me a torto perché avrebbero potuto dimostrare all’Italia intera come si può trasformare un grande appuntamento spesso segnato da sprechi e scandali in un’opportunità di rilancio per la città. Ma non hanno accettato la sfida. Eppure si trattava di un progetto pubblico interamente finanziato dallo Stato. Il paradosso è che hanno rifiutato un’opera pubblica come sarebbero state i Giochi olimpici e invece hanno detto sì a un progetto che soddisfa esclusivamente appetiti privati. Forse qualcuno all’interno di quel movimento pensa che per arrivare al governo nazionale qualche prezzo vada pagato…

Dal punto di vista tecnico, che ne pensa dell’accordo trovato tra il Comune e la AS Roma?

Ho sempre detto che nell’area di Tor di Valle, a forte rischio idrogeologico e completamente avulsa dal tessuto urbano della città, anche costruire un solo metro cubo di cemento è un errore. E ho al contrario sempre perorato l’ipotesi di costruire il nuovo stadio altrove, dove sarebbe potuto diventare un’opportunità di sviluppo di una periferia, come nella zona di Torre Spaccata, nella periferia sud-est di Roma. Solo per aver espresso la mia opinione sono stato vergognosamente accusato di favorire interessi di altri proprietari terrieri. La macchina del fango si era messa in moto.

A Roma c’è lo Stadio Olimpico. Poi c’è il Flaminio, considerato un gioiello di architettura ma che cade a pezzi abbandonato. Ma serve davvero un terzo stadio?

Quelle due strutture esistenti andrebbero profondamente rimaneggiate per renderle adeguate alle attuali esigenze ma sono intoccabili perché sottoposte a vincolo monumentale. Forse si sarebbe potuto avviare – come è stato fatto per lo stadio del tennis del Foro italico – un serio rapporto con le Soprintendenze per permettere mutamenti rispettosi delle caratteristiche dei manufatti così da evitare di avere zone abbandonate in piena città. Ma ho accettato pure la sfida di un altro stadio, se collocato in un luogo che potrebbe trasformarlo in un beneficio per l’intera comunità. Del resto, la legge sugli stadi è in vigore e chi amministra deve rispettare le leggi dello Stato.

Quindi esistono grandi opere compatibili con l’interesse collettivo?

Sì. A patto che sia il potere pubblico, a partire dall’amministrazione comunale, a guidare i giochi, decidendo dove vanno fatte e in che modo. Altrimenti è solo un favore ai poteri forti. E purtroppo la storia urbana di Roma negli ultimi venti anni, e cioè da quando trionfa l’urbanistica contrattata, è un ignobile campionario delle più spregevoli speculazioni immobiliari.

A proposito dei poteri forti: questa vicenda dimostra che essere onesti non basta. Che cosa serve per contrastarli davvero?

Bisogna essere preparati e aver studiato. Tanto.

Articolo tratto dal sito qui raggiungibile.

Riferimenti

Sull'argomrnto eddyburg ha pubblicato tra l'altro gli articoli di Piero Bevilacqua, Uno stadio salverà Roma, di Vezio De Lucia Stadio della Roma: tutti d'accordo, pagherà Pantalone , di Salvatore Settis, Come uno zombie riemerge dal passato, di Annamaria Bianchi, Il nuovo stadio della Roma. Eddyburg aveva raccolto numerose adesioni a un appello dell'ottobre 3016 , Appello Lo stadio come cavallo di Troia:

Effetti perversi del piano casa a Roma che premia la demolizione di edifici storici con aumenti di cubatura. Le amministrazioni cambiano, i palazzinari restano. (m.b.).

Villa Paolina. L'edificio che sarà demolito

Dopo la palazzina di Via Ticino, un’altra costruzione in un quartiere novecentesco di Roma è condannata alla demolizione. Si tratta di Villa Paolina di Mallinckrodt, che dal 1922 sino al 1997 ha ospitato l’istituto scolastico delle Suore della Carità cristiana. La società che ha acquistato l’edificio, grazie alla Legge regionale 21/2009 (il cosiddetto “Piano Casa”), potrà realizzare un palazzo di otto piani più un parcheggio interrato. Dopo le proteste dei cittadine e delle associazioni, fonti giornalistiche hanno riferito che la ditta è disposta a rivedere il progetto, concordando con il Comune "le indicazioni di ordine architettonico ed estetico" che verranno segnalate dal Comitato per l'Architettura dell'assessorato all'Urbanistica del Campidoglio.

Il progetto del nuovo edificio. Esteticamente rivedibile...

Ma rispetto all'abbattimento dobbiamo dire la verità: non c’è (più) niente da fare. E la responsabilità non è del Comune di Roma, ma dell’amministrazione di centrosinistra della Regione Lazio. Noi di Carteinregola avevamo lanciato l’allarme nell’autunno 2014, quando ancora qualcosa si poteva fare. Il consiglio regionale del Lazio stava per approvare una nuova versione dello sciagurato Piano Casa, varato dal centrodestra nella precedente consiliatura, nella versione della Giunta dell'attuale Presidente Nicola Zingaretti, che ne riproponeva gli articoli e gli aspetti più discutibili, con ben pochi ritocchi. Inascoltate cassandre, avevamo fatto un presidio di un mese e mezzo presso la sede regionale (fino alle cinque del mattino dell’ultima notte, il 31 ottobre) chiedendo che fossero modificate le norme, che il Piano non fosse prorogato e, soprattutto, in caso di proroga, fosse almeno ridata al Comune di Roma (allora guidato dal Sindaco Ignazio Marino) la possibilità di escludere le demolizioni in molti quartieri storici che il Sindaco Alemanno e il suo Assessore Corsini nel gennaio 2013 avevano lasciato senza protezione.

Abbiamo ricevuto allora un no su tutta la linea e le conseguenze cominciano a vedersi oggi. Uno dopo l’altro piovono progetti, e presto potrebbe essere una grandinata. Le modifiche che chiedevamo, forse oggi sembreranno più comprensibili. La Legge regionale 21/2009 prevede che gli interventi edilizi di abbattimento e ricostruzione con aumento di cubatura, così come quelli di cambio di destinazione, non siano preventivamente sottoposti al parere dei Comuni; se rispondono ai requisiti fissati dalle legge e non confliggono con tutele specifiche, sono approvati in automatico, in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali vigenti o adottati. Per esempio, nel caso di via Ticino, si può demolire l’edifico storico e ottenere, come premio per l’abbattimento, un ampliamento volumetrico del 35%. E’ quindi evidente che la lettera inviata alla Sindaca da Italia Nostra, la petizione lanciata da Liberi e uguali del II Municipio, così come altre lodevoli iniziative promosse da cittadini e associazioni, arrivano troppo tardi. Così come è inutile rivolgersi al Municipio, che ha ancora meno voce in capitolo del Comune.

L’unica cosa che si può chiedere – ma è una magra consolazione – è la pubblicazione di tutti gli interventi analoghi per cui sono state avanzate domande fino al 30 giugno 2017, almeno per sapere quante demolizioni e dove atterreranno. Il registro degli interventi è previsto dallo stesso Piano Casa, “istituito dai comuni al fine di monitorare l’incremento dei pesi insediativi nell’ambito del territorio comunale”, ed è trasmesso annualmente alla Regione. Nessuno finora ha provveduto e, almeno questo, potrebbe essere fatto rapidamente dalla giunta pentastellata, se non altro per coerenza con le posizioni sostenute nel 2014.

Non è questa la rigenerazione urbana di cui c’è bisogno. Gli interventi devono riguardare parti di città da riqualificare, non palazzi storici da gonfiare di cubature per mere ragioni di profitto. Devono portare nuova vivibilità e nuove funzioni sociali e, per questo, devono essere predisposti attraverso il confronto con la cittadinanza e, soprattutto, con il coinvolgimento attivo del Comune e del Municipio. Affidare alla proprietà privata tutte le decisioni su interventi che hanno forti ricadute sull’identità e sulla vivibilità dei quartieri è stato un gravissimo errore.

Come uno zombie riemerge dal passato - peggiorata - una vicenda che sembrava sepolta dalle buone intenzioni della sindaca Raggi. Ma il rullo compressore degli affari cementizi non si arresta mai.

Nessuno ha più parlato del famigerato stadio della Roma, ci eravamo illusi che fosse su un binario morto, è invece prossimo all’approvazione. Come abbiamo scritto a suo tempo si tratta della più grossa operazione di urbanistica contrattata del nuovo millennio. La capitale non si smentisce, è sempre quella dell’Hilton e chiunque sia insediato al Campidoglio non sa resistere al richiamo degli interessi immobiliari. Il M5S, quando era all’opposizione, durante l’amministrazione Marino, si era tenacemente battuto contro, presentando addirittura una denuncia penale per fermare lo scempio. Adesso, con spregiudicata e sospetta inversione di marcia, ha dato l’assenso. Queste sono le credenziali di chi si accinge a governare l’Italia.

Il nuovo progetto dello stadio e degli annessi business park, centinaia di negozi e attività commerciali è all’esame della conferenza dei servizi decisoria convocata dalla regione Lazio che sta per dare il via libera. Rispetto al primo progetto, bocciato dalla conferenza dei servizi dell’anno scorso, la principale novità è la consistente riduzione delle previsioni relative alle attività direzionali e commerciali, un volume comunque superiore a quanto consentito dal piano regolatore. Ma alla riduzione della cubatura corrisponde un drastico ridimensionamento delle infrastrutture a servizio dello stadio e degli insediamenti connessi. Con la conseguenza che la viabilità di accesso è limitata alla sola via Ostiense-via del Mare senza una seconda uscita indispensabile in caso di emergenza.

A questo punto, in soccorso di James Pallotta (presidente della Roma e proponente) e di Paolo Parnasi (che costruirà lo stadio e il resto con l’impresa Eurnova), accorre il ministro Luca Lotti che suggerisce di realizzare a spese dell’erario un nuovo ponte sul Tevere (previsto nel primo progetto e cancellato a seguito della riduzione delle cubature) che risolverebbe i problemi dell’accessibilità e della sicurezza. Circa cento milioni, questo il costo del ponte, a esclusivo servizio di un insediamento privato, perché privati sono lo stadio, il business park, ecc. Il tutto, tra l’altro, in contrasto con le prescrizioni di legge che pongono a carico del proponente tutte le opere necessarie alla funzionalità degli interventi. Una soluzione che ci pare inaudita. E inquietante è l’assoluta latitanza della politica e dei mezzi d’informazione.

Politica e mezzi d’informazione sono stati assenti anche nei mesi scorsi quando il Mibact ha fermato il vincolo sulle tribune dell’ippodromo di Tor di Valle (costruito per le Olimpiadi del 1960) proposto dall’allora soprintendente Margherita Eichberg. Vincolo fermamente condiviso dai comitati di settore del Mibact per l’archeologia, per il paesaggio, per le belle arti, per l’arte e l’architettura contemporanea. Secondo Ugo Carughi, presidente di Docomomo Italia – associazione per la documentazione e la conservazione degli edifici e dei complessi urbani moderni –, le tribune sono state ottenute “attraverso l’accostamento aereo di pensiline, travi a mensola, pilastri sagomati, gradonate, vetrate […] composti in un miracoloso quanto precario equilibrio”.

Un ultimo appello perché non si compia una scelta urbanistica utile solo agli interessi immobiliari. Qui le pesanti critiche di due "opinionisti" di eddyburg: Insieme allo stadio si approvano 10 Hilton di Vezio De Lucia, e Uno stadiosalverà Roma, di Piero Bevilacqua. Molte altre pesanti critiche digitando "Stadio Roma sul "cerca"

la Repubblica, 29 settembre 2017definiscono patrioti, ma sono soltanto fascisti. Gli stessi che vivevano relegati ai margini della cronaca. Ora hanno fiutato il vento vincente dei populismi e si impossessano del malessere delle nostre periferie».
PERIFERIE da troppo tempo abbandonate a se stesse, dove tutti si sentono traditi dalle istituzioni. Ovunque, ma soprattutto nella Capitale. «In almeno cinque o sei quartieri di Roma, Forza Nuova è egemone. Famiglie e cittadini scendono in piazza ad appoggiare le nostre iniziative, facendo emergere una vera questione sociale», proclama Roberto Fiore, il leader più politico del neofascismo. A guidare ieri la resistenza contro lo sgombero di un alloggio popolare occupato abusivamente e destinato a una coppia italo-etiope c’era un suo vecchio sodale, Giuliano Castellino, più abituato a usare le mani che non le parole: una figura per decenni relegata nelle curve peggiori degli stadi e negli angoli oscuri degli intrecci malavitosi, che adesso si erge a “patriota”. Castellino e i suoi hanno lanciato pietre contro la polizia, ferendo tre agenti, ma sono riusciti nel loro scopo: imporsi come i Robin Hood della maggioranza rabbiosa di queste borgate.

Da mesi la fascia di palazzi desolati che circonda la Capitale si è trasformata nel laboratorio di un populismo apertamente neofascista. Squadracce che si impadroniscono con la violenza della piazza, che sfruttano ogni problema per sbandierare il manifesto della loro ideologia, semplificata in un unico slogan che legittima qualunque abuso: “Prima gli italiani”. Un manifesto di rapida presa in quartieri dominati dalla paura verso lo straniero, dove persino chi saccheggia abitualmente i supermercati — come è accaduto un mese fa al Tiburtino III — si muta in eroe della rivolta contro gli immigrati. Un copione che ormai si ripete dal 2014, dall’assedio nero al centro per profughi minorenni di Tor Sapienza.
Non importa chi abbia torto o ragione, ogni singolo episodio diventa un focolaio di intolleranza. Tre giorni fa l’aggressione di un malese, subito arrestato, contro due fidanzati che si baciavano nei pressi del centro islamico di via San Vito, a pochi metri da Santa Maria Maggiore, ha innescato la mobilitazione di tutte le destre, da Giorgia Meloni a Casa-Pound. Tutte pronte a invocare la chiusura dell’unico luogo di preghiera della comunità del Bangladesh che vive e lavora nella zona di Piazza Vittorio, senza mai avere creato problemi. E lunedì notte c’è stata la guerriglia di Guidonia, con la caccia all’uomo lanciata da cento persone dopo che un rom alla guida di un furgone aveva scatenato il panico facendo gimkane sui marciapiedi. «Noi qui già siamo considerati scarti, se qui ci mandano gli scarti di Roma ( ndr riferito ai nomadi) finisce che tra poveri, lasciati soli, vince er più prepotente. È normale, è la legge della strada», ha dichiarato uno degli “insorti” a Federica Angeli. Può uno Stato arrendersi alla legge della strada?
L’epicentro di questo malessere che issa sul podio i nuovi fascisti è la periferia romana, dove ogni concetto di convivenza si sta sgretolando nel crollo dei servizi elementari, come la pulizia urbana e i trasporti pubblici. Le stesse borgate che quindici mesi fa decisero il trionfo di Virginia Raggi adesso si mostrano deluse dai Cinquestelle, come da tutti gli altri partiti tradizionali. Ma l’abisso sociale in cui sprofondano questi territori è questione antica, che nessuno ha voluto affrontare. A ogni elezione si ripetono promesse che non vengono mantenute, si elaborano piani d’intervento mai attuati, c’è persino una commissione parlamentare d’inchiesta che da oltre un anno accumula audizioni e studi sul tema.
Il tempo per i discorsi è finito, a Roma e in tutta Italia. Non possiamo permetterci di ignorare oltre la situazione di questi quartieri dove l’insicurezza genera intolleranza e amplifica i messaggi del nuovo fascismo: in gioco c’è l’essenza della nostra democrazia, con il rischio di vedere rapidamente crescere il peso elettorale di formazioni contrarie ai valori della Costituzione. Serve fermezza nel reprimere chiunque faccia bandiera della violenza e della xenofobia. Ma servono soprattutto provvedimenti urgenti e concreti per testimoniare la presenza delle istituzioni. Non esistono più un noi e un loro: quello che accade lì, condizionerà anche il futuro politico del Paese.

La situazione del trasporto pubblico a Roma è catastrofica. Che si intende fare per rimediare al disastro? La giunta cinquestelle sfugge al confronto sul merito, caccia chi dissente e non informa i cittadini. (m.b)

La situazione di ATAC, l'azienda dei trasporti partecipata al 100 % dal Comune di Roma, è catastrofica. Ma non da ora. Da anni. Per molti motivi e con molte responsabilità, dalla lunga serie di cambiamenti ai vertici, con emolumenti stratosferici e buone uscite incredibili - soprattutto a fronte degli inesistenti risultati raggiunti - alle assunzioni clientelari, da ascrivere non solo alla parentopoli più famosa della Giunta Alemanno, ma alla levitazione costante del personale (dirigenti e impiegati), al sistematico spoil system e alle solite mangiatoie elettorali che hanno accomunato destra e sinistra. Per non parlare dei molti casi di mala amministrazione finiti nelle aule giudiziarie. E dell'alto tasso di assenteismo dei dipendenti e - va detto - del corporativismo di una categoria dove proliferano le sigle sindacali. E dell'evasione tariffaria record degli utenti. E del lungo braccio di ferro Comune - Regione per i fondi per il trasporto pubblico della Capitale. E di molto altro ancora.

Non è un mistero che l'ATAC sia arrivata alla frutta da un pezzo. Lo racconta anche l'ex Sindaco Ignazio Marino nel suo libro, dove descrive assai bene come spesso l'interesse per l'azienda da parte di pezzi della politica di destra e di sinistra si attivasse «più per il salario o il posto di lavoro di un dirigente», che «per la necessità di ridimensionare e rendere più produttiva l'azienda»; e già allora, racconta Marino, «secondo alcuni osservatori avrei dovuto portare i libri contabili in tribunale e dichiararne il fallimento».

Oggi la situazione non è migliorata, anzi. Le parole dell'ex direttore generale dell'ATAC, Bruno Rota (il manager milanese nominato dalla Sindaca Raggi, a cui sono state affidate le deleghe operative poco più di un mese fa) non lasciano spazio all'interpretazione: «L’azienda è in stato di dissesto conclamato. Oltretutto in queste condizioni ci sono anche chiari obblighi di legge: se non riesce a far fronte ai propri impegni, noi abbiamo l’obbligo di ufficializzare questa situazione(...) Bisogna ristrutturare il debito».

Rota parla chiaro anche sulle motivazioni che lo hanno spinto a lasciare l'incarico: «Come dico nella lettera di dimissioni, [lascio] per la gravissima situazione di tensione finanziaria della società. Una situazione che può essere risolta soltanto con un intervento drastico e con il pieno riconoscimento di quanto accaduto. Avrei dovuto sentire attorno a me un clima di totale fiducia. E così non è stato».

Parole inequivocabili che come altre dichiarazioni rilasciate alla stampa in questi giorni, tirano in ballo il tentennamento della Sindaca e della Giunta nell'affrontare con serietà e coraggio un’emergenza non più rinviabile. E appare orwellianamente inquietante l'interpretazione della vicenda pubblicata sulla pagina facebook della Sindaca Virginia Raggi (forse opera dei suoi spin doctor), in cui ribalta la situazione e attribuisce il passo indietro del direttore generale non alla mancanza di sostegno al suo piano da parte dell’Amministrazione capitolina, ma a personali preoccupazioni sulle possibili conseguenze legali. E che quello della Sindaca sia un maldestro gioco di prestigio verbale, simile a quelli dei politici navigati invisi ai Cinque Stelle, ci sembra evidenziato dal fatto che non vengano date spiegazioni ai cittadini, a cui ci si rivolge solo con brevi post pubblicati in rete.

Perché il vero punto è: che cosa intende fare questa Amministrazione - facendolo rapidamente - per affrontare una situazione del trasporto pubblico ormai abbondantemente oltre il punto di non ritorno, che a quanto pare sta per implodere definitivamente? Quali sono state le vere cause della rottura (tra l'altro annunciata) e perché il Piano di Rota non andava (più) bene? Quali piani alternativi esistono, a parte tirare a campare aspettando l'ennesimo uomo della provvidenza?

Più in generale, perché, in un anno di permanenza nella stanza dei bottoni, questa amministrazione non è ancora stata capace di aprire le porte del Campidoglio e mostrare gli scheletri nell'armadio dei conti che non tornano? Dove sono finiti gli ardimentosi consiglieri M5S che dall'opposizione promettevano sfracelli sui cosiddetti "derivati" e che avrebbero fatto chiarezza una volta per tutte sul debito monstre della Capitale e sulle mangiatoie bipartisan delle partecipate? E per quanto ancora le mancanze e le devianze di - alcune - Giunte precedenti saranno usate dalla Giunta Raggi come scudo spaziale per proteggersi dalle critiche? Dopo più di un anno bisogna cominciare a rispondere ai cittadini di quello che si è fatto e non fatto. In modo chiaro e trasparente, con la serietà dovuta verso chi ti ha eletto per cambiare le cose.

Invece la Sindaca chiude il suo post invitando i suoi consiglieri e e i suoi assessori a «non distrarsi dal lavoro alimentando sterili polemiche» avvertendo «chi preferisce polemizzare" che «si mette da solo fuori dalla squadra.» Un ulteriore segnale della debolezza di questa maggioranza pentastellata, che si preoccupa di silenziare la critica e il dissenso, e sfugge dal confronto sul piano delle idee e dei fatti. Ma ma anche un vizio con cui dovrebbe fare i conti fino in fondo il MoVimento, se ambisce davvero a fare un salto di qualità.

Perché a Roma - e non solo - i Cinque Stelle hanno due possibilità.

Vivere alla giornata, gloriandosi di iniziative secondarie e titubando di fronte a scelte strutturali e improcrastinabili. Cercando di farsi meno nemici e inimicandosi tanti, amici e non amici. Estromettendo le voci critiche e ritrovandosi circondati dagli yes men e dagli adulatori. Affidandosi alle tecniche di distrazione di massa degli esperti di comunicazione anziché dire ai cittadini come stanno le cose. Pensando alle elezioni nazionali e non alla drammatica quotidianità dei cittadini romani.

Oppure andare dritti per la propria strada, scegliendo la trasparenza, il confronto democratico e la partecipazione della cittadinanza, senza temere il conflitto, né l'impopolarità. La strada di chi cerca di fare la cosa giusta e che per questo è sicuro di sé, anche se è disposto a mettere in discussione le proprie scelte quando è necessario.

Noi ci auguriamo che nel Movimento prevalgano le teste pensanti e non gli esperti di marketing.

«Organizzazioni come Il Piccolo Cinema America Occupato, e artisti come Carl Brave e Franco126 sono l'ultima difesa all' identità storica degli storici rioni capitolino, rimpiazzando la politica (che da tempo manca)». Linkiesta online, 27 luglio 2017 (c.m.c.)


«Prima era un paesone, ci conoscevamo tutti, ognuno con il suo mestiere. Oggi i figli dei miei amici artigiani non portano più avanti quelle attività. Non sono business che portano soldi». Ecco, i soldi. L’espressione amareggiata del tassista che parla della “sua” Trastevere anni ’70 potrebbe diventare il simbolo di quel fenomeno globale che prende il nome di gentrificazione. Un fenomeno che, per restare a Roma, sta da tempo trasformando - non senza polemiche - quartieri storici come Testaccio, Pigneto o la stessa Trastevere. Il primo effetto di questo processo è autoevidente: sovente gli abitanti originari di questi quartieri ormai imborghesiti sono costretti a trasferirsi nelle periferie, a causa dei prezzi immobiliari e canoni di locazione che schizzano alle stelle, insostenibili per chi in quei posti ci è nato e cresciuto.

La politica ci prova, a difendere l’identità di quartiere: soprattutto, attraverso norme anti-sfratto, per mantenere vivo lo spazio urbano in questi quartieri. Funziona? Non esattamente. A Trastevere, al posto delle storiche botteghe artigiani, hanno iniziato ad aprire toasterie, paninerie, baretti per turisti. Nel frattempo, si sono moltiplicate le case in affitto ad americani, che di Testaccio e Trastevere hanno sentito parlare solo in un recente film di Woody Allen.

Al netto della politica, però, la lotta vera è soprattutto sociale. A Berlino, Londra , New York sono attivi diversi gruppi organizzati anti-gentrification. In Italia, al solito, siamo un po’ in ritardo, ma qualcosa si sta muovendo. Ne dà testimonianza il workshop tenuto all’Univerisità Roma Tre dello scorso ottobre, riguardante il tentativo di elaborare una comprensione comune su come identificare il processo di gentrificazione e come applicare politicamente le teorie “anti-gentrification” con partecipazione di attivisti provenienti da città dell’Europa del sud.

A Trastevere, però, senza riferimenti politici a cui aggrapparsi, la lotta alla gentrificazione è un affare per giovani. Rapper, ad esempio, come il duo trasteverino Carl Brave e Franco126, con l’album indie hip hop intitolato Polaroid, che in realtà più che una lotta dichiarata alla gentrificazione di Trastevere, raccontano per immagini un’identità romana che solo chi è nato nel posto riesce a comprendere. Dimostrazione del senso di appartanenza che i ragazzi del quartiere ancora sentono.

Lo stesso si vede anche nel cinema. Piazza San Cosimato, cuore e anima della vecchia Trastevere, è ormai protagonista di una lotta culturale incominciata e promossa dai Ragazzi del Cinema America, in Via Natale del Grande, storico cinema Trasteverino. Frequentato da gente come Carlo Verdone, che racconta di aver coltivato lì le sue prime passioni per la cinematografia, è stato poi abbandonato per diversi anni e solo nel 2012 è stato occupato da alcuni ragazzi in protesta contro il piano di rimpiazzare le sale storiche per farne appartamenti. L’occupazione, durata più o meno due anni è stata appoggiata da moltissime figure storiche del quartiere, felici di ritrovare nei ragazzi una voglia di mantenere viva la memoria e l’anima di un posto come Trastevere. Alla fine, dopo una lunga serie di battaglie legali, i ragazzi sono riusciti a bloccare il piano di abbattere il cinema.

Da quel momento, da strumento di occupazione, Il Piccolo Cinema America Occupato si è trasformato in un’associazione. Nelle ultime due estati, l’organizzazione, per riportare la cultura nelle piazze ha promosso, ogni sera, una proiezione “free entry” (a ingresso libero) per chiunque. Spesso accompagnata da presentazioni condotte da personaggi celebri: si pensi solo a Carlo Verdone, a Roberto Benigni, Ennio Morricone e Francesco Bruni. L’intento è chiaro: riportare la cultura nelle piazze, spesso ricreando il significato che aveva il cinema per i veterani del rione.

È, insomma, un vero e proprio movimento sociale, prima ancora che politico. L’organizzazione del Piccolo Cinema America Occupato ricorda che per ricostruire l’autenticità di questi posti bastano due elementi: la cultura e i giovani, gli unici (per ora) capaci di arrivare a tutti. Dimostrando che la musica e la cultura funzionano, forse meglio di qualsiasi politica perché si aprono a un pubblico e a una coscienza civica che – almeno nella Capitale – sono merce più rara dell’acqua potabile.

Se la via Alessandrina sarà demolita, il progetto Fori - voluto da Cederna e Petroselli per ridare un altro volto alla città - sarà cancellato.

Stanno demolendo la via Alessandrina. È il colpo di grazia al Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica romana messa a punto fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. L’essenza del progetto è l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, la strada voluta da Benito Mussolini per collegare piazza Venezia al Colosseo e, sul piano retorico, per collegare l’impero romano al nascente impero fascista.

La prima idea di eliminare la strada era stata di Leonardo Benevolo che, in un libro del 1971, aveva suggerito di cancellare tutte le manomissioni operate ai danni del centro storico di Roma dopo l’unità d’Italia. Fu poi l’allora soprintendente archeologico Adriano La Regina che, nel denunciare i danni prodotti dal traffico ai monumenti romani, propose prima di eliminare le auto dalla via dei Fori Imperiali e subito dopo di demolire la stessa strada. La proposta fu raccolta dal sindaco Giulio Carlo Argan, da Antonio Cederna, Italo Insolera e da un grande numero di studiosi e intellettuali non solo italiani.

Ma a imporre il Progetto Fori al centro del dibattito politico, urbanistico e culturale fu Luigi Petroselli, sindaco dal settembre 1979 quando Argan si dimise. L’esordio di Petroselli in materia di archeologia fu lo smantellamento di via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il comune eliminò il piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. Ma Petroselli voleva anche che la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi e dei ceti borghesi ma di tutto il popolo di Roma, anche di quello più sfavorito. Perciò l’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore nel febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana di Renato Nicolini.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciò a morire anche il Progetto Fori. Dopo di lui, tutti gli amministratori degli ultimi trent’anni hanno continuato a evocare il Progetto Fori, che non aveva però più niente a che fare con l’idea geniale e originaria di Adriano La Regina, Antonio Cederna e Luigi Petroselli di demolire la strada fascista e ricostituire l’unitarietà dell’area archeologica (Foro Romano e Fori Imperiali), non più intesa come monumento né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come spazio pedonale nel cuore della città moderna.

Non è possibile adesso – in questo momento di emergenza determinato dai lavori di smantellamento della via Alessandrina – riprendere il dibattito sui necessari aggiornamenti all’originario Progetto Fori. Interessa solo ricordare che negli ultimi anni si è realizzata un’ampia convergenza sul fatto che nulla impedisce di mettere mano allo smontaggio della via dei Fori Imperiali, sapendo che per le esigenze transitorie di ordine logistico fra piazza Venezia e largo Corrado Ricci si può utilizzare la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa voluta da Benito Mussolini.

Chiediamo pertanto alla sindaca Virginia Raggi e al ministro Dario Franceschini di provvedere immediatamente alla sospensione dei lavori di demolizione della via Alessandrina e al ripristino del precedente stato di fatto.

Alberto Asor Rosa
Piero Bevilacqua
Anna Maria Bianchi
Pier Luigi Cervellati
Filippo Coarelli
Vittorio Emiliani
Vezio De Lucia
Maria Pia Guermandi
Adriano La Regina
Paolo Maddalena
Tomaso Montanari
Rita Paris
Edoardo Salzano
Enzo Scandurra
Walter Tocci
Fausto Zevi

Associazione Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, Emergenza Cultura

Demolire la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa mussoliniana capace di risolvere i problemi di traffico in alternativa alla via dei Fori imperiali, impedisce di smontare quest'ultima e perciò di realizzare il progetto Fori.

Stanno demolendo la via Alessandrina. È il colpo di grazia al Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica romana messa a punto fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. Il progetto consiste, in primo luogo, nell’eliminazione della via dei Fori Imperiali, la strada voluta da Benito Mussolini, “dritta come la spada di un legionario”, per collegare piazza Venezia al Colosseo e, sul piano retorico, per collegare l’impero romano al nascente impero fascista.

La prima idea di eliminare la strada era stata di Leonardo Benevolo che, in un libro del 1971, aveva suggerito di cancellare tutte le manomissioni operate ai danni del centro storico di Roma dopo l’unità d’Italia. Fu poi l’allora soprintendente archeologico Adriano La Regina che, nel denunciare i danni prodotti dal traffico ai monumenti romani, propose prima di eliminare le auto dalla via dei Fori Imperiali e subito dopo di demolire la stessa strada. La proposta fu raccolta dal sindaco Giulio Carlo Argan, da Antonio Cederna, Italo Insolera e da un grande numero di studiosi e intellettuali non solo italiani.

Ma a imporre il Progetto Fori al centro del dibattito politico, urbanistico e culturale fu l’elezione a sindaco nel settembre 1979 di Luigi Petroselli, quando Argan si dimise. L’esordio di Petroselli sui problemi dell’archeologia fu lo smantellamento di via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il Comune eliminò il piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. L’azione di Petroselli era collocata in uno spazio politico-concettuale più ampio di quello urbanistico e cioè di accorciare le distanze fra il mondo marginale delle periferie e la città riconosciuta come tale, e perciò voleva che anche la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi e dei ceti borghesi ma di tutto il popolo di Roma, anche quello più sfavorito. Perciò l’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore nel febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciarono a morire il Progetto Fori e l’immaginazione al potere. Con la scomparsa del sindaco, veli sottili di opportunismo e di circospezione avvolsero lentamente il progetto, i tempi si prolungarono all’infinito. Il parco archeologico centrale a mano a mano ha perso senso. In verità tutti gli amministratori degli ultimi trent’anni hanno continuato a evocare il Progetto Fori, che non aveva però più niente a che fare con l’idea geniale e originaria di Adriano La Regina, Antonio Cederna e Luigi Petroselli di demolire la strada fascista e ricostituire l’unitarietà dell’area archeologica (Foro Romano e Fori Imperiali), non più intesa come monumento né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come spazio pedonale nel cuore della città moderna.

Non è possibile adesso – in questo momento di emergenza determinato dallo smantellamento della via Alessandrina, mentre è in corso una mobilitazione di intellettuali – riprendere il dibattito sui necessari aggiornamenti all’originario Progetto Fori. Interessa solo ricordare che negli ultimi anni si è realizzata un’ampia convergenza sul fatto che nulla impedisce di mettere mano allo smontaggio della via dei Fori Imperiali, sapendo che per le esigenze transitorie di ordine logistico fra piazza Venezia e largo Corrado Ricci si può utilizzare la via Alessandrina, la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa voluta da Benito Mussolini. Che oggi la sindaca Raggi e il ministro Franceschini stanno cancellando. Definitivamente cancellando il Progetto Fori e la più bella idea per l’urbanistica di Roma da quando è capitale d’Italia.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto


«Beni immobiliari indisponibili. Il collegio del Lazio rigetta l’accusa di danno erariale formulata contro le associazioni e adottata dal Campidoglio. Le organizzazioni sfrattate dagli immobili capitolini potrebbero fare causa al Comune». il manifesto, 19 aprile 2017 (c.m.c.)

Gli spazi sociali romani sotto sfratto hanno vinto una battaglia fondamentale, forse decisiva, nella guerra dei Commons: il presidente della Corte dei Conti del Lazio ha detto no. Con le sentenze depositate ieri riguardanti due dei 20 casi attualmente pendenti sui 230 complessivi, quelli delle associazioni «Agorà 80» e «Anche tu insieme», il collegio giudicante per la Regione Lazio ha detto no al procuratore Guido Patti, colui che ha montato un castello accusatorio pesantissimo contro i dirigenti capitolini che hanno gestito in passato il patrimonio non disponibile del Comune di Roma in concessione per usi sociali e culturali.

Ha detto che il danno erariale semplicemente non c’è, non sussiste, sfilando la pietra angolare di tutto il castello, in quanto la tesi del procuratore contabile è che quelle concessioni, in parte scadute, in parte mai del tutto regolarizzate, o che comunque presentano dei vizi formali, avrebbero dovuto pagare un canone di mercato per l’intero periodo di usufrutto.

Hanno vinto i dirigenti e gli avvocati, tra cui i bravissimi Pino Lo Mastro e Stefano Rossi, ma anche diverse avvocatesse giovani e agguerrite, che il 6 aprile scorso avevano sostenuto 8 ore di dibattimento, duettando fino allo sfinimento con un Patti glaciale, inflessibile, che aveva manifestato gli unici segni di emotività rivolgendo battute verso il pubblico delle associazioni presenti in aula: «Vi siete portati la claque». Ricambiato da una risata fragorosa di tutta l’aula quando, excusatio non petita, aveva affermato di non avere intenti persecutori verso le associazioni.

Hanno vinto le associazioni, che possono essere più fiduciose nel fatto che le richieste di risarcimenti milionari a loro rivolte da parte del Comune non abbiano alcuna conseguenza. E anzi, rischiano di mettere in una posizione legale molto scomoda l’amministrazione capitolina. Se infatti le sentenze saranno confermate in appello e se faranno giurisprudenza, come è assai probabile, visto il peso della giudice che l’ha emessa, la presidente Piera Maggi, e visto che i due casi giudicati coprono un po’ tutte le fattispecie, il Comune si troverà con centinaia di intimazioni emesse verso le associazioni prive di ogni base legale. Con il rischio di trovarsi presto a parti invertite, inseguito da centinaia di cause civili intentate dalle associazioni contro il Campidoglio per la definizione del giusto canone e per richieste di risarcimenti in ragione di provvedimenti infondati e vessatori, soprattutto da parte di chi, per la minaccia subita, ha già lasciato gli spazi.

Sono già tre le associazioni che stanno avviando cause civili per la definizione del giusto canone, tra cui la «Mario Mieli», che quasi certamente vinceranno così che il Comune dovrà cominciare a perdere soldi in spese legali. Ma sono ben più ingenti i danni attuali e potenziali che sta già scontando la collettività per le azioni amministrative ispirate dagli insensati criteri della procura contabile, e assecondate altrettanto scriteriatamente dal Comune, dirigenza e giunta messi insieme. Se ne può avere un’idea prendendo il caso del Sant’Egidio, che ha lasciato i locali di Nuova Ostia in cui operava a causa delle diffide al rilascio del Comune con richiesta di risarcimento parametrato sul canone di mercato. In quel caso i danni sono 4 in uno. La perdita di un presidio di legalità e welfare in un quartiere con enormi fragilità sociali; le mancate entrate del canone di concessione, seppur non altissimo; i danni legati al degrado in cui sta rapidamente cadendo lo spazio che naturalmente è già stato occupato da “senza tetto”, e infine il rischio di una causa da parte di Sant’Egidio per tutta questa vicenda.

Nelle sentenze, si motiva l’annullamento del danno erariale sostenendo, come già spiegato dal manifesto, che l’irregolarità formale della concessione non può essere parametrato sul valore di mercato semplicemente perché si tratta di patrimonio classificato come indisponibile, e cioè vincolato a usi sociali e istituzionali, e perciò non poteva in ogni caso essere messo a reddito, neanche se le associazioni senza titolo fossero state sfrattate dai dirigenti, come avrebbe voluto Patti, non a caso accusato dalla rete di organizzazioni (oltre 50) di «abuso della funzione inquirente», nell’esposto presentato alla Corte dei Conti.

Ora le associazioni attendono che il Comune non solo revochi in autotutela tutte le diffide, ma che provveda rapidamente a verificare il valore sociale delle attività svolte negli spazi in concessione. E, contestualmente alla restituzione agli usi collettivi degli spazi inutilizzati o affidati ad associazioni inesistenti, immediatamente regolarizzi, con tante scuse, tutte le associazioni. E senza bando, come è nelle sue prerogative. Checché ne dica Patti.

Ampia analisi critica di un libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani su
l'urbanistica romana nel quadro di una riflessione sull'intricato nodo del rapporto pubblico/privato.
casadellacultura.it, ciclo "città bene comune"10 marzo 2017 (p.d.)

L'agile libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani, Roma disfatta. Perché la capitale non è più una città e cosa fare per ridarle una dimensiona pubblica, è stato pubblicato per i tipi di Castelvecchi nel maggio del 2016, giusto un mese prima delle elezioni comunali che - dopo la traumatica interruzione della sindacatura di Ignazio Marino conclusasi in bilico tra dimissioni e defenestrazione per mano amica - segneranno la netta vittoria della candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi.
Ciò nonostante, il libro sembra volersi estraniare dalle turbolenze delle vicende politico-amministrative più immediate e controverse per svilupparsi in un gradevole dialogo tra un urbanista esperto conoscitore delle più intricate vicende tecnico-procedurali dell'urbanistica romana e un giornalista specializzato nella divulgazione di temi relativi all'architettura, l'urbanistica, il paesaggio e la tutela e valorizzazione dei beni culturali.

Il dialogo prende così uno scorrevole respiro tra Erbani che interpella e sollecita e De Lucia che, sul filo della memoria, mette in fila fatti, ricordi, analisi e riflessioni in una visione di lungo periodo che prova a fissare in brevi tratti una serie di fasi, periodi e tendenze.

Si ripercorre così il periodo che va dagli anni cinquanta fino all'amministrazione Marino, soffermandosi soprattutto sulle battaglie di tutela e valorizzazione delle zone archeologiche da parte di Antonio Cederna: un intellettuale che riuscì a far coagulare un ampio consenso su una serie di positive proposte, promosse, ottenute e realizzate (anche se spesso solo parzialmente) dalle giunte Argan, Petroselli, Rutelli e Veltroni, sino all'esplicita inversione di rotta della giunta Alemanno. Un'inversione le cui premesse, tuttavia, erano già visibili in nuce in quella filosofia del "pianificar facendo" su cui si improntò il piano regolatore promosso ed approvato dalla seconda giunta Veltroni caratterizzato da un approccio che non verrà più rimesso in discussione, neppure dalla successiva giunta Marino e dal suo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo.

Come icasticamente sintetizza De Lucia: "L'urbanistica di Walter Veltroni e del suo predecessore Francesco Rutelli si è sviluppata sulla base di accordi fra l'amministrazione pubblica e i privati possessori di aree. Lo hanno definito il "pianificar facendo". La perdita di forma che Roma andava assumendo ha ricevuto il sigillo dall'ultimo - e il peggiore - piano regolatore della sua storia, quello del 2008. E che nei fatti non pianificava granché, visto che prendeva atto di quel che si era già deciso e a quelle contrattazioni forniva un superiore avallo amministrativo. Il successo di Gianni Alemanno - osserva De Lucia - è stato in gran parte strappato nei luoghi in cui Roma perdeva le caratteristiche più proprie di una città". Una volta eletto, però, "Alemanno si è trovato a gestire un piano regolatore che aveva già quasi consumato le proprie previsioni edificatorie. Pressato da più parti, ha provato ad aggiungere dell'altro, ad andare oltre le dimensioni fissate in quel documento. E ha usato le norme contenute nello stesso piano e che consentivano di superarlo. Dove ha potuto, ha forzato, gonfiato ciò che spettava ai privati sottraendolo al pubblico. […] Nel programma di Ignazio Marino - prosegue De Lucia - era contenuta l'intenzione di fermare questa disseminazione del cemento nella campagna romana e di invertire la rotta mettendo mano alle aree già costruite, ma malamente. Un proposito di discontinuità con il passato di Alemanno, ma anche di Rutelli e Veltroni. Un proposito in qualche misura rispettato […] per iniziativa dell'assessore Caudo. Poi però il proposito è stato negato dalla decisione di collocare arbitrariamente a Tor di Valle il nuovo stadio della Roma [con la contestuale edificazione di tre torri alte 200 metri di terziario, per un edificazione totale di 1 milione di metri cubi, N.d.A] il cui interesse pubblico è tutto da dimostrare" (pp. 10-11).

Si tratta della stessa questione, ancora irrisolta, con cui si trova ad avere a che fare oggi Virginia Raggi. Una faccenda talmente spinosa che - almeno fino al momento in cui scriviamo - pare gestita in prima persona dalla sindaca e con un ristretto staff fiduciario: per esempio nella contrattazione di una più o meno consistente riduzione delle volumetrie terziarie chieste in contropartita alla realizzazione dello stadio privato di una società calcistica proprietà dell'italo-americano James Pallotta - uno dei promotori finanziario-immobiliari dell'operazione - condotta tentando di estromettere dal processo decisionale il proprio assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini. Quest'ultimo, che - osserva De Lucia - in un suo libro del 2008, La città in vendita (Donzelli), aveva già denunciato questo modo di procedere come "la degenerazione del nuovo piano regolatore che è diventato "il piano dell'offerta", per mettere a disposizione del mercato finanziario internazionale gli affari immobiliari possibili nella capitale" (p. 46), ha invece ribadito, anche recentemente, che tutto ciò che vi si può edificare è quanto già previsto dal piano regolatore. Ha cioè cercato di stoppare in anticipo qualsiasi ipotesi di contrattazione integrativa tra proprietari delle aree o sviluppatori immobiliari e pubblica amministrazione volta ad ottenere un aumento delle volumetrie edificabili e dunque maggiori possibilità di guadagno.

Secondo De Lucia: "a spingere verso la dilapidazione del territorio [della capitale] ha contribuito l'invenzione del "pianificar facendo", l'ossimoro che ha compagnato la formazione del nuovo piano. Il "pianificar facendo" - osserva - ha legittimato interventi di ogni genere e di ogni misura, in ogni angolo del territorio comunale. [Lo stesso] Paolo Berdini, nel libro Giubileo senza città, ha documentato come, attraverso i programmi di riqualificazione e di recupero urbano (e gli altri istituti derivati dall'accordo di programma, con l'uso disinvolto della legge per Roma Capitale e di altre possibilità di deroga, già prima dell'adozione erano stati autorizzati quasi 52 milioni di metri cubi (quasi i tre quarti delle future previsioni di piano). […] Quando finalmente è stata completata le stesura del nuovo piano, non c'era molto da aggiungere alle decisioni maturate prima" (p. 36).

In altri termini - afferma Erbani - "Nella sostanza il piano non pianifica. Ratifica. Non investe sul futuro, regola i conti con il passato. Non interviene per definire l'assetto della città, non ha una visione, ma prende atto di quello che è maturato negli accordi fra l'autorità pubblica e la proprietà fondiaria e fornisce un involucro capiente. Non concepisce la città come un sistema in cui tout se tient e dove è necessario bilanciare i pesi, ma sancisce che i pesi possono distribuirsi dove capita o, meglio, dove li collocano gli interessi privati, che non si subordinano all'interesse generale, ma che si cerca in vario modo di disciplinare, come farebbe il vigile a un incrocio. È - conclude - un piano regolatore che non è generale, ma assembla tanti piani particolari. Proclama buone intenzioni, ma non le progetta" (p. 36).

Ho potuto toccare con mano questa situazione quando, tra il dicembre 2014 e il marzo 2015, (trovandomi spesso a Roma per motivi familiari e terapeutici) ho deciso di mia spontanea iniziativa di frequentare il laboratorio partecipativo promosso dall'assessore all'urbanistica Caudo per definire i dettagli dell'accordo di programma per il riuso dell'area dell'ex Fiera di Roma sulla Cristoforo Colombo nei pressi dell'EUR, dopo il trasferimento delle attività fieristiche nel nuovo polo di Ponte Galeria sulla Roma-Fiumicino. Contavo di potervi portare l'esperienza maturata a Milano nella critica al mancato controllo degli esiti urbanistici e progettuali relativi al riuso dell'area dell'ex Fiera di Milano anche per effetto dagli incongrui indici edificatori assegnati (1,15 mq/mq). Indici che erano stati fissati solo sulla base delle aspettative di rendita fondiaria da parte di Fondazione Fiera (250 Milioni di €) che aveva la necessità di far fronte ai costi imprevisti nella realizzazione del nuovo polo di Rho-Pero. Qui le smodate e incontrollate bizzarrie di Fuksas nel progetto della spina vetrata centrale di accesso ai padiglioni espositivi avevano determinato una serie di problemi tecnici e contribuito a una significativa lievitazione dei costi dell'opera.

La situazione dell'ex Fiera di Roma era abbastanza simile, anche se relativa a un'area grande circa un terzo di quella dell'ex Fiera di Milano: l'indice edificatorio di circa 1 mq/mq era infatti stato fissato solo in relazione all'obiettivo di coprire i debiti di bilancio accumulatisi nella gestione del nuovo polo, al più con l'aggiunta della motivazione che ciò corrispondeva più o meno al volume dei padiglioni esistenti e dismessi. Anche a non voler addentrarsi nella considerazione che - a parità di volume edificato - il peso urbanistico/insediativo dei nuovi edifici terziari e/o residenziali in previsione sarebbe stato ben superiore di quello determinato dall'uso sporadico delle attività fieristiche nei padiglioni preesistenti, feci sommessamente rilevare che l'esito sarebbe stato - come all'ex Fiera di Milano - quello di edifici molto alti e molto densi, che avrebbero gravato in modo intollerabile sugli attigui tessuti edilizi della retrostante via dell'Accademia, costituiti da palazzine di tre-cinque piani. Se proprio non si voleva rideterminare in modo urbanisticamente più congruo l'indice edificatorio, la mia proposta era quella di introdurre prescrizioni di destinazione funzionale e tipo-morfologiche che concentrassero una prevalente quota di funzioni terziarie in edifici anche molto alti e densi sul lato della Cristoforo Colombo (larga più di 80 metri), lasciando una quota minore di residenza meno densa e di altezza più contenuta verso il lato opposto, quello via dell'Accademia, una strada di modesto calibro locale.

La risposta di chi rappresentava l'amministrazione nella conduzione del laboratorio partecipativo fu di netta opposizione. Si sostenne infatti che non si sarebbe dovuto condizionare così pesantemente la libertà imprenditiva e progettuale dell'attuatore edilizio-immobiliare della trasformazione dell'area. Mi rimane il fondato dubbio - anche considerando che Fiera di Roma nelle sue varie articolazioni è espressione di una società compartecipata dallo stesso Comune di Roma! - che ciò che non si voleva condizionare era la possibilità del conseguimento del massimo di rendita fondiaria a fronte delle mutevoli condizioni economico-finanziarie del mercato immobiliare.

L'assessore Berdini, poco dopo il suo insediamento, ha completamente scavalcato quell'obiezione facendo approvare dal Consiglio comunale il sostanziale dimezzamento - in conformità a quanto previsto dal piano regolatore per le aree edificabili - dell'indice edificatorio contrattato da Marino e Caudo. Si è così garantita la realizzazione di tutti gli spazi pubblici prescritti, con densità ed altezze edificatorie compatibili con i caratteri dei tessuti edilizi attigui e preesistenti, e - quindi - senza più la necessità di preventive prescrizioni funzionali e tipo-morfologiche che ne attenuassero gli effetti perversi. La reazione di Fiera di Roma è stata un ricorso al Tribunale Amministrativo per danni economici procurati al risanamento del proprio bilancio a seguito della mancata approvazione delle bozza di intesa precedente, esattamente come fatto da FS/Sistemi Urbani nei confronti del Comune di Milano a seguito della mancata ratifica consiliare della bozza di accordo di programma sugli ex scali ferroviari.

Tutto ciò la dice lunga sullo stato dei rapporti tra aspettative di rendita delle grandi proprietà fondiarie (anche di enti pubblici istituzionali) e ruolo di indirizzo pubblico. Quest'ultimo dovrebbe essere esercitato dai comuni solo sulla base di congruità ed opportunità di interesse generale negli assetti insediativi ed urbanistici del territorio. Quando (raramente) i comuni provano a sottrarsi alla riedizione della disastrosa prassi degli anni '50/'60 delle "convenzioni senza o contro i PRG" - una pratica progressivamente tornata a diffondersi dagli anni '90 in versione finanziarizzata 2.0 e ripropostasi con le reboanti e suadenti denominazioni di programmi integrati di intervento, progetti di riqualificazione urbana, accordi di programma - la reazione delle proprietà fondiarie è ferocemente indirizzata ai punti più dolenti della difficile situazione delle finanze locali: da un lato la richiesta di enormi indennizzi per danni economici arrecati e, dall'altro, l'offerta di modeste ma immediatamente conseguibili contropartite (rispetto alla dimensione economico-finanziaria in gioco) in termini di oneri ed opere di urbanizzazione.

Insomma, anche questo esempio dimostra che ha ragione De Lucia quando afferma che a Roma "la storia dell'ultimo PRG comincia nel 1993 e dura quasi tre lustri, durante i quali il governo della capitale si è collocato in uno spazio politico e culturale ambiguo. Mentre a Milano, per esempio - capitale indiscussa della controriforma [urbanistica, N.d.A] - la preferenza per l'urbanistica contrattata è stata formalmente ed esplicitamente contrapposta al governo pubblico del territorio, a Roma è prevalsa invece una linea subdola, si è continuato a professare adesione alla pianificazione canonica mentre, sopra e sottobanco, si è praticata la medesima urbanistica contrattata di Milano" (p. 33).

Ciò che sorprende nell'acuta disamina della vicenda romana condotta nel dialogo tra De Lucia ed Erbani è che via via che ci si avvicina alle vicende più prossime - come si è detto, con l'esclusione forse voluta di quelle di più immediata attualità elettorale - sembra manifestarsi una sorta di presbiopia. Mi chiedo cioè come sia possibile che le ricostruzioni siano precise, puntuali e dettagliate su nomi, fatti e circostanze degli episodi più lontani e, invece, nella pur estremamente pertinente critica alla fase del "pianificar facendo" ci si limiti a citare il nome e la responsabilità dei sindaci che l'hanno avallato politicamente e non quello di coloro che l'hanno teorizzato, giustificato e praticato sul piano culturale e tecnico nella redazione del piano regolatore generale di Roma. Non si tratta di un fatto secondario, perché se è vero che nelle pratiche di pianificazione e governo del territorio ci sono le responsabilità politiche di quanti governano la cosa pubblica, è altrettanto vero che non possiamo dimenticare le responsabilità tecniche, o meglio culturali, in questo caso ascrivibili a quegli urbanisti che hanno messo a punto il piano, ovvero a Giuseppe Campos Venuti e al suo delfino accademico e professionale Federico Oliva. Dico questo per amore di chiarezza e verità storica, ma devo anche dire che la mia preoccupazione principale è di natura culturale e riguarda il destino, non dei pianificatori, ma dell'urbanistica italiana. Il piano di Roma ha infatti legittimato l'assunzione diffusa, anche da parte di amministrazioni locali tradizionalmente attente a praticare una pianificazione ad indirizzo pubblico, di quel particolare modo di intendere la pianificazione. Se non si porta la critica alla radice di questo atteggiamento rinunciatario alla definizione di un'idea di dimensione pubblica del progetto della città, difficilmente sarà possibile indicare una strada che proponga un'alternativa all'indefinita prosecuzione di singole contrattazioni sul futuro di parti di città.

Invece, la sola indicazione che negli ultimi capitoli del libro viene da parte degli autori per ritrovare un destino di dimensione pubblica della capitale è quella del rilancio strategico del suo ruolo turistico e culturale attraverso la ripresa del Progetto Fori e del parco dell'Appia Antica come "colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di "Roma moderna", (...) la vera "Roma futura"" (p. 124). Pur riconoscendo che la dimensione, anche territorialmente rilevante, dell'ambito archeologico-turistico-culturale continuerà sempre più a rappresentare un fattore determinante della forma urbana ed insediativa della Capitale, non posso non rilevare come - rispetto alla dimensione complessiva del problema urbano ereditato dalle vicende ripercorse nel libro e così ben rappresentato nelle mappe che ne illustrano l'estensione - ciò costituisca un'indicazione che, in questa prospettiva, appare parziale e riduttiva. È forse questo senso di incompiutezza del ragionamento, questa mancanza di una propositività complessiva sui destini di Roma che più si coglie concludendo quella che, pur con questi limiti, rimane un'interessante e piacevole lettura.

P.S. Tra la stesura di questo commento e la sua pubblicazione sono intervenute due novità rilevanti: le dimissioni dell'assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini – che riteneva troppo arrendevoli gli orientamenti della sindaca Raggi favorevoli a una parziale riduzione delle edificazioni non connesse alle attività calcistiche – e l'annuncio da parte della sindaca di un accordo raggiunto con la proprietà dell'area per il dimezzamento delle volumetrie inizialmente previste e l'eliminazione delle tre torri da 200 metri di altezza. La Raggi e il M5S vantano come un positivo compromesso il dimezzamento delle volumetrie e la contestuale riduzione di opere di trasporto pubblico e accesso all'area, ma sia la versione “estremistica” dell'ex assessore Caudo (che riteneva indispensabili tutte le opere pubbliche da lui previste e che per questo era disposto a concedere qualunque edificazione fosse in grado di sostenerne l'onere) sia quella “compromissoria” di Raggi/M5S sono pur sempre conseguenze della logica dell'urbanistica contrattata: se mi fai fare di meno, ti do di meno. Invece, il criterio corretto sarebbe: se servono molte opere per rendere accessibile e sicura l'area e l'intervento ammissibile non è in grado di sostenerne il peso economico è bene non farlo lì, ma da un'altra parte. Come mi capita spesso di far osservare non è affatto detto che il 50% di una follia sia qualcosa di ragionevole: talvolta è mezza follia, ma assai più spesso è addirittura una follia e mezza!


«Un puntuale confronto tra la delibera del 2014 e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As Roma». Il Fatto Quotidiano online, 9 marzo 2017 (c.m.c.)

Come cambia il progetto dopo l'intesa tra la giunta M5S e la società giallorossa? Ecco un confronto tra la delibera del 2014 e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As Roma. La prima prevedeva 16 treni/ora con il prolungamento della metro B e aumento dell'offerta sulla Roma-Lido. Ora, stando alle dichiarazioni della sindaca, la Roma realizzerà la nuova stazione Tor di Valle e un paio di treni nuovi, ma nulla più. Così dovrà intervenire la Regione, che ha già finanziato per 180 milioni il restyling della linea. Il Ponte di Traiano, in origine a carico dei privati, verrà costruito con 140 milioni già stanziati dal Cipe per il Ponte dei Congressi .

Un fine accordo politico o un regalo ai costruttori? La partita dello stadio della Roma è tutt’altro che chiusa. Virginia Raggi, dopo l’intesa di massima raggiunta con i vertici della società giallorossa e dell’Eurnova Spa di Luca Parnasi, dovrà lavorare per il prossimo mese per trasformare il procedente progetto in un piano compatibile con la visione politica del M5S e sostenibile dal punto di vista dei trasporti e dei servizi alla città.

La sindaca oggi è stretta fra due fuochi: da una parte i sostenitori del vecchio progetto, con a capo l’ex primo cittadino Ignazio Marino, che le rinfacciano di aver sacrificato opere pubbliche fondamentali per recuperare cubature verticali (le famose torri di Libeskind) che non consumano suolo; dall’altra, gli oltranzisti del M5S, che avrebbero voluto l’annullamento completo della delibera-stadio e la proposta di un nuovo sito (Pietralata o Tor Vergata), continuando a considerare il nuovo accordo una “mera speculazione edilizia”. Il Fatto Quotidiano.it ha passato al setaccio la delibera di Marino e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As – confermata in più punti dal vicepresidente della commissione capitolina Mobilità, Pietro Calabrese – confrontando punto per punto il “prima” e il “dopo”, tenendo sempre presente che si tratta di un piano informale ancora suscettibile di modifiche.

Impianti sportivi

Delibera Marino – Partiamo dalla parte sportiva, quella essenziale. Nella delibera del 2014 si prevede lo stadio vero e proprio da 60.218 posti, con il campo da calcio e l’area sottostante per i servizi (uffici, reception, sala conferenze, ecc). L’impianto è previsto al posto dell’attuale ippodromo, la cui tribuna, realizzata dall’architetto Julio Lafuente nel 1959, è interessata da un’istruttoria di vincolo da parte del Ministero Beni Culturali. Di fianco, c’e’ la cosiddetta Nuova Trigoria, con i campi di allenamento, la Hall of Fame giallorossa e altri servizi utili alla società. Quindi, tutte le opere a supporto, come la connettività interna, i parcheggi pubblici in standard Coni e gli altri servizi minimi come fognature ed elettrodotti.

Bozza accordo Raggi – La modifica più importante potrebbe riguardare il numero dei posti a sedere, che scenderebbero a quota 55.000: lo Juventus Stadium ne conta 41.507. Basteranno? Quest’anno la Roma ha fatto registrare appena 18.000 abbonati, contro i 23.000 della stagione 2015/2016 e i 26.000 del campionato 2014/2015, numeri però “drogati” dalla contestazione anti-barriere all’Olimpico. Seppure siano lontani i tempi del record dei 48.687 nell’annata 2002/2003, una squadra molto competitiva e un impianto accogliente potrebbero spingere tranquillamente il numero dei tesserati oltre quota 30.000. Inalterato il progetto della Nuova Trigoria con i campi e il museo. Prevista anche una contestuale lieve riduzione dei parcheggi. Lo stadio non dovrebbe essere spostato rispetto al progetto precedente.

Business park e commerciale
Delibera Marino – La parte più controversa di tutta la vicenda. Come si evince dalla cronologia della delibera 132/2014, il carico di cubature verticali fu proposto dalla giunta Marino alla Eurnova Spa per aumentare le opere civili da realizzare a suo carico e giustificare l’interesse pubblico dell’opera. Da questo presupposto nascevano le tre torri disegnate dall’archistar Daniel Libeskind, alte 100 metri e “ispirate a Piranesi”, le quali andavano a comporre una parte dei 336.000 mq (contro i 49.000 mq della parte sportiva) destinati ad un’area commerciale situata a nord dell’impianto.

Bozza accordo Raggi – Come noto, le torri di Libeskind sono state cancellate di netto dal progetto. Questo ha permesso alla giunta Raggi di recuperare il 50% delle cubature totali, il 60% se consideriamo solo l’area business. Di gran lunga inferiore il risparmio sul consumo del suolo, dato che al posto delle torri dovrebbero essere realizzati tre edifici da massimo 10 piani, in linea con la definizione di “skyline” vigente nella Capitale, che non vuole strutture più alte della Cupola di San Pietro. Il taglio, comunque sia, dovrebbe permettere al progetto di rientrare nel limite di edificazione di 300.000 mq previsto dal piano regolatore generale per l’area di Tor di Valle, considerando che anche i parcheggi e gli altri servizi (non dovendo servire più grattacieli da decine di piani) saranno ridimensionati.

Trasporto su ferro

Delibera Marino – Previsto il potenziamento dell’offerta di trasporto pubblico su ferro a servizio dell’area di Tor di Valle e della città con frequenza di 16 treni/ora nelle fasce orarie di punta, attraverso il prolungamento della linea B della Metro fino a Tor di Valle – costo stimato di 50,45 milioni di euro – e contestuale potenziamento della ferrovia Roma-Lido, “prevedendo tutti gli interventi di ammodernamento e di attrezzaggio necessari al raggiungimento del livello di esercizio di cui sopra”, con l’adeguamento della nuova stazione di Tor di Valle e la realizzazione di un collegamento ciclo-pedonale con la stazione ferroviaria di Magliana sulla linea FL1 (costo stimato di 7,5 milioni di euro). Da valutare, in una fase successiva, anche un ulteriore prolungamento della Metro B fino alla stazione della FL1 di Muratella.

Bozza accordo Raggi – Salta completamente il prolungamento della linea B: ciò vuol dire che per raggiungere lo stadio in metropolitana bisognerà scendere a Piramide e poi prendere la Roma-Lido. Il trenino per Ostia ora è il vero nodo. Stando alle dichiarazioni congiunte Raggi-Baldissoni, la Roma assicurerà la realizzazione della nuova stazione Tor di Valle e un paio di treni nuovi. Non molto. La Roma-Lido è la peggiore tratta pendolari d’Italia (dati Legambiente) e dovrà portare 30mila persone allo stadio. Di vitale importanza, a questo punto, diventa il progetto della Regione Lazio che ha già finanziato per 180 milioni il completo restyling della linea: il piano esecutivo, non collegato al progetto-stadio, sarebbe dovuto partire a maggio con un bando di gara, ma pesa sulla vicenda il ricorso della società francese Ratp, che si è vista bocciare il project financing in conferenza dei servizi. Dall’entourage di Nicola Zingaretti assicurano di essere in grado di alzare la frequenza fino 12 treni/ora (uno ogni 5 minuti). “Il primo stanziamento di 180 milioni per trasformare la Roma Lido in metro di superficie – spiega Calabrese – opera su cui vigileremo con la massima attenzione, fa parte di un programma più ampio che arriva fino a 400 milioni e che modernizzerà la linea per chi va allo stadio, ma soprattutto per i 300mila romani che vivono nel X Municipio”. Allo stato attuale, tra l’altro, non risulta compreso nell’accordo il collegamento ciclopedonale con la stazione ferroviaria di Magliana, che a sua volta serve il treno regionale per l’aeroporto di Fiumicino (difficile da potenziare): un’opera poco costosa – appena 7,5 milioni – ma fondamentale, che però non dovrebbe avere difficoltà ad essere reinserita. “Il ponte ciclopedonale rimane – assicura ancora il consigliere M5S – come rimangono tutte le altre realizzazioni minori, e le clausole, fra cui il completamento delle opere pubbliche prima delle private, così come peraltro previsto per legge”.

Viabilità stradale

Delibera Marino – La giunta di centrosinistra aveva imposto ai privati l’adeguamento di Via Ostiense e Via del Mare – le due strade sono parallele e adiacenti – fino al raccordo con il GRA, per un costo stimato di 38,6 milioni, più interventi per la messa in sicurezza nel tratto urbano fino al nodo di Marconi. Inoltre, si pretendeva la realizzazione di un nuovo tratto di raccordo tra l’autostrada Roma-Fiumicino (viadotto della Magliana) e Via Ostiense/Via del Mare, con un nuovo ponte sul Tevere (cosiddetto Ponte di Traiano), compreso lo svincolo di connessione con la Roma-Fiumicino, costo stimato di 93,7 milioni di euro. Il nuovo ponte sarebbe andato ad aggiungersi al Ponte dei Congressi, distante un paio di chilometri e già finanziato dal Cipe per 140 milioni di euro.

Bozza accordo Raggi – Resta sicuramente l’adeguamento di Via Ostiense e Via del Mare, pare però solo fino alla zona dello stadio: è possibile che il Comune debba addossarsi il costo dei restanti 2 km. Ipotesi rigettata da Calabrese: “L’adeguamento delle vie del Mare/Ostiense, che nella delibera Marino era previsto dal Gra solo fino a Tor di Valle, è stato esteso al nodo Marconi”. Per quanto riguarda i collegamenti con l’altra riva del Tevere, non è stato nominato nelle priorità lo svincolo del viadotto della Magliana. Ciò vuol dire che toccherà alla parte pubblica accollarselo. Il Comune di Roma ha intenzione chiedere al Cipe di rinunciare ai 140 milioni stanzianti per il Ponte dei Congressi – che ha ricevuto parere favorevole, ma che deve essere quasi riprogettato per via delle numerose prescrizioni – e di destinare quei fondi al Ponte di Traiano, il cui progetto verrebbe “regalato” dalla Roma. “In base a varie simulazioni sui flussi – spiega il consigliere – verrà realizzato un solo ponte sul Tevere. Abbiamo già appurato che con le economie sul ponte dei Congressi si potranno realizzare altre opere per rendere adeguato il sistema della mobilità pubblica su ferro nella stessa area”. Il problema è che l’opera finirebbe nella cosiddetta “Fase 2” a cui ha accennato Virginia Raggi, non vincolata al primo calcio d’inizio nel nuovo impianto.

Collegamento fluviale

Delibera Marino – Nella previsione di rendere il Tevere navigabile, la giunta Marino aveva chiesto alla Roma di prevedere anche la realizzazione di due attracchi per imbarcazioni fluviali gestite da un’azienda comunale, uno a servizio del nuovo Parco Fluviale e uno a servizio dello stadio.

Bozza accordo Raggi – L’approdo fluviale è stato stralciato dal nuovo accordo, anche in relazione alle controindicazioni poste dall’Autorità di Bacino del Tevere.

Parco del Tevere

Delibera Marino – La delibera 132 impone alla Roma di realizzare un “landscape plan” per “tutti i 34 ettari di parco che circondano l’area e si affacciano sul Fiume Tevere”. L’idea è di creare un parco fluviale con un importante sistema di videosorveglianza a copertura di tutta l’area.

Bozza accordo Raggi – Il progetto del parco fluviale è stato confermato ma il Comune di Roma, se lo riterrà necessario, dovrà provvedere autonomamente alla videosorveglianza.

Rischio idraulico

Delibera Marino – La delibera prevede un investimento di 5 milioni per la messa in sicurezza idraulica del Fosso di Vallerano e il consolidamento dell’argine del Tevere nei pressi della confluenza del fosso. L’opera è fondamentale perché oggi l’area dove dovrebbe sorgere lo stadio fa da “bacino” per le acque piovane e di esondazione del fiume, le quali altrimenti provocherebbero l’alluvione del quartiere di Decima.

Bozza accordo Raggi – L’opera è stata confermata e messa in cima alle priorità del nuovo patto.

Rischio idrogeologico
Delibera Marino – Negli atti ufficiali approvati in Campidoglio non c’e’ traccia di alcun rischio idrogeologico inerente i terreni dove sono previsti lo stadio e il business park.

Bozza accordo Raggi – Durante la conferenza dei servizi in Regione Lazio, le associazioni ambientaliste hanno più volte fatto presente il rischio di tenuta degli edifici previsti rispetto a un’area alluvionale nell’ansa del Tevere. Un rischio, tuttavia, mai certificato da alcuna prescrizione tecnica in merito. L’argomento era stato ripreso, in parte, dal leader del M5S, Beppe Grillo, che nelle ore immediatamente precedenti all’accordo aveva anche ipotizzato uno spostamento del progetto stadio da Tor di Valle. Comunque sia, lo stralcio delle torri di Libeskind ha mitigato anche i timori dei più “diffidenti”.

Ecocompatibilità edilzia

Delibera Marino – All’ultimo punto delle prescrizioni contenute in delibera, si afferma testualmente che “per tutte le opere relative al progetto di realizzazione dello stadio e del complesso edilizio ad esso connesso, è obbligatoria l’adozione di materiali da costruzione ecocompatibili e di tecnologie, le più avanzate messe a disposizione dalla ricerca scientifica, per l’ottenimento del massimo dell’efficienza e risparmio energetico, con il ricorso alle fonti rinnovabili e agli apparati tecnologici di ultima generazione”.

Bozza accordo Raggi – Il concetto è stato confermato e ribadito da Virginia Raggi a margine del nuovo accordo. “Stiamo trattando per ottenere tutti gli edifici in categoria Casa Clima A – conferma Calabrese – spazi aperti con standard qualitativi massimi, e in convenzione sarà fondamentale stabilire i criteri progettuali propri dell’architettura bioclimatica e della permacultura”.

Proprietà dello stadio

Delibera Marino – Come noto, l’impianto non sarà di proprietà dell’As Roma Spa, ma di una società chiamata Stadio Tdv Spa, partecipata As Roma SPV LLC – con sede nel Delaware (Usa), partecipata da James Pallotta, Michael Ruane, Thomas Dibenedetto e Richard d’Amore – e dall’Eurnova Spa di Luca Parnasi. L’ “utilizzo” – quindi non la “gestione” – dell’impianto, tuttavia, è concesso “in modo prevalente per la durata di anni 30 alla AS Roma S.p.A.” seppur “opponibile a terzi in caso di vendita”. Si precisa che “l’impianto sportivo dovrà essere sine die vincolato a tale destinazione, garantendo la strumentalità” e che “i suddetti accordi e impegni dovranno essere formalizzati prima della stipula della convenzione urbanistica che ne dovrà dare atto”. Una nota del 2014 di Mark Pannes, Ceo della Stadio Tdv, ha precisato ulteriormente che vi sarà “il riconoscimento di un diritto di prelazione in favore della Società sportiva in caso di trasferimento dello Stadio e la partecipazione della As Roma S.p.A. agli utili generati dall’impianto”.

Bozza accordo Raggi – L’argomento non è stato ufficialmente trattato, ma è possibile che si chieda a James Pallotta e ai suoi di fornire maggiori rassicurazioni alla società sportiva e ai tifosi giallorossi circa il futuro dell’impianto e, magari, di aumentare ulteriormente il periodo di tempo di “utilizzo prevalente”.

Consuntivo costi pubblico/ privato
Costo privato - L’investimento iniziale su tutto progetto-stadio da parte della Roma era di circa 1 miliardo e 657 milioni di euro totali, ma con tutte le modifiche ipotizzate il costo dovrebbe scendere a quota 700 milioni. La Roma risparmierà circa 600 milioni di euro sui 626 milioni previsti per la costruzione delle torri di Libeskind, questo perché restano comunque gli edifici bassi e l’albergo. Inoltre salteranno tutta una serie di opere, fra cui quelle più costose sono il ponte carrabile (42 milioni), lo svincolo autostradale (47 milioni) e il prolungamento della linea B (54 milioni di euro). Andranno quindi ricalibrate le opere standard, come i parcheggi, facendo scendere il conto dai 154 milioni iniziali ai circa 100-110 milioni del nuovo accordo. Da limare al ribasso anche i costi sulle opere confermate (stazione Tor di Valle, Via del Mare/Ostiense) e da scorporare le opere minori (sottopassaggio, videosorveglianza, pontili sul Tevere).

Costo pubblico - Come detto, la Regione Lazio si occuperà dell’efficientamento della Roma-Lido (180 milioni) mentre il Cipe, se accoglierà la richiesta del Comune, finanzierà con 140 milioni – già comunque destinati al Ponte dei Congressi – lo svincolo sulla Roma-Fiumicino con contestuale Ponte di Traiano. Va ribadito che si tratta di opere che sarebbero state realizzate comunque. Non è ancora chiaro se il Campidoglio dovrà sborsare i 7,5 milioni per il ponte ciclopedonale che collega alla stazione Magliana della ferrovia regionale (opera comunque importante). Salvo quest’ultima voce, il Comune potrebbe non essere costretto a flussi di cassa in uscita, sebbene si debbano registrare i mancati introiti per alcune decine di milioni di euro derivanti dagli oneri concessori che la Roma avrebbe pagato per realizzare i grattacieli.

Tempistiche e iter burocratico

Delibera Marino – Con l’ok definitivo della Conferenza dei Servizi, la Roma sperava di poter dare giocare la prima partita nel nuovo stadio nell’estate del 2019. Soprattutto, la delibera voluta da Ignazio Marino e Giovanni Caudo vincolava il primo calcio d’inizio al completamento di tutte le opere di servizio previste, al fine di evitare quanto accaduto nella Capitale negli anni precedenti, ovvero l’edificazione privata senza le collegate opere di urbanizzazione.

Bozza accordo Raggi - Entro fine marzo il proponente dovrà presentare un secondo progetto, che dovrà passare in Assemblea Capitolina affinché venga approvato di nuovo l’interesse pubblico (il dibattito nella maggioranza M5S e’ molto serrato). A quel punto, si tornerà in conferenza dei servizi il 5 aprile, in Regione Lazio, dove c’e’ il rischio di dover ricominciare da capo, analizzando soprattutto la questione trasporti e viabilità. Difficile che si possa far scendere in campo i giallorossi per una gara ufficiale prima del 2020. Non solo. Le opere finanziate da parte pubblica, come la Roma-Lido e il ponte sul Tevere, saranno slegate dal progetto-stadio: sulla prima vige il classico “cauto ottimismo”, nonostante incomba il ricorso della Ratp che potrebbe rallentare l’iter, mentre sulla seconda i tempi potrebbero allungarsi a dismisura, tanto da portare Virginia Raggi a inserire l’opera nella cosiddetta “seconda fase”.

Prosegue il bailamme. Una cosa è chiara: hanno perso tutti. Articoli di Mauro Favale, Marina della Croce, Giuliano Santoro, da la Repubblica/Roma e il manifesto, 26 febbraio 2017 (c.m.c.)

la Repubblica/Roma
STADIO: PRIMA PIETRA NEL 2017
MA LA REGIONE AVVISA RAGGI «SERVE UNA NUOVA DELIBERA»

di Mauro Favale

«“Spieghino dove sta la pubblica utilità. Vigileremo su trasporti e ambiente” La Lazio torna alla carica: “Ora un impianto anche per noi. E non al Flaminio”»

Virginia Raggi, l’altra sera, al termine dell’incontro, ha chiamato Nicola Zingaretti per avvisarlo dell’accordo con la Roma. Ieri, però, l’assessore regionale ai trasporti, Michele Civita, ha sottolineato come, per ora, «non si conoscono le opere e le infrastruture per garantire la mobilità, il miglioramento dell’ambiente e della qualità urbana.

Su tutto ciò la Regione eserciterà il ruolo e la funzione di sua competenza ». E non solo: mentre è scontato che la conferenza dei servizi subisca un nuovo slittamento di 30 giorni (stavolta su richiesta della Roma), sempre la giunta Zingaretti avvisa il Campidoglio che, sebbene consideri l’accordo «una buona notizia perché fa compiere un importante passo in avanti e supera le incertezze degli ultimi 7 mesi», è comunque necessaria una nuova delibera da approvare in Aula Giulio Cesare.

«L’attuale conferenza dei servizi — ricorda Civita — è incardinata sulla delibera approvata dal consiglio comunale che ha riconosciuto il pubblico interesse al progetto presentato nel 2014. Se il progetto cambia bisognerà richiedere una nuova valutazione tecnica e un nuovo pronunciamento da parte dell’Aula». A questo servirà il mese in più, prima della riapertura della conferenza dei servizi, il 3 aprile e non più il 3 marzo.
Entro quella data, la maggioranza dovrà approvare il nuovo atto che autorizza la costruzione a Tor di Valle 500 mila metri cubi anziché il milione previsto inizialmente. Comunque 5 volte in più rispetto al piano regolatore. «Abbiamo condotto il lavoro con fermezza e compattezza», rivendica il capogruppo M5S in Comune Paolo Ferrara.

Silenziato il dissenso interno, con la deputata Roberta Lombardi, spesso critica, che rende merito a Virginia Raggi: «Stracciato il progetto iniziale — scrive su Twitter — dimezzate le cubature extra-stadio. Nessun grattacielo. Questo è uno stadio fatto bene. Brava Virginia». E pazienza se nel nuovo disegno il ponte sul Tevere e la bretella sulla Roma- Fiumicino verranno realizzate in un secondo momento rispetto all’arena. Restano, invece, le opere di messa in sicurezza del fosso di Vallerano, gli interventi sulla via del Mare e il potenziamento della Roma-Lido.

Il giudizio di Legambiente rimane molto critico: «Si conferma l’errore dell’area scelta, che rimarrà irragiungibile con la metropolitana». Negativa anche la posizione di Verdi e Radicali. Il Pd, invece, si dice soddisfatto ma chiede che la giunta chiarisca «iter amministrativo, impegni finanziari e opere pubbliche». E mentre l’iter del vincolo sulle tribune dell’Ippodromo va avanti (superabile, con ogni probabilità, dal parere unico dello Stato in Conferenza dei servizi), anche la Lazio chiede «par condicio» per la costruzione del suo stadio. Lo fa per bocca del suo presidente Claudio Lotito che però avverte la giunta di «non ricorrere allo stratagemma dello Stadio Flaminio che non ha alcun requisito e condizione oggettiva per essere lo stadio della Lazio».

il manifesto
STADIO «IRRAGGIUNGIBILE».
I TIMORI DI AMBIENTALISTI E REGIONE LAZIO

di Marina Della Croce

«Calata di cemento. Le infrastrutture dovrebbero essere realizzate in tempi diversi ma per ora non c’è alcuna certezza. La Pisana: "Controlleremo"»

Il fischio di inizio della prima partita nel nuovo stadio della Roma a Tor di Valle è fissato per il 2020. Resta da capire se quel giorno i tifosi potranno sostenere la propria squadra del cuore dagli spalti oppure no. Come sarà possibile raggiungere il nuovo impianto è infatti uno dei punti ancora da chiarire dell’accordo siglato la scorsa sera in Campidoglio. «Forse in funivia», ha ironizzato ieri l’esponente del Pd romano Giovanni Zinola.

Il taglio delle opere pubbliche concesso dalla sindaca Virginia Raggi rischia infatti di mandare definitivamente in tilt un’area della città già pesantemente congestionata dal traffico. Qualche chiarimento in più dovrebbe essere contenuto nella nuova delibera che la maggioranza capitolina dovrà approvare una volta che il documento sarà stato esaminato dagli uffici competenti, e che andrà a sostituire quella varata dalla precedente amministrazione guidata da Ignazio Marino. Il tutto dovrebbe avvenire nell’arco di un mese ma nel frattempo va avanti l’iter del vincolo sull’ippodromo di Tor di Valle avviato dalla soprintendenza.

L’accordo raggiunto prevede infatti la realizzazione di opere per complessivi 500 mila metri cubi, la metà del milione di metri cubi contenuti nel progetto precedente ma molti di più rispetto ai 350 mila previsti dal piano regolatore dell’area. La legge sugli stadi esclude però dal conteggio la struttura sportiva e gli spogliatoi, rendendo così fattibile il progetto che comunque non comprende più a realizzazione delle tre torri previste inizialmente.

Il problema riguarda le infrastrutture che verranno realizzate. Un particolare che preoccupa anche la regione lazio. «Mentre è stato detto chiaramente che le attuali cubature saranno ridotte in modo significativo – ha detto l’assessore regionale Michele Civita annunciando controlli – non si conoscono a oggi le opere e le cubature che l’accordo reputa indispensabili per garantire la mobilità sia pubblica che privata, i miglioramento dell’ambiente e della qualità urbana, decisivi per lo sviluppo sostenibile di quel quadrante della città».

In realtà ieri qualche particolare in più dell’accordo si è saputo, non abbastanza però da rendere ingiustificate le preoccupazioni espresse finora. Secondo quanto si è appreso, infatti, il piano di opere pubbliche dovrebbe essere realizzato in due fasi. Le opere propedeutiche allo stadio, e quindi da realizzare subito, sarebbero il potenziamento della Roma-Lido, gli interventi sulla via del Mare e la messa in sicurezza idrogeologica del fosso di Vallerano, nell’area di Decima.

In seguito, ma non è specificato quando, dovrebbero essere realizzati il ponte aggiuntivo sul Tevere e la bretelle sulla Roma Fiumicino. Salta il prolungamento della metropolitana B, al quale i 5 Stelle si sono sempre detti contrari. «Resta in piedi la farsa del raddoppio della via del Mare, solo per il breve tratto iniziale, che aumenterà l’effetto imbuto gravando pesantemente sulla viabilità», ha spiegato ieri l’urbanista Raimondo Grassi. «Quanto alla stazione di Tor di Valle anche qui si prendono in giro i romani: la stazione già esiste ed è attualmente oggetto di riqualificazione».

Preoccupazioni espresse ieri anche da Legambiente, per niente convinta dell’area scelta per realizzare l’opera. «Rimarrà irraggiungibile con la metropolitana, visto che il progetto sembra finanziare solo la riqualificazione della stazione di Tor di Valle, ma continueranno a passare solo i vecchi treni di una linea che funziona malissimo e non emerge alcun finanziamento pubblico che preveda il potenziamento della linea», ha spiegato il vicepresidente nazionale Edoardo Zanchini.

La firma dell’accordo è servita almeno a riportare una pace apparente in casa grillina. «brava@virginiaraggi» ha scritto ieri in un tweet Roberta Lombardi, non proprio un’amica della sindaca. «Abbiamo dimostrato che quando lo Stato fa lo Stato non si inchina davanti ai costruttori, ai palazzinari. Lo stadio d farà, ma si farà secondo le nostre regole», ha esultato invece il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio guardandosi bene però dal rispondere alle preoccupazioni di quanti si interrogano sul futuro di Tor di valle.

Intanto, come era prevedibile, adesso anche la Lazio reclama un suo impianto. «Cara sindaca raggi – ha fatto sapere ieri il presidente Claudio Lotito – ci aspettiamo che applichi par condicio nei confronti degli innumerevoli tifosi biancocelesti e consenta la creazione di un nuovo impianto della Lazio»

il manifesto
RAGGI-PARNASI,
«UN COMPROMESSO CHE HA IL SAPORE DELLA SCONFITTA»
di Giuliano Santoro

«I malumori della base grillina. L’accordo verbale annunciato dalla sindaca non soddisfa molti consiglieri comunali»

Dopo l’annuncio di Virginia Raggi sullo stadio della Roma a Tor di Valle con (ridotta) cementificazione annessa, tutti aspettano di vedere concretamente in cosa consiste il ridimensionamento delle cubature. Tra addetti ai lavori, attivisti e tecnici, il leit motiv è uno solo, scandito con mal celata disillusione: «Bisogna vedere le carte, al momento c’è solo un accordo orale».

Dalla base del m5s,la stessa che nei giorni scorsi aveva manifestato in Campidoglio contro l’intesa e che aveva costretto Beppe Grillo fino alla quasi negazione di ogni margine di trattativa, trapelano motivi di amarezza, quando non di risentimento. Il gruppo del Movimento 5 Stelle al municipio VIII, quello interessato dalla grande opera, aveva annunciato un incontro assieme al Comitato contro il cemento a Tor di Valle e alla Carovana delle periferie. Mestamente, quell’assemblea è stata annullata. «Non c’è più motivo di discutere pubblicamente, almeno per adesso – ci spiegano – Di sicuro, al momento pare proprio che comandino sempre gli stessi, con le stesse logiche». Le voci sugli incontri preparatori segreti tra costruttori e amministratori per arrivare all’accordo non aiutano i sostenitori della partecipazione dal basso.

Poco si sa del compromesso annunciato da Raggi. Si conoscono i problemi che esso solleva. Il primo è quello relativo alle opere di urbanizzazione. Giovanni Caudo, assessore all’urbanistica nella giunta di Ignazio Marino e regista della prima fase dell’accordo, aveva puntato tutto sull’investimento dei privati in opere pubbliche, in una sorta di logica di riduzione del danno. Il cuore del lodo Raggi-Parnasi pare invece battere il ritmo opposto: il costruttore rinuncia a una parte di cubature ma al tempo stesso il suo impegno sulle spese di compensazione viene meno.

Traballa il rafforzamento della ferrovia Roma-Lido, si allontana il prolungamento della metro B, vacilla il ponte sul Tevere. Caudo risponde dall’estero: «Non conosco i dettagli del progetto attuale», dice. Poi aggiunge con una punta di sarcasmo: «Nessuno regala niente a nessuno, ma se davvero ci fosse una diminuzione di cemento a parità di opere pubbliche sarei contento come tutti».

Le opere pubbliche previste nell’accordo contemplano due fasi. La linea Roma-Lido, la via del Mare e le opere contro il dissesto idrogeologico da realizzare prima dell’apertura dello stadio. Il ponte sul Tevere e lo svincolo della Roma-Fiumicino in un secondo momento. Fuori resterebbe il raccordo con la metropolitana. Preoccupa soprattutto la seconda parte, temporalmente troppo lontana e da realizzare quasi «fuori tempo massimo». «Mentre è stato detto chiaramente che le attuali cubature saranno ridotte – fa notare l’assessore regionale al territorio Michele Civita – non si conoscono a oggi le infrastrutture per garantire la mobilità, il miglioramento dell’ambiente e della qualità urbana».

I prossimi giorni, da questo punto di vista, saranno decisivi. Gli uffici comunali già da lunedì lavoreranno a un testo di delibera che assorbirà anche la variante al Piano regolatore necessaria per autorizzare almeno 150 mila metri cubi in più, rispetto ai 350 mila del Prg vigente. Parallelamente alla delibera, il Campidoglio e la Roma dovrebbero lavorare anche sullo Schema di convenzione. Dal 3 marzo tornerà a riunirsi la Conferenza dei servizi. Una riunione che in teoria avrebbe dovuto essere l’ultima, quella decisiva, ma che nei fatti invece dovrebbe concludersi con la concessione di una ulteriore dilazione dei tempi richiesta dai proponenti.

Almeno altri 30 giorni per permettere all’amministrazione capitolina di scrivere un nuovo testo, e al consiglio comunale di votare, una nuova delibera. Si arriverebbe così al 3 aprile. Fino a ieri, si contavano una decina di consiglieri M5S critici sul progetto. Ora la posizione vacilla, dopo che anche Roberta Lombardi ha accolto la linea dei vertici e sposato l’ipotesi di compromesso: «Stracciato il progetto iniziale. Dimezzate le cubature extra-stadio. Nessun grattacielo. Questo è uno #StadioFattoBene, brava Virginia Raggi», ha twittato.

Parole concilianti arrivano anche da Cristina Grancio, una delle consigliere più critiche: «In politica nessuno asfalta nessuno, ma il sospetto di un pareggio che accontenta tutti mi viene. Allora incominciamo con il dire che senza la vigorosa fermezza dell’azione di contrasto, cara Virginia, non avremmo portato a casa il ‘nuovo e più contenuto progetto’. Lo confesso, giocavo per vincere e non per pareggiare. Ma come si usa dire proprio nel calcio ‘la partita finisce quando l’arbitro fischia’».

Gli accadimenti di questi giorni rischiano di far dimenticare un impedimento non da poco: la procedura di vincolo avviata dalla soprintendente Margherita Eichberg sull’ippodromo di Tor di Valle. L’iter dura 120 giorni, Parnasi e Pallotta potrebbero richiedere quattro mesi di proroga alla Conferenza dei servizi, scommettendo su una futura bocciatura da parte del Ministero della cultura della richiesta di vincolo. Beppe Grillo era calato a Roma per annunciare che lo stadio sarebbe stato opera di costruttori e non di palazzinari.

La via di mezzo individuata da Virginia Raggi rischia di imboccare la strada opposta: se prima una cementificazione imponente (e largamente discutibile) imponeva opere pubbliche e impegni verso la città, questo accomodamento potrebbe svincolare la cittadella dello stadio da ogni opera pubblica. Questo è quel che appare dai primi rilievi. Nei prossimi giorni, vedremo le carte.

«Campidoglio. Dopo un ricovero per un malore, Raggi incontra i proponenti a Palazzo Senatorio per l’intesa: dimezzate le cubature della cittadella» È davvero un miglioramento? il manifesto, 25 febbraio 2017, con postilla

«L’accordo c’è: lo stadio si farà a Tor di Valle ma senza le torri». Virginia Raggi dà l’annuncio alle 22.30, dopo una giornata burrascosa e al cardiopalma cominciata con un malore da stress che l’ha costretta a nove ore di ricovero presso l’ospedale San Filippo Nieri.

Il dg giallorosso Mauro Baldissoni, il costruttore Luca Parnasi e il project manager della sua società Parsitalia, Simone Contasta, accompagnati da Gianluca Comin, responsabile della comunicazione per il progetto di Tor di Valle – il business park con annesso stadio della Roma – entrano finalmente in Campidoglio alle 21.30 circa per l’atteso incontro con la giunta pentastellata.

I proponenti dell’opera hanno analizzato le proposte dell’amministrazione Raggi per ore, mentre attendevano che la sindaca facesse il punto preliminare con gli esponenti della sua maggioranza. E alla fine hanno deciso di accettare i paletti imposti dalla giunta: abbattimento del 50% delle cubature, sostanzialmente le tre torri di Libeskind e rifacimento del progetto, tenendo conto del rischio idrogeologico dell’area di Tor di Valle.

La sindaca Raggi, malgrado la giornata decisamente pesante, ne è uscita soddisfatta, determinata com’era a chiudere la «vertenza stadio» il più velocemente possibile, anche perché incombe la deadline della conferenza dei servizi fissata al 3 marzo. In mano aveva una carta in più: il parere dell’avvocatura capitolina che sarebbe comunque favorevole all’annullamento (senza conseguenze pecuniarie) della «delibera Marino» sulla pubblica utilità dell’opera.

Dunque la trattativa è arrivata al punto – l’unico per salvare capra e cavoli, sia per la giunta a 5 Stelle che per gli impresari Luca Parnasi e James Pallotta – della modifica del progetto originario di Tor di Valle. Già respinto duramente dal presidente di Eurnova e proprietario dei terreni lo spostamento ad altra location, l’unica possibilità rimasta era quella di una riperimetrazione del progetto, con spostamento di qualche centinaio di metri, pur rimanendo nell’area di Tor di Valle, di una riduzione sostanziosa delle cubature, (secondo quanto promesso, sostanzialmente senza le tre torri), e una serie di modifiche dei materiali e delle tecniche da impiegare per adeguarsi al rischio idrogeologico dell’area.

La sindaca, al termine del vertice con la Roma, è apparsa sorridente accanto al dg della società Mauro Baldissoni. «Le cubature saranno dimezzate, in un nuovo progetto ecocompatibile, con una nuova fermata della Roma-Lido e la riqualificazione viaria tra Ostiense e via del Mare. L’As Roma sarà nostra alleata». Baldissoni concorda e ringrazia la sindaca visibilmente soddisfatto: «Si inizia, è una giornata storica. Abbiamo adattato i piani alle esigenze della nuova giunta. Siamo sicuri che sarà un progetto che renderà orgogliosi non solo i tifosi romanisti ma tutti i romani».

«Ho lasciato l'ospedale. Sto bene. Grazie a tutti per l’affetto. Ora sono in Campidoglio a lavorare per la città», è il post su Fb con cui Virginia Raggi poco dopo le 18 annuncia di aver superato il malore. Per tutto il pomeriggio è rimasta in contatto telefonico con il suo ufficio e con Beppe Grillo, preoccupata per la riunione sul bollente «dossier stadio» che avrebbe dovuto svolgersi nel primo pomeriggio. I suoi, dal blog di Grillo, la incitano con un «#ForzaVirginia, giornalisti restate umani», per chiedere ai media di rispettare la privacy della sindaca. Un abbraccio caloroso le arriva pure dalla deputata Roberta Lombardi che twitta: «Forza Virginia, rimettiti presto. Ti siamo vicini!». E dal gruppo del Pd, dal leader della Lega Matteo Salvini e da Fdi giungono «i più sentiti auguri di una pronta guarigione».

In piazza del Campidoglio intanto i tifosi giallorossi (pochi, a dire il vero), che hanno risposto al tam tam mediatico, srotolano lo striscione «Sì allo stadio, basta melina» e seguono la ola catastrofista lanciata dal presidente Pallotta scandendo: «Un solo grido un solo allarme: sì a Tor di Valle, sì a Tor di Valle» e «Famolo, famolo sto stadio, o Virginia famolo sto stadio». Attendo una «buona notizia» e invece apprendono quella spiacevole della Digos che ha già iniziato ad identificarli, uno per uno, dai video registrati in piazza, perché il loro assembramento non era autorizzato. Con loro, anche l’ex candidato sindaco e vicepresidente della Camera Roberto Giachetti che si autodenuncia: «Qualunque iniziativa verrà presa nei confronti dei tifosi – annuncia l’esponente del Partito radicale – deve essere presa anche nei miei, e da subito annuncio che rinuncio a qualunque immunità parlamentare».

postilla

A qualcuno potrà sembrare un buon compromesso. Invece il rimedio è peggiore del male. La soluzione della Giunta Marino accettava la scelta sbagliata dello stadio della Roma in quel luogo migliorando il progetto presentato dai padroni del vapore e ottenendo in cambio consistenti vantaggi per un vasto settore della città. Scelta, sosteniamo, sbagliata anche perché non si contrattano volumi edilizi non necessari in cambio di benefici per la città. Ma la scelta della sindaca e dei suoi supporters non riduce il danno e in più riduce il vantaggio per la città. Ci domandiamo: era impossibile per la Giunta Raggi cancellare la dichiarazione di "interesse pubblico" con gli stessi poteri con cui la giunta Marino" l'aveva approvata? Se non lo ha fatto, è evidentemente perché era disposta fin dall'inizio a mettere lì lo stadio e gli annessi. Tanto più che, come ricorda Eleonora Martini nel suo articolo, «il parere dell’avvocatura capitolina sarebbe comunque favorevole all’annullamento (senza conseguenze pecuniarie) della "delibera Marino" sulla pubblica utilità dell’opera».

Una lettera alla sindaca Raggi trasmessa, con preghiera di pubblicazione, a eddyburg da un gruppo di esperti, ricercatori e docenti dell'Universitè Paris-est, che evidentemente conoscono bene Roma, l'urbanistica romana e le sue recenti vicende


Cari redattori di Eddyburg,
25 docenti, ricercatori ed esperti delle questioni urbane di lingua francese hanno firmato una lettera aperta alla sindaca di Roma Virginia Raggi, al fine di interpellarla sulle dimissioni di Paolo Berdini e sul progetto del nuovo stadio della Roma (in allegato).
Saremmo molto felici e onorati se la vostra rivista accettasse di pubblicare questa lettera; tanto più che questa vicenda è recentemente stata oggetto di molti articoli sul sito.

Rimango a vostre disposizioni per ogni informazione. Aurélien DELPIROU (Per il collettivo di autori)


Noi, studenti, dottorandi, ricercatori, professori e professionisti della pianificazione territoriale, dell'urbanistica, dell’architettura e del paesaggio di lingua francese abbiamo tutti scelto di studiare le dinamiche, i problemi e le sfide della Roma contemporanea.

Questo interesse per la città di Roma ci porta a seguire con attenzione i recenti sviluppi della vita politica romana e a reagire a uno degli ultimi episodi: le dimissioni dell’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini a causa di un disaccordo con la sindaca Virginia Raggi circa il progetto del nuovo stadio dell’AS Roma nella periferia sud della città.

Deploriamo questa decisione e vogliamo attirare l’attenzione della Sindaca sulle incertezze che, in seguito all’uscita di scena dell’assessore Berdini, gravano sia sulla città che sul Comune di Roma.

La periferia romana devastata dalla speculazione edilizia

Abbiamo potuto, nell’ambito delle nostre ricerche, condividere alcune delle battaglie di Paolo Berdini, in particolare quella a favore di un nuovo e diverso sviluppo urbano per la capitale d’Italia: uno sviluppo al servizio dell’interesse generale e non della somma di interessi dei singoli che da troppo tempo influenzano, determinano e anche dominano l’azione pubblica nella città. Moltissime ricerche hanno messo in luce la responsabilità di tali interessi privati sul degrado della città.

È innegabile, a nostro avviso, che le recenti rivelazioni di Paolo Berdini alla stampa siano state fatte in modo goffo e inopportuno. Sarebbe un’inutile perdita di tempo supporre un complotto nei suoi confronti. Ma sarebbe un’ingenuità ridurre le sue dimissioni a un ennesimo episodio della “telenovela” politico-mediatica che purtroppo scuote il comune di Roma da 8 mesi. Al di là del gossip, si tratta in questo caso di escludere dalla Giunta un assessore la cui legittimità non è mai stata contestata e che è sempre stato totalmente indipendente, in lotta e denuncia dei circoli di influenza, gruppi di potere e lobby legate all’onnipotente settore fondiario e edilizio romano.

Sono questi stessi gruppi che, nonostante la lunga fase di stagnazione economica e demografica della città di Roma, hanno continuato a costruire enormi “cattedrali” abitative e commerciali nel cuore dell’agro romano: tra il 2001 e il 2013, 38 nuovi centri commerciali sono stati creati, per lo più in zone già maltrattate da decenni di speculazioni edilizie.

Il casus belli del nuovo stadio della Roma

In questo senso, l’opposizione di Paolo Berdini alla costruzione del nuovo stadio dell’AS Roma a Tor di Valle incarnava, più degli altri impegni presi, il suo rifiuto di consegnare ancora una volta la periferia romana nelle mani della speculazione edilizia. Come recenti progetti fortemente contestati (“OL Land” a Lione), si tratta in realtà di un vasto complesso sportivo, ludico e terziario di 130 ettari, che include tre torri di 150 a 200 metri di altezza, per un totale di 900.000 metri cubi - ben al di là delle previsioni del Piano Regolatore Generale.

Il progetto originale è stato significativamente migliorato nel 2014 grazie all'azione energica dell’ex assessore Giovanni Caudo. Tuttavia, in qualità di storici della città, geografi, architetti, urbanisti, paesaggisti, vogliamo ribadire che ci sembra ancora inadatto ai bisogni e alle problematiche attuali del territorio romano: nuove costruzioni piuttosto che recupero urbano; primato accordato al miglioramento dell’accessibilità su gomma (130 milioni di euro di investimenti) piuttosto che quella su ferro (40 milioni, non in grado di garantire l'ipotetico prolungamento della linea B della metropolitana); deficit di democrazia partecipativa; programmazione impostata sulle strutture di divertimento e del commercio piuttosto che su una vera diversificazione funzionale; costruzione di grandi edifici quando la domanda per nuovi spazi nel settore terziario è molto limitata a Roma - senza dimenticare che tanti edifici in centro come in periferia restano miseramente vuoti!

Insomma, il progetto del nuovo stadio contribuisce a dare ancora una volta l’immagine di una città che continua a costruire il nuovo lasciando marcire il vecchio - le sue strutture urbane, le sue periferie, gli stadi: Roma ha già due stadi! Nonostante il cattivo stato di manutenzione, potrebbero entrambi divenire l’oggetto di trasformazioni innovative con costi e tempi contenuti.

Infine, questo progetto è il simbolo delle derive causate dalla finanziarizzazione del calcio: diverse ricerche hanno già evidenziato che i veri beneficiari dei nuovi stadi non sono né i clubs (lo stadio della Roma sarà infatti autonomo ed indipendente rispetto alla Società) né i fans (i tifosi romanisti, tra i quali quasi tutti i firmatari, subiranno l’aumento dei prezzi dei biglietti), bensì le ambizioni speculative dei loro proprietari, per i quali il calcio è diventato un investimento come tanti altri.

Alla luce di tali problemi, gli argomenti dei sostenitori del nuovo stadio appaiono deboli: alcuni si meravigliano che gli investitori privati debbano sostenere gli oneri di urbanizzazione, comprese le infrastrutture di mobilità e la sistemazione degli spazi pubblici circostanti. Ma questa non è una contropartita minima a fronte degli ingenti guadagni che otterranno dal futuro stadio? E che tipo di investitore avrebbe lasciato i suoi uffici isolati nel bel mezzo della campagna romana?! Altri sottolineano l'impatto positivo del futuro stadio sull'economia romana e sul quartiere, afflitto da un crescente degrado sociale e urbanistico. Questa doppia retorica dei “benefici” per la città e degli “effetti strutturanti” sulle periferie era già al centro della creazione delle nuove “centralità” del PRG del 2008. Fortemente contestata da molti ricercatori, è stata totalmente smentita dai fatti, come si può constatare osservando quanto avvenuto a Bufalotta, Ponte di Nona o Romanina. E come si può credere seriamente che un intervento puntuale, quale la costruzione di uno stadio e di tre torri firmate da “archistar”, possa far tornare gli investitori stranieri a Roma, in primo luogo scoraggiatati da una serie di carenze strutturali?

Per un’urbanistica al servizio del bene comune

Per gli esperti in questioni urbane come per i semplici visitatori che atterrano a Fiumicino, il paesaggio che si dipana lungo il tragitto dall’aeroporto alla stazione Termini è la dimostrazione lampante del degrado delle periferie romane, in totale contrasto con lo splendore della città antica, rinascimentale e barocca: è un paesaggio fatto di palazzi e spazi pubblici all'abbandono, cimiteri di gru, stazioni fantasma, passerelle che minacciano di crollare, strade distrutte, cumuli di immondizia. In questo contesto, un’azione pubblica rivolta verso il bene comune non può avere come punto cardinale di favorire la costruzione di un nuovo stadio di calcio, che soddisferà in primo luogo le ambizioni del manager di un hedge fund statunitense associato a uno dei più potenti gruppi di costruttori italiani.

L’uscita di scena di Paolo Berdini, che giustamente incarnava agli occhi di molti Romani competenza e indipendenza, costituisce un segnale inquietante per il seguito del mandato elettorale. Noi speriamo senza polemica che la sindaca Raggi continuerà a combattere le battaglie del suo ex-assessore e a portare la speranza di una Roma democratica, trasparente, moderna e adatta alle sfide del XXI secolo.

Non siamo qui per “fare la morale” venendo dall’Estero: siamo anche noi quotidianamente confrontati alle difficoltà sociali, economiche e politiche che colpiscono le nostre città. Tuttavia, noi che abbiamo dedicato tutta o parte della nostra vita professionale allo studio di questa città unica al mondo, proviamo nei sui confronti, come i suoi abitanti, tanto una passione incondizionata quanto un immenso desiderio di cambiamento.

I PRIMI 25 FIRMATARI

Dott. Julien ALDHUY, Professore associato, École d’urbanisme de Paris, Université Paris-Est Créteil
Dott. Fabien ARCHAMBAULT, Professore associato, Université de Limoges
Dott.ssa Sarah BAUDRY, Dottoranda, Université Paris Diderot
Prof. Denis BOCQUET, Professore ordinario, Ecole nationale supérieure d’architecture de Strasbourg
Eléonore BULLY, Studentessa di Laurea specialistica, Ecole d’urbanisme de Paris Dott.ssa Hélène DANG-VU, Professore associato, Université de Nantes
Dott. Aurélien DELPIROU, Professore associato, École d’urbanisme de Paris Adeline FAURE, Studentessa di Laurea specialistica, Ecole d’urbanisme de Paris Dott. Vincent GUIGUENO, Ricercatore, Ecole Nationale des Ponts et Chaussées Dott. Maxime HURE, Professore associato, Université de Perpignan Via Domitia Dott. Antoine LEBLANC, Professore associato, Université du Littoral Côte d’Opale Dott. Giulio LUCCHINI, Ricercatore indipendente
Dott. Fabrizio MACCAGLIA, Professore associato, Université de Tours Dott.ssa Charlotte MOGE, Ricercatrice, Université Jean Moulin Lyon 3
Dott. Stéphane MOURLANE, Professore associato, Université Aix-Marseille Dott.ssa Hélène NESSI, Professore associato, Université Paris Nanterre Dott. Arnaud PASSALACQUA, Professore associato, Université Paris Diderot Dott. Thomas PFIRSCH, Professore associato, Université de Valenciennes Dott. Clément RIVIÈRE, Professore associato, Université Lille 3
Prof.ssa Dominique RIVIÈRE, Professore ordinario, Université Paris Diderot Dott.ssa Victoria SACHSE, Dottoranda, Université de Strasbourg
Dott.ssa Annick TANTER-TOUBON, Ingegnere di ricerca, Ecole des hautes études en sciences sociales (Paris)
Arch. Laure THIERREE, Paesaggista
Dott.ssa Céline TORRISI, Dottoranda, Université de Grenoble
Prof. Serge WEBER, Professore ordinario, Université Paris-Est Marne-la-Vallée

«Una città in cui la povertà e le disuguaglianze sono impresse nella superficie sgualcita degli spazi pubblici, nelle periferie come nel centro, ha bisogno di altro».massimocomunemultiplo, 18 febbraio 2017 (c.m.c.)

Il progetto del Nuovo Stadio di Tor di Valle, come già le Olimpiadi Roma2024, in questi giorni monopolizza il dibattito perfino più del gossip sulla Sindaca e delle vicende giudiziarie. Si fronteggiano molti interessi e due passioni: quella per la propria squadra dei romani romanisti e quella di tanti cittadini e comitati che in quei tre grattacieli che irromperebbero nello skyline della Capitale vedono l’ennesima resa della città al potere del cemento. Eppure meriterebbe per un momento cambiare lo sguardo sulla vicenda , come in quei disegni in bianco e nero dove lo sfondo rivela altre figure.

Perchè i rendering dello Stadio e delle torri si sono presi il centro della scena, spingendo nel back stage la città reale, sovrapponendo un luminoso futuro a un irrisolto presente, come nel gioco del “prima e dopo”, cancellando nobili architetture non più desiderate e spazi incolti per sostituirli con un ordine virtuale adatto a visitatori felici e impiegati modello.

Eppure è proprio lo sfondo che ci può dire molto sulla nostra città. Basta scorrere quell’elenco di opere – impianti e strutture per la mobilità e non solo – che la delibera capitolina di Marino e Caudo hanno messo come condizione per il pubblico interesse all’operazione e che sono pagate con il surplus immobiliare di un Business center (i tre grattacieli di uffici e il centro commerciale), per capire che qualcosa non va.

Perchè molte sono infrastrutture indispensabili per la qualità della vita – ma forse sarebbe più giusto dire per la sopravvivenza – dei cittadini, che in altre metropoli europee sono di ordinaria amministrazione pubblica, mentre nella Capitale d’Italia devono invece essere racimolate nelle maglie delle operazioni del “business privato”, come in questo caso, o di grandi eventi come le Olimpiadi. Faccio tre esempi.

Primo quadro: cosa si vede in questa mappa del rischio idraulico del PAI (Piano Assetto Idrogeologico) dell’area di Tor di Valle e Torrino/Decima? Qualcuno vi trova i motivi per non realizzare lo Stadio, altri, come l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere, i motivi per inserire la messa in sicurezza del Fosso del Vallerano tra le condizioni per realizzare lo Stadio (3). Anche perchè, secondo il PAI l’area di Tor di Valle è a rischio R3 (area azzurra), mentre l’area rossa, quella che secondo le Norme Tecniche di Attuazione del PAI è classificata come R4, cioè a massimo rischio, riguarda una zona densamente abitata . E viene da chiedersi: da quanti anni quella zona è esposta a un rischio così grave? E come mai in questo florilegio pluriennale di Vele di Calatrava, Nuove Fiere di Roma, Nuvole di Fuskas, piscine poi mai finite o finite male per i Mondiali di nuoto, nessuno ha pensato di investire soldi pubblici per mettere al sicuro gli abitanti della zona?

Secondo quadro: da vari anni ad ogni tornata elettorale i candidati si premurano di ricordarsi dei pendolari della Roma Lido, promettendo di trasformare la linea in Metropolitana leggera, trasferire al Comune la linea (oggi della Regione gestita da ATAC), potenziare i treni, aumentarne la frequenza. L’ha detto Veltroni, l’ha detto Alemanno, l’ha detto Marino. E tutto è rimasto uguale. Un servizio che è più degno di una città del quarto mondo che della Capitale d’Italia. E che (forse) potrebbe essere adeguato se si fa lo Stadio. Ma la domanda è: e se lo Stadio non si fa, ciccia?

Terzo quadro: stesso discorso per l’unificazione della Via Ostiense con la Via del Mare, una delle tratte urbane più trafficate e con più vittime per incidenti stradali. Non sappiamo se i benefici dell’intervento, che interessa il tratto dal Nodo Marconi al raccordo anulare, non rischino di essere annullati dall’aumento del flusso automobilistico per lo Stadio e per il Business center.

Si può scoprire facilmente attraverso i relativi studi trasportistici. Ma possiamo ancora una volta chiederci se nei decenni passati, prima di fare gli investimenti sopra elencati, non sarebbe stato il caso di occuparsi della sicurezza stradale dei cittadini romani. E anche se, nel caso che il progetto dello Stadio fosse cancellato o la sforbiciata alle cubature comportasse anche la sforbiciata di questa come di altre infrastrutture della mobilità, per quanto tempo rimarrebbe ancora questo micidiale status quo.

E se trovo inacettabile l’operazione Tor di Valle soprattutto a causa di quelle torri, che a mio avviso sono l’ennesima riproposizione dello scambio tra servizi pubblici indispensabili e cubature ai privati, che lo Stadio si faccia o non si faccia, sarà sempre una sconfitta o, meglio, una resa. Quella di chi, anche con le migliori intenzioni, per mettere in cantiere opere che il pubblico non può pagare (ma anche questo è tutto da dimostrare) continua a cercare di approfittare di occasioni che – ce lo dice la storia della città – troppo spesso perdono poi per strada ogni utilità collettiva. Anche perchè troppo spesso nessuno fa patti chiari prima, controlli durante e verifiche dopo.

Ma anche se si rispettassero fino in fondo le prescrizioni sulle opere e sui tempi, non mi convince la solita “narrazione” dei posti di lavoro e dello sviluppo economico che la nuova centralità annessa allo Stadio porterebbe alla città. E’ un discorso lungo, ci sono anche studi dell’università, ma quello che voglio dire è che, anche in questo caso, mi sembra che si continui ad inseguire una modernità che non è moderna per niente.

Perchè continua a puntare su un modello che sta implodendo, che continua a mettere avanti il settore edilizio e a proporre nuovi centri direzionali e commerciali in una città in cui gli uffici non trovano affittuari e i negozi di prossimità come le grosse catene chiudono i battenti per mancanza di clienti.E una città in cui la povertà e le disuguaglianze sono impresse nella superficie sgualcita degli spazi pubblici, nelle periferie come nel centro, ha bisogno di altro.

In questi giorni è tornata al centro del dibattito anche Mafia Capitale. Per molti si è trattato di un’esagerazione, o non è mai esistita. Eppure basta cambiare sguardo e se ne possono vedere le tracce in ogni anfratto della nostra città, nelle strade senza manutenzione, nelle aree verdi non curate, negli autobus scalcinati, negli abusi edilizi, nella gente che dorme in macchina , nei tavolini che occupano illegalmente i marciapiedi, nelle liste d’attesa per un esame medico urgente. E anche nel “si salvi chi può” del cittadino arreso, che difende il suo spazio da chiunque, senza solidarietà e sguardo al futuro. Neanche per i suoi figli.

E quelle tre torri svettanti in scenari notturni con ponti e passerelle luminose sembrano un’astronave aliena atterrata provvisoriamente in un pianeta tornato allo stato selvaggio.

«L’intervento della tanto denigrata “burocrazia” della soprintendenza sta rendendo al futuro della città e al bene comune uno straordinario servizio». la Repubblica ed.Roma, 18 febbraio 2017 (c.m.c.)

Dialogando amabilmente con Matteo Salvini, Maria Elena Boschi si era impegnata in diretta televisiva (a Porta a Porta, il 16 novembre scorso) a chiudere le soprintendenze («io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo») dopo la vittoria del Sì al referendum costituzionale. Sappiamo com’è finita: e, per ora, le soprintendenze ci sono ancora. E dunque le amministrazioni comunali non possono fare proprio quello che vogliono del territorio e del patrimonio culturale delle loro città.

È così che un paletto molto ingombrante, o addirittura esiziale, per la mega speculazione Parnasi è stato piantato proprio dagli uffici periferici del Ministero per i Beni Culturali. Il vincolo che ieri sera è stato firmato dalla soprintendente di Roma Margherita Eichberg non solo impedisce la distruzione dell’Ippodromo di Tor di Valle, tutelando un edificio importante (e, ironia della sorte, anche la memoria storica delle Olimpiadi romane del 1960), ma, bloccando praticamente i lavori in tutta la famosa particella 19, costringe la Conferenza dei servizi sullo Stadio a fermarsi.

E ora si aprono due possibilità. La prima è che tutto il progetto si fermi, e che gli attori internazionali di questa speculazione migrino altrove, secondo le logiche rapaci della creazione del denaro dal cemento. La seconda è che invece si sia disposti a rivedere, correggere, riscrivere il progetto, sostituendo un vero parco all’attuale colata di cemento. Mille ragioni — dall’assetto idrogeologico di Tor di Valle al sistema dei trasporti — renderebbero preferibile la prima, più radicale soluzione: ma in ogni caso l’intervento della tanto denigrata “burocrazia” della soprintendenza sta rendendo al futuro della città e al bene comune uno straordinario servizio.

È impossibile non rilevare la singolarità della situazione. Pochi giorni fa, la magistratura ha sequestrato il cantiere di un villaggio turistico che massacrava il meraviglioso paesaggio e il patrimonio archeologico di Punta Scifo, in Calabria, motivando quell’atto anche con «l’inerzia della Pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni [soprintendenza compresa] coinvolte nell’iter autorizzatorio, che. .. non ha mai inteso compiere le dovute verifiche ed eventualmente esercitare il potere-dovere di autotutela».

In questo caso calabrese la soprintendenza è venuta completamente meno ai suoi doveri, mentre il Movimento 5 Stelle è stato invece determinante nel sostegno ai comitati civici che si battino da tempo contro quel cemento. A Roma, invece, abbiamo la situazione esattamente opposta: la soprintendenza fa coraggiosamente la sua parte (rispettando in toto il parere radicale del comitato tecnico scientifico, e non curandosi delle superiori indicazioni che consigliavano una linea morbida da ‘pecora morta’), e mette le mani in un fuoco incandescente, proprio mentre la giunta 5 Stelle sembrava apprestarsi a varcare la linea d’ombra del cemento.

È questa la contraddizione che sta infiammando in queste ore la base del Movimento, non dimentica che una delle famose 5 stelle rappresenta proprio l’ambiente.

«La relazione del procuratore regionale Cabras : "Riscontrati fenomeni corruttivi e mala gestione della cosa pubblica. Metropolitana, 230 milioni assolutamente ingiustificati". Nel 2016 condanne per oltre 35 milioni». la Repubblica, ed Roma, 17 febbraio 2017 (p.s.)

«Un'istruttoria assai rilevante e complessa è stata originata da alcune segnalazioni relative alla eccessiva lievitazione dei costi di progettazione, direzione artistica ed esecuzione dei lavori del Nuovo centro congressi dell'Eur».

Così il procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei Conti, Donata Cabras, ha bacchettato lo spropositato proliferare dei costi della celebre Nuvola, leggendo la sua relazione durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2017. «La procura - ha continuato Cabras - ha individuato un danno alle pubbliche finanze pari a oltre 5 milioni di euro corrispondente al totale degli indebiti pagamenti effettuati nei confronti del progettista e alle società riferibili allo stesso professionista».

Ma il caso dell'opera dell'archistar Massimiliano Fuksas (che attraverso i suoi legali ribadisce la conformità dei pagamenti ricevuti ai contratti, all'attività svolta e ai parametri normativi) non è il solo a essere finito nel mirino dei giudici contabili. Critica anche la gestione della costruzione della linea C della metropolitana di Roma i cui costi, ha spiegato Cabras, sono aumentati in modo esponenziale: «Per una sola fattispecie riscontrata nelle nostre indagini ci sono 230 milioni assolutamente ingiustificati».

Nella sua relazione, Cabras ha sottolineato che «la lievitazione esponenziale del prezzo contrattuale è avvenuta attraverso il ricorso sistematico all'iscrizione di riserve che, a breve distanza di tempo dall'avvio dei lavori per la realizzazione delle opere, ha raggiunto cifre esorbitanti». Cabras ha evidenziato che i 230 milioni si riferiscono a una sola delle fattispecie e, quindi, la somma di questi costi potrebbe essere superiore. «Alcune indagini in proposito hanno riguardato l'affidamento dell'appalto con il sistema del contraente generale in cui si è assistito alla lievitazione esponenziale del prezzo contrattuale», ha concluso.

In generale, secondo il magistrato, «il 2016, come già gli esercizi precedenti, è stato caratterizzato dal moltiplicarsi dei fenomeni corruttivi e di mala gestio della cosa pubblica». Cabras ha precisato che «nel corso dell'anno una particolare attenzione è stata riservata ai casi di assenteismo o di indebito riconoscimento di benefici retributivi o di carriera, che hanno riguardato funzionari e dipendenti pubblici». Ci sono state poi «numerose istruttorie a carico di soggetti che hanno illecitamente utilizzato finanziamenti e contribuzioni pubbliche, cui è conseguita la chiamata in giudizio per avere distolto le somme erogate dal fine al quale erano normativamente destinate». Inoltre, «i magistrati dell'ufficio sono stati costantemente impegnati nelle indagini relative a fattispecie di danno derivanti dalla violazione delle disposizioni che regolano la materia dei lavori pubblici».

«Il sistema dei rapporti illeciti si è sostanziato in attività di tipo corruttivo e collusivo nell'assoggettamento della funzione pubblica rivestita al servizio dei privati», ha spiegato poi Cabras, parlando in particolare del sistema criminale denominato "Mafia Capitale" che ha arrecato diversi danni patrimoniali allo Stato: «Un primo danno per 9 milioni di euro per la lesione del principio delle norme a tutela della concorrenza con riflessi in termini di maggiore costo per l'amministrazione», a cui si vanno ad aggiungere un danno dello stesso importo per il disservizio dell'azione amministrativa, uno da oltre 1 milione e 800mila euro come conseguenza diretta delle indagini, più un altro ancora da 1 milione di euro per la maggiore spesa e i costi per il personale per le ore di straordinario.

Infine, Cabras segnala la «grande indignazione» suscitata dalla «vicenda di assoluta attualità sulla la gestione dei profughi e delle somme destinate ai migranti. Il giudizio già pervenuto a sentenza ha riguardato le sovraffatturazioni e la distrazione dei fondi veicolati, illecitamente utilizzati per remunerare prestazioni di diversa natura e finalità».

Prima dell'intervento del procuratore regionale, era stata la presidente della sezione, Piera Maggi, a prendere la parola per relazionare sull'attività svolta nel 2016. «Sono state emesse condanne per danni per oltre 35 milioni di euro per le sole fattispecie verificatesi nel Lazio - ha detto Maggi - ma si deve ritenere che tale cifra costituisca solo la punta dell'iceberg del pregiudizio derivante dalla mala gestio, se si considerano le ipotesi di carenza di giurisdizione, di colpa non grave, di mancato e insoddisfacente raggiungimento della prova, delle ipotesi che sfuggono per mancanza di notitia damni specifica e concreta, di problemi procedurali, di prescrizione o di particolare astuzia degli artefici nell'occultare le fattispecie dannose. Tanto dà misura dell'enorme pregiudizio che l'erario subisce».

«Articoli di Mauro Favale, Ignazio Marino, Antonello Sotgia e Enzo Scandurra da la Repubblica e il manifesto 16 e 17 febbraio 2017 (c.m.c.)


la Repubblica
STADIO, A RISCHIO LE OPERE PUBBLICHE
di Mauro Favale

Sullo stadio della Roma a Tor di Valle, «non c’è alcun accordo », sostiene Virginia Raggi. C’è però una «delicata trattativa », per la quale la sindaca di Roma mantiene «il massimo riserbo ». E non solo «per evitare strumentalizzazioni », come lei stessa scrive sul blog di Beppe Grillo.

La prima cittadina, in questo momento, non può dire che al tavolo con la Roma e il costruttore Luca Parnasi, il tema della discussione non sono solo le cubature del “business park” da ridurre (forse del 20%, c’è chi dice meno) e le torri di Daniel Libeskind da abbassare. Quello che la sindaca non dice è che la trattativa verte anche sulle opere pubbliche che Ignazio Marino e il suo assessore all’Urbanistica Giovanni Caudo vollero inserire nella delibera che, a fine 2014, assegnò lo standard di “interesse pubblico” al progetto dell’arena a Tor di Valle.

Quattro prescrizioni che la Roma si impegnò a realizzare per agevolare soprattutto la mobilità in quella zona, pena l’annullamento dell’interesse pubblico del progetto. Che, ricorda oggi Caudo, «sta proprio nelle opere esterne e non certo nello stadio ». Si va dal potenziamento del trasporto pubblico su ferro al ponte pedonale verso la stazione ferroviaria di Magliana, all’adeguamento della via del Mare fino allo svincolo con il Grande raccordo anulare passando per alcuni interventi per limitare il rischio idrogeologico che insiste su Tor di Valle e per un nuovo ponte sul Tevere che collegherà l’area all’autostrada Roma-Fiumicino. Un’opera, quest’ultima, che sul totale pesa per quasi 94 milioni di euro e che, secondo indiscrezioni dell’ultima ora, potrebbe essere l’infrastruttura destinata a saltare. O a essere modificata.

Con effetti pesanti non solo sulla circolazione in quella zona durante le partite casalinghe della squadra giallorossa, quanto sull’intera tenuta del progetto. Il perché lo ricorda proprio Caudo: «Se anche solo una di queste opere contenute nella delibera del 2014 venisse meno si ricomincia tutto da capo».

Di più: l’ex assessore aggiunge che finora è stato raccontato lo stallo tra un ex assessore (Paolo Berdini) «che voleva tagliare le dita agli speculatori e i palazzinari che volevano portare avanti il progetto». Per Caudo, invece, il discorso è diverso: «La stasi si è creata tra un ex assessore che non ha compreso a pieno la nostra delibera e la Roma che non vuole ricominciare da capo l’iter del progetto».

Dopo le dimissioni di Berdini, due giorni fa, l’accordo sembra essere più vicino. Anche se vanno ancora individuati gli strumenti tecnici per il via libera al progetto. La Regione ieri ha fatto filtrare la sua posizione: «Siamo in attesa degli atti ufficiali da parte del Comune alla ripresa della Conferenza dei servizi, il 3 marzo». Per quella data il Comune dovrebbe approvare, prima in giunta e poi in Aula, la variante al Piano regolatore, correggendo quella bocciatura “con prescrizioni” inviata in Regione a inizio febbraio. Intanto c’è da completare la convenzione urbanistica con la Roma, all’interno della quale trasferire tutte le disposizioni del progetto, opere pubbliche comprese.

«Leggo che a scriverla è il privato — attacca Caudo — ma mi pare assurdo che i grandi paladini della trasparenza e della lotta al cemento lascino scrivere il contratto alla Roma». E aggiunge: «Al di là del gioco dei “cubi”, se venisse tagliata anche solo un’opera pubblica, si fa un favore al privato che all’inizio voleva costruire solo lo stadio. Se finirà così, l’obiettivo di massimizzare i profitti verrà raggiunto proprio grazie agli “anti-cemento”».

la Repubblica
GUAI A TRADIRE IL PATTO CON I COSTRUTTORI
L’intervento.la lettera dell'ex-Sindaco Ignazio Marino

Caro direttore, il dibattito intorno allo Stadio della Roma ha prodotto un fiume di parole confuse, per cui è necessario ripartire dai fatti.

La delibera della mia Giunta, votata in Assemblea Capitolina il 22 dicembre 2014, dichiarò il pubblico interesse all’opera, condizionandolo, ovviamente, non allo stadio privato, sul quale legittimamente la società sportiva conta per accrescere la propria competitività, ma alle opere connesse all’impianto sportivo e utili alla qualità della vita delle romane e dei romani.

In particolare venne previsto: 1. il potenziamento del trasporto pubblico su ferro a servizio dell’area di Tor di Valle e della città, con frequenza di 16 treni l’ora nelle fasce di punta e un nuovo ponte pedonale verso la stazione FL1 di Magliana (costo a carico del privato: 58 milioni di euro); 2. l’adeguamento di via Ostiense/via del Mare, di cui si parla da decenni, fino allo svincolo con il Grande Raccordo Anulare (costo a carico del privato: 38,6 milioni di euro); 3. il collegamento con l’autostrada Roma Fiumicino attraverso un nuovo ponte sul Tevere (costo a carico del privato: 93,7 milioni di euro); 4. l’intervento di mitigazione del rischio idraulico e di messa in sicurezza dell’area (costo a carico del privato: 10 milioni di euro).

Se verrà a mancare anche una sola di queste opere di interesse pubblico la delibera recita testuale: “(...) il mancato rispetto delle su esposte condizioni necessarie, anche solo di una, comporta decadenza ex tunc del pubblico interesse qui dichiarato e dei presupposti per il rilascio degli atti di assenso di Roma Capitale e della Regione Lazio, risoluzione della convenzione, con conseguente caducazione dei titoli e assensi che dovessero essere stati medio tempore rilasciati”. In sostanza, se si cancellano le opere pubbliche esterne allo stadio, viene meno il pubblico interesse e si deve riscrivere una nuova delibera. È questo lo stallo in cui si è impantanato lo stadio.

A Roma non c’è uno scontro tra voraci palazzinari e quelli che invece vogliono tagliare le unghie alla speculazione immobiliare. Sembra esserci più che altro un gioco, tra chi non vuole, avendo sbagliato percorso, perdere la faccia e chi, il proponente privato, chiede semplicemente certezze.

Molti commentatori pur ammettendo di non aver letto le carte hanno gridato alla speculazione. Bisogna giudicare il progetto nel suo insieme, comprese le torri di Daniel Libenskid, che hanno una forza non solo architettonica, ma saranno in grado di attrarre grandi gruppi internazionali, creando migliaia di posti di lavoro e sostenibilità economica al progetto.

Si è lanciato l’allarme per le inondazioni cui sarebbe sottoposta l’area dello stadio ma anche qui le carte dicono una cosa diversa. Il rischio esondazione c’è ed è reale, ma interessa una porzione di città esterna all’area di Tor di Valle che è già oggi abitata da moltissimi cittadini, quella del quartiere di Decima. Nessuno si era occupato di loro e il fatto che il progetto dello stadio approvato dalla mia Giunta preveda, ancora una volta a carico del privato, la messa in sicurezza del fosso rendendo più sicura la vita di quei cittadini, è un fatto, ma lo si omette.

Si preferisce invece l’immagine del conflitto tra buoni e cattivi, per alimentare i discorsi vuoti di chi, forse, non si sente in grado di entrare nel merito del progetto.

L’amministrazione Raggi ha davanti un bivio: o porta avanti il progetto originario con il massimo rigore e serietà nel presidiare il pubblico interesse preteso dalla mia Giunta o, se decide di cambiarlo, deve illustrare quali sono gli ulteriori vantaggi pubblici e concreti per la vita dei cittadini del nuovo indirizzo.

il manifesto
L’URBANISTICA DIVENTA CONTRATTATA , AL SERVIZIO DI INTERESSI PRIVATI
di Antonello Sotgia

«Stadio della Roma. Si sta ribaltando il concetto di "rispetto": le regole fissate a giochi fatti »

Daniel Libeskind, l’architetto polacco-americano chiamato a rimpolpare con tanto «altro» lo stadio della Roma di Tor di Valle, presentando i suoi tre grattacieli gettati nell’ansa del Tevere ha dichiarato d’aver preso, disegnando i suoi blocchi dorati squadrati, quale riferimento formale l’opera di Giovan Battista Piranesi. Ma i suoi sgraziati monoliti, a differenza della sublime solidità costruttiva propria alle opere d’invenzione dell’architetto veneto, non hanno resistito molto.

Tagliuzzando spazi tra un piano e l’altro, abbassando di qualche metro l’altezza fissata a 200 metri, cucendo e scucendo metri tra corridoi e pianerottoli, la giunta Raggi, ha scelto non di rigettare quel progetto, ma di cucinare con i resti. Sembra essere riuscita a mettere insieme quella manciata di superficie che consente adesso di affermare a Luigi Di Maio: «È tutta un’altra cosa, siamo di fronte ad un progetto sostenibile e rispettoso dei valori del Movimento 5 Stelle».

Una volta erano le città a richiedere e ottenere per loro rispetto, che attraverso le regole dell’urbanistica veniva riportato a chi la città abita. È stato proprio rispettandosi e riconoscendosi l’un l’altro come abitante, ritrovarsi sotto il medesimo cielo, a fare della città la costruzione collettiva per eccellenza. Da quest’atto deriva l’abitare. Anche quando assume la forma del conflitto. A questo serviva l’urbanistica. A far sì che gli interessi dei pochi non prevaricassero su quello dei molti. Questo, nei casi in cui ci si è riusciti, è la massima forma di rispetto possibile. Ora è il contrario. Le «regole» si fissano dopo aver sistemato il progetto. Una volta ascoltato e autorizzato senza battere ciglio quello che i proponenti vogliono fare.

L’urbanistica contrattata, che trova in Roma la sua indiscussa capitale e che è stata tenuta a balia dal disinvolto Piano regolatore veltroniano, con lo stadio conosce ora una nuova disciplina: il rispetto del proponente. Nel caso del cosiddetto stadio della Roma è difficile individuare il proponente in una sola figura. È la società sportiva, o questa è solo il veicolo necessario a far partire l’operazione immobiliare che poco ha a che fare con lo sport?

È il tycoon americano suo presidente, o questo è solo l’imprenditore che ha come obiettivo esclusivamente d’incrementare il patrimonio della società di cui è il maggiore azionista e poi magari venderla impreziosita di un «titolo edilizio» stimato ben oltre il valore attuale della società? È quel costruttore che si fa chiamare ora «sviluppatore», o questo è solo il suo ultimo disperato tentativo di poter salvare quel che resta del suo patrimonio tentando di coinvolgere la banca, vero padrone del suo asset societario, costruendole, con questo progetto e la sua futura gestione, l’acquisizione infinita di plusvalenze basate sulla estensione coatta del debito a tutti i soggetti interessati e allentare così (forse) il pesante peso debitorio?

Per questo proponenti e amministratori, anche se sembrano essersi accordati tra loro e trovata un’intesa, hanno ancora il problema di trovare una legittimazione al loro operato. Hanno bisogno dell’urbanistica che, cancellata, si ripresenta chiedendo di sottoporre quelle carte ad un voto del consiglio comunale dove il sistema bancario e i proponenti non saranno presenti. Sarà presente chi dovrà alzare la mano per autorizzare il tutto. E alzando la mano sarà costretto a far vedere la sua faccia.

il manifesto
L’URBANISTICA CONTRATTATA E L'ULTIMA TROVATA
di Enzo Scandurra

Il grande progetto Tor di Valle (che con lo stadio ha poco o niente a che vedere e, per favore, diciamocelo) cambierà Roma?
Roma sarà più moderna? Somiglierà di più a Milano e alle altre grandi città globali, come Londra, Barcellona, Dubai?

Al termine di una visita turistica ai Fori, a piazza Navona, a piazza Campo de’ Fiori, ci sarà la gita fuori porta a Tor di Valle per ammirare i grattacieli che si specchiano sul Tevere? E i borgatari di Ponte di Nona, di Tor Bella Monaca, del Laurentino saliranno sui torpedoni turistici per andare ad ammirare quel pezzo della loro città per scoprire bellezze a loro sconosciute, così da dire, al termine della gita: sono orgoglioso di vivere in questa città?

Non so se corrisponde a verità, ma ho letto che nella miracolosa sforbiciata destinata a ridurre la colata di cemento, c’è anche una riduzione dei posti del nuovo stadio: da 60 mila a 52 mila! Se è così, dentro l’amministrazione Raggi ci deve essere qualche mago che conosce cose sconosciute a tutti, ovvero che quegli 8 mila tifosi erano fasulli e tanto valeva tenerne conto. O forse a dimostrare che lo stadio, in quel faraonico progetto, da soggetto è diventato una variabile dipendente.

Tutto questo passa, nella testa di chi difende questo progetto, come modernizzazione, innovazione, stare al passo con i tempi, che poi sono i tempi di un capitalismo trasformatosi in pensiero comune, diffuso, molecolare: l’ideologia neoliberista che azzera la storia come inutile fardello.

E l’urbanistica? Di chi è la città, avrebbe detto Lefebvre?

Povera disciplina che pure in passato ha avuto qualche momento di sussulto, qualche bella stagione (chi si ricorda più di nomi di Olivetti, La Pira, Doglio, Sullo?). Ora a questa parola è stato aggiunto il qualificativo di contrattata, un po’ come è avvenuto alla democrazia che qualcuno vuole partecipata, perché a chiamarla semplicemente democrazia si rischia di non dire niente, semplice banalità, vecchio arnese arrugginito dal tempo.

Contrattata da chi? E con chi? Non certo con gli abitanti della città né col popolo delle periferie né con tutte quelle associazioni che quotidianamente si impegnano, e si battono, per avere una città semplicemente più decente. Contrattata con i soliti noti: quei poteri forti che a Roma, dai tempi di Pasolini, si chiamano impropriamente costruttori e che la bonaria ironia dei romani ha ribattezzato come palazzinari. I famosi palazzinari con al seguito banche creditrici e investitori hanno sempre segnato il destino di questa città.

È l’ultima scoperta del M5S; perché loro non sapevano, ai tempi della competizione elettorale per eleggere il sindaco, che a Roma di re non ce ne sono stati solo sette, ma che quella dinastia ha continuato a tenere botta. Così cacciato Berdini che, a detta di Raggi, parlava troppo e faceva niente, adesso sarà lei, la sindaca Raggi, improvvisata urbanista, a contrattarli, assicurandoci che non ci sarà una nuova colata di cemento. Su Tor di Valle pioverà manna dal cielo e Roma riprenderà a splendere più bella che pria.

È giorno di lutto per questa città, per i suoi abitanti e anche per quei tifosi che allo stadio certo ci tengono ma non a qualsiasi costo; anche loro vorrebbero una città più decente. Da domani ri-inizieremo a parlare di buche, di autobus che si fermano per la strada, di dove deve andare quella misteriosa metropolitana che sembra essersi persa nel sottosuolo romano, di tavolini selvaggi nel centro, e magari, perché no, di quegli insignificanti territori che si chiamano periferie abitati da cittadini che si chiamano tali solo il giorno delle elezioni.

E di Tor Bella Monaca, di Corviale, del Laurentino, che ne facciamo? Ora lo sappiamo: potremmo costruire altrettanti stadi così da riqualificare quei luoghi miserabili e diseredati con tanti grattacieli, magari ecologici, magari un po’ storti come si addice ai tempi moderni.

Stadi di Roma e di Firenze, Tav Val di Susa, Ponte sullo Stretto: «mega progetti presentati come la panacea di tutti mali, unica prospettiva per il rilancio dell’economia, l’immagine e il futuro di un territorio. Bisognerebbe invece partire dalla manutenzione come bisogno primario per aprirsi a piani, anche ambiziosi, ma sostenibili». il manifesto, 15 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’esito del duro scontro acceso intorno alla questione del nuovo stadio a Roma, e magari le dimissioni del prestigioso assessore Berdini, non riguarda solo la capitale. È una battaglia che ha un valore simbolico per tutto il nostro paese.

È da almeno vent’anni che si discute animatamente e si lotta duramente in alcuni casi (come per il Tav in Val Susa) sulle grandi opere prospettate di volta in volta come la panacea di tutti mali, unica prospettiva per il rilancio dell’economia, l’immagine e il futuro di un determinato territorio. Purtroppo, bisogna dire che la resistenza dei movimenti ambientalisti e di una parte della sinistra (a cui negli ultimi anni si era aggiunto il M5S) non è stata finora sufficiente a bloccare questa hybris che si manifesta con più forza nei momenti di crisi economica come quello che stiamo attraversando.

Poco prima di perdere il Referendum l’ex premier ha tirato nuovamente in ballo il Ponte sullo Stretto come prospettiva realistica con cui rilanciare quest’area del nostro Sud che presenta altissimi tassi di inoccupazione giovanile ed una fuga da questo territorio che ormai è diventato un esodo. Ci piaccia o no, le Grandi Opere esercitano un fascino sulla gran parte della popolazione perché il modello di sviluppo che abbiamo visto ed interiorizzato è questo e non riusciamo a immaginarne un altro.

Uno dei migliori contributi che ci ha dato Serge Latouche, soprattutto nei suoi primi scritti, è stato appunto questo: non usciamo da questa crisi, ambientale e sociale, se non cambiamo immaginario, se non la smettiamo di ridurre tutto il mondo a merce, un paesaggio o un bosco. Che non significa abbracciare tout court una nuova religione della “decrescita”, ma essere capaci di creare posti di lavoro, di autorealizzazione, spazi vivibili e progetti/visioni del futuro entusiasmanti, senza continuare a massacrare di cemento il nostro paese. E questo vale ovviamente anche per la capitale.

Lo si può fare recuperando il già costruito e magari abbandonato, come giustamente ci ricordava Piero Bevilacqua rispetto al caso dello stadio Flaminio, lo si può fare utilizzando nuove tecnologie, dando spazio agli artisti di ogni ordine e grado.

È questo lo snodo fondamentale per costruire una alternativa a questo sistema, altrimenti non importa chi ci governa perché la forza degli interessi in gioco unendosi a questa subalternità culturale, a questa mancanza di fantasia, sarà sempre vincente. Come spesso viene ricordato la Politica come la Fisica non sopporta il “vuoto”, e quando si crea c’è sempre qualcuno o qualcosa pronto a riempirlo. E questo è vero anche per il territorio, non nel senso dello spazio vuoto, ma del vuoto culturale che lascia un territorio senza prospettive.

A Saline Joniche in provincia di Reggio Calabria venne inaugurata nel 1975 la Liquichimica, una fabbrica che doveva produrre dal petrolio proteine per l’alimentazione animale. Assunse 500 addetti, gli fece fare sei mesi di formazione con soldi pubblici, ma non un solo giorno di lavoro. Il prezzo del petrolio era salito alle stelle rendendo non competitive queste “Bioproteine” rispetto alla soia statunitense. I cinquecento andarono tutti in cassa integrazione e in queste condizioni sono andati in pensione.

Per quaranta anni si è lasciato senza manutenzione, in uno stato di penoso abbandono l’ampio spazio occupato da questo stabilimento – comprese le mega piscine per decantazione – che sorge sul mare in uno dei posti più belli della costa jonica calabrese. Ma, nel 2014 una impresa multinazionale svizzera presentò un progetto per costruire una mega centrale a carbone. Riuscì a coinvolgere (corrompere) una parte degli amministratori locali, ma non la popolazione che insorse e costrinse enti locali e governo regionale a bloccare questo folle progetto. State sicuri che se verrà lasciata ancora nell’abbandono altri progetti folli vedranno la luce e qualcuno alla fine la spunterà.

La scommessa è questa: partire dalla manutenzione come bisogno primario per aprirsi a progetti, anche ambiziosi, ma sostenibili sul piano ambientale e sociale capaci di mobilitare energie per un orizzonte comune su cui puntare.

«Vertice della svolta sul nuovo stadio con il direttore della As Roma e il costruttore Parnasi. L'assessore all'Urbanistica Berdini dà le dimissioni "irrevocabili"». il manifesto, 15 febbraio 2016 (p.d.)

Lo sguardo ineffabile delle radio dei tifosi giallorossi saluta l’accordo sullo stadio tra giunta capitolina e As Roma. Non c’è ancora un via libera ufficiale alla cittadella che sorgerà a Tor di Valle col viatico del nuovo impianto, ma poco ci manca. Tanto che dopo giorni di attesa, l’assessore all’urbanistica Paolo Berdini annuncia le sue «dimissioni irrevocabili». «Mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo Stadio della Roma», è il grido di dolore dell’ormai ex assessore.
Alla riunione della svolta c’è il primo in grado della Roma in Italia, il direttore generale Mauro Baldissoni. Con lui arriva il costruttore Luca Parnasi. Si apprende che la società calcistica aveva chiesto la presenza della sindaca. Lei però non si presenta. Per l’amministrazione capitolina ci sono il vicesindaco Luca Bergamo, il presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, il capogruppo Paolo Ferrara e la presidente della commissione Urbanistica di Roma Donatella Iorio, che smentisce di essere candidata a sostituire Berdini in assessorato. Dalla composizione si capisce che l’incontro è più politico che tecnico. L’ultimo di questo genere si era tenuto proprio nella sede dell’ assessorato all’urbanistica quando il padrone di casa era in pieni poteri. Questa volta ci si vede in Campidoglio. Ma colui che ha definito il progetto «la più imponente speculazione immobiliare del momento in Europa» che richiederebbe «la più grande variante urbanistica ad hoc mai approvata a Roma», non è della partita. Senza l’assessore ancora formalmente in carica (seppure «con riserva») si discute di 974 mila metri cubi di cemento che comprendono solo per un 14% lo stadio vero e proprio. Il resto contiene le tre torri disegnate dallo studio Libeskind, un albergo e centri commerciali. E poi c’è da parlare di opere infrastrutturali come ponti e uno svincolo. Berdini chiedeva appunto di tornare nell’ambito del Piano regolatore di Roma, secondo cui andrebbe costruito lo stadio e poco più.
Ai primi di febbraio, il Campidoglio aveva ufficialmente chiesto la modifica del progetto per alcune carenze. La posizione di Berdini, favorevole a un drastico taglio di cubature, si scontrava ormai da settimane con quella dell’ala dialogante del M5S, che sarebbe capeggiata dall’assessore allo sport Daniele Frongia, pronta a chiudere un accordo con una diminuzione delle cubature attorno al 20%, magari tagliando in altezza qualche edificio.
Ballano 600mila metri cubi di cemento, insomma. E dietro quelle cubature si agitano gli spettri della tradizionale speculazione edilizia assieme ai giochi fantasmagorici della finanza, con Unicredit a tenere i cordoni della borsa. Così, quando Luca Bergamo esce dalla riunione annunciando con soddisfazione che si è aperto un nuovo corso, si capisce che la fronda pro-stadio ha preso il sopravvento. «Vorrei ringraziare la Roma per aver risposto alle nostre sollecitazioni nella riunione della scorsa settimana presentandoci oggi una revisione del progetto che ha dei caratteri fortemente innovativi – dice Bergamo – I tavoli tecnici sono ancora al lavoro, faremo una valutazione di questa importante novità e ci siamo dati appuntamento alla prossima settimana». Se riusciranno a rispettare i tempi, cioè si avrà un primo via libera entro il 3 marzo? «È ovvio», risponde sicuro il vicesindaco. A chi gli chiede maggiori dettagli, come quello – decisivo per capire di che compromesso si tratta – circa l’esistenza di una variante urbanistica che passerà in consiglio, Bergamo risponde: «Di tutti questi elementi parleremo una volta completata questa primissima fase».
Anche Baldissoni si sbilancia: «Noi abbiamo sempre detto che vogliamo fare questo progetto insieme alla città. Abbiamo cercato di intercettare quali sono le esigenze e visioni della nuova giunta. Continuiamo a lavorare insieme, nel rispetto dei tempi e della sostenibilità del progetto stesso». Si vedrà se adesso quella parte di base grillina che nei giorni scorsi ha contestato il progetto, o almeno ha chiesto che la decisione venisse decisa mediante votazione online sul sito di Grillo, accetterà i termini dell’accordo.
Tutto mentre la cottura a fuoco lento di Berdini è proseguita fino a ieri pomeriggio, con la sindaca che non voleva farne una vittima e puntava a sfiancarlo. L’ultima trovata degli avvocati passati alla politica che costituiscono l’ossatura della giunta (ci si faccia caso, hanno l’abitudine di appigliarsi al cavillo e alle procedure) si chiamava «due diligence», sorta controllo degli atti finora portati avanti dall’urbanista. Solo che stavolta Berdini sbatte la porta: «Era mia intenzione servire la città mettendo a disposizione competenze e idee. Prendo atto che sono venute a mancare tutte le condizioni per poter proseguire il mio lavoro». Il consigliere pentastellato Pietro Calabrese lo accusa: «Se alle parole non corrispondono i fatti è normale che le strade a un certo punto si dividano». Raggi è gelida: «Prendiamo atto che l’assessore preferisce continuare a fare polemiche piuttosto che lavorare. Noi andiamo avanti». L’ex assessore torna al suo lavoro di urbanista, spiegando dove secondo lui la giunta ha mancato: «Dovevamo riportare la città nella piena legalità e trasparenza delle decisioni urbanistiche, invece si continua sulla strada dell’urbanistica contrattata, che come è noto, ha provocato immensi danni a Roma».

«Questione romana. Il virus del trasformismo sembra aver contagiato i grillini».il manifesto, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’imprudenza di Paolo Berdini non può trasformarsi in un viatico per l’approvazione dello Stadio. Il progetto che va sotto il nome Stadio della Roma è forse la più grossa speculazione fondiaria tentata a Roma dopo l’Unità d’Italia.

Un milione di metri cubi a Tor di Valle, in una fragile ansa del Tevere non lontana dall’Eur, località difficilmente accessibile, servita solo dalla Roma-Lido, la peggiore ferrovia d’Italia. Un milione di metri cubi equivale a dieci volte il volume dell’Hilton, l’albergo su Monte Mario della Società generale immobiliare contro il quale, a metà degli anni Cinquanta, si mobilitò l’Espresso (che aveva pochi mesi di vita). «Capitale corrotta, nazione infetta» è il titolo dell’articolo di Manlio Cancogni che dette il via a una memorabile campagna giornalistica, politica e morale, contro il malgoverno urbanistico. All’Espresso si affiancò Il Mondo dove scriveva Antonio Cederna che nell’occasione coniò l’hilton, unità di misura della speculazione edilizia: un hilton = centomila metri cubi.

Del milione di metri cubi previsti a Tor di Valle, lo stadio e le altre funzioni connesse alle attività sportive formano solo un segmento, meno del venti per cento, di un complesso immobiliare che comprende tre grattacieli alti più di duecento metri e altri edifici destinati ad attività direzionali, ricettive e commerciali senza rapporti con lo stadio, ma destinati a compensare il costo delle infrastrutture dichiarate necessarie per la funzionalità dell’insieme. Una specie di piccola Eur dove il piano regolatore prevede impianti sportivi con modeste cubature. Tutto ciò sarebbe consentito non da una legge sugli stadi, di cui ogni tanto si sente parlare, legge che non esiste, ma grazie a una norma inserita forzosamente e all’ultimo momento nella legge di stabilità del 2014 nell’ambito del tradizionale maxiemendamento e quindi approvato solo per volontà del governo con voto di fiducia.

E contro tutto ciò si sono energicamente battuti, durante l’amministrazione Marino, che aveva insensatamente deliberato l’interesse pubblico del progetto, il gruppo consiliare M5S e l’allora consigliera Virginia Raggi. Che non hanno cambiato idea in campagna elettorale. Per questa ragione, chi scrive questa nota non è stato il solo a votare per Virginia Raggi al ballottaggio per il sindaco nelle scorse elezioni amministrative, e ha votato Raggi soprattutto perché la determinazione contro lo stadio e la speculazione edilizia in generale era rafforzata dalla candidatura di Paolo Berdini ad assessore all’urbanistica, sicuro presidio contro il malaffare.

Tutto ciò sembra che non conti più nulla, più della coerenza e del rispetto per gli impegni presi (che pure furono rispettati a proposito delle Olimpiadi) contano il consenso di Totti e dei tifosi che un tempo l’Uisp (Unione italiana sport popolari) chiamava gli sportivi con il culo (nel senso che fanno sport stando seduti). Non conta nulla non sapere che fine fanno lo stadio Olimpico e il vecchio stadio Flaminio ormai vergognosamente abbandonato. Per non dire della difficoltà a negare lo stesso trattamento a una eventuale richiesta della Lazio o di altre società sportive. Contro lo stadio sono rimasti alcune associazioni ambientaliste, il benemerito comitato «Salviamo Tor di Valle» dal cemento e pochi altri.

Questo modo di fare politica si chiama trasformismo. Fu definita così la pratica politica sostenuta dal presidente del Consiglio Agostino De Pretis che, in un famoso discorso a Stradella nel 1882, si rivolse agli esponenti della destra affinché si trasformassero e diventassero progressisti. Da allora, il trasformismo, da De Pretis a Mussolini a Matteo Renzi al M5S, è diventata la più funesta malattia non solo della sinistra ma di tutta la politica italiana.

«Berdini è – e resta – un punto di riferimento per chiunque pensa che il male delle nostre città sia che abbiamo troppo, e non troppo poco, cemento». la Repubblica, Blog art.9 Tomaso Montanari, 9 febbraio 2017 (c.m.c.)

Paolo Berdini è stato terribilmente ingenuo: si sa, «i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce» (Luca, 18, 6). Ma difficilmente chi è stato polizzato a sua insaputa può rimproverare qualcosa ad uno che a sua insaputa è stato intervistato.

L'iperpersonalizzazione della politica italiana (e in particolare delle figure dei sindaci-capi, con la loro elezione plebiscitaristica) fa sì che il problema sembri quello della lealtà dell'assessore al sindaco. No: il problema vero è la fedeltà della giunta al programma e ai cittadini. Anzi, al bene comune.

Ora, non c'è alcun dubbio che Berdini è – e resta – un punto di riferimento per chiunque pensa che il male delle nostre città sia che abbiamo troppo, e non troppo poco, cemento. Una delle famose 5 stelle rappresenta l'ambiente: se salta Berdini, è evidente che la giunta diventa a 4 stelle.

Allora, se Berdini deve saltare, deve saltare semmai sullo Stadio. Se la Raggi dovesse cedere all'eterno potere dei palazzinari e ai tweet del Pup(olist)one, se ci si dovesse rassegnare al fatto che a Roma il sistema dei signori del cemento vige non solo con la destra e la sinistra, ma anche con gli antisistema: beh, in quel caso Paolo Berdini non avrebbe un solo motivo per restare.

Ma non ora. Non perché ha detto ciò che – a torto o a ragione – dicono, con dispiacere e angoscia, moltissimi cittadini italiani, moltissimi militanti e moltissimi eletti del Movimento 5 Stelle.

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