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Il 25 Aprile 1945 l'Italia si riscattò dall'asservimento al nazismo. Oggi più che mai è necessario il monito di Bertold Brecht: «E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava una volta per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiam vittoria troppo presto il grembo da cui nacque è ancora fecondo». Con queste parole si apre il Museo Monumento al Deportato di Carpi, costruito per tradurre in ricordo gli orrori di quel periodo nefasto della nostra storia, che nel Campo di Fossili (a sei km da Carpi) sono ancora vivi nei resti delle strutture. Fossoli fu costruito nel 1942 dal Regio Esercito per imprigionare i militari nemici. L'anno successivo diventò un campo di concentramento per ebrei. Nel marzo 1944 si trasforma in campo poliziesco e di transito, utilizzato dalle SS come centro nazionale di raccolta dei deportati da inviare ai campi di sterminio. Sono stati circa 5000 le persone internate a Fossoli e poi trasferite ai campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück.
Qui il link alla La Fondazione ex campo Fossoli, costituita nel gennaio 1996 dal Comune di Carpi e dall'Associazione Amici del Museo Monumento al Deportato, per informazioni su questo importante, ma spesso sottovalutato museo. Sulle vicende si veda il reportage del Corriere della Sera.
Fonte: nell'immagine il Museo Monumento al Deportato tratta dal sito della Fondazione.

il Fatto quotidiano,
Oggi è il 25 aprile e non è facile parlarne. Si festeggia la Liberazione dai nazifascisti e – contestualmente – l’ultima volta (73 anni fa) in cui il Paese si è veramente alzato in piedi e ha scritto una pagina di storia di cui andare fieri. I buoni hanno cacciato i cattivi a schioppettate dopo averne viste e sopportate di tutti i colori, il dittatore è finito appeso come nelle fiabe o nelle rivoluzioni, si è riunito un Paese, è nata una buonissima Costituzione, molto avanzata per i tempi, e ancora oggi decente baluardo al nuovo (vecchio) che avanza. Ognuno ha il suo 25 aprile e se lo tiene stretto nonostante mala tempora currunt.

I primi risultati su Google cercando “25 aprile” (sezione “notizie”, ora mentre scrivo) sono i seguenti: “25 aprile, chi apre e chi chiude tra le grandi catene”. “Che tempo farà nei ponti di 25 aprile e primo maggio”. Poi la solita querelle sui palestinesi con la kefieh (se possano o no andare alla manifestazione), e infine un’inchiesta giornalistica (a Pesaro) secondo la quale solo due studenti su dieci sanno cosa significhi la data. Chiosa (quinta notizia) un titolo de Il Giornale: “Il falso mito del 25 aprile. Un italiano su tre: che cos’è?”.

Eppure, oggi è il 25 aprile, e si festeggia. Non solo nelle grandi e piccole manifestazioni, ma in molti gesti di devozione popolare. Chi (esempio) ha mai fatto a Milano il giro delle lapidi dei partigiani fucilati, dove l’Anpi depone le corone con piccole volanti cerimonie, conosce un’intensità speciale, di quelle che rendono giustizia all’anniversario, che lo celebrano veramente.

Perché per anni ci hanno detto che ormai era soltanto retorica, discorsi vuoti, consuetudine, e invece no: nonostante il rischio di consunzione, la festa ha resistito, ed è ancora viva. Negli anni, i partigiani sono stati tirati di qua e di là per la giacchetta (disse un giorno la Boschi che “quelli veri” votavano sì al suo referendum), sballottati ora come figurine edificanti, ora come reliquie. Santificati e demonizzati. Il Pd milanese, che l’anno scorso alla manifestazione portò surreali bandiere blu, quest’anno sfilerà con le belle facce dei partigiani sugli striscioni, a segnalare che il 25 aprile è piuttosto elastico a seconda della bisogna, della tattica, dell’aria che tira.

E però si festeggia lo stesso, perché con tutto il discutere dotto e complesso su populismo, populismi e populisti, quella là, quella del 25 aprile, è stata la volta che si è visto veramente un popolo.

Dunque, ognuno ha il suo 25 aprile, e ognuno può mettere in atto gesti e trucchi per non farsi fregare dalle retoriche passeggere, dagli usi strumentali, dalle stupidaggini negazioniste.

Il mio metodo è di riprendere in mano, per qualche minuto, i volumi delle lettere dei Condannati a morte della Resistenza, e di andare a salutarne qualcuno. E poi torno sempre lì, da Giuseppe Bianchetti, operaio, 34 anni, di vicino Novara, fucilato dai tedeschi nel febbraio del ’44:

«Caro fratello Giovanni, scusami se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto per me mi permetto ancora di inviarti questa mia lettera. Non posso nasconderti che tra mezz’ora verrò fucilato; però ti raccomando le mie bambine, di dar loro il miglior aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine. T’auguro a te e tua famiglia ogni bene, accetta questo mio ultimo saluto da tuo fratello. Giuseppe. Di una cosa ancora ti disturbo: di venire a Novara a prendere il mio paletò e ciò che resta. Ciau tuo fratello Giuseppe«

Leggo questa lettera ogni anno, da anni, perché in quel “paletò” da andare a prendere a Novara insieme a “ciò che resta” mi sembra di vedere una dignità inarrivabile, con la parola “popolo” che si riprende il suo posto. Siamo stati anche questo, per fortuna e sì, bisogna festeggiare.

Internazionale , 2

“Quando pareva vinta Roma antica, sorse l’invitta decima legione, vinse sul campo il barbaro nemico, Roma riebbe pace con onore”. Le parole della marcetta della decima flottiglia Mas – un corpo militare della Repubblica sociale italiana (Rsi) – sono scandite da una trentina di reduci e simpatizzanti: sono tutti avanti con l’età e sono venuti nel municipio di Gorizia per celebrare il 73° anniversario della battaglia di Tarnova della Selva contro l’esercito jugoslavo. È la prima volta che gli è concesso entrare nella sala della giunta comunale.

È il 20 gennaio, un sabato mattina: è freddo, ma c’è il sole. Un gruppo di militanti di CasaPound in picchetto sotto al municipio è venuto a sostenere quelli della Decima Mas, mentre un centinaio di antifascisti che protestano contro l’evento sono tenuti a distanza dalle forze dell’ordine. “Onore a chi non ha tradito”, c’è scritto in fasciofont sullo striscione tenuto da alcuni ragazzi di CasaPound.

I cappelli grigioverdi da combattenti calzati sulla testa e in mano i vessilli dell’Rsi: una bandiera con al centro un’aquila che artiglia un fascio, all’apice un fiocco azzurro, il colore della Decima Mas. I reduci del battaglione fascista che collaborò con la Germania nazista sono accolti nel municipio di Gorizia dal consigliere di Forza Italia Fabio Gentile, famoso perché risponde all’appello del consiglio comunale alla maniera fascista: alzando il braccio destro.

L’epica neofascista
Il sindaco Rodolfo Ziberna, di Forza Italia, non assiste alla celebrazione, al suo posto c’è il vicesindaco Stefano Ceretta, della Lega, che intona l’inno della Decima Mas. “Gorizia è italiana perché la Decima l’ha difesa. I nostri caduti si sono sacrificati per la sua difesa”, dice Fiamma Marini, presidente dell’Associazione dei combattenti, durante la commemorazione.

Nell’epica della Repubblica sociale italiana, la battaglia di Tarnova ha un posto speciale: i fascisti sostengono che il battaglione della Decima Mas nel 1945 abbia difeso “l’italianità” di Gorizia dall’invasione dell’esercito jugoslavo, ma la ricostruzione è contestata da molti storici, perché all’epoca la città era occupata dai nazisti, che combattevano al fianco del battaglione fascista.

Il vicesindaco Ceretta ha risposto alle critiche sollevate sulla sua partecipazione alla commemorazione (che hanno portato anche a un’interrogazione parlamentare) dicendo che “i morti sono tutti uguali”. Per la storica Anna Di Gianantonio, presidente dell’Anpi di Gorizia, il fatto che le istituzioni locali abbiano commemorato con i reduci la battaglia di Tarnova è un affronto alla città che è stata medaglia d’oro della resistenza.

I reduci arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia

A Gorizia, soprattutto in provincia, il fascismo coincise con una violenta “italianizzazione”, che passò anche dalla persecuzione di migliaia di cittadini di origine slovena. Lorenzo Filipaz ha provato a sfatare il mito della battaglia di Tarnova e sul tema pubblicherà nel 2018 il libro Prigionieri del ricordo.

Su Giap, Filipaz ha scritto: “Per documentare il loro alquanto dubbio apporto alla difesa dell’italianità al confine orientale i reduci arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia epica contro gli ‘slavocomunisti’ – la presunta battaglia di Tarnova – non riconosciuta da nessun altro, mentre le proteste contro i comandi tedeschi per le scarse forniture di armi si tramutarono in prove incontestabili di opposizione al nazismo”.

La commemorazione in municipio è solo l’ultimo atto di un conflitto ideologico che ha come sfondo una città dalla memoria contesa. “Nei giorni in cui il presidente della repubblica nominava senatrice a vita Liliana Segre – una delle ultime sopravvissute ai campi di sterminio nazisti – a Gorizia si celebrava la Decima Mas con tanto di picchetto di CasaPound”, commenta Andrea Picco, consigliere comunale del Forum per Gorizia, mentre si avvia all’inaugurazione di una pietra d’inciampo dedicata a Elda Michelstaedter Morpurgo, un’ebrea goriziana deportata ad Auschwitz nel 1943.

Gorizia – città “maledetta” per il massacro di migliaia di soldati durante la prima guerra mondiale, estrema periferia orientale dell’Italia, feudo della destra – è una specie di museo a cielo aperto della storia del novecento. E forse proprio per questo rapporto conflittuale con la sua storia la città amplifica alcune tendenze visibili anche a livello nazionale: la strumentalizzazione elettorale dell’ostilità verso i migranti in un contesto di rapido spopolamento e invecchiamento della popolazione, la sensazione di abbandono di chi si sente in periferia, l’inquietudine prodotta dalle trasformazioni del mondo del lavoro, la costruzione artificiosa e continua dell’idea del confine, e la proliferazioni di miti legati alla difesa di una fantomatica identità nazionale.

Il polso del paese


Ali Hassan è un ragazzo pachistano di vent’anni: alto e slanciato. Gira spaesato per i negozi di via XX settembre, nel centro che sembra svuotato, tra i cartelli “vendesi” e “affittasi” appesi alle finestre dei vecchi palazzi. Indossa una giacca blu con il bavero alzato e ogni tanto si ferma a chiacchierare con gli amici. È tornato due settimane fa dalla Germania, dove gli è stato negato l’asilo perché il Pakistan è considerato un paese d’origine sicuro.

In Italia ha presentato di nuovo la richiesta e sta aspettando una risposta. Non pensa di fermarsi a Gorizia: appena avrà i documenti si sposterà più a sud per cercare lavoro, ma per ora dorme per strada o nella struttura termoriscaldata che all’inizio di dicembre è stata costruita da Medici senza frontiere in uno spazio dell’arcidiocesi. Il 20 febbraio però l’arcidiocesi ha annunciato che il tendone di 240 metri sarà smontato, in anticipo rispetto al previsto.

Nelle vie del centro i ragazzi pachistani sono tra i pochi passanti insieme ai pensionati. Più di un quarto della popolazione residente in Friuli-Venezia Giulia ha almeno 65 anni. A Gorizia è il 26,6 per cento (il dato nazionale è del 22,6 per cento). Il Friuli-Venezia Giulia e la Liguria sono le regioni d’Italia con più anziani – in particolare alcuni territori come Trieste e Gorizia – a causa di una diminuzione della natalità che non è compensata dall’immigrazione: i migranti che arrivano qui ci rimangono giusto il tempo di presentare la domanda d’asilo.

“Bisogna dire che a Gorizia non ci sono stati episodi di criminalità o particolari problemi dovuti all’ultima ondata migratoria, ma il sentimento generale verso gli immigrati è di ostilità”, afferma Adriano Ossola, libraio, editore indipendente, insegnante di lettere in un liceo della città e organizzatore del festival di storia, che quest’anno è dedicato alle migrazioni.

“In classe non propongo più da tempo temi sull’immigrazione, perché la maggior parte delle volte leggevo nei testi dei ragazzi odio e aggressività verso i migranti”, racconta Ossola, che ritiene responsabile della diffusa intolleranza il governo guidato dal Partito democratico. “Il Pd ha perso il polso del paese. La tendenza alla mobilità è connaturata nell’indole umana, ma oggi il pianeta è diventato troppo stretto e anche a causa della situazione economica. La migrazione si accompagna a sentimenti di paura sempre più acuta”.

Lui stesso ammette di aver cambiato atteggiamento nell’ultimo anno: “Nel 2015 ero rimasto molto colpito dalla morte di un ragazzo pachistano annegato nell’Isonzo, il fatto mi aveva davvero sconvolto e mi aveva spinto a scriverne, ma ora anch’io ho cambiato posizione e credo che gli arrivi si debbano in qualche modo fermare”. Ossola è convinto che la politica migratoria del Pd sia troppo permissiva. Un mese dopo le elezioni politiche, in Friuli-Venezia Giulia si voterà anche per rinnovare il consiglio regionale guidato da Debora Serracchiani, del Partito democratico.

Campagna elettorale perenne


A differenza di Ossola un’altra parte della popolazione goriziana, minoritaria ma tutt’altro che silenziosa, pensa che la questione dell’immigrazione sia stata strumentalizzata per scopi elettorali. “Prima ci sono state le amministrative, ora ci saranno le politiche e poi le regionali: siamo in una campagna elettorale perenne, che si è giocata tutta sul tema dell’immigrazione”, afferma Andrea Picco, consigliere comunale di Gorizia della lista civica di sinistra Forum, eletto a giugno del 2017.

Rodolfo Ziberna, un ex socialdemocratico entrato nelle file di Forza Italia, figlio di profughi istriani, ha raccolto sotto un unico ombrello otto liste – da Forza Italia alla Lega, fino a Fratelli d’Italia – e ha fatto una campagna molto aggressiva sull’immigrazione con lo slogan “Stop all’immigrazione incontrollata” e “Gorizia prima di tutto”.

Ziberna non ha vinto al primo turno per una manciata di voti, mentre al ballottaggio si è imposto sul candidato del centrosinistra Roberto Collini con il 59,7 per cento dei consensi. Il centrosinistra ha presentato cinque candidati rivali in un territorio considerato un bastione del centrodestra, e i cinquestelle non hanno avuto l’exploit di altri territori, fermandosi al 5,1 per cento.

“Ziberna non ha avuto bisogno di fare la campagna elettorale: ha semplicemente approfittato del fatto che Gorizia non è sufficientemente attrezzata e che i migranti in transito in attesa di una risposta dalla commissione territoriale dormivano in piazza Vittoria”, spiega Picco. “Spargendo messaggi di sospetto e di terrore e promettendo tolleranza zero ha vinto facile”, continua il consigliere comunale di opposizione.

Fino all’agosto del 2017 e per alcuni mesi i migranti che arrivavano a Gorizia dalla rotta balcanica dormivano all’addiaccio nel Parco della Valletta del corno oppure lungo le rive del fiume Isonzo nella cosiddetta jungle, poi sono stati sgomberati. Allora hanno cominciato a dormire davanti alla prefettura, nella piazza centrale di Gorizia, prima di rifugiarsi nella galleria Bombi: un tunnel pedonale sotto al castello della città.

L’articolo è tratto da “Internazionale", ed è qui raggiungibile


Vedi anche, su eddyburg, A proposito di un discorso monco

«Possiamo, dunque, “cambiare” il mondo raccontandoci storie diverse da quelle che ci vengono raccontate e farlo con parole nuove?» il manifesto 27 aprile 2017 (c.m.c.)

Mi chiedo: come si potrebbe essere partigiani oggi e tutti i giorni dell’anno? Perché quella della Resistenza è stata un’epoca eroica, quando ciascuno ha dovuto scegliere da che parte stare, e con sacrificio, considerato che la scelta poteva essere pagata in termini di vita.

Ma oggi se si volesse essere fedeli (tempi a parte) a quella scelta, cosa bisognerebbe fare? È l’interrogativo posto dall’articolo (il manifesto, 25 aprile) di Angelo Ferracuti: «La lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, e anche nel fare con passione un racconto diverso, onesto della realtà». Le parole possono essere ancora rivoluzionarie, così come i racconti che ci facciamo. Possiamo, dunque, “cambiare” il mondo raccontandoci storie diverse da quelle che ci vengono raccontate e farlo con parole nuove?

Credo che questo dovrebbe essere il compito di ogni nuova formazione politica di sinistra. Non tanto rintuzzare o polemizzare il racconto che ci viene fatto, quanto svelarne l’opportunismo, il calcolo che esso sottende, la disuguaglianza che esso produce, stando sempre dalla parte del più debole, del più esposto.

Credo che la crisi della politica, la sua ormai sempre più manifesta incapacità a rappresentare le persone, sia soprattutto una crisi di linguaggio, di narrazione. Così come i padri non sanno più raccontare fiabe ai loro piccoli figli, i politici non sanno più rappresentare il mondo che viene e, di conseguenza, meno che mai raccontarlo ai loro rappresentati. Ci raccontano storie banali usando parole consumate di cui loro stessi, spesso, non ne capiscono nemmeno il senso: le hanno sentite pronunciare da altri e le ripetono come a voler/si convincere che sono vere: debito sovrano, austerity, sicurezza, spending review, realismo, terrorismo e via dicendo.

In fondo queste narrazioni, pur appartenendo a schieramenti diversi, si somigliano tutte: non si esce dal labirinto dove siamo stati cacciati e dove fingiamo che esso sia l’unico mondo possibile.

Eppure basta che una persona scarti un poco da quel linguaggio che subito ottiene consenso. Macron non è di sinistra né di destra (così si definisce e così lo hanno definito), e già basta a sparigliare i giochi, a far salire sul suo carro quelli (di sinistra e di destra) che di parole non ne hanno più e non sanno più raccontare niente di nuovo. Gramsci scriveva anche fiabe (L’albero del riccio, ad esempio), raccontava storie ai suoi due figli che non poteva vedere, guardava alla politica come una pedagogia per adulti e, al tempo stesso, ci raccontava del mondo contadino e delle sue possibilità di riscatto. Anche allora, bisogna dirlo, prevalse il realismo di coloro che miravano a risultati più “urgenti”.

C’è nella politica di sinistra una sorta di coazione a ripetere che, forse, in tempi brevi può rassicurare i suoi elettori, ma alla lunga diventa disfatta. Tale è l’aspettativa delle persone nei confronti di una nuova narrazione che non c’è, che spesso finiscono col seguire il primo pifferaio magico che compare sulla scena (Grillo o Salvini, o lo stesso Renzi), mentre la sinistra continua nella sua stanca narrazione, incapace di rinnovarsi, di intercettare i cambiamenti e le aspettative, a replicare se stessa.

Eppure Marx ci aveva raccontato un mondo diverso da quello in cui viveva, ci aveva svelato i segreti dietro il capitalismo, i suoi aspetti minacciosi, gli incubi che avrebbero potuto realizzarsi e, insieme, ci aveva raccontato la bella fiaba di una convivenza pacifica, serena, senza più sfruttamento di ogni uomo su ogni altro. Col tempo ci siamo un po’ confusi. Perfino iniziamo a dubitare che i partigiani della Resistenza siano mai vissuti o che, comunque, avevano i loro interessi a fare quello che hanno fatto. Dunque perché portarli ad esempio?
Macron è il nuovo e guai a prenderne le distanze: saremmo tacciati di lepenismo. Questo anche ci è stato tolto: la possibilità di una critica onesta, stretti dalla morsa: sei con me o contro di me? La sinistra, come la destra, è diventata una categoria retorica: il nuovo se ne svincola e ne fa bandiera. E, infondo, anche questa è una narrazione: la nuova narrazione postnovecentesca.
Moni (Salomone) Ovadia, esponente di rilievo della cultura ebraica mondiale, critica duramente quanti (dalla Brigata ebraica al PD) hanno preteso di impedire ai rappresentanti della Palestina in lotta di partecipare alle manifestazioni dell'Anpi per il 25 aprile.

il manifesto, 26 aprile2017

Non sono solo i nostalgici o i cultori dei fascismi a cercare di corrompere il senso autentico dell’antifascismo, negli ultimi lustri ci si sono messi revisionismi a vario titolo che senza avere il coraggio di negare i fondamenti della Resistenza hanno fatto di tutto per infangarne memoria e magistero

Anno dopo anno lo slogan più ripetuto per la manifestazione del 25 Aprile, festa della Liberazione, è stato «ora e sempre Resistenza». Non è solo e tanto un afflato enfatico per sentirsi parte di un evento a cui la grande maggioranza di chi sfila oggi non partecipò.

Quelle parole hanno un valore ed un peso precisi: impegnano le generazioni a venire a battersi contro ogni oppressione, contro ogni tirannia sotto qualunque cielo essa si manifesti e operi mettendo genti e uomini gli uni contro gli altri. La lotta antifascista fu fenomeno italiano, europeo, ma anche extraeuropeo. La cultura germinata dell’impegno militante ed ideale delle Resistenze ha generato una Weltanschauung da cui è uscita una nuova umanità che ha voluto riconoscersi come integra, titolare di diritti universali per ogni essere umano. La vittoria contro la barbarie nazifascista ha fatto fiorire alcune scritture sacrali pur nella loro originaria laicità. Fra queste ci sono la Costituzione della Repubblica Italiana e la Carta dei diritti universali dell’Uomo.

Ma a dispetto di questo immenso patrimonio che delinea un mondo di pace e di uguaglianza, vi sono importanti movimenti che profondono intense energie per restituire legittimità alle ideologie dell’odio, del razzismo, della xenofobia, magari con il pretesto di tributare onore a combattenti caduti in guerra, spesso sotto la compiaciuta indifferenza di istituzioni ed autorità di paesi che si vogliono orgogliosamente democratici. La giustificazione a tale invereconda ipocrisia sarebbe che i morti sono uguali. I morti caduti per servizio nel portare guerre, stermìni, deportazioni, schiavismo, secondo questi becchini sarebbero uguali ai caduti per la libertà.

Ma non sono solo i nostalgici o i cultori dei fascismi a cercare di corrompere il senso autentico dell’antifascismo, negli ultimi lustri ci si sono messi revisionismi a vario titolo che senza avere il coraggio di negare i fondamenti della Resistenza hanno fatto di tutto per infangarne memoria e magistero. Ma negli anni più recenti un nuovo fenomeno sta mettendo a rischio il valore integro dell’antifascismo e del suo ammaestramento. Alcuni esponenti della sinistra moderata, in occasione dell’ultimo referendum per la riforma Renzi-Boschi della Costituzione sostenitori del sì, hanno rivendicato di essere gli autentici eredi dei partigiani e hanno accusato i sostenitori del no (segnatamente l’Anpi) di avere pervertito l’eredità dei partigiani veri (sic!). Lo stesso a loro modo hanno fatto esponenti istituzionali delle comunità ebraiche, in particolare quella romana, rifiutandosi di partecipare alla sfilata ufficiale di cui dovrebbero fare parte per definizione, rivolgendo a chi permette ad esponenti del popolo palestinese di partecipare alla manifestazione del 25 Aprile con la propria bandiera di tradire l’autenticità della giornata della Liberazione.

Affermando che quella bandiera richiama il Gran Muftì di Gerusalemme che fu in carica per un breve periodo nel tempo della II guerra mondiale e che era filonazista (Una provocazione. Magari tacendo il legame profondo e ben più recente tra Stato d’Israele e il regime razzista dell’apartheid in Sudafrica). I dirigenti del Pd romano quest’anno, sospettiamo per ritorsione al no dell’Anpi in occasione del Referendum costituzionale, hanno scelto di aderire alla protesta dei leader comunitari degli ebrei romani. Con tale decisione il Pd romano ratifica il giudizio che i rappresentanti del popolo palestinese siano solo gli «eredi» del Gran Muftì filonazista di Gerusalemme di 80 anni fa e non i figli di un popolo oppresso che vive sotto occupazione militare da 50 anni.

Io che credo profondamente alle parole «ora e sempre Resistenza», nell’intento di fare rinsavire Matteo Orfini e i suoi mi servirò delle parole pronunciate all’assemblea delle Nazioni Unite il 16 ottobre 2016 da Hagai El-Ad, direttore esecutivo del gruppo israeliano per i diritti umani Bet’Tselem:

«Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché sono israeliano. Non ho un altro Paese. Non ho un’altra cittadinanza né un altro futuro. Sono nato e cresciuto qui e qui sarò sepolto: mi sta a cuore il destino di questo luogo, il destino del suo popolo e il suo destino politico, che è anche il mio. E alla luce di tutti questi legami, l’occupazione è un disastro. (…)Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché i miei colleghi di B’Tselem ed io, dopo così tanti anni di lavoro, siamo arrivati ad una serie di conclusioni. Eccone una: la situazione non cambierà se il mondo non interviene. Sospetto che anche il nostro arrogante governo lo sappia, per cui è impegnato a seminare la paura contro un simile intervento. (…) Non ci sono possibilità che la società israeliana, di sua spontanea volontà e senza alcun aiuto, metta fine all’incubo. Troppi meccanismi nascondono la violenza che mettiamo in atto per controllare i palestinesi. (…) Non capisco cosa il governo voglia che facciano i palestinesi. Abbiamo dominato la loro vita per circa 50 anni, abbiamo fatto a pezzi la loro terra. Noi esercitiamo il potere militare e burocratico con grande successo e stiamo bene con noi stessi e con il mondo. Cosa dovrebbero fare i palestinesi? Se osano fare manifestazioni, è terrorismo di massa. Se chiedono sanzioni, è terrorismo economico. Se usano mezzi legali, è terrorismo giudiziario. Se si rivolgono alle Nazioni Unite, è terrorismo diplomatico. Risulta che qualunque cosa faccia un palestinese, a parte alzarsi la mattina e dire “Grazie, Raiss” – “Grazie, padrone” – è terrorismo. Cosa vuole il governo, una lettera di resa o che i palestinesi spariscano? Non possono sparire».

È vero, i palestinesi non possono sparire e hanno la piena titolarità per rivendicare i loro diritti, ovunque. E la loro liberazione ci riguarda.

eddyburg.it. In calce il link al libro di Alcide Cervi



Il 17 gennaio 1954, in occasione delle onoranze nazionali aisette fratelli Cervi fucilati a Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943 dainazisti, il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il vecchiopadre Cervi, trattenendolo affettuosamente a colloquio.
Il testo che qui pubblichiamo è apparso su

Il Mondo il 16 marzo1954, ed è raccolto nel volume Il buongoverno di Luigi Einaudi, pubblicatodalla casa editrice Laterza che ringraziamo per la gentile concessione. (eddyburg, luglio 2004)

Alcide Cwevi e Luigi Einaudi

Entrano nello studio del presidente della repubblica ilpadre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini,il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino,l'on. Boldrini, medaglia d'oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore epittore, il quale reca l'originale del ritratto da lui dipinto dei settefratelli.

Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria,ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidenteaveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei settefratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista La RiformaSociale, un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico edice al padre della sua commozione per poter cosí pensare con orgoglio ad unsuo rapporto spirituale coi martiri.

Il padre racconta:
- Sí, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano diimparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, sisforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto,ed erano 53 biolche di 2.922 metri quadrati l'una (circa 15 ettari e mezzo),vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terrasopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terrenosarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio.Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e sidiedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche.

I vicinipassavano, guardavano e scuotevano la testa: "I Cervi sono usciti pazzi.Dove andrà l'acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto comeun biliardo, l'acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ederbai intristiranno annegati". Ma i figli avevano dato al terreno, fattopiano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero equando d'accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti allastessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acqueed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua nonce n'è piú. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconosconoche noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.
- Anch'io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare ifossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed inveceeseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate supiede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo averresecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallostradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se neandavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videroperò che le viti venivano su piú belle di quelle dei fossati e del letame, ciripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.

Il padre, la madre, i figli e le figlie, le nuore

Il presidente: - Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?
Il padre: - Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, intutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamoricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochiarnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossilavori ed uno piú piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici,aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro.Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro locomprammo in Svizzera, ma viene dall'Olanda ed è originario americano. Col toroci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quandoabbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo comecarne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo dò via neppure se mi offronoun milione di lire. Questo - trattori, macchinari, fondo di vettovaglie,vacche, toro - è il "capitale" ed è nostro, di tutti noi".
- Anche del nipote?

Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e,tornato a casa, non trovai piú i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidiil nipote.

Le nuore: - È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.
- Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buonragazzo, radunai le nuore e: "Bisogna stabilire le cose per il nipote. Loteniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salarioche gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato adanno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti delsalariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spettacome parente. Che cosa ne dite voi?"
- Le nuore: - Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovetedecidere.
- Il padre: - No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei mortisono vostri figli. Voi dovete parlare.
- Le nuore: - Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.
- Il padre: - Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel chepensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare.Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero.
- E le donne ritornarono al lavoro.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore attonitiascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendoleper fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostrecontrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po' di tuttoquesto. Dagli arazzi napoletani del 1770, stesi sulle pareti dello studio, ilpazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell'uomo saggio.
- Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donnetornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consigliorispetto al nipote è anche il nostro.
- Il padre: - Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?
- Le donne: - Sí, padre, noi lo sappiamo.
- Il padre: - Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlatoal padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia edentrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e nonsono contenti.

- Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote,che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volererimanere con noi.

- Il fratello e la cognata: - Lo sapevamo. Il figlio l'aveva detto quando erapartito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti.Noi siamo contenti.

- Se cosí è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa,radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognatasono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sonostati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo,che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso piú fare come una volta. Ilnipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci saròpiú, il "capitale" sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattronuore ed il nipote.

- Cosí fu deciso e cosí si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sueforze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende.
- Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene ditutti.
- Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c'era incasa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte chegli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed iodissi: noi non l'avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a farparte del "capitale". Diventerà proprietà comune; e come il restosarà diviso in cinque parti.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittoreguardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all'ombra delsicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia.Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosseancora stato scritto.

Il presidente, rivolto allo scrittore-pittore, il quale conosce i contadini deisuoi paesi - e sono uguali ai contadini di tutta Italia - interrogò: forseché isette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po' pazzicostruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatoredella legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loropaese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della"lingera" e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo?

Lo scrittore-pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d'oroconsentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch'io di no e strinse la mano alpadre ed a tutti.

Qui potete scaricare e leggere il libro di Renato Nicolai eAlcide Cervi, I miei sette figli


VITE PARTIGIANE
di Melania Mazzucco,

«Per il 25 aprile, a settantadue anni dalla Liberazione, scrittrici e scrittori (nati molto tempo dopo il 1945) raccontano le storie di uomini e donne che resistettero all’occupazione nazifascista. Sono biografie, lettere e ricordi da conservare perché la nostra memoria non vada perduta».

Chi non ha memoria non ha futuro. Così diceva Carla Dappiani, intervistata alla presentazione del film di Daniele Segre Nome di battaglia: donna (2015), di cui, insieme ad altre partigiane piemontesi, era protagonista. Con lapidaria efficacia, riassumeva il senso di quell’opera: ma anche delle altre, realizzate negli ultimi anni da cineasti e film-maker di diversa formazione, genere e provenienza (penso a Bandite di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, 2009, e a Tutto il bene avevamo nel cuore di Giuseppe Rolli, 2016).

Ma non solo: in questo primo scorcio del ventunesimo secolo non si contano le memorie, le biografie, le microstorie, le antologie, i romanzi, gli spettacoli teatrali che hanno per tema la Resistenza. Anzi, le Resistenze. Sembra l’irresistibile ritorno di un fantasma perturbante. Dopo la fioritura del periodo postbellico, culminata col documentario di Liliana Cavani La donna nella Resistenza (1965) e col Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1968), l’argomento infatti era stato relegato a materia di studio storico, e di veemente scontro politico e ideologico. L’ultimo degli scrittori partigiani, Giulio Questi — coetaneo di Meneghello, Calvino, Revelli — intuendo la dissonanza della propria voce dalla vulgata resistenziale ormai dominante, aveva preferito lasciare nel cassetto i suoi racconti, Uomini e comandanti, apparsi solo nel 2014 (ma il singolare slittamento cronologico li ha invecchiati come un vino prezioso, permettendo ai lettori di apprezzarne il tono ironico e feroce, la durezza scabra e antiretorica).

Nonostante le nuove prospettive di ricerca, inaugurate dal volume capitale di Claudio Pavone, Una guerra civile (1991), le lacerazioni non si sono sanate, ma anzi, approfondite: da una parte un revisionismo sempre più aggressivo, dall’altra un revival affatto nostalgico ( penso agli Appunti partigiani, le canzoni militanti riproposte dai Modena City Ramblers nel 2005). Intanto tornavano nelle sale e sugli scaffali delle librerie film coi partigiani ( I piccoli maestri di Daniele Luchetti, 1998) e libri sui partigiani. Partigiani inediti, scomodi, dimenticati o rimossi. Partigiani di pelle nera, come Giorgio Marincola, al centro di Razza partigiana di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; partigiani assassini, come nei libri di Giampaolo Pansa, Sergio Luzzatto e Mirella Serri — i quali, pur dissimili nelle intenzioni, nel metodo e nella forma, hanno suscitato violente polemiche e settari rifiuti, dimostrando che il ciclo delle vendette non si è ancora interrotto.

Però fra le Resistenze ritrovate oggi predomina quella delle donne. Perché infine, come auspicava Ada Gobetti, anche “la resistenza taciuta” — questo il titolo del primo studio storico di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone, apparso nel 1976 (il sottotitolo esplicitava: dodici vite di partigiane) — è divenuta una resistenza raccontata. Ma come? E soprattutto: a chi?
In qualche modo, si sta componendo un’opera collettiva, una fotografia di gruppo con messa a fuoco selettiva. Si tratta di recuperare storie, con pazienza, raccontare vite colpevolmente cancellate, far ascoltare, finché ancora possibile, le voci delle protagoniste: donne qualsiasi che divennero eroine loro malgrado, perché fecero una scelta.

Prendo a esempio due libri diversissimi: Scenari di guerra, parole di donne di Patrizia Gabrielli ( 2007), che raccoglie le voci di dozzine di donne toscane tratte dalle scritture custodite presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, e Gabriella Degli Esposti mia madre di Savina Reverberi ( 2017), biografia della partigiana emiliana torturata e fucilata dalle SS nel 1944. E lo spettacolo teatrale di Susanna Gabos, Ora veglia, il silenzio e la neve (2010), sulle giovani partigiane trentine Ancilla “ Ora” Marighetto e Clorinda Menguzzato. Ritratti concreti, disadorni ed efficaci come scatti di figure non in posa.

Quanto ai destinatari, le partigiane non hanno dubbi. I ragazzi italiani, interrogati recentemente su cosa si festeggiasse il 25 aprile, per lo più non hanno saputo rispondere. Tina Anselmi e Marisa Ombra si rivolgono perciò alle giovanissime: una nipotina immaginaria di undici anni la prima, nella sua intervista pedagogica, Zia, cos’è la Resistenza? ( 2003); una quattordicenne la seconda, nel suo libro di ricordi Libere sempre: una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi ( 2012). Le decane passano idealmente alle nipoti il testimone della libertà e della memoria.

Ma anche del racconto. Perché forse solo chi racconta un tempo che non è stato il suo può decifrare la filigrana dei fatti, andare oltre la burocrazia dei torti e delle colpe. Le nipoti, e i nipoti, non sono solo il pubblico di queste storie. Ne sono ormai gli autori. L’ultima è Rossella Schillaci, ideatrice e regista di Libere, una sinfonia di immagini e voci che racconta il movimento di resistenza delle donne. Un film di repertorio, un montaggio di fotografie, manifesti, volantini, filmati e registrazioni audio tratti dagli Archivi nazionali della Resistenza.

Leitmotiv: mani femminili che estraggono bobine e nastri da scatole ingiallite, che sfogliano faldoni e schedari, per scoprire, tra migliaia di reperti muti, volti e corpi di donne. Fotografate coi loro compagni nelle malghe di montagna, sui sentieri sassosi, nella pianura con l’immancabile bicicletta accanto, nelle fabbriche e nelle code per il pane. Presenti sempre, eppure per tanto tempo invisibili. Le voci, lucide e orgogliose ( ma anonime purtroppo, perché il film non ha didascalie), rivendicano le ragioni della scelta di resistere, e l’importanza del loro ruolo.

Le partigiane sono rimaste nella memoria al più in quello subalterno e vagamente romantico di “ staffette”. Eravamo ufficiali di complemento, spiega invece una di loro: portavamo ordini, sceglievamo gli itinerari per le bande, aprivamo la strada al loro ingresso nei borghi, trasportavamo esplosivo al plastico, quando nessuno sapeva neppure cosa fosse. E alcune avevano il fucile, e sapevano combattere. Nel racconto “ postumo”, la Resistenza si rivela soprattutto come un impetuoso movimento di emancipazione, che anticipò il femminismo. Ragazze spesso giovanissime — operaie, studentesse, sorelle di soldati — ma anche mogli e madri, si ribellarono al soffocante modello femminile imposto nel Ventennio, scoprendo nella Resistenza un’occasione di riscatto e libertà.

Settantamila donne secondo l’Anpi parteciparono ai Gruppi di Difesa, trentacinquemila le combattenti. Un esercito neanche tanto piccolo — di cui però l’Italia libera ebbe poi paura. Diede loro il voto, ma poca rappresentanza, tolse loro il lavoro al ritorno degli uomini dalla guerra e dalla prigionia, le ricacciò nei ruoli prestabiliti e le dimenticò. Nessuna delle quasi tremila giustiziate o uccise in combattimento è divenuta un’icona. I nomi di Cleonice Tomassetti, Iris Versari, Irma Bandiera, solo per citarne qualcuna, evocano un sussulto solo agli specialisti.

Per questo, raccontare si deve. Per nuovi occhi, con nuovi occhi. Registi, scrittori, teatranti, storici, cantanti, lo stanno facendo. Insieme, divisi, ma mossi dalla stessa esigenza. Perché, come scriveva Massimo Zamboni in L’eco di uno sparo (2015), il teso memoir sul nonno fascista assassinato nel 1944 da un partigiano, poi a sua volta ucciso da un ex gappista, «tocca ai nipoti raccontare, sottraendo ai genitori un compito che non avrebbero potuto svolgere con giustezza; tocca a noi questo scegliere o tralasciare, sapendo che ogni parola nostra o azione avvicinerà la pace o il male che devono arrivare».

LUNGO I SENTIERI
DELLA RESISTENZA
di Enrico Brizzi

«Un fazzoletto donato e la promessa di farlo rivivere lungo la Linea Gotica, sul filo delle montagne. Raccogliendo la testimonianza dei luoghi dove l’Italia, tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45, fu lacerata da un “immenso dolore”. Storia di un viaggio nella Storia».

Nella Bologna dei primi anni Ottanta la vita di noi giovanissimi aveva come luogo principe il cortile. Era lì che, una volta assolti gli obblighi scolastici, si prendevano le misure al mondo e ci si addestrava a crescere come animali sociali; il gioco — calcio, nascondino, corse in bici, battaglie fra indiani e cowboy — era la grammatica comune grazie alla quale ognuno di noi imparava a misurarsi con i coetanei, a valorizzare il proprio carattere e a gestire le proprie debolezze.

La ricchezza del cortile era data anche dal suo essere agorà, foro, social club per uomini e donne di generazioni diverse.

Osservando di sottecchi l’agire di cugini e zii ci preparavamo a diventare adolescenti, giovanotti, ragazzi grandi; poi c’erano i vecchi, patriarchi e matriarche ormai in pensione, i nostri nonni e i loro coetanei, gente che in gioventù aveva vissuto esperienze straordinarie, e non si faceva pregare troppo per raccontarcele.

Fra quanti avevano fatto la guerra, il più ascoltato era il signor Giancarlo; era diventato partigiano ancora adolescente, e quando ci raccontava di quelle stagioni epiche e spaventose non si dava mai un tono da eroe. Sabotare le attrezzature dei Tedeschi, sfuggire ai rastrellamenti, nascondersi e imbracciare un’arma, nelle sue parole erano state cose necessarie, non motivi di vanto. Dare il suo contributo ad abbattere la dittatura e liberare l’Italia dall’occupante straniero era qualcosa che, semplicemente, “ gli era toccato fare” per rispondere a un senso di giustizia, e la sua modestia me lo faceva ancora più caro.

Sono trascorse molte primavere, da allora; chi era bambino oggi è padre, e molti fra gli anziani di allora non sono più fra noi. Qualche tempo fa il signor Giancarlo mi ha fatto sapere che avrebbe gradito una visita. Sapeva della mia passione per i viaggi a piedi, e consegnandomi il suo fazzoletto da partigiano mi ha detto: « Ormai sono vecchio. Fammi la cortesia di portarlo in giro tu, che hai ancora le gambe buone».

Così ho riposto il fazzoletto nello zaino, e appena la primavera ha liberato creste e versanti dalla neve sono partito per un viaggio lungo il filo d’Appennino, per ripercorrere quella Linea Gotica che ha diviso l’Italia in due nella stagione più tragica che il nostro Paese si sia trovato ad affrontare. Nel lasciarmi alle spalle il mare di Rimini per risalire verso il cuore della Penisola, ancora non sapevo quante e quali storie avrei incrociato lungo il mio percorso verso il Tirreno. Nel corso di due settimane di cammino, praticamente non sarebbe trascorso giorno senza trovare traccia dell’immenso dolore che investì l’Italia fra l’autunno 1943 e la primavera del ’45.

Sulle prime alture romagnole investite dalle battaglie ingaggiate dagli Alleati per sfondare la “ Linea dei Goti” sorgono i musei di Gemmano e Montegridolfo, ma i racconti più autentici escono dalla bocca dei vegliardi che, davanti a un bicchiere di vino, ancora si commuovono a ricordare quei giorni di barbarie, suppliche inascoltate e morti insepolti; a San Marino si può entrare nelle gallerie che ospitarono gli sfollati della Riviera, terrorizzati dalle tempeste di fuoco e d’acciaio che si abbattevano sulle proprie case; lungo la riva del Senatello si trova il luogo dove furono fucilati gli “ otto martiri” bollati come banditen, e proseguendo verso l’interno si raggiunge Tavolicci, una frazione annichilita dalla furia dei Tedeschi in ritirata nell’estate del ’44.

La repressione contro i partigiani e l’inumana “guerra ai civili” s’intreccia con fatti d’armi che videro fianco a fianco gli irregolari del Cln e gli eserciti dei “liberatori” — che non sempre, come noto, si comportarono da gentiluomini — come a Monte Battaglia, la cui antica rocca fu testimone di un simultaneo assalto di partigiani e truppe americane; la lotta fratricida, le delazioni e le manovre a tenaglia non risparmiarono neppure le “Foreste sacre” tra la sorgente del Tevere, l’Eremo di Camaldoli e la fonte dell’Arno; al passo della Futa un enorme cimitero di guerra germanico ricorda che a pagare il conto dell’orrore furono anche i giovani tedeschi, mentre scendendo verso Bologna si giunge a Monte Sole, teatro dell’orrenda strage di donne, vecchi e bambini compiuta dalle SS di Reder, che nell’autunno ’44 si lasciarono alle spalle settecentosettanta cadaveri e interi villaggi ridotti a macerie fumanti.

Il culto dei comandanti partigiani caduti in zona, da “ Lupo” Musolesi a Toni Giuriolo, protagonista del romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, appare spoglio di retorica se lo si confronta con le memorie di quanti presero ancora giovanissimi la via della montagna, come Enzo Biagi, cresciuto ai piedi del Corno alle Scale; appena più in là, seguendo il sentiero 00 e la sua variante moderna, l’Alta Via dei Parchi, si raggiungono il passo dell’Abetone e i valichi ai piedi dei quali venne proclamata in territorio modenese e reggiano la Repubblica di Montefiorino, abbattuta dai nazifascisti ma abbastanza forte da risorgere e mantenersi libera sino al termine del conflitto.

Dal passo di Pradarena, sopra Ligonchio, si scende fra i boschi della Garfagnana, e da Barga si riprende quota verso le Apuane, dove camminamenti, bunker e muraglie anticarro sono ancora intatti; qui, fra le montagne del marmo, l’epos partigiano della Divisione Lunense e del Gruppo Valanga incontra quello di truppe alleate che all’epoca apparvero a dir poco esotiche — i Nisei hawaiani, i Brasiliani, i battaglioni di soli blacks statunitensi. Ci si confronta con gli episodi di collaborazione e le incomprensioni, talora fortissimamente volute, fra comandi alleati e partigiani, come il “malinteso” che causò la morte di Miro Luperi, il comandante “Reno”, abbastanza coraggioso da attaccare per primo le forze germaniche convinto di ricevere un appoggio che non sarebbe mai arrivato.

È difficile trattenere le lacrime osservando le foto delle piccole vittime ammassate nella chiesa di Sant’Anna di Stazzema; erano bimbi non diversi da noialtri quando ancora trascorrevamo i pomeriggi in cortile. Mentre si scende verso le spiagge della Versilia è fatale sentir riecheggiare in testa i versi orgogliosamente rabbiosi che Calamandrei dedicò al feroce Kesselring; ormai, avanzando nel vento salmastro, non possiamo più credere che “gli uni e gli altri si equivalevano”. No. La nostra Italia, l’Italia di cui vogliamo tenere viva la memoria, è quella dei ribelli della montagna, del presidente Pertini, del signor Giancarlo.

Qualcuno, ancora ragazzo, trovò il coraggio per fare la scelta più difficile, e siamo fieri di essergli stati amici per tutta la vita. Ormai il mare ci balugina di fronte, e dopo tanti giorni in montagna stiamo per tornare in mezzo alla gente: è tempo di tirare fuori dallo zaino il fazzoletto che ci è stato donato, e mettercelo al collo ché tutti possano vederlo.

GENERAZIONE FENOGLIO
di Paolo Di Paolo

«Margherita, figlia dell’autore del “Partigiano Johnny”, racconta in quest’intervista eredità e memoria del grande scrittore simbolo della Resistenza. “Quello che mi stupisce è l’affetto dei lettori, soprattutto giovani. Vengono in visita alla tomba e gli lasciano una sigaretta”».

Quello che mi stupisce, ogni giorno di più, è l’affetto dei suoi lettori. Credo che gli avrebbe fatto piacere, se fosse ancora qui. Soprattutto quando arriva dai più giovani. Ragazze che vogliono sapere se — alla fine di Una questione privata — Milton muore oppure no. Ragazzi che gli lasciano un biglietto con scritto “ Grazie a te ho passato la maturità!”. Ho saputo di due sposi in viaggio di nozze sul lago Maggiore che hanno fatto, all’ultimo momento, una deviazione — duecento chilometri! — per passare da Alba. E c’è spesso chi lascia, sulla sua tomba, una sigaretta».

Una sigaretta? «Sì, è un omaggio allo scrittore e al fumatore. Una volta ne ho trovate due, posate accanto alla lapide: un mozzicone e una intatta. C’era anche un biglietto: “ Io non fumo più, ma avevo voglia di fumarne una con te”».

Margherita Fenoglio vive ad Alba, in provincia di Cuneo, fa l’avvocato. Ha avuto accanto suo padre Beppe solo per un paio d’anni. Fenoglio è morto nel febbraio del 1963, quarantenne: lei aveva due anni. La sua fortuna di scrittore è quasi tutta postuma. Oggi è fra gli autori del Novecento italiano più amati, il vero classico sulla Resistenza, sempre più letto e tradotto: in più di venti lingue, dal Sudamerica alla Corea del Sud. Al Centro Studi Fenoglio di Alba arrivano migliaia di lettori e studiosi ogni anno. Sul quaderno degli ospiti, due coniugi italiani residenti a Boston hanno scritto: «Qui siamo fieri di essere italiani».

«So di essere comunque un’orfana privilegiata», dice Margherita. «Chi resta senza genitori da bambino, il più delle volte, sente di sapere troppo poco, di vivere solo un’assenza. Per me, mio padre è invece una presenza massiccia, costante, direi quotidiana. Anche molto impegnativa. Ma mi considero — per quanto riguarda la sua figura di scrittore — solo una lettrice più coinvolta».

Che effetto le ha fatto la prima lettura dei libri di suo padre?
« La malora è stato il primo suo romanzo che ho letto. Parlava di un mondo che non era per me così lontano. Ho sempre vissuto in città, ad Alba, ma sapevo cos’era la vita in collina, la durezza di quella vita. La malora è il libro a cui forse era più legato. Aveva patito il risvolto di copertina negativo scritto da Vittorini e l’accoglienza fredda della critica, ma a mia madre una volta disse: "ti rendi conto, Boba, che se non avessi scritto La malora nessuno fra cinquant’anni saprebbe più com’era la vita nella Langa?" Quanto al Partigiano Johnny, letto a sedici anni, mi sembrò difficile. Più tardi me ne sono innamorata » .

Uscito postumo nella tempesta del ’ 68, si è imposto sui romanzi usciti negli anni Quaranta (Pavese, Vittorini, Calvino).
« In termini numerici, di vendite, cresce di anno in anno. È un romanzo impegnativo, ma credo che la fascinazione nasca da più elementi. L’incompiutezza. Lo stile, così insolito. Lo sguardo, antiretorico al limite della spietatezza, sullo spaesamento morale seguito all’ 8 settembre e sulla guerra civile. La stessa espressione “guerra civile”, che lo storico Claudio Pavone avrebbe sdoganato negli anni Novanta, mio padre avrebbe voluto usarla per i suoi racconti quando suonava blasfema. Ma penso che la fortuna del Partigiano Johnny sia dovuta soprattutto al suo essere un romanzo sull’esistenza prima ancora che sulla Resistenza. Al modo in cui pone il tema della scelta: la necessità, l’irrinunciabilità della scelta. La solitudine del momento in cui scegli » .

Come in “ Una questione privata”, che presto sarà un film dei Taviani, tutto è calato in una prospettiva individuale, emotiva, perciò umanissima.
« Chi voleva la Resistenza “ cantata” non poteva amare i libri di mio padre. Se sul piano stilistico gli veniva rimproverata l’anomalia — così poco italiano, troppo cinematografico —, su un piano ideologico era ancora più difficile digerirlo. Ha precorso troppo i tempi? Non sta a me dirlo. So solo che molti mi parlano di Johnny o di Milton, e di Fenoglio stesso — chiamandolo Beppe, per nome — , come di modelli, di miti della propria formazione, non solo letteraria. Quanto a Fulvia, la protagonista di Una questione privata, so che ogni ragazza, leggendo, vorrebbe essere lei » .

Molti giovani scrittori oggi l’hanno scelto come maestro...
« Scopriamo di continuo fan insospettabili, tra i nuovi scrittori italiani, e li invitiamo ad Alba. Giacomo Verri, trentanovenne, ha evocato esplicitamente la lezione fenogliana nel suo Partigiano Inverno. Emiliano Gucci, l’anno scorso, ha letto in pubblico una lettera a Beppe: “ Raccontavi a me, di me, ti occupavi dei miei sentimenti, di mettere su pagina le mie emozioni, la mia vita” » .

Ma Milton, secondo lei, nel finale del romanzo sopravvive o muore?
« Da adolescente appassionata ai classici russi, con animo tragico avrei detto che muore. Oggi penso che viva » .

Secondo lei come sarebbe stata la vita di Fenoglio dopo i quarant’anni?
« Avrebbe voluto scrivere e basta. Come è noto, per vivere lavorava in una casa vinicola. Ma era consapevole del proprio valore. So di scontri apocalittici con mia nonna, che non considerava scrivere un mestiere. Ma per lui scrivere era tutto, e a sua moglie affidava tutti gli aspetti pratici della vita. In cucina non metteva piede, una volta si era ustionato con una caffettiera. Di mia madre scherzosamente diceva: “ Boba, o della pastasciutta”. E di sé: “ Beppe, o della malinconia”. È stata mia madre a tenermi sempre con i piedi per terra: “ Sei nata da lui, mi diceva, e devi considerarla una fortuna, ma non hai meriti”. Ogni tanto penso che qualcosa in più di lui so farla: so guidare ( lui saliva su una Vespa guidata da mia madre stringendosi a lei spaventato), so fare le percentuali e le divisioni con le virgole. Una volta che gli dissero “ buongiorno ingegnere”, fu molto orgoglioso. Aveva frequentato Lettere ma senza laurearsi. Mia madre gli disse: “ Be’, in effetti un uomo di ingegno lo sei” » .

Mai avuto la tentazione di scrivere, quindi?
«Io? Mai. C’è una grande differenza tra scrivere bene e essere scrittori » .

C’è una pagina di suo padre che le sta più a cuore?
« Non è in un romanzo, è la commemorazione funebre di un partigiano morto diciannovenne a Valdivilla, Dario Scaglione detto Tarzan. Il discorso per l’intitolazione di una strada: “ Quel rettangolo di metallo — Corso Dario Scaglione — sarà come tanti altri un monumento alla libertà il cui possesso c’è costato lui e tanti altri come lui. Sarà una pagina aperta a chi vuole e verrà dove noi e i venturi leggeremo le parole che non sono soltanto parole bellissime a scriversi e a leggersi, ma che sono la gloria della vita” » .

E una via Beppe Fenoglio esiste?
« Ce ne sono moltissime, da nord a sud, dalla provincia di Cuneo a quella di Catania »

 

«25 aprile. Con stupide pretese incrociate stiamo riuscendo a realizzare quello che non era riuscito a Berlusconi: cancellare la Festa della Liberazione».

il manifesto, 22 aprile 2017

Grazie a una straordinaria combinazione di stupidità, meschinità e arroganza, stiamo riuscendo a realizzare quello che non era riuscito a Berlusconi: cancellare il 25 aprile.

Io trovo stupida e settaria la pretesa di impedire la presenza delle bandiere della Brigata Ebraica. La Resistenza, la guerra di liberazione, l’antifascismo sono state realtà complesse e molto diversificate. La Brigata ebraica, corpo militare inquadrato nell’esercito inglese, non è la stessa cosa della Brigata Garibaldi, ma nel ’44 nel fronte contro i nazisti c’era; non è giusto dimenticarselo, ed è sciocco settarismo farne occasione di scontro in un momento che dovrebbe invece sancire la capacità della democrazia antifascista di far convivere differenze e contrasti senza trasformarli in violenza.

Trovo arrogante la pretesa di impedire la presenza delle bandiere palestinesi, curde, e di altri popoli sotto occupazione militare. Il 25 aprile non è solo la commemorazione di eventi di tre quarti di secoli fa, ma dovrebbe essere la riaffermazione dei valori di libertà, partecipazione democratica, civile convivenza, nel mondo di oggi.

Antifascismo oggi significa lotta contro razzismi, discriminazioni, violenze, e non c’è dubbio che queste cose oggi in Palestina, in Kurdistan, e magari in South Dakota, continuano ad accadere. Pretendere di non parlarne significa ridurre il 25 aprile a una mesta e insignificante rievocazione di glorie passate.

Trovo inevitabilmente ambigua la relazione che in questo contesto viene istituita fra Brigata Ebraica e stato di Israele. La comunità ebraica e le sue espressioni sono una sacrosanta componente della democrazia italiana, non un’emanazione di Israele. Al tempo stesso, un legame se non altro emozionale con lo stato ebraico esiste ed è giusto e logico che sia così. Allora sarebbe bene che chi manifesta in nome dei palestinesi si assicurasse di non essere avvicinato da venature di antisemitismo, che dell’antifascismo è proprio il contrario (e di cui comunque non si possono certo accusare gruppi come gli «Ebrei contro l’occupazione», da sempre impegnati per una soluzione democratica del conflitto). E sarebbe utile se chi manifesta sotto le bandiere bianco azzurre della Brigata Ebraica si domandasse in che misura Israele oggi somiglia a ciò per cui lottavano i combattenti ebrei di allora.

Trovo meschino e arrogante lo slogan per cui «l’Anpi non rappresenta i veri partigiani» e la trovata del Pd di tirarsi fuori. Non c’è dubbio che per ovvi motivi generazionali l’Anpi, come le altre associazioni nate della Resistenza, stia attraversando una complicata fase di trasformazione. Ma la pretesa di delegittimarla perché i «veri» partigiani sarebbero altri è sia arrogante – chi sono i veri partigiani non lo decide nessuno – sia meschina perché non è altro che la piccola vendetta del Pd per la posizione presa dall’Anpi nel referendum del 4 dicembre (purtroppo fa eco a questo slogan anche la Comunità ebraica romana. Ma neanche quelli che innalzano le bandiere della Brigata Ebraica sono i combattenti del ’44).

Molti anni fa, su iniziativa di questo giornale, partimmo in migliaia sotto la pioggia per andare a Milano a dire a Berlusconi, Fini e Bossi che l’antifascismo era vivo. Oggi a Milano sfilano i neonazisti. Chissà dove stanno i «veri» partigiani.

Comune-info

Luglio 2001, Luglio 2016. Quindici anni, esattamente. Quasi maggiorenne. In questi giorni scorre tanto inchiostro su uno degli anniversari più strani della nostra Repubblica, quello delle giornate di Genova del 2001. Ne gettiamo un po’ anche noi, per non essere da meno. Ma non è facile: non è facile trovare parole originali, analisi nuove, scrivere qualcosa di non retorico, evitare di ripetere pensieri altrui.

Una cosa mi sembra necessario evidenziare o ribadire: il movimento “no-global” (perché di movimento si trattò: il movimento, secondo me, è uno, oppure non è. Oggi molti parlano di movimenti, al plurale, ma credo sia un errore; non a caso non esiste una protesta globale semi-organizzata come quella di quindici anni fa. Ma ne ripareleremo), dicevo il movimento no-global aveva ragione. Sì, aveva proprio ragione, lapalissiana.

Le analisi erano corrette, le proposte ragionevoli e, se messe in pratica, probabilmente efficaci. Contro la finanziarizzazione dell’economia (vi ricordate Attac e la Tobin Tax?), contro le politiche delle multinazionali (i boicottaggi), contro il neoliberismo, per la partecipazione democratica reale (Porto Alegre e il bilancio partecipativo!), contro le politiche della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale (come la mettiamo con la Grecia di oggi?), per la pace, per il consumo critico, per il software libero, contro la globalizzazione commerciale sregolata.

Come si fa a dire che il movimento non avesse ragione e non avesse le ragioni per protestare, organizzarsi, alzare la voce? E non si tratta del senno di poi. Come mi è stato efficacemente detto, “il senno di poi è quello di chi legge i fatti di oggi alla luce delle loro premesse, mentre il movimento anticipava questo futuro, sebbene ne volesse proprio un altro”. Quindi non di senno di poi si tratta, ma di un te l’avevo detto. In ogni caso, qualcuno potrebbe pensare che è facile dare ragione, oggi, al movimento: c’è la crisi e l’austerità, le guerre e il terrorismo in franchising, Trump che forse arriva, Erdogan che ramazza la Turchia, neri ammazzati per strada da fascisti (nelle Marche!), i treni che si scontrano, la disoccupazione, la precarietà e le aziende che chiudono, i politici che rubano, il referendum e la legge elettorale che non va, il caldo, gli smartphone che si scaricano subito, il vicino che rompe, il traffico, le zanzare, “le cavallette”, come direbbe John Belushi…

Voglio dire, sembra facile affermare che i no-global avessero ragione visto come va il mondo oggi, vista l’insofferenza dilagante, l’insoddisfazione imperante, la frustrazione, la fragilità di tante teste, il rancore generalizzato, l’incattivimento. Viste quali sono le emozioni, le passioni, le sensazioni dominanti, direi quasi mainstream. Vista la paura che ci domina e ci permea, questo grande timore senza una forma ben specifica che ci attanaglia e tira fuori il peggio di noi.

Basta farsi una fila in un qualunque ufficio pubblico che funzioni neanche male, ma così-così, prendere la macchina anche non nelle ore di punta o un autobus pieno anche solo per metà. I cosiddetti “discorsi della gente”. Beh, io credo che i “discorsi della gente” di oggi possano essere del tutto collegati al 2001 e ai no-global che avevano ragione. Che proponevano una vita diversa, un sistema diverso, oltre la paura.

E allora torniamo al 2001. Torniamo a dire che un altro mondo è possibile. A leggere No logo di Naomi Klein, che è un libro splendido. A crederci, a pensare a un mondo migliore, così, banalmente detto, a non avere paura. A tirare fuori le nostre energie, le nostre intelligenze, i nostri saper-fare, le nostre passioni più belle, quelle che ci fanno camminare con il mento un po’ più in su e lo sguardo più deciso. Quelle che ci fanno sentire individui con dignità, quasi con fierezza.

I no global avevano ragione. E sì, un altro mondo è possibile. Facciamo in modo che quindici anni non siano passati invano. Riprendiamo in mano il testimone di quel movimento, proprio quello, il suo spirito, la sua spinta a cambiare, il suo metodo, il suo entusiasmo, il suo coraggio, i suoi sguardi larghi e lunghi, le sue parole più belle, i suoi colori. Non lasciamo che i manganelli della Diaz e le perquisizioni anali della Bolzaneto ce lo scippino per sempre, quel testimone.

«Se la Costituzione non è più sentita come l’asse della nostra morale politica è perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, priva di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente – e infatti non è – più protagonista, chiusa come è nelle angustie dell’ “io”, sempre più disabituata a declinare il “noi”».

Il manifesto, 26aprile 2016 (c.m.c.)

La memoria – diceva Primo Levi – è sempre a rischio. Anche questo 25 aprile l’ha confermato: neppure un accenno alla pur fondamentale ricorrenza su la Repubblica di ieri; milioni di austriaci – per i quali un qualche ricordo sulla fine del nazifascismo dovrebbe esser restato – che allegramente votano per una sua nuova edizione. Certo, è vero, ogni volta che arriva il 25 aprile prima di decidersi ad andare alla manifestazione dell’Anpi, ci si chiede: ma serve? Sì, serve. Ma sapendo che anche la memoria è soggetta alla storia, le cose si ricordano a seconda dei tempi, non perché si relativizzino, ma perché il tempo aiuta a capirne aspetti prima rimasti in ombra.

La forza degli eventi si misura d’altronde proprio su quanto continuino o meno a produrre attualità. Il 25 aprile è uno degli eventi mai rimasto materia immobile; in questo 2016 credo a tutti sia evidente che la data è caldissima. Non perché ci siano i fascisti alle porte – ci mancherebbe ! – ma perché in questi anni si è guastato il mondo in un modo così plateale che a tutti ci spaventa e a tanti ha fatto perdere la fiducia di poterlo riparare.

Per questo ricordare la Resistenza ci aiuta. Perché si trattò di un’avventura al limite dell’impossibile, un azzardo senza precedenti e perciò torna a dirci che si può sempre osare se c’è uno scatto di soggettività. Quando dico che fu un evento straordinario non penso solo al dato militare. Penso alla cosa gigantesca che fra il ’43 e il ’45 si riuscì a fare: dare all’Italia – che non l’aveva avuto mai – uno stato che tutti sentissero legittimo.

L’Italia, come si sa, uno Stato legittimato a livello di massa, davvero popolare, non l’aveva avuto mai: non col Risorgimento, che fu eroico ma elitario; non con i governi del Regno dopo l’Unità, che mai conquistarono il cuore degli operai e contadini su cui i loro prefetti spararono massicciamente e disinvoltamente per poi mandarli a morire a centinaia di migliaia in una guerra che non era la loro. Poi venne il fascismo. Per questo la resistenza italiana è stata così speciale. Non c’era, dietro, uno stato da reinsediare, si trattava di reinventarsene uno nuovo: uno finalmente decente e democratico.

Ce l’abbiamo fatta non solo perché il fattore militare e quello strettamente politico – l’accordo fra i partiti antifascisti – non esaurirono la vicenda resistenziale. Ci fu, e fu decisiva, quella che un grande storico, comandante della Brigata Garibaldi in Lunigiana, Roberto Battaglia, chiamò “società partigiana”, un espressione con cui volle indicare l’autorganizzazione del territorio, l’assunzione – grazie ad uno scatto di soggettività popolare e di massa – di una responsabilità collettiva per rispondere alle esigenze non solo delle proprie famiglie ma della comunità tutta. Fu il “noi” che prevalse sul’ “io”. L’antifascismo, inteso come sostanza penetrata nel senso comune, ha in Italia questa radice: l’esperienza, autonoma e diretta, di sentirsi tutti – “attraverso scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane” come scrisse Calamandrei – fino in fondo protagonisti della costruzione di un nuovo stato, finalmente davvero patria.

Se abbiano questa Costituzione è perché essa è il riflesso, l’incarnazione di questa presa di coscienza. Che non a caso avverte che ogni cittadino non ha solo diritti e garanzie individuali, ma soprattutto quel diritto politico fondamentale che incarna la democrazia: di contribuire a determinare le scelte del paese.

Proprio riflettendo su quanto da più di un decennio sta accadendo, a me sembra che la crisi della democrazia che stiamo vivendo non sia solo la conseguenza del venir meno di quel patto di vertice dei partiti che l’avevano sottoscritto, ma più in generale dell’impoverirsi del tessuto politico sociale che con la Resistenza ne aveva costituito il contesto. Se la Costituzione non è più sentita come l’asse della nostra morale politica è perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, priva di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente – e infatti non è – più protagonista, chiusa come è nelle angustie dell’ “io”, sempre più disabituata a declinare il “noi”. Se lasciamo passare questa trasformazione senza reagire, la celebrazione del 25 aprile diventerà davvero solo retorica. Voglio dire che per celebrare bene occorre ritrovare quella voglia, quell’impegno, quella fantasia della fondazione della Repubblica.

Questa nostra festa si chiama “della liberazione”, e non della “libertà” come qualche anno fa aveva furbescamente suggerito Berlusconi, perché la nostra parola dà conto di un processo storico, ci sollecita a dire chi la libertà ce l’aveva tolta e contro chi abbiamo dovuto combattere per recuperarla. La memoria che la celebrazione del 25 aprile rievoca ci ricorda che non ci siamo liberati dai tedeschi – come si trattasse di un conflitto fra Germania e Italia – ma dal fascismo, che fu anche italiano e non un fenomeno un po’ ridicolo fatto di parate e divise col fez, ma violenza antipopolare. E infatti cominciò con l’aggressione alle sedi sindacali, alle organizzazioni popolari comuniste socialiste cattoliche.

Le celebrazioni servono a aprire gli occhi, grazie alla memoria che sollecitano, sulla emarginazione dalla nostra Repubblica del suo contenuto antifascista, che ne è la sostanza. Serve a richiamarci alla urgenza di un impegno a ricostituire la società partigiana; e cioè a riassumere la responsabilità della nostra comunità, a rimettere il noi al posto dell’io.

Sapendo che il noi oggi si è dilatato. Non è più quello di chi vive all’ombra del nostro campanile e nemmeno entro i nostri confini. Il mondo è ormai entrato nel nostro quotidiano, lo straniero – e con lui la politica estera un tempo affidata agli specialisti – lo incontriamo al supermarket, nella scuola dei nostri figli, nelle immagini dei disperati che approdano alle nostre coste o affogano nei nostri mari. La loro libertà vale la nostra, la nostra senza la loro non ha più senso. Per questo è giusto festeggiare il 25 aprile con immigrati e palestinesi, così come con chi è ancora vittima dell’antisemitismo. Non è un debordare dal tema “Liberazione”, vuol solo dire sentirsi parte della condizione delle vittime e al tempo stesso responsabili della loro sofferenza.

Il comandante Rendina, che dell’Anpi di Roma è stato presidente, diceva che la memoria “serve a riattivare il circuito delle ragioni che ci spingono a continuare la battaglia per un mondo migliore”. Di riattivare questo circuito oggi c’è estremo bisogno, per ritrovare fiducia nella politica, e cioè nel fare collettivo di ogni cittadino, politica come esercizio di cittadinanza attiva, riconquista della soggettività che l’antipolitica ha annegato. Contro questa minaccia alla democrazia non serve prendere le armi come nel ’43, serve però ricostruire relazioni, liberarsi dalle paure, guardare all’altro che ormai popola le nostre contrade per assumere insieme le responsabilità che ci toccano. Tornare a sentirci, e a diventare davvero, protagonisti.

«Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte».

Internazionale.it, 24 aprile 2016 (c.m.c.)

Aboliamo la festa del 25 aprile. In questi giorni verrebbe da fare la modesta proposta di eliminare questo giorno di festa dal calendario o in alternativa di sostituirne la denominazione: chiamiamola festa di primavera o qualcosa del genere. Sanciamo una condizione di fatto, l’assoluta indifferenza della gran parte delle istituzioni, dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica per la ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo.

Nell’ultimo decennio c’era sempre almeno lo strascico di qualche polemica: gli ultimi acciaccati neofascisti che avevano un rigurgito di esibita insofferenza, o un Silvio Berlusconi presidente del consiglio che non partecipava alle celebrazioni ufficiali e proponeva di chiamarla festa della libertà.

L’anno scorso, forse con l’urgenza dell’anniversario a cifra tonda, il governo aveva lanciato una discutibilissima campagna con l’hashtag #ilcoraggiodi che sovrapponeva gli eventi della lotta partigiana con le imprese di Alex Zanardi o Samantha Cristoforetti in un guazzabuglio ideologico quasi grottesco. Quest’anno praticamente nulla: se cercate 25 aprile su Google, sui social network si parla molto del rischio meteo che rovinerà il ponte a un sacco di italiani. La preoccupazione di un piccolo e bellissimo libro di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia (riedito l’anno scorso) è una profezia più che avverata:

«È ulteriormente aumentato il disinteresse intorno alla Resistenza, un fuggi-fuggi impressionante, inimmaginabile una decina di anni fa, per quanto già fosse chiaro allora quanta indifferenza si nascondesse dietro l’indignazione. I giovani hanno continuato a darsela a gambe, gli storici pure (poche, ancorché lodevoli le eccezioni). La maggior parte degli italiani è contenta se i negozi rimarranno aperti il 25 aprile, diventato ormai un giorno feriale come tanti altri.»

Allarmati dalle forme più o meno striscianti di strumentalizzazione (la famosa affermazione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, datata 1996 e tutto il fumus che ne è scaturito) non ci si è accorti di come la crisi della democrazia stesse trascinando con sé anche i dibattiti intorno ai temi ideali. La crisi dell’antifascismo di cui scriveva Sergio Luzzatto in un libro del 2004 era una crisi ancora intellettuale; lo storico riconosceva nell’aria i segnali sempre più scuri: un forte vento di revisionismo e la nuvola plumbea della cosiddetta memoria condivisa. Oggi questo dibattito storico si è rivelato per quel che era: il prodromo di una rimozione, la tempesta perfetta tutta in un bicchier d’acqua molto torbida, la condizione per una neutralizzazione così efficace da non essere nemmeno una mancanza avvertita.

Il rischio della morte dei testimoni diretti che David Bidussa evidenziava per le vittime dell’Olocausto in Dopo l’ultimo testimone (libro del 2009) è una catastrofe avvenuta senza troppo clamore per quello che riguarda i partigiani.
Chi parla più di resistenza, liberazione, antifascismo? Marzabotto o Stazzema sono nomi che alla maggior parte delle persone non evoca davvero più nulla, ma si può dire quasi lo stesso persino delle Fosse Ardeatine o di Cefalonia.

Del resto molto pochi sembrano sentire su di sé il compito di riflettere sulla memoria dell’evento centrale per la costruzione della nostra identità italiana e di elaborarne ogni volta la storia. Da quei “ragazzi di Salò” in poi buona parte della fiction che la Rai ha prodotto sugli anni dal 1943 al 1945 ha ridotto quella che Claudio Pavone ha raccontato come guerra civile e conflitto morale a una dimensione di feuilleton (Il graffio della tigre), di thriller semi-revisionista (Il sangue dei vinti), di melodramma revisionista tout-court (Il cuore nel pozzo). Vicende di singoli vittime della storia, o al massimo – davvero il migliore dei casi – esaltazione di alcuni eroi, i carabinieri in genere (Salvo d’acquisto, I martiri di Fiesole).

La dimensione popolare è praticamente scomparsa, così come come l’ambizione di indagare un grande momento di tensione, rinascita, conflitto morale. La questione dell’emancipazione sociale un fantasma, quella della coscienza politica nemmeno a parlarne. Affermare il ruolo centrale dei comunisti in tutta la guerra di liberazione e nel processo costituzionale oggi sembrerebbe un azzardo, così come è impensabile parlare pubblicamente di violenza giusta.

E anche nella scuola – l’ultimo alibi per chi non sente su di sé la responsabilità di questa indifferenza conclamata – far conoscere la resistenza è faticosissimo, un compito spesso lasciato alla buona volontà dei singoli presidi o dei singoli insegnanti, che devono ricominciare ogni volta da capo: a ribadire la differenza cruciale tra riconoscere le ragioni dei repubblichini e dargli dignità storica, a legare la storia della guerra di liberazione all’antifascismo precedente e a quello successivo, a indicare nella guerra partigiana le tracce ideali di quella che sarà la scrittura della costituzione, eccetera.

Pochi giorni fa è stato pubblicato un importante accordo siglato dal ministero dell’istruzione con l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, per cui nella settimana dal 25 al 30 aprile dovrebbero svolgersi lezioni e attività didattiche sulle questioni della resistenza. Ma quante scuole hanno accolto questo progetto? Chi sono gli esperti invitati a parlare? Come si svolgeranno queste lezioni? Quanto spazio gli sarà dato? E, soprattutto, sarà una sperimentazione che si replicherà negli anni prossimi?

Perché parlare e riflettere sulla resistenza non si deve ridurre, come spesso avviene, a quella specie di elemosina educativa che chiamiamo sensibilizzazione. L’esperienza dei partigiani, di tutti quelli che hanno dato vita all’antifascismo, ha un carattere pedagogico, paradigmatico, di educazione alla vita, che corrisponde perfettamente a quell’esemplarità che in filigrana possiamo leggere nella costituzione italiana. Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche la possibilità di immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte.

I più bei romanzi sulla resistenza hanno come protagonisti dei ragazzi e hanno come centro narrativo proprio questo percorso imprevedibile lungo il confine che in realtà è un fossato che passa tra il lasciare che le cose accadano e fare di tutto perché cambino. Ci sono due passaggi del Partigiano Johnny che mi sono particolarmente cari, e sono tra quelli in cui Johnny parla proprio di questo confine, e della bellezza di questo salto possibile.

«Johnny camminava, gli occhi fissi alla geniale silhouette di Tito, ma in realtà chiuso. Pensava a se stesso, al suo grado di sopravvivenza intellettuale gli parve di pericolare su un abisso quando, ad un text, constatò non ricordare nulla degli aoristi.

– Tutto questo finirà, ed io dovrò rimettermi da capo col greco, non potrò mai fare a meno del greco per tutta la vita… La cosa era orribilmente noiosa, da sentirmi d’ora la nausea della lontana fatica. Forse era meglio morire partigiani: incredibile, si trattava di una vera e propria sistemazione borghese. Tutto questo finirà…

ed allora decise di goderne, di quel marciare, nell’aria algida, con un’arma al braccio quel sole vittorioso, verso il delizioso paese del prelievo tabacchi. E si trovò a recitare: ‘Sumer’s icumen…’ a voce involontariamente intellegibile, sicché Tito si voltò intrigato e interessato: delizioso l’incrociarsi delle sue ciglia delinquenziali, e rivoltando avanti affondò nella neve inavvistata.

(…)
Partì verso la cresta. Le nove batterono crepuscolarmente a campanile ed egli controllò il suo orologio. Era ora ad un punto di femminea sottigliezza, ma duro come il ferro, il cinghietto di cuoio stava cadendo a pezzi. Lo strappò e fece scivolare l’orologio nel taschino sul fra le pieghe del suo fazzoletto azzurro. Quell’orologio aveva marcato le sue ore coscienti: l’aveva sbirciato mentre Monti parlava degli stoici, mentre Corradi saltava Oriani per fare il fuoriprogramma, Baudelaire, l’aveva al polso quando il capitano Vargiu aveva annunciato il 25 luglio, Johnny l’aveva consultato aspettando il ragazzo romano col vestito borghese qualche giorno dopo l’armistizio. Scosse la testa: passato e presente erano totalmente, incredibili. E un richiamo gli folgorò la testa: Johnny qual è l’aoristo di lambano?»

Buona festa della liberazione a tutti, pensate che è la vostra festa.

«La scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore».

Il manifesto, 24 aprile 2016

Chi si ricorda più del 25 aprile? A settantuno anni dal giorno della Liberazione è lecito porsi questo interrogativo. Beninteso, non alludiamo al fatto in sé della conclusione della lotta di liberazione – anche se nella memoria della mia generazione quello fu comunque un giorno di festa e sarebbe anche opportuno che molti o pochi di noi ne rievocassimo le atmosfere e gli accadimenti -, ma più in generale al senso di quella conclusione, in una parola allo spirito del ‘45.

A guardare a ritroso i settanta e più anni trascorsi sembrano una distanza di tempo ultrasecolare se consideriamo la lontananza della realtà di oggi da quell’evento.

Contro la registrazione burocratica del 25 aprile come festa nazionale ci piacerebbe evocarlo come un momento sempre presente di esercizio della sovranità popolare. Perché la scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore. Questa riflessione ci è suggerita dalle vicende di questa nostra democrazia repubblicana che, seguendo un processo peraltro non soltanto italiano, ma generalizzabile a livello europeo (se non mondiale), tende a restringere sempre più lo spazio di autonomia e di sovranità degli individui e dei corpi sociali e con ciò anche la consapevolezza che essi potessero avere del loro ruolo in una società democratica. Complici la minaccia del terrorismo islamico, i problemi immani che derivano dalle migrazioni dell’ultimo decennio, le persistenti crisi economiche legate a un modello di sviluppo destinate a perpetuare diseguaglianze e ingiustizie, si riaffacciano dappertutto le tentazioni a rafforzare il potere esecutivo e a rigettare al margine le istanze di democratizzazione e di partecipazione.

Il processo di svilimento dei partiti politici e di svigorimento degli stessi sindacati, che avrebbero dovuto rappresentare la palestra della democrazia nella società e nei luoghi di lavoro, ha aperto un vuoto e fa da sfondo a questa invasione del potere esecutivo. Nella cultura politica del nostro Paese lo spirito del ’45 non si è mai riflesso interamente, è penetrato a intermittenza, con qualche fiammata che non è riuscita a interrompere la continuità di un mediocre barcamenarsi in una perpetua navigazione a vista. Anche per questo alla classe dirigente dell’antifascismo storico, che rimane pur sempre quanto di meglio il Paese ha espresso, non ha fatto seguito la formazione di una classe dirigente degna di questo nome. La sua mediocrità è sotto gli occhi di tutti e, a differenza che in altri contesti europei, le sue insufficienze non sono state e non sono compensate neppure da un ceto amministrativo di provata capacità tecnico-gestionale e di assoluta probità. La corruzione in cui affonda il Paese non è l’ultimo dei fattori che espropria i cittadini della possibilità della partecipazione alla cosa pubblica come contributo a livello individuale dell’esercizio della sovranità.

Le utopie del ’45, il rinnovamento politico e morale all’interno e il sogno degli Stati Uniti d’Europa sul piano internazionale, si scontrano oggi con il rozzo empirismo di mestieranti della politica e il riemergere di anacronistici quanto feroci e aggressivi egoismi nazionali.

Le aspettative del ’45 hanno avuto breve durata. Nello spazio di due anni lo spirito di conservazione, la nostalgia del quieto vivere, e l’eterna paura del salto nel buio hanno frenato e affossato sul nascere le speranze e le istanze del rinnovamento. Il 18 aprile del 1948 non è stato soltanto la sconfitta elettorale della sinistra, è stato il rifiuto a lungo termine delle aperture del ’45.

Non è certamente un caso che nel momento in cui si pone mano ad una pur necessaria revisione della Costituzione, che di per sé rimane l’espressione della stagione di rinnovamento aperta dalla Liberazione, non si è trovata strada migliore che proporre il pasticcio di una riforma costituzionale che, unita a un sistema elettorale truffaldino, intacca seriamente il principio della rappresentanza e di fatto limita il ruolo stesso del Parlamento.

Richiamare lo spirito del ’45 non vuole essere espressione di una improbabile nostalgia; vorrebbe essere un incoraggiamento a tornare a pensare fuori dalla contingenza immediata con una visuale di tempi lunghi, recuperando un patrimonio ideale che non è affatto spento. Contro la retorica della memoria ci piacerebbe che questa memoria fosse rivissuta nella pratica.

Perchè il ricordo della Resistenza da cui nacquero la Repubblica italiana e la sua Costituzione non sia pura retorica, o disarmata nostalgia, pubblichiamo questa lettera scritta da un ragazzo d'allora, fucilato dai fascisti a 19 anni. Sono parole che rivolge ai ragazzi (e agli adulti) di oggi

Era un ragazzo di 19 anni quando fu fucilato. Studente, dopo l'8 settembre 1943 aderisce alla Resistenza. Dal febbraio 1944 riceve numerosi incarichi di collegamento tra i Comitati di liberazione nazionale di Parma e di Carrara . Collabora per l'organizzazione dei renitenti alla leva e con gli ufficiali alleati evasi sulle colline tosco emiliane. Arrestato più volte, torturato e più volte evaso è fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Tra un arresto e un altro scrive questa lettera: una riflessione profonda, valida oggi più che mai.

Cari Amici,

vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.
Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa, è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti".
Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo; insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L'egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero?

Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l'amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell'ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L'egoismo, dicevamo, l'interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l'ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l'idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credere nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria, della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.

Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.

Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

Il giorno dell'esecuzione scrive quest'ultima lettera

C

arissima mamma, ti chiedo scusa di averti fatto soffrire. Io sto benissimo e sono tranquillo come ti diranno questi cari Bassi. Sono molto buoni. Non mi rincresce quello che succede: è quanto ho rischiato e mi è andata male. Io spero che i tempi migliori verranno e spero...Sono interrotto dai Bassi che piangono. Io non ne sento il bisogno, riesco a non pensare al vostro dolore e sono molto tranquillo. Ringrazio tutti quelli che hanno fatto qualcosa per me. Soprattutto tu sai chi. E penso sempre al caro lontano: non riesco a scrivere molte cose. Perdonatemi. Ti abbraccio con tutta l'anima

Riferimenti

Abbiamo tratto le lettere da: Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Giulio Einaudi editore, 1961. Su Giacomo Ulivi vedi anche Michela Cerocchi, La giovinezza tenace. I luoghi e le parole di Giacomo Ulivi. Per una biografia vedi sul sito dell'ANPI, e precisamente qui

AntonioGramsci
Odio gli indifferenti
Odio gli indifferenti. Credo chevivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non esserecittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, èvigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Sandro PertiniMessaggio di fine anno agli Italiani,
1979
Dietro ogni articolodella Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamodifenderla, costi quel che costi.

Gianni Rodari
Compagni fratelli Cervi
1955
Sette fratelli comesette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.

Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi:
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ?

Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d'Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.

Salvador Allende
1973

È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo,apparterrà ai lavoratori. L'umanità avanza verso la conquista di una vitamigliore.
Viva ilCile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e hola certezza che il mio sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, per lomeno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia eil tradimento.

W.G. Sebald
Gli emigrati (tit. orig. Die Ausgewanderten, 1994)

Distruggete anche l’ultima cosa, ma non il ricordo.
Martin Niemöller
Bertold Brecht
1931
Prima di tutto vennero a prenderegli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavanoantipatici.
Poi vennero a prendere gliomosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché nonero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno aprotestare.

«Non sono manifestazioni rituali quelle che l'Anpi sta organizzando per domani in tutta Italia».

Il manifesto, 24 aprile 2016

Anche l’Anpi, di solito prudente, sottolinea che questo 25 aprile non è solo una festa. Le tragedie non sono da tenere vive solo nella memoria e non basta la retorica degli orrori che si possono ripetere, perché il 71esimo anniversario della Liberazione «cade in un complesso di vicende europee che riporta l’orologio della storia in un tempo dove la civiltà e le pratiche democratiche erano pesantemente oscurate». Dunque non sono manifestazioni rituali quelle che l’associazione dei partigiani sta organizzando per domani in tutta Italia. Come non è rituale la denuncia dei «movimenti di chiara marca neonazista e neofascista che arrivano fin dentro i governi». Non è questa «la società che sognavano i combattenti per la libertà», scrive l’Anpi riferendosi ai profughi in fuga da guerre e fame respinti dall’Europa.

A Milano, dove si terrà la manifestazione nazionale (da Porta Venezia, ore 14), risulta evidente l’urgenza di far vivere questo 25 aprire non limitandosi a commemorare il passato. Lo si intuisce a partire dal palco di piazza Duomo, che ospiterà Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, l’autorità che più di ogni altra sente la vertigine della fine dell’Europa come era stata immaginata all’indomani del secondo conflitto mondiale. Il suo grido di dolore è inascoltato (sul palco è previsto anche un intervento del sindaco Pisapia e del presidente nazionale dell’Anpi Smuraglia). La stessa tensione a ragionare sul presente si respirerà anche lungo il corteo che sempre dà spazio a chiunque lo voglia attraversare – fascisti esclusi – e che questa volta si caratterizza con alcuni spezzoni di “movimento” significativi. Il primo è dedicato alle “nuove resistenze” e vedrà la partecipazione della comunità curda e palestinese. Il secondo marcia in sintonia con la campagna “Stop war not people” che da settimane lavora per unire pezzi di movimento e portare in piazza alcune comunità straniere. Infine, fino a notte, la rete Partigiani in Ogni Quartiere organizza il festival delle culture antifasciste (da ieri a lunedì a Trenno).

Corteo anche a Roma, con partenza alle 10 dal Colosseo e arrivo a Porta San Paolo, dove interverranno alcuni partigiani e Luciana Castellina. Nel pomeriggio una delegazione si recherà a Ostia per rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, invece, ha deciso di celebrare la Liberazione a Varallo, nel cuore della Val Sesia (Piemonte), una delle zone a più alta densità partigiana d’Italia. Salvo poi dedicarla ai marò. [incredibile]

«Il manifesto, 26 gennaio 2016, con postilla

Ragionare sulla Shoah e il progetto di distruzione industriale di massa in occasione del 27 gennaio è come cercare di contare i cerchi nell’acqua quando vi si getta un sasso: onde grandi e piccole che si rincorrono, si espandono, per poi sparire, fagocitate dalla vita che ricomincia a occuparsi delle solite cose. Concetti che cercano di trovare una loro sistemazione ma per i quali non basta un giorno, o una settimana, di ricordo. Anche l’impresa, apparentemente insensata, di contare cerchi nell’acqua ha bisogno di riflessione.

Un cerchio, un’onda: se si digita su Google la dicitura «giorno della memoria 2016» si ottengono in questo periodo più di novecentomila risultati. L’evidenza — come qualsiasi lettore di giornali o frequentatore di televisioni e radio sa bene — è che il «giorno della memoria» è entrato nel calendario civile del nostro paese. È stato già scritto che la scelta del 27 gennaio, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz — dove migliaia di cittadini italiani ebrei vennero assassinati — ha diluito la specificità dell’apporto italiano alla persecuzione.

Processi assolutori

Giovanni De Luna nel bel libro La Repubblica del dolore scrive: «Proprio perché più europea e meno italiana la scelta di quella data contribuì a disinnescare molte tensioni, attenuandone la portata emotiva ma anche ridimensionandone il significato simbolico». Se, infatti, «la memoria pubblica è un «patto» in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato», il 27 gennaio, proprio perché non impegnativo, ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile, data fondante dell’Italia repubblicana. Ed è funzionale a questa esigenza lenitiva e assolutoria che nel discorso pubblico sia divenuto sempre più forte il ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza storica.

Cerchi che si allargano: inizia, timidamente, ad affacciarsi la consapevolezza che il conflitto tra «storia» e «memoria» possa essere superato in direzione di una inevitabile integrazione di entrambe, ma il calendario degli eventi in programma anche quest’anno non sembra prenderne nota e il ricorso all’emozione ancora prevale.

Sassi, cerchi, onde: per la collettività ebraica italiana l’imponente coinvolgimento istituzionale nelle celebrazioni del «giorno della memoria» è divenuto una grande occasione di riconoscimento e reintegrazione in quel «patto della memoria» da cui furono esclusi per decenni. L’Italia resta il paese dove il processo di abrogazione della legislazione antiebraica fascista del 1938 iniziò nel 1943 e si concluse alla fine degli anni ottanta, anni in cui il ricordo della specificità della persecuzione antiebraica stentava a farsi largo nella memoria pubblica. Anni in cui la Shoah rimane ancora un fatto sostanzialmente privato degli ebrei italiani e la misura della condivisione è data al massimo dal coinvolgimento delle amministrazioni cittadine negli anniversari che ricordano le vicende locali. Lo sterminio degli ebrei e il ruolo avuto dal fascismo infatti non furono tra gli eventi su cui è stato costruito l’albero genealogico della nazione. Ma poiché «i fondamenti di quel ’patto’ cambiano a seconda delle varie ’fasi’ che scandiscono i processi storici di una nazione — scrive ancora De Luna — ogni volta cambiano i suoi contraenti e il suo contenuto».

Holocaust Menorah di Aaron Morgan

Così dal 2001, primo anno di celebrazione «del giorno della memoria», le cose sono cambiate. Adesso di Shoah — che in ebraico significa distruzione — si parla molto, forse troppo, spesso male.

Certo è che le celebrazioni vengono vissute dalla collettività ebraica italiana come occasione di riconoscimento in un contesto istituzionale che l’ha accolta e «digerita» solo nella discutibile accezione di «vittima». Oggi però l’imperativo «mai più» che contrassegna l’impegno in buona fede dei tanti che si mobilitano nel ricordare lo sterminio di milioni di vite viene reso impotente e diviene inefficace se il patto che costituisce lo spazio pubblico espelle il processo storico che ha prodotto il loro essere «vittime». D’altro canto è proprio rendere le sole emozioni protagoniste del racconto pubblico che azzera le responsabilità. La condivisione di valori si restringe così a un omaggio che spesso ignora le specificità della collettività che si è chiamati a ricordare. E nulla aggiunge il 27 gennaio alla conoscenza di chi siano stati realmente e storicamente gli ebrei negli anni della dittatura fascista e di chi siano oggi.

Ancora un cerchio, e un’onda. La posizione della collettività ebraica italiana è che il suo apporto alle celebrazioni del 27 gennaio sia di sostegno alle iniziative pubbliche: non sono loro ad avere bisogno di «ricordarsi di ricordare». Eppure l’istituzione del giorno della memoria avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel riconoscimento non solo del loro ruolo di cittadini storicamente partecipi di una memoria pubblica condivisa ma nel trasformare il lutto privato di una minoranza in un ’lutto nazionale’. Ma a questa incertezze aggiunge forse un contributo specifico proprio l’approccio al lutto della cultura ebraica tradizionale.

Altro cerchio, altra onda. Nella tradizione ebraica, il ricordo dei lutti collettivi tende a condensarsi intorno a poche date di celebrazione ma, per quel che attiene alla memoria specifica della Shoah, la pratica ebraica non si è ancora sedimentata in un’occasione unica e riconosciuta: per alcuni è il digiuno del 10 del mese di Tevet, che cade solitamente a dicembre, e ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme nel quinto secolo prima di Cristo. Per altri, soprattutto in Israele, è il primaverile Yom ha Shoah – il giorno della Shoah. In molte famiglie è invece uso recitare il rituale della Rimembranza che si celebra al termine della cena pasquale in ricordo dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943 che iniziò proprio il giorno di Pesach, la pasqua ebraica. L’incidenza delle tre date dipende dai paesi e dalle differenti abitudini delle tante comunità ebraiche.

Ma il cerchio si allarga e le onde si moltiplicano. È curiosamente diversa l’attenzione posta nell’ebraismo alla tempistica del lutto individuale: la normativa ebraica in questo caso è estremamente attenta al conteggio dei giorni che scandiscono la settimana, il mese e poi l’anniversario del decesso. Ma gli ebrei, quelli in carne e ossa, quelli «vivi», ancora oggi ricordano la morte nei campi dello sterminio nazista come fatto reale e concreto della perdita di una persona cara di cui spesso sono restate, e resteranno per sempre, ignote il luogo e data dell’uccisione. Per gli ebrei «vivi» si tratta di un singolo essere che è stato padre o madre, nonno o nonna, zio o zia. Esseri umani concreti di cui rimangano nella vita delle famiglie oggetti e racconti, fotografie e aneddoti. A volte, ricette di cucina. Per gli ebrei vivi è un lutto individuale, familiare oltre che collettivo.

Diari intimi e luoghi pubblici

Cerchi, e domande, che si allargano: come tenere insieme il lutto individuale con quello di una collettività di minoranza e inserirlo in una memoria nazionale? Come tessere continuità, restituire dignità e farsi carico della responsabilità di 6806 deportati dall’Italia di cui 5969 sono stati uccisi e solo 837 sono tornati? Come far incontrare il lutto degli ebrei italiani con quello degli italiani «altri»?

Una risposta piccola ma illuminate viene da un’iniziativa giunta quest’ anno alla sua quinta edizione, si chiama Memorie di famiglia — i giovani tramandano le storie dei loro nonni organizzata presso il centro ebraico di Roma Pitigliani. Lì, il 27 gennaio – data di legge, parlamento e istituzioni — nello stesso momento in cui le scuole, la televisione e i giornali parlano della Shoah, giovani dai dodici ai venti anni leggono le storie delle proprie famiglie. Documenti tratti da diari privati, ricostruzioni successive, racconti, si alternano letti da un nipote o un pronipote. Giovani e bambini che prendono la parola e raccontano la propria storia. Altri ragazzi cantano e recano conforto e sollievo alla massa dei ricordi che i nonni in sala si sentono raccontare dai propri nipoti. Ricordi di internati militari, ebrei in fuga, uccisi o salvati trovano posto nella catena della generazioni che, come cerchi nell’acqua, si susseguono.

Giorgio Caviglia e Maria Bove scrivono in L’eco del silenzio, il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future, edito in questi giorni da Giuntina: «Riflettere sulla trasmissione del trauma significa comprendere la portata di determinati eventi, comprenderne l’estensione, cercare di contare i cerchi nell’acqua che si propagano al lancio del sasso sulla superficie del mare, cercando di distinguere quello che dipende da quel sasso da quello che è il frutto del movimento di un mare che può essere più o meno agitato». Cerchi nell’acqua che tentano risposte.<


27 gennaio, 25 aprile. Ma queste due date non ci ricordano anche qualcosa che accade ai nostri giorni? Il genocidio di tanti popoli unificati dall'esodo del XXI secolo e dal destino che li attende? Ricordava l'attivista dell'Arci Raffaella Boini, in un messaggio che ci è giunto oggi: «L’Unione Europea impone alla Grecia di fermare l’arrivo dei profughi dalla Turchia, affogando donne e bambini. Oggi il Parlamento danese approva il sequestro di soldi, gioielli e beni personali ai rifugiati. Di questa Europa, alla vigilia della Giornata della Memoria, Hitler sarebbe veramente contento
».

«Sognavo un’Italia pulita, invece è ancora Nera. Al popolo piace l’uomo forte, il cesarismo. Così si spiegano Berlusconi e Renzi. Non è per questo che abbiamo combattuto». Silvia Truzzi intervista lo scrittore, che va vissuto una lunga stagione con gli occhi aperti.

Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2015

L’appuntamento è al Castello di Lisignano: “La famiglia di mia moglie ci abita da oltre cento anni. Il primo inquilino era stato un messo del Barbarossa, nel XII secolo”. In questa storia comincia tutto molto tempo fa.

Angelo Del Boca, novanta primavere portate con invidiabile leggerezza, aspetta su una panchina, all’ombra di un albero, di fronte alle mura fortificate di questa dimora antica, sulla strada dei castelli piacentini: è da poco uscito Nella notte ci guidano le stelle, diario partigiano scritto oltre settant’anni fa. “La mia è una famiglia nobile. Intorno al 1200 nasce nella zona di Boca, a Borgomanero, vicino a Novara. Erano proprietari terrieri. Il mio bisnonno ha avuto 22 figli. Uno era un prete eccezionale con tre lauree, nominato Cavaliere del Regno d’Italia. Aveva intuito che le acque minerali sarebbero state un grande business, come si dice oggi. Consigliò lui a mio nonno di acquistare le fonti di Crodo: con le acque fondò un impero, ora lo stabilimento è della Campari. Lì mio padre aprì un albergo. Sventuratamente nel ‘24, l’anno prima che nascessi, ha venduto tutto e ha comprato dei buoni del Tesoro: trent’anni dopo erano carta straccia”.

Dov’è cresciuto?

A Novara: mio padre, grazie a Dio, aveva comprato una grande casa, dove abbiamo vissuto per molti anni. Lì ho scritto il mio primo romanzo, uscito per Einaudi, L’anno del giubileo, che ha vinto anche il premio Saint-Vincent. Era il 1948, in palio c’erano 300 mila lire e tra i concorrenti c’era Moravia. Ho fatto gli studi a Novara, mi sono diplomato e poi mi sono iscritto al primo anno di Lettere, a Torino. Subito dopo è scoppiata la guerra.
Quali erano gli umori politici in casa?

Le mie sorelle erano molto fasciste. Una era maestra elementare, ma era stata presa dal Fascismo, incaricata di fare un giornale per i soldati al fronte. Invece mia mamma era antifascista, proprio di quelle che sputavano sul quadro di Mussolini che era in cucina, appeso da mia sorella. E mio padre era sostanzialmente impolitico.
Dopo l’8 settembre si arruola a Salò?
Non proprio. Mia madre mi aveva consigliato di lasciare Novara. Andai da certi miei parenti nel Modenese: lì trovai un mio cugino che stava organizzando una brigata partigiana. Ma i fascisti hanno arrestato mio padre: quando il soldato era renitente, prendevano il padre. Era il loro ricatto. Ho preso il primo treno e mi sono presentato. Immediatamente mi hanno spedito in Germania: nella Foresta Nera stavano organizzando le divisioni di Graziani, addestrate dai tedeschi benissimo. Lì ho imparato a fare il soldato: ci sono stato sette mesi, un addestramento durissimo, nella neve, mangiando quasi niente. Siamo tornati in Italia in luglio. Dopo Verona, Mussolini è venuto a trovarci in Germania. Ricordo che mentre ci passava in rassegna, il Duce ha detto: “Non andrete a combattere contro i partigiani, andrete a combattere contro gli americani e gli inglesi”. Una falsa promessa.

Nessuno voleva combattere contro i propri fratelli?

Nessuno, a parte qualche fanatico privo di senso dell’onore. A un certo punto ci mandano ad assediare una formazione partigiana, qui vicino a Bobbio. In quei giorni accade un episodio che m’induce a disertare. Ero già deciso ad andarmene, perché ero già partigiano prima che mi portassero in Germania. Durante un combattimento con i partigiani, rimangono feriti due o tre ragazzi di cui uno giovanissimo. Era ferito a una gamba, una sciocchezza. Un mio ufficiale – voglio fare nome e cognome – si chiamava Longarotti, tenente Longarotti, l’ha ucciso fracassandogli il cranio con gli scarponi. La prima reazione è stata sparargli, ma poi ho pensato: ammazzano me e finisce. Mi sono detto “con gli assassini non rimango più…”.
Lei non aveva mai ucciso?

Probabilmente durante i combattimenti. Però mai uno contro uno. Ho chiesto a un parroco di mettermi in contatto con una formazione partigiana cui mi potessi unire. Sono andato di notte con dieci miei compagni che avevo convinto. Però non sono rimasto con loro: erano della divisione Cichero, comunisti, e non mi hanno trattato bene. Ero allievo ufficiale, come studente universitario, loro pensavano che fossi un ufficiale: “Te non ti vogliamo, i tuoi ragazzi, se vogliono rimanere, possono”. Invece sono tutti venuti con me. Così torniamo a Bobbio, dove troviamo un comandante partigiano, Italo Londei. Era maestro, aveva fatto la campagna di Russia e la guerra in Grecia. Aveva grande esperienza, era un uomo di grandissima umanità. I comunisti della Cichero mi avevano tolto tutti i vestiti, a Bobbio ero arrivato in ciabatte, con una tuta legata insieme dagli stracci. Italo mi ha rivestito, e con lui ho cominciato a fare il partigiano.
In che periodo siamo?
Siamo nel settembre-ottobre del ‘44. Alla fine di dicembre – ero diventato uno dei capi della brigata – il comandante mi dice: “Scendi in pianura per procurare denaro, medicinali e viveri”. I viveri ho fatto in fretta: sono andato in una fattoria e ho rubato cento vacche.
Rubato?
Diciamo prelevato. Ho prelevato cento vacche dalla corte di un fascista. Abbiamo attraversato il fiume in una zona che ancora sto male a pensarci. Andavo nelle farmacie e dicevo: datemi quello che potete. Tenevamo una specie di registro e lasciavamo delle “ricevute”. Scrivevamo: il tale ci ha dato dieci vacche, gli verranno ripagate. Dopo la guerra tutti sono stati risarciti completamente. Anche quello delle vacche.
L’ha rivisto?
Per Dio! Sì. Una volta mi ha fatto una scenata anche nella piazza di Agazzano. L’ho insultato anch’io, gli ho gridato “fascista”.
Torniamo alla missione di recupero viveri.

L’ho raccontata perché la sera di San Silvestro del ‘44 è stata la prima volta che ho messo piede in questo castello. Lo ricordo come fosse ieri. Arrivo e mi accoglie un’atmosfera cupissima. Mi dicono: “Fai piano, la figlia del proprietario sta morendo”. Per venti giorni non l’ho vista. Sapevo che stava migliorando, poi l’ho incontrata un giorno sulla scala. Maria Teresa. Era bellissima. Aveva otto anni più di me, aveva fatto studi di medicina, era già una donna. La malattia al cuore le era venuta perché aveva attraversato il Trebbia in gennaio dopo che avevano distrutto il ponte, a nuoto. Aveva un castello… io non avevo niente, la mia unica proprietà era una bicicletta.
Però v’innamorate.
Subito, lì sulla scala. Lei teneva un diario e anch’io, coincidono perfettamente: mentre io mi innamoravo di lei, lei si innamorava di me. Anche se i genitori non erano tanto d’accordo, un anno e mezzo dopo la fine della guerra ci siamo sposati.
Perché il suo diario partigiano è rimasto nel cassetto per settant’anni?

Sulla Resistenza ho scritto altri due libri. Uno è il mio primo libro di racconti pubblicato da Einaudi, Dentro mi è nato l’uomo. Qualche anno dopo è uscito La scelta, con Feltrinelli: raccontava in maniera molto precisa, già da storico, la Resistenza. Questo diario mi sembrava semplice e ingenuo: l’ho scritto mentre c’era la guerra, ero un ragazzo. L’ho messo in un cassetto e l’ho dimenticato. Mimmo Franzinelli sapeva che avevo un testo nel cassetto e mi ha chiesto: “Perché non lo pubblichi per i settant’anni dalla Liberazione?”. Sono andato a rileggerlo e ho pianto. Non ho cambiato neanche una riga.


Lei ha sempre avuto posizioni molto forti soprattutto sull’“avventura coloniale” in Africa, rivelando anche l’uso dei gas.

Montanelli lo negava. Per trent’anni c’è stata una specie di lotta tra noi. Una lotta feroce, ogni volta che usciva un mio libro, Indro diceva: “Di nuovo Del Boca con le sue balle sui gas. Io c’ero in Africa e non ho mai sentito l’odore di mostarda”. Diceva così perché l’iprite sa di mostarda. Ma lui non aveva sentito odore di mostarda perché quando hanno cominciato a gettare i gas non era più al fronte, era in ospedale.

Perché Montanelli ha negato così pervicacemente?
Era innamorato della sua “avventura africana”. Era partito volontario, comandava un piccolo reparto di indigeni eritrei. Per trent’anni mi ha dileggiato. Poi gli ho proposto di mettere la cosa nelle mani di un mediatore. Insieme abbiamo scelto Susanna Agnelli, che allora era ministro degli Esteri e il generale Corcione, ministro della Difesa. Hanno fatto un’inchiesta stabilendo che avevo ragione io. Indro ha accettato la verità: “Le carte mi danno torto, mi arrendo. E chiedo scusa a Del Boca e ai lettori che ho infastidito”.
L’Italia è stata una potenza coloniale da operetta. Cosa che non si può dire di altri Stati europei, come la Francia: che effetto le fa oggi la chiusura sulle politiche migratorie?
Qualche settimana fa Alex Zanotelli e io abbiamo fatto un appello contro la guerra alla Libia: sarebbe la terza volta che entriamo in guerra contro la Libia. Non serve a niente: oggi la Libia è una polveriera, è troppo divisa. Soltanto Gheddafi era stato in grado di mantenere compatta questa nazione per 42 anni.
Lei è stato il biografo di Gheddafi.

Mi aveva raccontato che ogni anno faceva un viaggio nel Paese e andava a parlare con ogni capo tribù: con loro aveva un rapporto molto stretto e li teneva uniti. Soltanto un uomo come Gheddafi era in grado di tenere insieme questa nazione.
Che pensa del dibattito fascismo-antifascismo: è ancora inspiegabilmente vivo, forse anacronisticamente vivo.
Tutto dipende dall’amnistia Togliatti, terribile perché ha ripulito tutto quello che c’era da ripulire. Si ricorda quel Longarotti che aveva scassato il cranio di un ragazzino? L’ho rivisto dieci anni dopo la Liberazione e sa cosa faceva? Il magistrato ad Aosta. Lo avevano accusato di omicidio: l’ergastolo era stato tramutato in dieci anni e i dieci anni in nulla. Quella volta mi sono dovuto trattenere, lo stavo per picchiare.
La Resistenza è una guerra che hanno fatto in pochi e dopo hanno usato in molti. O no?
Non eravamo più di 150 mila. Hanno sfilato, da supposti partigiani, in 300 mila. Infatti io non sono andato alla sfilata: avevo saputo che andavano delle persone che non erano partigiani.
Altri Paesi europei hanno fatto molto più i conti con la loro Storia?

In Germania il dibattito è ancora vivo, ed è un dibattito serio, storico. Aveva ragione Giorgio Bocca quando diceva: “Ho fatto la guerra contro i fascisti perché ero convinto che si potesse eliminare il fascismo. Ma adesso ne sono molto meno convinto”. In fondo l’italiano è molto fascista.
Piace l’uomo forte, l’attitudine al comando?

Sì e questo spiega il successo di Berlusconi prima e di Renzi ora. Piace il cesarismo, piace quest’uomo che gridava “rottamo tutti”. Piace l’uomo forte, l’uomo che decide, l’uomo che non ha dei tentennamenti.
Era questa l’Italia che v’immaginavate sulle montagne?
No, assolutamente. Ho scritto un articolo subito dopo la Liberazione per il giornale di Piacenza. L’ho riletto molti anni più tardi e mi sono dato dell’ingenuo. L’Italia che immaginavo io era un’Italia così depurata, così pulita. Ma erano sogni.
Chi sostiene le ragioni dell’amnistia dice che dopo le guerre c’è sempre bisogno di una pacificazione.
Anche in Francia hanno fatto un’amnistia, però è servita per qualche migliaio di persone. Da noi è servita a decine di milioni: tutta la popolazione era fascista. Dopo la guerra c’è stata una stagione di grande fervore, anche intellettuale, si è cominciato a ricostruire il Paese. Con foga, con convinzione e testardaggine. Accanto a questo la Costituente è riuscita, con un grande sforzo di mediazione, a produrre una carta fondamentale, che ha retto fino ad oggi nonostante gli urti e le spallate. Pare che tutti quelli che arrivano al governo vogliano toccare la Costituzione. È pazzesco.
Lei ha fatto anche il giornalista.

Per trent’anni. Sono stato inviato speciale alla Gazzetta del Popolo, dal 1950 al ‘68. Poi al Giorno sono stato caporedattore centrale. Mi ha chiamato Italo Pietra, che era stato partigiano come me. Il caporedattore del giornale era molto bravo ma aveva fatto una sciocchezza: una sera è andato via prima e nella notte due treni si sono scontrati a Voghera con cinquanta morti. La notizia è uscita su La Stampa e non sul Giorno: così sono stato chiamato io. Sono rimasto lì fino all’81, quando ho deciso di andarmene perché mi avevano offerto un posto di insegnante all’Università di Torino.
Cosa ricorda dell’esperienza dei quotidiani?
La prima parte è stata la più bella: per vent’anni sono stato inviato speciale e godevo di un’assoluta libertà. Avevo vinto dei premi, avevo già scritto libri: mi lasciavano fare quello che volevo. E quindi se dicevo: voglio andare in Etiopia a raccontare la guerra vista dagli etiopici, mi rispondevano “Parti subito!”. Sono andato in India, in Vietnam, in Giappone…
In Vietnam durante la guerra?

Di guerre ne ho fatte tante: l’Algeria, l’Angola, l’Egitto, il Sudan. La peggiore è stata il Vietnam: mi sono trovato molte volte in condizioni incredibili, ho pensato di non farcela. Ti ammazzavano anche in camera da letto. Nei miei viaggi ho incontrato anche persone incredibili.
Per esempio?
Madre Teresa. È stata un’esperienza stupenda, ho vissuto con lei un’intera giornata, dalle 4 del mattino fino a sera, nella sua missione a Calcutta. Aveva una forza d’animo incredibile. Dovevo vincere gli attacchi di vomito quando lei puliva i malati di lebbra. Era una donna tranquilla, semplice, veniva da una famiglia poverissima. Ma era intelligentissima: insieme abbiamo incontrato un architetto che le sottoponeva un progetto per la missione. Lei era preparatissima, gli suggerì ogni sorta di migliorie.

Riferimenti

Alcuni scritti di Angelo Del Boca sono inseriti nel vecchio archivio di eddyburg nella cartella Italiani Brava Gente.

«Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato».

Il manifesto, 26 aprile 2015

Ven­ti­cin­que aprile settant’anni dopo. Il filo rosso della memo­ria è il tenue rac­cordo che ha attra­ver­sato que­sti sette decenni rima­nendo uguale a se stesso. Ma intorno tutto o quasi è cam­biato o sta cam­biando. Que­sto vale per il con­te­sto euro­peo come per lo stesso con­te­sto ita­liano. Non si tratta sol­tanto di un ovvio e natu­rale cam­bia­mento gene­ra­zio­nale, che pure ha il suo peso, ma di qual­cosa di più pro­fondo che segnala muta­menti di punti di vista, muta­menti di pro­spet­tive poli­ti­che, muta­menti di ana­lisi sto­ri­che, in una parola muta­menti di cultura.

In que­sto pro­cesso c’è qual­cosa che va al di là dell’esito natu­rale del tra­scor­rere del tempo. Che ogni gene­ra­zione e al limite ogni indi­vi­duo inter­pre­tino il 25 aprile a modo loro, muo­vendo dall’unico dato certo comune della con­clu­sione della lotta di libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo, è un fatto ovvio e dif­fi­cil­mente con­te­sta­bile. Ciò che non era pre­ve­di­bile e che rap­pre­senta il fatto nuovo con il quale ci tro­viamo a fare i conti è la pre­senza in que­sto set­tan­te­simo anni­ver­sa­rio di quelli che siamo ten­tati di chia­mare strappi della sto­ria. Chi ha vis­suto que­sti settant’anni non può certo avere inte­rio­riz­zato una visione idil­liaca ma quanto meno lineare del per­corso di que­sti decenni.

Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato. Il 25 aprile del 1945 la ricon­qui­sta della libertà sot­to­li­neando lo scam­pato peri­colo dal rischio che l’umanità aveva corso di soc­com­bere alla bar­ba­rie del nazi­fa­sci­smo, sem­brò aprire la pro­spet­tiva di una uscita dalla crisi rela­ti­va­mente indo­lore. La capa­cità della rico­stru­zione in Ita­lia fu un esem­pio di quanto una popo­la­zione aperta alla spe­ranza è in grado di rea­liz­zare. Ripren­dersi la vita dopo le sof­fe­renze e le umi­lia­zioni della dit­ta­tura e della guerra era una parola d’ordine e una ragione suf­fi­ciente per rial­zare la schiena e segna­lare la volontà di tor­nare a contare.

Allora, settant’anni fa la quiete dopo la tem­pe­sta ali­mentò l’impressione che le grandi cesure dei decenni pre­ce­denti si stes­sero chiu­dendo. Un dif­fuso ma gene­rico euro­pei­smo sem­brò annun­ciare la paci­fi­ca­zione e rimar­gi­nare le ferite di un con­ti­nente che era stato dila­niato da una lunga guerra che aveva dato sfogo a lotte inte­stine di nazio­na­li­smi con­trap­po­sti e di sistemi poli­tici incompatibili.

Ma il mondo non poteva tor­nare ad essere quello di prima del 1939. Troppi equi­li­bri erano sal­tati e la ricerca di nuovi punti di rife­ri­mento den­tro e fuori dell’Europa mise in evi­denza il ridi­men­sio­na­mento della vec­chia Europa, inco­min­ciato già con la prima guerra mon­diale, l’ascesa degli Stati uniti d’America, il nuovo ruolo nella stessa Europa e a livello mon­diale dell’Unione Sovie­tica, l’accelerazione della deco­lo­niz­za­zione desti­nata a dare il colpo di gra­zia al pri­mato mon­diale dell’Europa. Non era sol­tanto un equi­li­brio geo­po­li­tico, ma gli stessi popoli libe­rati dal nazi­fa­sci­smo si tro­va­vano a dovere rico­struire le basi della con­vi­venza civile.

Pochi tra i paesi libe­rati pote­rono ripri­sti­nare le isti­tu­zioni e lo sta­tuto poli­tico sospesi dall’occupazione delle potenze dell’Asse. La mag­gior parte dei paesi libe­rati si trovò ad ela­bo­rare nuovi sta­tuti poli­tici; la crisi dell’Europa sfo­ciata nella guerra non era stata sol­tanto crisi di ege­mo­nia e delle rela­zioni fra i popoli, era stata anche crisi di un modello poli­tico, tra i gua­sti di una demo­cra­zia in disfa­ci­mento e le ten­ta­zioni auto­ri­ta­rie e cor­po­ra­tive di com­pa­gini sta­tuali più o meno improv­vi­sate che cer­ca­vano di sup­plire al defi­cit di tra­di­zioni demo­cra­ti­che con la scor­cia­toia della dema­go­gia corporativa.

La guerra sep­pellì sotto le sue mace­rie que­sta Europa inver­te­brata (ram­men­tata, piena di con­trad­di­zioni e priva di fidu­cia in se stessa). Nelle diverse parti dell’Europa i movi­menti di Resi­stenza rap­pre­sen­ta­rono la pro­te­sta e la rispo­sta ai dilemmi in cui la guerra e le occu­pa­zioni pre­ci­pi­ta­rono i rispet­tivi paesi.

I settant’anni tra­scorsi ci hanno inse­gnato che gli ele­menti di paci­fi­ca­zione intra­vi­sti, o forse solo auspi­cati, nel 1945 erano più insta­bili e più prov­vi­sori di quanto si sarebbe potuto spe­rare. Breve è stata la memo­ria degli indi­vi­dui per rea­liz­zare i bene­fici e le poten­zia­lità nella tre­gua dei con­flitti. Lo sce­na­rio che oggi si pre­senta in Europa e nel mondo ci induce a pen­sare che il ricordo del 25 aprile non si può esau­rire in un richiamo cele­bra­tivo o tanto meno nostal­gico; esso è piut­to­sto un per­ma­nente cam­pa­nello d’allarme, un appello a stare all’erta per­ché le insi­die con­tro la pace e con­tro i valori per i quali si è com­bat­tuto nella Resi­stenza tor­nano a frap­porsi sul cam­mino dell’umanità.

Se ci era­vamo illusi che il fasci­smo fosse stato debel­lato per sem­pre, il riaf­fio­rare a più livelli e in diverse parti d’Europa di movi­menti di estrema destra sol­le­cita una nuova “chia­mata alle armi”; il fatto che esso si pre­senti in forme diverse dal fasci­smo sto­rico non esime dal rico­no­scerne le ascen­denze e la peri­co­lo­sità, anche se non ha alle spalle il rife­ri­mento di una isti­tu­zione sta­tuale per­ché la sua peri­co­lo­sità risiede pro­prio nella sua dif­fu­sione come fasci­smo quotidiano.

Si è affie­vo­lita la sen­si­bi­lità al raz­zi­smo che la crisi economico-sociale ha rivi­ta­liz­zato spesso masche­rando latenti con­flitti di classe con fat­tori più facil­mente per­ce­pi­bili anche ad una sen­si­bi­lità popo­lare. Negli scon­tri tra popoli le riven­di­ca­zioni iden­ti­ta­rie hanno rie­su­mato forme di intol­le­ranza reli­giosa al limite di un nuovo asso­lu­ti­smo. Nuovi con­flitti di ege­mo­nie che spesso rical­cano le orme di una vec­chia geo­po­li­tica ten­dono a ripro­durre tra gli stati gerar­chie che sem­brano supe­rate: alcuni stati tor­nano ad essere più sovrani di altri.

In que­sto con­te­sto il 25 aprile non può essere solo la festa della libe­ra­zione. Deve essere l’occasione di una vigile rifles­sione sul suo signi­fi­cato sto­rico di tappa di un cam­mino che non è ter­mi­nato ma che dal giorno della libe­ra­zione trae la spinta per affron­tare gli osta­coli che ancora si frap­pon­gono al con­so­li­da­mento di una società demo­cra­tica sem­pre più compiuta.

Il manifesto, 26 aprile 2015

Il rap­porto tra discorso pub­blico e Libe­ra­zione ha cono­sciuto fasi molto diverse, a volte con­tra­stanti. Si pos­sono cer­ta­mente indi­vi­duare delle costanti, ma è ancora più utile riflet­tere sui muta­menti di fase e sulle loro impli­ca­zioni. Del resto è un feno­meno che si svi­luppa in forma sostan­zial­mente auto­noma rispetto alla sto­rio­gra­fia, che pro­cede in paral­lelo: non è certo inin­fluente, ma viene rece­pita, quando accade, molto tempo dopo.

È signi­fi­ca­tivo che una reto­rica uffi­ciale prenda forma prima ancora del com­ple­ta­mento degli eventi. Nasce infatti nel 1944, quando viene già isti­tuita una «gior­nata del par­ti­giano», fis­sata, per sot­tile e incon­sa­pe­vole iro­nia delle date, al 18 aprile. C’è una grande enfasi attorno ai com­bat­tenti ita­liani, in divisa e per bande, che deve ser­vire a faci­li­tare quelle che ven­gono imma­gi­nate nor­mali trat­ta­tive di pace. Non ser­virà a molto su que­sto ter­reno, ma per altri versi non sarà affatto inu­tile: la nuova imma­gine degli ita­liani si costrui­sce anche attra­verso il rico­no­sci­mento inter­na­zio­nale dell’esistenza di com­bat­tenti ita­liani per la libertà.

Ma notiamo subito alcune carat­te­ri­sti­che che reste­ranno a lungo impresse nel discorso pub­blico attorno a quella che poi, a cose fatte, verrà defi­nita, sull’esempio fran­cese, Resi­stenza. Il carat­tere pres­so­ché esclu­si­va­mente patriot­tico, da subito col­le­gato – come pro­ba­bil­mente era «natu­rale» che fosse – all’esperienza risor­gi­men­tale. E il carat­tere lar­ga­mente asso­lu­to­rio del richiamo ad essa: Resi­stenza uti­liz­zata come lava­cro delle colpe col­let­tive, delle com­pli­cità, dei ritardi e dell’acquiescenza della società ita­liana nei con­fronti del regime fasci­sta. L’illusione di far parte del novero dei vin­ci­tori («anche l’Italia ha vinto» tito­lava una rivi­sta già alla libe­ra­zione della Capi­tale). Infine, come era ine­vi­ta­bile in quel con­te­sto, il rilievo pre­pon­de­rante se non esclu­sivo attri­buito all’elemento della guerra in armi, sacri­fi­cando mol­tis­sime com­po­nenti dell’esperienza resi­sten­ziale che emer­ge­ranno len­ta­mente e con fatica nei decenni successivi.

Ma su tutto que­sto irrompe una bru­sca cesura a par­tire dal 1947, con la rot­tura dell’unità anti­fa­sci­sta e con l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nel mondo che ci abi­tue­remo a defi­nire della «guerra fredda». Improv­vi­sa­mente la Resi­stenza cessa di essere una risorsa e diviene una com­pli­ca­zione, talora un far­dello per i gover­nanti. Si inau­gura quello che potremmo defi­nire il falso pro­blema della «guerra civile», che con­tra­ria­mente a quanto si dirà in seguito incombe nel discorso pub­blico (verrà dismesso solo a par­tire dagli anni Ses­santa) e in ter­mini ancor più depre­ca­tivi («guerra fra­tri­cida» sarà la for­mula ufficiale).

In gran parte falso pro­blema per­ché già ampia­mente risolto in ter­mini giu­ri­dici dall’amnistia del 1946, per­ché le sue dimen­sioni erano state cir­co­scritte in ter­mini minimi rispetto a «vere» guerre civili come quella spa­gnola o ad altri feno­meni, dif­fu­sis­simi, di col­la­bo­ra­zio­ni­smo nel corso del con­flitto. Infine per­ché il paese aveva già cono­sciuto un’autentica guerra fra ita­liani nel corso di quello stesso Risor­gi­mento cui la memo­ria pub­blica si richia­mava con acco­sta­mento pres­so­ché obbli­gato nelle cele­bra­zioni del 25 aprile.

Die­tro lo schermo della «guerra civile» si cela­vano però frat­ture desti­nate a rima­nere irri­solte nella coscienza nazio­nale. In primo luogo il pro­blema che potremmo defi­nire della lenta e dif­fi­cile meta­bo­liz­za­zione del fasci­smo da parte della società ita­liana: un lascito di men­ta­lità, cul­ture e con­sue­tu­dini che agiva sot­to­trac­cia ben al di là dell’apparente una­ni­mità del ripu­dio che aveva segnato i mesi della caduta di Mus­so­lini. In secondo luogo, dif­fi­cile da cogliere oltre l’ufficialità delle nar­ra­zioni, ope­rava la sovrap­po­si­zione tra Costi­tu­zione scritta sulla base dei valori dell’antifascismo e «costi­tu­zione mate­riale» anti­co­mu­ni­sta su cui si model­lava il nuovo potere delle classi diri­genti. Una ten­sione con­flit­tuale che rie­mer­gerà in mol­tis­simi momenti della vita repub­bli­cana, e che oltre­pas­serà anche i con­fini di quella che verrà defi­nita «Prima Repubblica».

Que­sto clima comin­cia a incri­narsi in occa­sione del primo Decen­nale, mal­grado la divi­sione per­du­rante tra le stesse orga­niz­za­zioni par­ti­giane. L’elezione di Gio­vanni Gron­chi, con un richiamo diretto alla Resi­stenza, guerra di popolo, e soprat­tutto con la con­sta­ta­zione che una Costi­tu­zione esi­steva e andava attuata al più pre­sto (si par­tirà a breve con la Corte costi­tu­zio­nale) era un segnale di muta­mento. Nella lun­ghis­sima incu­ba­zione del cen­tro­si­ni­stra gio­cherà un ruolo anche il reci­proco rico­no­sci­mento nei valori riaf­fer­mati della tra­di­zione antifascista.

La vera svolta si avrà nel luglio 1960, con la prova di forza vinta da un anti­fa­sci­smo vec­chio e nuovo, fatto anche di gio­va­nis­simi, con­tro il ten­ta­tivo di tor­nare indie­tro da parte del blocco cle­ri­co­fa­sci­sta che si era rico­no­sciuto nell’avventura di Tam­broni. Da que­sto momento in poi Resi­stenza e anti­fa­sci­smo diver­ranno a lungo cen­trali nel nuovo discorso pubblico.

Con qual­che ambi­guità per­du­rante, che replica i vizi di ori­gine, a volte per­fino ingi­gan­ten­doli. La for­mula cano­nica del «popolo unito con­tro la tiran­nide» che diviene ricor­rente nell’oratoria uffi­ciale nel tempo della pre­si­denza di Sara­gat è ancor più asso­lu­to­ria e ingan­na­trice di quanto non fosse stata la reto­rica delle ori­gini repub­bli­cane. Men­tre una nuova Ger­ma­nia farà rie­mer­gere pro­prio a par­tire dalla fine degli anni Ses­santa la grande rimo­zione del pas­sato nazi­sta, met­terà sotto accusa la «gene­ra­zione dei padri» e intro­durrà il tema deci­sivo delle «respon­sa­bi­lità col­let­tive», in Ita­lia que­sto appun­ta­mento verrà man­cato e la pro­ble­ma­tica del «con­senso» al fasci­smo sarà desti­nata ad affio­rare sotto un segno com­ple­ta­mente diverso, non pro­durrà sensi di colpa ma invece il sol­lievo della con­ferma di un giu­di­zio bona­rio e mini­miz­zante nei con­fronti dell’esperienza fasci­sta dive­nuto ormai vox populi.

Le ambi­guità saranno pre­senti anche nel discorso di una «nuova sini­stra» che in gran parte anima le mani­fe­sta­zioni e che nel rap­porto con la sto­ria si muo­verà in ter­mini molto diversi rispetto ai coe­ta­nei tede­schi. A lungo la Resi­stenza verrà sot­to­va­lu­tata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivo­lu­zio­na­rio». Alla svolta degli anni Set­tanta sarà improv­vi­sa­mente rein­ven­tata in forma favo­li­stica, scam­biando una parte per il tutto e attri­buendo al popolo ita­liano una pro­pen­sione rivo­lu­zio­na­ria in gran parte illu­so­ria. Tra le oppo­ste reto­ri­che di Resi­stenza «rossa» e «tri­co­lore» corre spesso il rischio di venire stri­to­lata la Resi­stenza popo­lare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua plu­ra­lità di pra­ti­che e di moti­va­zioni, che con grande fatica e con un lungo e impo­nente lavoro di scavo e di rifles­sione gli sto­rici faranno emer­gere con chia­rezza negli anni suc­ces­sivi. E che com­pren­deva ine­vi­ta­bil­mente memo­rie diverse, anche «divise» e con­flit­tuali come si sco­prirà tar­di­va­mente in seguito, che pote­vano rico­no­scersi e ricon­ci­liarsi, ma non avreb­bero mai potuto con­ver­gere in una «memo­ria unica», stra­va­ganza con­cet­tuale degna di un regime totalitario.

A par­tire dagli anni Ottanta l’antifascismo e — per la prima volta — anche la Costi­tu­zione saranno visti come osta­coli sulla strada della «moder­niz­za­zione» del paese. L’Italia pren­derà, di fatto, una strada diversa rispetto all’evoluzione della coscienza occi­den­tale, che pro­prio in que­gli anni, anche attra­verso una nuova con­sa­pe­vo­lezza della por­tata della Shoah, riflet­terà sull’enormità del pro­blema sto­rico del fasci­smo euro­peo, del suo radi­ca­mento, del con­senso otte­nuto e della cata­strofe inne­scata. Si apri­ranno, anche su que­sto ter­reno, i ter­mini di una nuova «ano­ma­lia ita­liana», che segne­ranno una lunga fase della sto­ria italiana.

Gli anni della «Seconda Repub­blica» sem­bre­ranno per quasi un ven­ten­nio domi­nati dall’ansia di offrire una legit­ti­ma­zione sto­rica alla nuova destra, in larga misura estra­nea oppure ostile alla Libe­ra­zione, e che emerge con ampio con­senso dopo il dis­sol­vi­mento del vec­chio equi­li­brio. Ascol­te­remo nei discorsi uffi­ciali di pre­si­denti e mini­stri il richiamo ricor­rente alla «buona fede» dei fasci­sti scon­fitti, attri­buendo rilievo e cen­tra­lità a una con­sta­ta­zione di bana­lità disar­mante, per­ché la buona fede in genere sul piano sto­rico non si nega a nes­suno, ed era attri­bui­bile a giu­sto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di inse­dia­mento dei Pre­si­denti della Repub­blica il richiamo alle «ragioni» della parte scon­fitta nel 1945 appa­rirà improv­vi­sa­mente pro­blema attuale di cui farsi carico, fino all’eccezione rap­pre­sen­tata da Ser­gio Mat­ta­rella che con un lim­pido e det­ta­gliato richiamo alla Costi­tu­zione anti­fa­sci­sta porrà fine a quella pra­tica discorsiva.

L’antifascismo appa­rirà ine­vi­ta­bil­mente sulla difen­siva, costretto a bat­ta­glie talora di retro­guar­dia, nelle lun­ghe pole­mi­che sul cosid­detto «revi­sio­ni­smo», ma in grado ancora di mobi­li­ta­zioni impo­nenti, come nella grande mani­fe­sta­zione pro­mossa da que­sto gior­nale a Milano nel 1994 subito dopo lo sfon­da­mento elet­to­rale della destra. E riu­scirà anche a respin­gere nel refe­ren­dum del 2006 (con uno schie­ra­mento ani­mato dall’ex-presidente Oscar Luigi Scal­faro) l’imposizione di una nuova Costi­tu­zione sbi­lan­ciata sul ter­reno del «deci­sio­ni­smo» e del pri­mato dell’esecutivo, e che pre­fi­gu­rava anche il venir meno della coe­sione nazio­nale attra­verso i mec­ca­ni­smi della cosid­detta «devo­lu­zione» a favore dei par­ti­co­la­ri­smi regionali.

Si era trat­tato, come oggi com­pren­diamo bene, di una vit­to­ria appa­rente. La fase che viviamo appare domi­nata, a ben vedere, dalla ten­sione tra l’affermazione, non più messa in discus­sione, dei valori sto­rici della Libe­ra­zione e il disgre­garsi in paral­lelo del mondo di idee e di prin­cìpi che ave­vano pro­dotto, dal venir meno delle con­qui­ste di una civiltà repub­bli­cana pro­gres­si­va­mente svuo­tata dei suoi carat­teri ori­gi­nari e qualificanti.

Ben oltre la chias­sosa destra ita­liana, la civiltà costi­tu­zio­nale del nostro paese (e non solo del nostro) è entrata nel mirino delle nuove entità imper­so­nali che gover­nano il mondo e tra­sci­nano l’Europa al sui­ci­dio. Nel mag­gio 2013 un gigante della finanza glo­bale dirà espli­ci­ta­mente che le Costi­tu­zioni anti­fa­sci­ste nate dopo la seconda guerra mon­diale vanno rite­nute un osta­colo per la «moder­niz­za­zione» e l’«integrazione» dei sistemi eco­no­mici in Europa. Poli­tici dive­nuti zelanti sud­diti di quella volontà met­tono in atto un mec­ca­ni­smo ine­so­ra­bile che con­duce in quella direzione.

Per que­sto negli ultimi anni la ricor­renza del 25 aprile appare sem­pre di più una mesta ceri­mo­nia degli addii. Un pren­dere con­gedo dal mondo in cui ave­vamo vis­suto, dalle nostre spe­ranze e dalle nostre conquiste.

L’ossequio este­riore alla Libe­ra­zione non è più messo in discus­sione, ed essa viene cele­brata da cor­tei di popolo, da donne e uomini che dif­fi­cil­mente pos­sono ren­dersi conto di vivere la stessa situa­zione descritta in una famosa poe­sia di Bre­cht, incon­sa­pe­voli del fatto che «alla loro testa mar­cia il nemico».

Con ogni pro­ba­bi­lità la nostra demo­cra­zia par­la­men­tare verrà abo­lita can­tic­chiando Bella ciao. La Libe­ra­zione tor­nerà a essere, come è stata a lungo nella sto­ria ita­liana, fuoco che cova sotto la cenere, in attesa di venire rivi­ta­liz­zato da nuovi eredi

Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere». La Repubblica, 24 aprile 2015


Signor Presidente, lei ha attraversato la vita politica e istituzionale di questo Paese, ha vissuto la sfida delle Brigate Rosse alla democrazia, ha fronteggiato anche l’emergenza criminale più acuta. Che cosa legge nella data del 25 aprile, settant’anni dopo la Liberazione?

«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».

Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani. Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?

«Ricordo che Aldo Moro definiva il suo partito, oltre che popolare e democratico, come «antifascista»: per lui si trattava di un elemento caratterizzante, appunto identitario, della politica italiana. Naturalmente nella nostra democrazia confluiscono anche altri elementi storici nazionali, ma quello dell’antifascismo ne costituisce elemento fondante. La Resistenza italiana mostrò al mondo la volontà di riscatto degli italiani, dopo anni di dittatura e di guerra di conquista. Non si può dimenticare il contributo che molte operazioni dei partigiani diedero all’accelerazione dell’avanzata alleata. Basti citare l’esempio di Genova, dove il comando tedesco trattò la resa direttamente con i partigiani. Il presidente Ciampi ha il merito di aver riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo fondamentale che le forze armate italiane ebbero nella Liberazione. Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l’avanzata sul territorio italiano e con quante perdite? La Resistenza, la cobelligeranza, pesarono sul tavolo delle trattative di pace».

Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?

«Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell’anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subito percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell’Azione Cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l’occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli».

È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?

«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».

Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?

«Della Costituzione vanno sempre richiamati, anzitutto, l’affermazione dei diritti delle persone, che preesistono allo Stato, e il dovere della Repubblica di realizzare condizioni effettive di uguaglianza fra i cittadini. Si tratta di punti centrali con cui i Costituenti hanno caratterizzato la nostra convivenza e che hanno dato risposta al desiderio di libertà e di giustizia di chi si batteva per liberare l’Italia. Bobbio diceva bene: non vi è dubbio che la Costituzione, dopo la dittatura, la ribellione e la resistenza non poteva che essere molto diversa da quella prefascista, disegnando una democrazia molto più avanzata, una Repubblica con finalità più ambiziose e doveri più grandi verso la società, del resto in linea con gli apporti culturali della gran parte della forze politiche dell’Assemblea Costituente».

Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?

«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».

C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?

«Ogni movimento di liberazione porta con sé l’orizzonte e la ricerca di un ordine pienamente giusto e risolutivo dei temi della convivenza. Ma io credo che nessuno, oggi, guardando indietro possa ignorare che in Italia si è sviluppata una profonda e pacifica rivoluzione sociale: territori e fasce sociali, un tempo povere e del tutto escluse, hanno visto una radicale crescita. Il rammarico è che questo non sia avvenuto in maniera ben distribuita e ovunque e che il divario con il Mezzola giorno abbia ripreso ad aumentare. Ma chi ricorda le condizioni economiche e sociali dell’Italia negli anni Quaranta e Cinquanta può valutarne le trasformazioni intervenute nei decenni successivi. Va anche sottolineato che quel processo di crescita, difettoso per diversi profili, si è realizzato salvaguardando la democrazia, malgrado quel che è stato tentato per travolgerla, con insidie, come la loggia P2, aggressioni violente e stragi. Quelle trame a cui lei fa riferimento avevano un disegno e un obbiettivo comune. Quello di abbattere lo Stato democratico, di cancellare la Costituzione del 1948, di aprire la strada a un regime tendenzialmente autoritario. In questo senso, i terrorismi di qualsiasi colore — fatte salve tutte le diversità ideologiche, politiche e culturali — avevano un nemico in comune. Vi sono stati tradimenti della Costituzione ma va anche detto che le istituzioni e le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno resistito. Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro ne costituiscono prova evidente».

Il terrorismo rosso che ha insanguinato l’Italia si è richiamato alla guerra partigiana: la sinistra operaia ha respinto quel progetto, e lo Stato democratico lo ha sconfitto. È stata questa la minaccia più forte per la democrazia repubblicana nata dalla Liberazione? Lei ha vissuto quegli anni, la tragedia Moro in particolare. Sente oggi come altrettanto grave la sfida del terrorismo jihadista? Non crede che oggi come allora, con tutte le differenze necessarie, lo Stato abbia il diritto di difendersi e di difendere i suoi cittadini che gli hanno concesso il monopolio della forza, ma insieme abbia anche il dovere di farlo rimanendo fedele alle regole democratiche e di legalità che la democrazia impone a se stessa?
«La lotta al terrorismo fu condotta dallo Stato senza sospendere le libertà civili e democratiche. Fondamentale, per battere il terrorismo, è stata l’unità di po- polo. I brigatisti rossi capirono ben presto che la loro sconfitta era avvenuta prima sul piano politico — nel rifiuto, cioè, delle masse operaie, di seguirli nella lotta armata — che sul piano militare o di polizia. Basti pensare al sacrificio di Guido Rossa. Nel caso del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta la minaccia proveniva dall’interno. Oggi abbiamo una o più entità esterne, presenti in Paesi diversi, che incitano su Internet alla guerra santa contro l’Occidente e che confidano in una rivolta spontanea dei musulmani presenti all’interno di quei Paesi che si vorrebbero sottomettere al Califfato. Non c’è dubbio che si tratti di una minaccia nuova e insidiosa. La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza. La sfida è, oggi come ieri, molto impegnativa. Non c’è dubbio che la società aperta e accogliente abbia dei rischi in più in termini di sicurezza rispetto a uno Stato di polizia. Ma possiamo chiedere ai cittadini europei di sobbarcarsi qualche fastidio o controllo in più, non certo di vedersi limitare diritti e prerogative che ormai sono patrimonio comune e irrinunciabile. Tradiremmo la nostra storia e i nostri valori».
Ma la Resistenza negli ultimi vent’anni è stata anche oggetto di una lettura revisionista che ha criticato la «mitologia» resistenziale e il suo uso politico da parte comunista, che pure c’è stato, attaccando il legame tra la ribellione partigiana al fascismo e la nascita delle istituzioni democratiche e repubblicane. Qual è il suo giudizio? Perché non c’è una memoria condivisa su una vicenda che dovrebbe rappresentare il valore fondante dell’Italia repubblicana?

«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».

Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?

«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».

Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?

«Calvino mi sembra abbia centrato il tema. Non c’è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?».

Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».

Alla vigilia del 25 aprile, ricordiamo. «Nuovi studi approfondiscono il sostegno che i soldati sovietici, alcuni scampati alla prigionia dei tedeschi, diedero alla lotta di liberazione dei partigiani».

La Repubblica, 21 aprile 2015

GIÀ si era fatto poco, e tremendamente tardi. Poi, con il crollo dell’Urss e dei partiti comunisti dell’Ue, il tema era addirittura sparito, non solo dalla ricerca storica ma anche dalle celebrazioni della Resistenza. La parte avuta dai soldati sovietici – prigionieri o collaborazionisti del nazifascismo passati ai partigiani – nella guerra di liberazione in Europa era diventato un tema fuori moda, persino ingombrante per quei Paesi che erano stati liberati dall’Armata Rossa solo per finire nella mani di Stalin, e per i quali persino il Giorno della Memoria (27 gennaio, data dell’ingresso ad Auschwitz delle truppe russe) costituiva, e costituisce tuttora, fonte d’imbarazzo.

Ma ora qualcosa si muove, e negli ultimi mesi – in vista del settantesimo anniversario del 25 aprile – abbiamo visto uscire testi che esplorano in modo innovativo questo pezzo della nostra storia. Tra essi possiamo annoverare il lavoro di Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recupero della memoria, che illumina il contributo dei partigiani sovietici nella liberazione del Piemonte, e il libro di Marina Rossi, Soldati dell’Armata Rossa orientale, che indaga il ruolo degli uomini “venuti dal freddo” in uno spazio difficile, segnato da tante ferite ancora aperte, come le Foibe o l’ignobile massacro dei cosacchi consegnati a Tito dagli Alleati, per non dire da una Guerra Fredda che ha diviso italiani e slavi già prima della fine del conflitto. Lavori pubblicati da case editrici minori, Visual Grafika di Torino e Leg di Gorizia, ma che indicano una tendenza e aprono una strada su un terreno d’indagine ancora quasi vergine.

Già dei partigiani jugoslavi in Italia si sa poco o niente – essi restano terreno di indagine di pochi autori di nicchia – anche se furono molte migliaia. Deportati politici o prigionieri di guerra cui l’8 settembre ‘43 offrì una generale occasione di fuga, essi entrarono in massa nella Resistenza italiana, specie nel Centro Italia, non potendo raggiungere i compagni per via dell’occupazione nazista del Nord del Paese. Ebbene, dei sovietici – russi, caucasici, ucraini, mongoli, kazaki ecc. – si sa ancora meno, e non solo per gli infiniti processi cui è stata sottoposta la guerra di Liberazione negli ultimi anni, ma anche perché – osserva Franco Sprega di Fiorenzuola d’Arda, agguerrito indagatore della Resistenza tra il Po e la via Emilia – tutto, con loro, “diventa più complicato”.

Già i numeri lo dicono. I prigionieri dell’Armata Rossa caduti nella mani dei tedeschi furono cinque milioni, una cifra che non ha eguali in nessun’altra guerra europea. Di questi, almeno la metà – gli irriducibili – furono lasciati morire di fame e di freddo. Gli altri furono assorbiti come ausiliari o inquadrati nell’esercito nazista, come la famigerata 162ma divisione turkestana che sull’Appennino lasciò una scia incomparabile di violenza, specie sulle donne. Una parte di questi prigionieri – in Italia dai cinque ai settemila – saltarono il fosso per mettersi in contatto coi partigiani, ma essi chi furono davvero? Quanti si mossero per opportunismo, quanti per fede, e quanti perché rinnegati da Mosca? Dopo che Stalin aveva ordinato loro di suicidarsi in caso di cattura, la loro resa era diventata un reato punibile con la fucilazione (cosa che per molti effettivamente avvenne) e dunque nella scelta partigiana c’era anche la ricerca di una riabilitazione agli occhi della madrepatria.

Terreno difficile, per uno studioso che vuole evitare la retorica celebrativa. Ma ora in aiuto ci viene la nuova accessibilità di archivi statunitensi, britannici e soprattutto russi, finora non consultabili, che consentono di leggere meglio l’apporto degli stranieri alla Liberazione. Nel libro di Marina Rossi compare integralmente, per esempio, il diario di guerra del moscovita Grigorij Iljaev Aleksandrovic, catturato dai tedeschi prima dell’età di leva e poi fuggito rocambolescamente, dal quale emergono dettagli inediti sulla resistenza tra Tolmino e l’Istria montana e soprattutto sugli ultimi giorni di combattimenti attorno a Trieste, ai primi di maggio del ‘45, quando il resto d’Italia è già stato liberato.

Sia la Rossi che la Roberti osservano come le unità partigiani trovassero nei sovietici combattenti agguerriti, grazie al doppio addestramento avuto nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht. Nella sua intervista prima di morire con Franco Sprega, Mario Milza, primo a entrare a Genova con la 59 brigata “Caio”, dice dei sovietici che “sapevano fare la guerra”, erano “disponibili al rischio” e sapevano esprimere “un volume di fuoco” che ti metteva al sicuro. Un partigiano, chiamato genericamente “il Russo” e poi svelatosi post mortem come Vilajat Abul’fatogli Gusejnov di nascita azera, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nel Piacentino e fu ricordato al punto che, dopo il trasferimento del corpo in Urss, il partigiano Maurizio Carra di Borgo Taro trasferì marmi e lapidi nel giardino di casa sua.

Solo ora sappiamo chi furono Dimitri Makarovic Nikiforenko, nome di battaglia “Willy”, Mehdi Huseynzade “Mihajlo” o Vasilji Zacharovic Pivovarov “Grozni”. Per il resto riemergono dalle nebbie solo visi sfocati, nomi storpiati, o cimiteri – come quello di Costermano fra il Garda e la Val d’Adige – dove settant’anni fa vennero ammassati senza distinzione tagliagole collaborazionisti e comandanti di unità partigiane, accomunati dal solo denominatore di essere, genericamente, “russi”. In questo ginepraio, quanto ha dovuto faticare – racconta Anna Roberti nel suo libro – Nicola Grosa, mitico partigiano piemontese, per dare a guerra finita un nome a questi stranieri caduti nella lotta subalpina, specie nel Canavese, e portarne i corpi a Torino al “Sacrario della Resistenza”.

Ma la loro memoria è specialmente viva sul confine orientale, dove essi si batterono con i garibaldini italiani e più spesso con la Resistenza slovena, in un rapporto di cameratismo facilitato dalla parentela linguistica. Il “Ruski Bataljon” fece saltare ponti, bloccò intere colonne di tedeschi in ripiegamento, conquistò bunker perdendo decine di uomini. Molti di loro, come il famoso “Mihajlo”, morto in combattimento, sono diventati eroi in patria, e la loro leggenda vive ancora.

Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.
A cura di Ateneo Veneto e Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea Susanne Böhme Kuby ha tenuto una conferenza dal titolo "Riflessioni sul ricordo pubblico dell’Holocaust in Germania". La conferenza ha illustrato in modo ampio e documentato le premesse storico-politiche del mainstream della percezione pubblica dell'Holocaust in Germania, dall’immediato dopoguerra fino ai più recenti problemi dei risarcimenti alle vittime che si sono riaffacciati dopo la riunificazione nazionale. La contraddittoria memoria del passato nazista - tra rimozione ed eterno ritorno - rivela che quel passato non è né morto, né "superato", ma proietta le sue ombre sull’attualità.Nonostante l'ampiezza del testo, di affascinante e scorrevole lettura, lo pubblichiamo integralmente (in chiaro). Per consentirne una più meditata lettura ne alleghiamo, con il consenso dell'autrice, anche il file in formato .pdf scaricabile da eddyburg

RIFLESSIONI SUL RICORDO PUBBLICO
DELL’HOLOCAUST IN GERMANIA

di Susanne Böhme Kuby

Ho colto l’invito di Marco Borghi a parlare di questo argomento complesso per illustrarvi – ovviamente solo a grandi linee - su quale fondamento poggino il monumento all’Olocausto e i rispettivi musei eretti a Berlino a partire dalla fine dello scorso millennio. Da non pochi visitatori questi luoghi vengono percepiti come testimonianza visibile del fatto (presunto) che la Germania abbia “elaborato” il suo passato meglio di altre nazioni in Europa. Vorrei ripercorrere questa storia dall'inizio, nel tentativo di mostrarne la complessità. Una complessità maggiore di quanto questa conclusione apparentemente positiva, ma in realtà affrettata, non farebbe pensare.

Si può constatare, a 70 anni dalla fine della II.guerra mondiale e dalla scoperta dei suoi orrori, che la memoria del passato non ha – tra rimozione e eterno ritorno – guadagnato in profondità e complessità, ma piuttosto in superficialità e semplificazione. Ciò non soltanto, ma in modo particolare, in Germania (e non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica.) Per comprenderne il motivo occorre indagare le coordinate storico-politiche contingenti, che sono le premesse del mainstream della percezione pubblica nella Germania dei Täter (carnefici). Lascio da parte quindi il ricordo individuale che riaffiora anche in una più recente Erinnerungskultur/cultura della memoria. Mi piace però ricordare la constatazione di Christa Wolf, Trame d’infanzia, del 1976: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato. Noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.

Sappiamo che la memoria dell’Olocausto non è monolitica, ma comprende molte narrazioni a secondo dei contesti e delle prospettive, di vittime e Täter - in Germania, anzi nelle due ex-repubbliche tedesche, in Israele e altrove. Così come ogni memoria è un mosaico costituito da molti elementi a loro volta determinati dal rispettivo presente.

E qui vorrei subito anticipare una constatazione sull’attualità: Il governo tedesco federale ripete da più di mezzo secolo la liturgia di una immensa responsabilità morale della Germania nei confronti delle vittime del Terzo Reich, ma nello stesso tempo insiste sulla non esistenza di alcun obbligo legale nei loro confronti, oltre alle esigue forme di Wiedergutmachung “riparazioni”concesse dopo la guerra. Le vedremo più avanti.

Lo sterminio industriale di massa, di complessivamente ca.15 mio. di esseri umani, tra ebrei, prigionieri russi e polacchi, sinti, rom, e altri, (Holocaust Museum di Washington) eseguito da un vasto apparato costituito da cittadini tedeschi, è stato dall’ inizo rimosso dalla coscienza collettiva della nazione. Questo fatto è stato sempre spiegato con l’immensità dei crimini commessi e con le difficili condizioni del dopoguerra – ma ciò non coglie il nodo del problema. E’ fuor di dubbio che si è trattato di un complesso processo di rimozione collettiva o meglio di diniego, descritto da Ralph Giordano, 1987, così: “Il ‘collettivo nazionale dei seguaci di Hitler’ di ieri si comporta oggi, nella democrazia, in maniera corrispondente alla sua deformazione nazista. Da questo hanno origine gli ‘affetti collettivi’, la ‘seconda colpa’, che nella sua disumanità mostrata in maniera così disarmante ci fa comprendere perché il nazionalsocialismo ha potuto a suo tempo ottenere tanto successo. Nella rimozione e nella negazione non si tratta in prima linea della difesa del Terzo Reich e del suo Führer, ma del proprio Io, che non vuole ammettere nessuna colpa, nè davanti a sé, né davanti ad altri. La perdita di un orientamento umano attraverso la profonda identificazione con le idee di Hitler ...si è rivelata come l’eredità più ostinata lasciata dallo Statonazionalsocialista e dal suo terreno storico.”

La negazione della realtà, ancor prima della sua mistificazione, fu infatti uno dei pilastri dell’ideologia nazista. Questa aveva esautorati i tedeschi dalla lotta di classe, dallo scontro tra partiti (Weimar!), da ogni pensiero critico e dalla politica tout court. Dall’inizio, ovvero dal 1933 in poi, il regime aveva, p.es. distrutto anche le tracce dell’opposizione antinazista individuale e di gruppo, oltre alle persone. Hitler stesso si vantò del fatto che in Germania non c’era (più) resistenza al suo Reich. Eppure nei sei anni precedenti la guerra i nazisti avevano incarcerato e in parte ucciso circa. un milione di tedeschi antifascisti (politici, religiosi, oltre ai disabili, malati di mente ecc.), nelle carceri e nei Lager eretti dappertutto in Germania. Non se ne accorse nessuno? Questa domanda è rimasta per decenni un grande tabù.

Viktor Klemperer aveva descritto in loco i meccanismi mistificatori non solo del linguaggio del nazismo quotidiano (in LTI, Lingua Terti Imperii, 1947 Berlino est, nella RFT 1966 e i suoi Diari, trad. anche in italiano ). Fu Raul Hilberg a cominciare ad indagare negli anni ‘80 su ciò che era usuale nella totale anomalia della repressione puntando il dito sulla folla di spettatori che hanno convissuto tranquillamente con ciò che avevano deciso di non voler vedere. (cfr. Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, 1994)

Di più. Ancora oggi la rimozione della Resistenza è attiva: sono vive nella memoria pubblica occidentale soltanto l’azione della Weisse Rose/Rosa Bianca dei fratelli Scholl a Monaco e l’attentato di Stauffenberg a Hitler del 20 luglio 1944. (Il ricordo della Resistenza politica soprattutto di comunisti e altri antifascisti era stato raccolto e custodito solo nella RDT ed è oggi scomparso con essa. Lì una visita al Campo di Buchenwald faceva presto parte della formazione delle scolaresche, per ricordare anche la resistenza antifascista che a Buchenwald aveva prodotto l’allora famoso Manifesto per la necessaria futura unità del movimento operaio).

Già nel 1943, Heinrich Himmler aveva annunciato (in uno dei suoi discorsi a Posen), che prima di una ritirata tedesca i campi di sterminio in Polonia avrebbero dovuti essere evacuati e rasi al suolo, “spurlos verschwinden”, senza lasciare traccia, vi doveva crescere l’erba sopra. Ecco il memoricidio annunciato che ha avuto conseguenze di lunga durata. E quando, dopo la resa della Wehrmacht nel maggio 1945, vennero esposte in molte piazze cittadine le prime foto ingrandite dell’orrore trovato nelle migliaia di lager sul territorio del Reich, i tedeschi restarono allibiti. Secondo la loro tesi di una ”colpa collettiva” di tutto il popolo - gli angloamericani avevano applicato alle immagini la scritta “Das ist eure Schuld!/ E’ colpa vostra!”. La maggioranza dei tedeschi - che fino a un momento prima aveva creduto alla vittoria finale del Führer - reagì anzitutto negando: “No, questo non può essere successo, non lo sapevamo, non è colpa nostra”. Rossana Rossanda ha descritto nella sua autobiografia il proprio smarrimento di fronte alle prime notizie e fotografie che giungevano anche in Italia, chiedendosi quale sarebbe stato l’angoscia dei tedeschi di fronte a queste rivelazioni.

Ma dopo aver visitato la Germania nel 1949, Hannah Arendt scrive che: “Da nessun’altra parte si percepisce meno che in Germania questo incubo di distruzione e orrore e da nessuna parte se ne parla meno”. (Report from Germany. The Aftermath of Nazi-Rule (1950, uscito ben 36 anni dopo in ted. “Besuch in Deutschland”, 1986). Arendt si chiedeva se si trattava di un diniego cosciente o di una reale Gefühlsunfähigkei/ mancanza d’empatia. Saranno più tardi, negli anni sessanta, i psicoanalisti Alexander e Margarethe Mitscherlich ad indagare questo fenomeno, constatando una vera e propria “incapacità a elaborare il lutto”, riferito alla perdita del Führer (e del Reich). (Die Unfähigkeit zu trauern,1967/Germania senza lutto, Psicoanalisi del Postnazismo, 1970)

Sono numerose le testimonianze di quel fenomeno descritto come Flucht vor der Wirklichkeit, che è una fuga non solo davanti alla realtà, ma anche davanti alla responsabilità. Franco Fortini ha osservato quella stessa, perdita di senso della realtà, descritta da H. Arendt come incapacità di valutare e di comprendere: “L’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo; ma solo a ripararsi alla meno peggio nelle vecchie grotte dell’anima. Favorita dalla politica occidentale, la borghesia tedesca, appena ha potuto, ha gettato sul vuoto di una generazione i luoghi comuni più filistei” (Diario tedesco 1949, p. 24)

Continua Fortini: “E senti che questo aiutare a rendere vano il tentativo di vita nuova che vedi (...) è colpa anche più grave che prepararsi ad armare le compagnie di ventura tedesche e a giustificarle fin d’ora in nome della civiltà [occid.] e dello spirito”.

Qui viene chiamato in causa la politica degli alleati occidentali e il ruolo accondiscente della borghesia tedesca e si fa riferimento alla rapida dissoluzione dell’alleanza dei vincitori dopo lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone nell’agosto del ’45. La superiorità militare statunitense fa da premessa per la seguente “guerra fredda”. Le zone occidentali della Germania diventano (Bizone1948/Trizone) il nucleo della RFT (1949), e il principale baluardo degli USA contro il blocco sovietico. Questo ha determinato tutto il futuro tedesco (ed europeo), e garantito la continuità di fondo delle strutture economiche e sociali, ma anche ideologiche del capitalismo tedesco. (Bisognerebbe aprire una parentesi sull’immediato dopoguerra, in cui il capitalismo sembrava essere superato persino nel programma di Ahlen della CDU (1947): “Il sistema capitalistico si è rivelato inadeguato agli interessi vitali dello stato e della società tedesca”, ma presto si chiuse ogni prospettiva alternativa per una Germania non allineata e democratizzata anche nelle sue strutture economiche, prevista ancora dagli Accordi di Potsdam, 1945).

Con l’inizio della Guerra fredda (1947) il vecchio anticomunismo servì di nuovo da collante anche per il nuovo establishment che ha tenuto insieme la RFT fino ad oggi, (l’anticomunismo, non l’antifascismo! Qui sta una differenza di fondo con l’Italia). L’anticomunismo ha favorito anche l’accettazione tacita della divisione nazionale, i tedeschi occidentali hanno potuto staccarsi da quest’altro “totalitarismo”! (Verlorenes Land, verlorene Schuld, come constatò P. Brückner,1978) Non solo: Un certo lassismo praticato già durante la denazificazione nella Bi-zona occidentale (tramite l’autocertificazione/ cfr. Der Fragebogen di Ernst von Salomon) permise il reintegro dell’intera classe dirigente (ex-)nazista nella RFT. (Diversamente nella zona sovietica, poi RDT, dove, dopo una diversa denazificazione, si è sostituto l’apparato dirigente con uno forgiato ex- novo delle Arbeite und bauernfakultäten(“Facoltà degli operai e dei contadini”) . Il che spiega almeno in parte l’accanimento post’89 dell’ establishment della RFT confronti di quello dell’RDT).

Infatti denazificazione e reeducation democratica (stabilite nel 1945 a Potsdam dagli Alleati) divergeranno notevolmente tra le quattro zone occupate a seconda delle divergenti analisi angloamericane, francesi e sovietiche del nazionalsocialismo. I primi passi di democratizzazione dal basso da parte di antifascisti tedeschi vennero per lo più ostacolati e rimasero al margine anche della coscienza pubblica. Tra i primi testi tedeschi che miravano ad una Aufklärung vorrei ricordare la Schuldfrage (1945/6), frutto delle prime lezioni all’università di Heidelberg del filosofo Karl Jaspers dedicati ad un'analisi storico-filosofico-giuridica della questione della colpa dei tedeschi, e il primo libro documentario che Eugen Kogon, prigioniero ebreo a Buchenwald, redasse in pochi mesi dopo la sua liberazione, Der SS-Staat (1946), che rimane una pietra miliare per la conoscenza del sistema di organizzazione industriale dell’impero delle SS.

Ma la guerra, come prodotto finale del nazionalsocialismo, ha provocato in molti tedeschi la distruzione dell’identità a livello nazionale, sociale e individuale. Per cui predomina nei contemporanei la sensazione che essi abbiano, nel 1945, vissuto un momento senza società e senza storia: Quella “sottrazione di senso” (Sinnentzug), percepita dai più, caratterizzò in seguito gli atteggiamenti di letargia o di ritiro alle esigenze più elementari, e produsse semmai scatti emotivi incontrollati di risentimento, anziché riflessione critica o pensiero e coscienza politica. (E qui vi rimando a “Germania anno zero” di Rossellini o a Die Mörder sind unter uns di W. Staudte che vedremo presto alla Casa del cinema).

La maggioranza dei tedeschi invece percepì - come vera e propria Katastrophe - non la guerra in sé, ma la pesante sconfitta (la seconda in pochi decenni) inflitta loro dagli alleati, anche se questa volta la accettarono senza cercare rivincite. Solo una piccola minoranza salutò gli alleati come “liberatori” (e gli americani più che non i russi). Molti recepirono invece la politica di occupazione come punitiva (e solo ora iniziano a conoscere fame e freddo!).

Goebbels aveva fino agli ultimi giorni di aprile del ’45 diffuso le sue profezie minacciose ca. vendette tremende che i vincitori avrebbero inflitte al popolo tedesco, che sarebbe stato, con la sconfitta non più degno di vita. Gli agghiaccianti processi di Norimberga furono valutati come Siegerjustiz/giustizia dei vincitori. E in quella sede Hermann Göring dichiarò anche: “Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza ... il popolo ha condotto una lotta per l’esistenza che si è scatenata senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio”, dando espressione a una sensazione percepibile tuttora.

Semmai la liberazione dal nazionalsocialismo viene sentita come una liberazione dalla storia stessa, oppure altrove la sconfitta è al meglio interpretata come conquista morale, legata al fascino della libertà. (come ci ha trasmesso p.es.Alfred Andersch, Le ciliegie della libertà, 1952) Nella spettrale realtà delle rovine tornano i reduci, spesso storditi e incapaci di parlare: è la breve parentesi della “Trümmerliteratur”, con una vena neorealista, dei Böll e Borchert, per citare i più conosciuti. Ma le vittime di cui parlano sono comunque i tedeschi; nell’immaginario collettivo tedesco lo sterminato numero di vittime provocate da loro stessi in Europa non compare. La coscienza dei crimini perpetrati dalle truppe tedesche nel resto del mondo, la miseria nella quale hanno precipitato popoli interi, manca, anche nella letteratura e non solo quella dei primi anni (ad esclusione dei pochi autori antifascisti sopravvissuti, tornati dall’esilio per lo più a Berlino est: da Brecht e Anna Seghers a Peter Weiss). Empatia o compassione per le vittime dei tedeschi si troverà, anche dopo, solo nei superstiti (da Nelly Sachs e Paul Celan a Günter Kunert o Jureck Becker).]

Al di là del dopoguerra: Ci vorranno vent’anni perché anche gli storici tedeschi nella RFT comincino a confrontarsi con il nazionalsocialismo.

Lo sterminio degli ebrei irrompe nel discorso pubblico, addormentato dal decennio della Restauration, della ricostruzione - a partire dall'eco del processo contro Eichmann a Gerusalemme (1961) e poi dall’AuschwitzProzess a Francoforte (da dic.1963 al 1965), recentemente rievocato da un film “Im Labyrinth des Schweigens” di un regista italiano, Giulio Ricciarelli, emigrato da bambino con i genitori in Germania. Egli ricostruisce la dura impresa di Fritz Bauer, ebreo, ex-internato, diventato Pubblico Ministero Generale dell’Assia, che riuscì dal 1958 a riunire diversi procedimenti penali nei confronti di 22 aguzzini di Auschwitz (su ben 8.000 adetti delle SS nei campi di A.) Infine vennero condannati 17 imputati.

Emblematico mi è sempre parso il caso di Raul Hilberg, l’eminente storico americano di origini viennesi, allievo di Franz Neumann alla Columbia University di New York, che aveva scritto la sua fondamentale opera sullo sterminio The Destruction of the European Jews già nei primi anni 50, elaborando per primo l’enorme mole delle carte dei processi di Norimberga, ma in prima istanza non trovò un editore. Solo anni dopo, e grazie ad uno sponsor privato che gli donò 15.000 $, poté pubblicarlo negli USA(1961). Per una prima edizione tedesca (1982) ci vollero altri vent’anni e solo un piccolo editore di sinistra a Berlino (Olle &.Wolters) si rese disponibile. Hilberg stesso nella sua autobiografia ha definito l’atteggiamento reticente nei confronti della sua ricerca una “guerra dei trent’anni”. Solo nel 2006, poco prima della morte, è stato insignito del Bundesverdienstkreuz .

La presa di coscienza politica della generazione postbellica del Sessantotto tedesco e di una “nuova sinistra”, con la ribellione verbale nei confronti del “potere”, fu una reazione all’ipocrisia e al silenzio dei padri nazisti. La ricezione da parte degli studenti p.es. dei fondamentali studi dell’emigrazione degli Adorno, Horkheimer e Marcuse permette una prima critica al sistema: “Dovrebbe tacere anche del fascismo chi non vuole parlare del capitalismo”, aveva ammonito Horkheimer, già nel 1939. Ma presto, nel corso degli anni ’70 (Ostpolitik della SPD/FDP) questa critica verra’ demonizzata come antecedente tout court del terrorismo della RAF che sfocia nell’ autunno tedesco. E lo Stato, nella sua veste socialdemocratica, ristabilisce ‘calma e ordine’, preparando il terreno ad altri due decenni democristiani (di Helmut Kohl).

La valutazione adorniana della “singolarità” di Auschwitz come irreparabile Zivilisationsbruch (frattura di civiltà), vede la barbarie non come incombente, ma già avvenuta, che persiste fino a quando le condizioni di fondo che l’ hanno resa possibile continueranno ad esistere. Questo sembra non lasciare speranza, e rimane come peso sulla nostra società, nonostante la invisibilità odierna della miseria, scriveva Adorno nel 1966, in Erziehung nach Auschwitz.

Ma la vera presa d’atto emotiva dell’orrore da parte della più vasta opinione pubblica rimane legato alla trasmissione della serie TV americana “The Holocaust”, nel 1979. Entrando nelle case fu la televisione che mise i tedeschi della RFT di fronte all’epopea tragica della Famiglia Weiss, quasi 35 anni dopo l’apertura dei campi di concentramento da parte degli alleati. Da allora “Holocaust” è diventato il nome che indica tout court lo sterminio degli ebrei (delle altre vittime si parlerà solo più tardi, a fine anni ‘80) deplorato per la prima volta in pubblico da un Presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, nel 1985, in occasione del quarantennale del 1945. Egli parlò di “crimini compiuti nel nome tedesco” (sic!) – lo stesso Weizsäcker che difese il padre a Norimberga, ambasciatore di Hitler presso la Santa Sede!

Nel 1982, Helmut Kohl, cancelliere, la Germania è un“gigante economico”, ma ancora un “nano politico” (come deplora F.J.Strauss, che auspicò il ruolo guida per la Germania nella Weltmacht Europa già dagli anni ’60, dotata magari di armamento atomico). La “normalizzazione” è alle porte. Poco dopo, nel 1987, la FAZ pubblica le (vecchie!) tesi revisioniste e apologetiche dello storico Ernst Nolte che danno l’avvìo al cosiddetto“Historikerstreit”, il dibattito sull’interpretazione del Terzo Reich, in cui si nega fra l’altro il carattere “singolare” dell’Olocausto, al quale ora si accosta e si equipara l’espulsione dei tedeschi dai territori orientali a fine guerra. Anche se non assunte dalla storiografia ufficiale queste tesi lasciano un’impronta nell’inconscio collettivo, sicché in occasione del cinquantenario del bombardamento di Dresda perfino un quotidiano berlinese di sinistra, la Taz (Tageszeitung), può scrivere: “Nei giorni successivi si estendeva l’odore di Auschwitz alla città” (13.2.1995).

La cosiddetta “Wende/ svolta” del 1989/90 con la seguente riunificazione ha cambiato tutti i termini anche del passato tedesco: perché con essa la RFT ha superato le conseguenze della guerra. Ora può finalmente cambiar pagina e uscire da quello stato di minorità politica, nel quale si sentiva relegata per decenni. Chi aveva supposto che la fine della guerra fredda avrebbe potuto sciogliere anche i “blocchi” mentali, che avevano condizionato la visione egemonica della storia (M. Stürmer 1986) per indagare più a fondo il “wie” und “warum” (come e perché) è potuto avvenire Auschwitz, rimane deluso. Sono presto arrivati i discorsi sulla presunta Normalität di una nuova Berliner Republik, che si basano sull’affermazione di assiomi come Nationalstaat e Kapitalismus.

Anche qui ed ora il ridimensionamento del passato corrisponde al bisogno di legittimare il presente: Lo “Spiegel”, non più istanza critica, ma dal 1990 allineato al governo, esordì con un titolo trionfalistico: Bewältigte Vergangenheit/ Passato superato! nel cinquantennale dell’8 maggio(1995), quando la Bundeswehr poté (finalmente) sfilare nella grande parata della vittoria a Parigi, accanto ai vincitori della guerra. Già un mese dopo il parlamento federale poté autorizzare le prime spedizioni militari “out of area” (dopo il 1945) e in luglio la Corte Costituzionale approvò questo svuotamento della Legge Fondamentale in materia militare, per cui oggi la Germania rivendica di dover difendere i propri interessi nazionali arrivando persino nelle montagne del Hindukush.] H.L. Gremliza, editore del mensile politico “Konkret”, annota nel 1995 come la riflessione storica e le ammissioni di colpa siano diventati più a buon mercato, ora, che la svolta generazionale è ormai compiuta anche nell’establishment politico: «Sulla sedia del Presidente della RFT non siede più nessuno che abbia conferito il potere al Führer» (come Theodor Heuss. primo Presidente. della RFT, FDP,1949-59, che aveva votato nel 1933 l’Ermächtigungsgesetz a favore di Hitler, nessun architetto di baracche per i lager (come Heinrich Lübke), secondo presidente, CDU,1959-1969. nessun membro di spicco del partito nazionalsocialista (come Walter Scheel) quarto presidente della FDP,1974-1979, o della SA (come Karl Carstens), quinto presidente della CDU, 1979-1984. Nella Cancelleria non c’è più nessun confidente del RSHA(massimo organo del Reich per la sicurezza (come Ludwig Erhardt), Ministro per l’economia 1949-1963 e padre del Wirtschaftswunder, poi secondo Cancelliere federale (dopo Adenauer) 1963-66, e nessun stretto collaboratore di Josef Goebbels (come Kurt G.Kiesinger), terzo cancelliere federale 1966-69.

E nemmeno il Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank è più presieduto (dal 1994) dall’uomo che aveva controllato l’attività produttiva dell’IG Farben ad Auschwitz-Birkenau”, ovvero da Hermann Josef Abs (1901-1994)”, direttore della Deutsche Bank dal 1938 al 1945, tra l’altro responsabile della “Arisierung”, che siedeva nel 1942 in ben quaranta consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche, compreso quello dell’IG Farben. Condannato come criminale di guerra in Jugoslavia a 15 anni di lavori forzati, non venne consegnato dalle truppe inglesi, ma venne chiamato nel 1948, nella bizona anglo-americana, a dirigere la Banca per la ricostruzione (KfW) e il Piano Marshall e poi nella RFT riprese le file della Deutsche Bank (presidente1957-67 e presidente onorario fino alla sua fine). Il banchiere dei nazisti mori a 93 anni, pluridecorato e venerato da tutti.[Per non nominare il famoso Hans Globke, dal 1949 il più stretto collaboratore di Adenauer alla Cancelleria RFT, che nel 1935 fu l’autore dei commenti alle leggi razziali di Norimberga.]

La nuova classe politica, costituita ora da quei figli ed eredi “senza colpa” dei padri nazisti, che lo sono grazie alla loro “nascita posteriore” (Gnade der späten Geburt, che H. Kohl aveva rivendicato per sé) ha incassato una tarda e – in fondo – ormai quasi inaspettata vittoria. E nelle trattative con gli alleati per la riunificazione della nazione ha ancora saputo aggirare (con l’”Accordo 2+4” del 12.9.1990) la stipula di un vero e proprio “Trattato di pace” della Germania con tutti gli ex-belligeranti – che avrebbe riaperto la questione ormai rimossa delle riparazioni di guerra (!) – con ingenti e incalcolabili conseguenze economiche.

E’ un tema molto complesso. Accennerò solo alla cosiddetta Wiedergutmachung (eufemismo che indica riparazione) per l’Olocausto: 3 mrd. DM assicurati da Adenauer (sembra su pressioni USA) a Ben Gurion nel 1952, dopo aspri dibattiti sia nella RFT che in Israele. (La CSU ritenne allora la richiesta “troppo esosa” e secondo il 44% dei tedeschi occidentali non si sarebbe dovuto pagare niente). La RDT, che aveva dovuto accollarsi da sola l’intero importo di ben oltre i 10 mrd. $ di riparazione all’URSS (pattuiti a Potsdam), si ritenne libera da dover risarcire lo stato d’Israele, convinta che la migliore Wiedergutmachung per lo sterminio fosse: eliminare quelle forze che lo avevano reso possibile.

Il capitolo delle riparazioni di guerra viene considerato chiuso da decenni dalla RFT, che aveva negli anni ’50 (come condizione per poter entrare nella NATO) e ‘60 stipulato accordi bilaterali con i principali stati occidentali e ottenuto con l’Accordo sul debito di Londra, nel 1953 (elaborato da HJ.Abs), una riduzione di oltre il 50% sul debito tedesco complessivo, rimandando quello post-1945 ed ulteriori risarcimenti (come per l’ingente Zwangsarbeit di 18 mio. deportati europei, di cui tornarono vivi solo 7 mio.) ad una futura riunificazione nazionale. Di fatto, le straordinarie agevolazioni concesse nel 1953 alla Germania fecero si che il debito della prima metà del ventesimo secolo fosse in realtà sostanzialmente cancellato.

Nel 2012, Alexis Tsipras, si è permesso di ricordare la grande sproporzione tra la cifra (irrisoria) di 115 mio. DM (=57 mio.€), concessa come forfait alla Grecia negli anni ’60, e gli ingenti danni di guerra subiti (fissati nel 1947 in 7.5 mrd. $, che ammonterebbero oggi a ca. 30 mrd. €) compresa la morte per fame di 300.000 cittadini, e ca. 60.000 ebrei deportati (per lo più da Salonicco). Tsipras ricorda inoltre che è rimasto fuori dagli Accordi di Londra del 1953 anche il risarcimento per il prestito forzato di poco meno di 500 mila RM, estorto al governo greco durante la guerra dall’Asse, per i costi dell’occupazione tedesca e italiana. L’Italia ha restituito il dovuto entro il 2000 (sec. il Trattato di pace con la Grecia), la Germania no. L’intera cifra dovuta ora (con tutti gli interessi) ammonterebbe a gran parte del debito pubblico greco. (le cifre calcolate variano tra 40, 70 e 160 mrd. €). Lo Spiegel (20/12) chiamò Tsipras uno Staatsfeind tout court e liquidò la questione col titolo: Acropoli addio! Sul titolo del numero oggi in edicola dello Spiegel Tsipras figura come Geisterfahrer (=uno che va contromano in autostrada).

Quando – dopo la riunificazione - le organizzazioni di vittime del Terzo Reich cominciarono ad avanzare le accantonate richieste di restituzione (provenienti soprattutto dagli USA per i patrimoni “arianizzati” degli ebrei) e di risarcimento (dai paesi dell’est) iniziò un’ altra lunga e penosa trattativa tra le parti, con notevoli accenti antisemiti (cfr. Norman Finkelstein, “The Holocaust Industry”). Istruttivo è il preciso e ampio resoconto del responsabile USA, Stuart E. Eizenstat, “Imperfect Justice” (NY, 2003) relativo alle trattative con le banche svizzere e con la controparte tedesca.
Dopo l’iniziale rigido rifiuto di pagare alcunché da parte di Helmut Kohl, Gerhard Schroeder (SPD), ancora presidente della Bassa Sassonia, ma desideroso di diventare Cancelliere(1998), ritenne utile non esasperare la discussione con gli USA. Egli promosse un fondo (denominato Stiftungsinitiative der deutschen Wirtschaft “Erinnerung, Verantwortung, Zukunft”/ EVZ) in cui le industrie tedesche beneficiarie del lavoro coatto versarono 5 Mrd. DM: alla fine risposero – non senza reticenze - ca. 6.000 imprese. Il governo raddoppiò la somma, così da poter rispondere almeno ad una parte delle richieste avanzate, in particolare dai paesi est europei: Polonia, Ucraina, Czechia, Belorussia, Paesi baltici. Di ca. 2,3 mio. richieste individuali fatte dal 2000 entro il 2007 vennero accettate ca. 1,6 mio. per complessivi 4,5 Mrd.€, mentre 20 mila ex-prigionieri (di complessivi milioni) sovietici vennero esclusi, perché “la prigionia non da diritto a nessun risarcimento”.

Gli Internati Militari italiani ne sanno qualcosa. Di fronte alle loro richieste, sancite da sentenze italiane eseguibili, la RFT aveva ottenuto dalla Corte Europea (3.2.2012) la garanzia dell’immunità di stato nei confronti di richieste di risarcimento da parte di persone private. Il governo Monti - sotto pressione finanziaria – l’aveva tradotto in una legge ordinaria (n.5/2013) e con ciò bloccato tutto. Ma la Corte Costituzionale italiana (n.238/14) ha nello scorso ottobre dichiarato però quella legge anticostituzionale. La questione dunque resta aperta.

E il governo tedesco si trova ancora una volta confrontato con obblighi morali e legali a cui continua ancora di volersi sottrarre. La vecchia RFT, addomesticata dagli alleati, è da 25 anni scomparsa insieme alla RDT. E il passato nazista – ora non più rimosso o negato, ma fortemente ridimensionato in Germania - resta oggi nella memoria pubblica, come anche nella storiografia bundesrepubblicana, sconnesso dalla sua contingenza materiale, ovvero da quel capitalismo tedesco sviluppatosi dal tardo Ottocento in un contesto feudal-autoritario, al quale la Repubblica di Weimar non seppe dare nessuna vera democratizzazione, ma solo una modernizzazione autoritaria sfociata e protrattasi nel Terzo Reich, e, direi, purtroppo anche oltre, nell’attuale potenza guida dell’Europa.

Susanna Böhme-Kuby, già docente di Letteratura Tedesca presso le Università di Udine e di Venezia,

si occupa di cultura tedesca con particolare attenzione al rapporto tra società e mass media. Tra le pubblicazioni:

Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (Il Nuovo Megangolo, 2002) e L'avvenire del passato / Die Zukunft der Vergangenheit. Italia e Germania: le note dolenti (Forum Edizioni, 2007).

Se i partigiani responsabili dell’attentato di via Rasella si fossero consegnati ai tedeschi avrebbero evitato la strage delle Fosse Ardeatine”. E’ la tesi con cui i post fascisti tentano di scansare l'orrore di cui i loro ispiratori sono stati causa diretta. Una menzogna. Ecco perché».

Micromega, marzo 2014

Anniversario della strage delle Fosse Ardeatine. Quel giorno, il 24 marzo del 1944, 355 italiani, già prigionieri, molti di loro ebrei, sono stati massacrati, per ordine di Hitler, da ufficiali e soldati tedeschi che occupavano Roma. Era la loro "rappresaglia" per l'attentato avvenuto poche ore prima in via Rasella, nel centro di Roma. Dove tre partigiani (tra i pochissimi italiani che a Roma hanno combattuto la feroce occupazione e le torture sistematiche di tedeschi e fascisti in via Tasso), erano riusciti ad attaccare con esplosivo un reparto tedesco uccidendo 30 militari occupanti.

I tre combattenti italiani, Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi, pur insigniti della medaglia d'oro al valor militare, sono stati perseguitati tutta la vita da ciò che è restato e resta del conformismo e della "zona grigia " italiana (coloro che non si immischiano mai e si fingono sempre equidistanti), con la seguente ragione, sostenuta con vigore dai post fascisti che tentano di scansare l'orrore di cui i loro predecessori e ispiratori sono stati causa diretta: i tre partigiani dovevano consegnarsi e avrebbero evitato la strage. Infatti, il giorno stesso della pubblicazione di un mio testo su Il fatto quotidiano ho ricevuto la lettera che riporto testualmente.

"Caro Furio Colombo, i tre studenti dell'attentato di via Rasella non erano soldati con le stellette ma erano tre sprovveduti. Se erano intelligenti se lo dovevano immaginare che ci poteva essere una rappresaglia. Se credevano di essere eroi come tu li hai descritti si dovevano consegnare. Un altro Salvo D'Acquisto deve ancora nascere. Giuseppe."

La lettera, nella sua illogicità, si spiegherebbe da sola. Ma questa volta, e ogni anno e in ogni occasione in cui si parla di via Rasella o delle Fosse Ardeatine, arrivano decine di lettere uguali a questa.

Supponiamo la buona fede, perché la disinformazione è una industria attivissima e coloro che speculano su "orrende storie" della Resistenza, che hanno cominciato a ricordare decenni dopo, (una volta scoperto che con quelle storie si guadagna moltissimo,) si moltiplicano in libreria. E rispondiamo con paziente precisione.

Primo: tutta la guerra della Resistenza italiana (che voleva dire guerra contro il fascismo, contro il razzismo, contro l'occupazione tedesca) non ha mai avuto stellette o uniformi. Era clandestina come quella francese, come tutta la Resistenza europea. Resistenza significava eliminare, sia pure in piccola parte, i militari stranieri occupanti e i loro complici fascisti, e rendere sempre più difficile la loro attività. Tale attività consisteva nella cattura e tortura degli avversari e dei resistenti politici, nel terrorizzare la popolazione civile con stragi perché non prestasse aiuto "ai banditi" , nella cattura ed eliminazione di tutti gli ebrei rintracciabili, compresi i neonati e i malati.

Secondo. Carla Cappon, Rosario Bentivegna e Pasquale Balsamo non si sentivano affatto eroi.
Si sentivano in dovere di fare, qualunque fosse il rischio, tutto il danno possibile al nemico. I tedeschi occupanti, aiutati dai fascisti che avevano abbandonato l'Italia legale, erano il nemico.
I tre di Via Rasella, in una Roma quasi senza Resistenza hanno colpito giusto. Bisognava che tedeschi e fascisti sentissero il pericolo di una vera guerra di popolo contro di loro anche se a rischiare e a combattere, a Roma, erano in pochi.

Terzo. "Dovevano consegnarsi." Perché? Non è mai accaduto e non deve accadere perché renderebbe inutile quella momentanea, ma importante, battaglia vinta. Non deve accadere perché i comandanti tedeschi sono gli stessi che hanno appena catturato e deportato tutti gli ebrei di Roma che hanno potuto trovare, dopo averli derubati ("come garanzia di salvezza", avevano detto) di tutto l'oro che avevano. Non deve accadere perché la principale attività tedesca e fascista nella Roma dove il Papa tace, è la pratica ininterrotta della tortura in via Tasso.

Non può accadere perché la rappresaglia è stata decisa subito e subito è stato stabilito che dovevano morire dieci italiani per ogni soldato tedesco, dunque più di trecento (già prigionieri a Regina Coeli) come vendetta per i trenta soldati morti nell'attentato. A Hitler importava poco, per l'azione esemplarmente crudele che aveva subito deciso, di avere o non avere tre prigionieri in più. Inoltre non avrebbero rinunciato perché stavano mandando a morte un numero molto alto di ebrei, e il punto che stava a cuore a Hitler e ai suoi ufficiali era che fossero ebrei, il reato più grave, in quel momento di follia della storia.

Chi insiste nel presunto dovere di consegnarsi dei tre mente due volte. La prima è perché non era possibile. Quando si è saputo di via Rasella il comunicato era seguito dalle parole: "La sentenza è già stata eseguita". La seconda è che, se lo avessero fatto, niente e nessuno avrebbe risparmiato i morti delle Ardeatine (dieci per ogni soldato tedesco, decisione immediata di Hitler). Ma i tre sarebbero morti di torture a via Tasso nel tentativo di sapere altri nomi della Resistenza a Roma.

Il nome di Salvo D'Acquisto è una provocazione con cui si usa un grande italiano, che si è offerto (in una rappresaglia che non è affatto stata evitata) di prendere il posto, in una fucilazione collettiva, di un padre di famiglia con figli. I tedeschi hanno accettato la sostituzione di uno. Ma hanno sterminato tutti gli altri. Dunque su vicende del genere sarebbe bene non negare e non mentire e non far finta di non sapere.

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