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La geremiade sui rischi e sul degrado del tanto cospicuo patrimonio storico-artistico-culturale di cui è dotata l'Italia è facile. La impongono le cose, e l'argomento fornisce sempre un elemento di colte e civili discussioni e proteste, in privato e in pubblico. Non si può neppure dire che in questo campo non si sia fatto e non si faccia niente. Sforzi ne sono stati fatti, e i risultati non sono mancati. Tuttavia, l'aspetto e i problemi della realtà sono quello che sono, e fanno perfino apparire debole e inadeguata la pur continua geremiade in materia. Chi volesse avere un'idea concreta e dettagliata dello stato delle cose, può subito farsela grazie al libro che Roberto Ippolito ha bene intitolato Il Bel Paese maltrattato. Viaggio tra le offese ai tesori d'Italia (Bompiani, pp. 308, 18). Un viaggio che spesso fa venire la voglia di non proseguire nella lettura, tanti e tanto scoraggianti sono gli episodi e gli aspetti di quel maltrattamento che Ippolito descrive saltando da un angolo all'altro del Paese. Eppure, il lettore non sa separarsi dalla lettura di questa Iliade di guai, perché l'interesse del tema è inesauribile e irresistibile. Ippolito ha fatto bene a non limitarsi ai beni culturali (artistici, archeologici etc.) e a trattenersi altrettanto sul paesaggio e l'ambiente.

Una lunga sedimentazione storica ha, infatti, determinato in Italia sia un'alta consistenza del patrimonio storico, sia un'organica saldatura fra il patrimonio e il territorio, facendone una unità che è essa stessa un grande valore. Anche Ippolito indulge molto alla diffusa concezione, per cui, trascurando o maltrattando il suo patrimonio, l'Italia sfrutta sempre meno una grande fonte di lavoro e di reddito. Di qui una retrocessione del turismo straniero nella fatal penisola, musei languenti, siti archeologici sempre meno appetiti, e così via, mentre in altri Paesi avviene il contrario. Concezione non nuova (ricordate i «giacimenti» dei beni culturali definiti come il «petrolio» italiano?), e certo per nulla infondata, ma che, tuttavia, è insufficiente, e, al limite, anche fuorviante. È verissimo che i beni culturali (e così il paesaggio e l'ambiente) sono anche beni economici, e che, come tali, possono essere formidabili fonti di ricchezza, sicché il trascurarli è negativo anche per la vita economica. Sulla natura dei beni culturali come beni economici bisogna, però, intendersi. I beni economici non hanno, infatti, valore se non assicurano redditi, e in tal caso possono essere, perciò, senz'altro abbandonati, risparmiando costi e cure improduttivi o anche soltanto poco redditizi. I beni culturali, rendano o non rendano, non possono mai essere dismessi, e impongono quindi costi e cure che sono sempre gli stessi. Se nessuno visita più, o solo in pochi visitano, gli Uffizi o gli scavi di Pompei, che facciamo? Li abbandoniamo al loro destino? La risposta è ovvia.

La prima, massima e indefettibile ragione delle cure per i beni culturali è nei beni culturali stessi. L'economia è importante, ma non è, in questo campo, la priorità assoluta. La priorità assoluta è la conservazione di un patrimonio, che è il primo, fondamentale e irrinunciabile documento e base di una tradizione e di una identità nazionale e civile, e, insieme, un patrimonio di tutta l'umanità. Bisogna rendersene conto, per pesanti e svantaggiose che possano esserne le conseguenze, per qualsiasi Paese e, in specie, per l'Italia il cui patrimonio è dell'intensità, diffusione e qualità che tutti sanno. Rimedi? Abbracciarsi la croce e portarla, con tutta la fatica necessaria. Non ve ne sono altri. Due o tre cose si possono, però, ancora notare. Uno, che sia osservata col massimo rigore la legislazione esistente, che in Italia, specie per il paesaggio, non è affatto male. Due, che l'impresa più straordinaria in Italia resta sempre, anche a questo riguardo, una buona amministrazione ordinaria delle cose. Tre, che in Italia lo Stato da solo non ce la fa, né per i costi, né per la gestione, e che perciò deplorare lo Stato è necessario, ma non risolutivo, se la cosiddetta società civile non fa la sua parte. Non è molto. Ma sarebbe già tanto se si traducesse in qualcosa di concreto.

Sprawl e verticalizzazione delle città sono espressioni speculari del consumo ingiustificato di territorio conseguente alla valorizzazione economica dei patrimoni privati che porta al degrado dei beni comuni e all’aumento del disagio per gli abitanti.

Nel corso dell’incontro nazionale “Paesaggio Bene Comune” promosso dal movimento “Stop al consumo di territorio” e dal Comitato “non grattiamo il cielo di Torino”, presso la sede della Provincia di Torino, oltre 200 tra cittadini, esperti, rappresentanti di associazioni e di comitati, provenienti da varie parti del Paese, hanno discusso e si sono trovati d’accordo intorno al tema del Paesaggio - “sintesi di elementi naturali e costruiti nella quale la comunità dei cittadini si riconosce” (Convenzione UE, 2000) - come “Bene Comune”.

Dopo aver messo a confronto esperienze e studi, essi si rivolgono al Paese, al mondo della cultura, della politica e dell’economia per denunciare una generalizzata gestione del territorio che non riesce a controllare i processi, anche necessari, di trasformazione e produce un degrado del paesaggio che è sotto gli occhi di tutti: dissesto idrogeologico, inquinamento, contesti ambientali naturali compromessi, distruzione delle aree agricole, incontrollato allargamento dei confini urbani, degrado di contesti storico artistici, patrimonio immobiliare inutilizzato o sotto utilizzato, nascita di nuovi quartieri privi di servizi e di qualità, con perdita di identità sociale e culturale dei centri e delle periferie.

La difesa dei territori agricoli e naturali da ulteriori infrastrutturazioni e urbanizzazioni va di pari passo con la difesa della storia delle funzioni e del paesaggio delle nostre città penalizzate sia da espansioni ingiustificate a bassa densità sia da densificazioni esasperate, che occupano aree dismesse o vuoti urbani, miracolosamente scampati alle precedenti speculazioni edilizie. La verticalizzazione delle città storiche che non risolve il problema del consumo del suolo, ma al contrario introduce processi di snaturamento dei contesti sociali e di degrado del paesaggio, è inoltre condotta in assenza di un censimento dei bisogni reali ed è guidata dalla logica della mera valorizzazione immobiliare. Le Amministrazioni locali, strangolate dai tagli statali ai bilanci, cercano di tamponare la crisi incamerando oneri di urbanizzazione e introiti da vendite di aree pubbliche e demaniali (inclusi fiumi e coste) avviando dinamiche che, invece di controllare le rendite e la speculazione, ne diventano il motore principale. Queste pratiche, alimentate da scelte politiche ed economiche miopi, vanno in controtendenza rispetto a una opinione pubblica in cui sta invece crescendo la consapevolezza del valore del paesaggio come bene comune, ricchezza e risorsa di tutti i cittadini, tutelato dalla Costituzione, e particolarmente significativo per un paese ricco di storia e di intensa antropizzazione come l'Italia. E’ dunque necessario e urgente contrastare lo spreco del territorio e l’edificazione in altezza nei contesti paesistici consolidati, attraverso azioni forti per riportare l'architettura e l'urbanistica ad una gestione equilibrata e di qualità del territorio, nell'interesse generale.

L’incontro si è svolto a Torino per chiedere inoltre una pausa di riflessioni sull’introduzione dei grattacieli in una città che ha iniziato a trasformarsi da polo industriale a centro culturale, della ricerca e tecnologico del terzo millennio, anche nella prospettiva delle celebrazioni per il 2011, centocinquantesimo anniversario dell'Unità di Italia. Il paesaggio urbano, integrato nel suo contesto naturale e montano, è elemento fondamentale del patrimonio collettivo di questa città: chiediamo per questo uno stop ai progetti di grattacieli già autorizzati e in generale allo sviluppo verticale nel centro e nei nuovi quartieri. Non intendiamo mettere in discussione le prerogative di nessuno, ma chiedere saggezza, lungimiranza e disponibilità a valutare soluzioni diverse. Un confronto culturale, tecnico e urbanistico di questo tipo non potrebbe che onorare la tradizione democratica e pluralista di Torino e dell'Italia.

“Paesaggio Bene Comune” è infine l'appello che noi lanciamo a cittadini, studiosi e amministratori per collaborare in tutte le regioni italiane affinché si metta davvero mano alla formazione dei piani paesaggistici, come prescritto dal codice, e ai conseguenti piani urbanistici, si dia vita ad un censimento del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato e si fermino i processi di espansione edilizia e di trasformazione del territorio che non siano attentamente valutati sotto tutti i profili della sostenibilità ambientale, paesaggistica, sociale, culturale. La vera sostenibilità sarà la capacità di conservare, restaurare e valorizzare, nell’interesse di tutti, con attenzione e garbo, l'immenso patrimonio culturale e ambientale - il Paesaggio - del nostro Paese.

Torino 17 aprile 2010

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