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Per far fronte al pesante traffico automobilistico, il Lussemburgo eliminerà biglietti da treni, tram e autobus entro la prossima estate. E' già attivo il trasporto pubblico gratuito per i minori di 20 anni e tutti gli studenti delle scuole lussemburghesi. Qui l'articolo. (i.b.)

il manifesto, 23 agosto 2018. La politica ignorante usa il crollo di Genova per rilanciare le grandi opere. Neanche i fatti, dati e rapporti scientifici, che esortano a un cambiamento del modello di mobilità e sviluppo, fanno ragionare la politica. (i.b. e m.p.r)

Invece di discutere utilità e rischi delle Grandi opere, il crollo del ponte Morandi - uno dei tanti gigantismi che ha fatto del ‘900 “il secolo dell’automobile” - sembra averlo chiuso: per lo meno nel mondo politico e sui media: occorre farle tutte e subito, il Tav, il terzo Valico, il Tap, le autostrade, il ponte sullo stretto, prima di un altro ripensamento. «La competizione internazionale lo esige», «Il progresso non si può fermare», «Non ci si può opporre alla modernità», «Vogliamo tornare al medioevo?».

Difficilmente troverete sulla bocca dei politici o nei commenti della stampa qualche argomentazione meno vacua di queste. Ma siamo sicuri che la modernità, qualsiasi cosa si intenda con quel termine, sia proprio questo? Che il progresso debba portarci necessariamente verso la moltiplicazione dei disastri (e verso quello che li ricomprende tutti: un cambiamento climatico irreversibile)? E che l’unica regola che deve governare il mondo, e le nostre vite, sia la competizione e non la cooperazione?

Un recente saggio, chiaro e sintetico, di Sergio Bologna, uno dei pochi esperti capace di un approccio intermodale ai temi del trasporto - sul sito di Officina dei saperi - mette una pietra tombale su tutte le Grandi opere. L’Italia non ha bisogno di nuove grandi infrastrutture di trasporto; ne ha già persino troppe. Quello che manca è la capacità di utilizzarle a fondo; mancano le competenze logistiche e gli operatori per accorpare e smistare i carichi utilizzando al meglio i mezzi e le infrastrutture a disposizione. Oltre, ovviamente, agli interventi per rendere operative le interconnessioni modali.

Promuovere quelle competenze è un compito che dovrebbe tenere impegnati per anni Associazioni di categoria, Camere di commercio, Enti locali, Ministeri (non solo quello delle Infrastrutture), Università e Istituti di ricerca. E potrebbe creare decine, se non centinaia, di migliaia di posti di lavoro qualificati al posto delle poche migliaia di addetti impiegati nella costruzione delle tante Grandi opere inutili e dannose.

Sono le competenze necessarie anche per promuovere il passaggio del trasporto merci dalla strada alla ferrovia (o alle autostrade del mare). Un passaggio di cui Sergio Bologna riconosce le potenzialità, ma su cui rimane scettico, soprattutto perché un sistema produttivo frammentato come quello italiano ha mille motivi per preferire il trasporto su strada; motivi che non sono solo quelli indicati in quel saggio. Il trasporto su strada da impresa a impresa è più flessibile di quello su ferrovia o di cabotaggio perché non richiede la composizione e la scomposizione di carichi molto complessi (ma richiede comunque la rottura dei carichi quando le merci arrivano in città, dove i tir non possono entrare, e dove occorre comunque ricorrere a sistemi di city-logisticfinale più o meno organizzati). Ma è più flessibile anche perché si regge su una organizzazione del lavoro che sfrutta a fondo i trasportatori.

Difficilmente una piccola impresa si rivolge direttamente a un camionista per spedire il suo carico. C’è quasi sempre l’intermediazione di uno spedizioniere, che sono per lo più grandi imprese multinazionali, che a loro volta subappaltano il servizio a uno spedizioniere più piccolo, e questi a un altro, fino a raggiungere i “padroncini” proprietari di uno o di qualche camion e autisti loro stessi: operatori che spesso non rispettano gli standard sulla sicurezza del veicolo, né quelli sulle ore e le modalità di guida, né quelli tariffari (per di più, con un ingresso crescente di operatori e di autisti dell’est europeo, ancora meno controllabili, che lavorano però per spedizionieri italiani o dell’europa occidentale). Insomma, l’intermediazione dei carichi c’è già, ma la fanno i grandi spedizionieri che trovano più conveniente sfruttare a fondo il sistema attuale piuttosto che promuoverne il rinnovamento.

L’alternativa, in linea teorica, è semplice: bisognerebbe che sia gli utenti, cioè i produttori, che gli operatori del trasporto merci, cioè la moltitudine disperata dei trasportatori, si consorziassero, mettendo in piedi strutture in grado di organizzare i carichi complessi necessari all’utilizzo di un convoglio ferroviario. Non sarebbe, per i camionisti, un “tagliarsi l’erba sotto i piedi”; perché il trasporto ferroviario e il cabotaggio possono coprire solo alcuni, e solo una parte, dei tragitti che le merci devono compiere: molti itinerari e “l’ultimo miglio” (che per lo più di miglia ne include parecchie) dovrebbero comunque essere coperti con camion e furgoni. Invertire rotta richiederebbe un impegno politico e culturale che manca completamente a chi ha in mano le redini del paese: non solo le istituzioni pubbliche ma anche, e soprattutto, quelle imprenditoriali.

Si tratta in ogni caso di una prospettiva più realistica e praticabile dell’alternativa ventilata da Sergio Bologna: quella della riduzione dell’intensità di trasporto. Un obiettivo pienamente condivisibile, che costituisce un pilastro della conversione ecologica del sistema produttivo, ma che richiede ben più che il potenziamento delle competenze impegnate nella supply-chain, perché coincide con uno degli obiettivi centrali dell’approccio territorialista, anche se i suoi cultori si sono finora impegnati poco nell’affrontare la dimensione industriale del loro programma.

Per ridurre l'intensità di trasporto occorre rilocalizzare - e, quindi, spesso anche ridimensionare - una grande quantità di attività produttive oggi disperse ai quattro angoli del pianeta; ma anche promuovere, tra imprese e territori contigui, rapporti il più possibile diretti, fondati su accordi di programma che facciano da argine alle oscillazioni e alle turbolenze dei mercati. E per questo ci vuole un sistema di gestione delle imprese che veda coinvolti i rappresentanti degli enti locali, delle associazioni territoriali, delle università e dei centri di ricerca, oltre che, ovviamente, delle maestranze: cioè l’organizzazione della produzione come bene comune. insomma, un “socialismo” del ventunesimo secolo, ecologista e federalista; anche se il termine socialismo è sviante, perché è storicamente e culturalmente legato all’esatto opposto – produttivismo, gigantismo e centralismo – di ciò che oggi andrebbe perseguito.

Interessi economici e politica di breve respiro trionfano su cinquant'anni di impegno per coordinare le scelte sull'area metropolitana di Firenze. Amare considerazioni di un sindaco che si è opposto al declino e all'arroganza dei tempi. (m.b.)

Potrebbe concludersi nell’indifferenza generale del mondo politico, sociale ed ambientale la lunghissima battaglia per lo sviluppo a Nord Ovest di Firenze.

L'area fu interessata prima da un grande confronto urbanistico e d’idee tra i redattori del Piano Regolatore Fiorentino e le amministrazioni fiorentine dei primi anni ottanta e poi da un gigantesco scontro politico che vide scendere in campo urbanisti, movimenti, politici, giovani per affermare il diritto ad una pianificazione trasparente della più grande area libera rimasta a Firenze.

L’idea originaria delle giunte di pentapartito era un'espansione di 186 ettari con 3 milioni di mc edificati per l’area Fondiaria a Castello, proprietà della compagnia di assicurazioni fiorentina in mano a Raul Gardini, e l'area Fiat a Novoli con un'espansione prevista di 32 ettari con 1,1 milioni di mc. Mi ricordo all'epoca si parlava di metri cubi superiori a quelli della Piramide di Cheope.

Quell'idea di sviluppo fu contrastata, tra gli altri, da Giovanni Astengo, che considerava raggiunta la massima espansione del comune di Firenze "compatibile con l'invaso geografico del sito" e che fosse "quasi impossibile un'ulteriore crescita nella parte piana poiché l'espansione urbana ad occidente aveva quasi raggiunto i confini comunali ed era indispensabile salvaguardare una cornice ambientale" divenne oggetto di dibattito e scontro in città e tra le forze politiche.

Il Pci, che, tornato al potere con la Giunta Bogiankino, aveva sostanzialmente condiviso l'ipotesi di variante a Nord Ovest, si trovò di fronte all'opposizione netta della sua componente giovanile che ostacolava la cementificazione, la speculazione privata e l'espansione dell'aeroporto (sic!) la quale, sottovalutata, riusciva a ottenere il consenso dela maggioranza nel Congresso Provinciale del marzo 1989 (c'ero anch'io e votai l'ordine del giorno Giovacchini per bloccare la variante) aprendo una crisi politica formidabile a sinistra. La decisione portò rapidamente al dissolvimento dell'esperienza amministrativa e del gruppo dirigente del Pci fiorentino in anticipo rispetto alla "svolta" della Bolognina ma non riuscì a consolidare una nuova classe dirigente in rottura netta con il passato. Molti, come me, erano convinti che Firenze, e non da sola, avesse bisogno di un grande e trasparente dibattito culturale sulla propria vocazione nei decenni futuri e, piuttosto che norme e varianti ad hoc, di forti idee generali.

Da allora intorno alle aree Fiat e Fondiaria si sono intrecciati interessi e iniziative prive della necessaria pianificazione e di una visione strategica dello sviluppo toscano e dell'Area Metropolitana Fiorentina per decidere di produzione, di quali servizi, di quali funzioni pubbliche, di quali trasporti essa avesse bisogno.

Quanto fu in seguito realizzato (sia nell'area ex-Fiat di Novoli sia in quella di Castello) e le ulteriori previsioni di espansione abitativa, direzionale, commerciale e di servizi pubblici, non trovi né grandi idee, né quel necessario coinvolgimento che lo Schema Strutturale della Regione Toscana per l'Area Metropolitana Firenze-Prato-Pistoia (1) aveva auspicato sul fronte della viabilità, dell'infrastrutturazione del territorio, dell'allocazione di funzioni pregiate pubbliche e private per raggiungere una co-pianificazione sulle grandi linee di sviluppo. Esemplare l'iter negativo del Progetto Direttore del Parco della Piana (2), mai partito e sistematicamente disatteso da tutte le scelte conseguenti, dai grandi insediamenti commerciali, alla pianificazione degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti, al mancato completamento del Polo Scientifico Universitario, al declassamento del cd "Asse attrezzato Firenze-Prato" allo stupro della nuova pista di Peretola (3) e così via.

La polarizzazione ä avvenuta prima intorno al Termovalorizzatore di Case Passerini e, una volta che questo non ha suscitato i necessari interessi privati, sul nuovo Aeroporto di Peretola. Lo schema fiorentino ä restato sempre lo stesso: centralità dell'interesse privato, retrocessione del coinvolgimento pubblico, modesta pianificazione economica ed urbanistica, stravolgimento della vocazione del territorio della Toscana centrale "a tavolino". Le modeste ambizioni di una classe dirigente, legata al Pd, priva di visione strategica ha barattato un consenso "ora e subito" con un mondo dell'impresa di scarso peso nazionale ed internazionale per dirigere su un'infrastruttura privata e quotata in borsa un numero di risorse mai visto nella nostra Regione. Di contro: Alta Velocità in alto mare, Mezzana Perfetti Ricasoli ferma, terza corsia autostradale al palo, collegamento Firenze-Prato fermo, realizzazione del polmone verde e del segno paesaggistico pensato per decenni come marchio per l'area tra Firenze e Prato cancellata, Arno ancora da mettere in sicurezza, Polo Scientifico Universitario incompleto. La "firenzina" dei bottegai non c'ä più ma, anche se ha lasciato il passo ai format delle grandi firme uguali in tutto il mondo, determina con un presentismo esasperato il blocco delle idee e delle visioni più moderne.

Dulcis in fundo si ä aggiunto il nuovo Stadio della Fiorentina. Disdegnata la possibilità di realizzarlo in una grande area dismessa e a destinazione commerciale alle porte di Firenze a causa della "maledizione del 50019" (il codice di Sesto Fiorentino) la nuova amministrazione fiorentina si ä ingegnata per cacciarlo all'interno di un centro urbano già congestionato attraverso una difficile e costosa riallocazione dei Mercati Generali escludendo (come per il Polo espositivo) il coinvolgimento dell'area metropolitana ristretta o allargata che sia, rafforzando la scelta della concentrazione solitaria di funzioni a saturazione del territorio libero di Firenze alla faccia del ruolo di Sindaco metropolitano, ex lege, del Sindaco di Firenze.

Nonostante le vicende giudiziarie, poi sfociate in una bolla di sapone, legate allo sviluppo del Pue di Castello il passaggio nel 2013 de "La Fondiaria Sai", già fuggita da Firenze con la gestione Ligresti, nelle mani di Unipol sembrava poter riaprire un ragionamento su di una diversa pianificazione di quel grande spazio ancora libero.
Purtroppo, UnipolSai ha preferito abbandonare Firenze vendendo alla società dell'Aeroporto e monetizzando una storia economica legata al ruolo storico di Fondiaria in città. Meglio pochi e subito che un contenzioso con il comune sull'esproprio, con il risultato di ridurre il contraddittorio ad un solo affare di denaro e di potere politico.

Un epilogo amaro dopo 50 anni di discussione sullo sviluppo a Nord-Ovest. La triste storia potrebbe finire, con la realizzazione di tutto ciò per il quale molti, come il sottoscritto, si sono battuti, nel vuoto che attraversa la politica e la cultura dell'area fiorentina e toscana.

Anche se i recenti risultati politici dovrebbero almeno far riflettere sul perché la torsione neoliberista del Pd toscano non abbia trovato il richiesto consenso popolare e come sia urgente un forte ripensamento rispetto al campo sociale dove collocare ex novo la sinistra nella nostra regione. Purtroppo, se si esclude qualche sindaco isolato e una minoranza di persone e gruppi, né partiti, né giovani, né urbanisti, né ambientalisti, né sindacati si sono riappropriati del concetto di sviluppo compatibile e del suo limite, della qualità dello stesso e della vocazione per la Firenze del terzo millennio.

Gianni Gianassi
Sindaco di Sesto Fiorentino dal 2004 al 2014.

Note.
(1) Lo schema strutturale ä uno strumento di coordinamento di area vasta, promosso dalla Regione Toscana negli anni ottanta, redatto sotto il coordinamento di Giovanni Astengo, e approvato nel 1990.
(2) Il "progetto direttore", previsto dallo Schema strutturale, consiste in una proposta di assetto del parco della piana, con l'indicazione delle condizioni per la fattibilità degli interventi e la gestione delle funzioni e delle attrezzature, dei requisiti ed dei riferimenti necessari per la progettazione architettonica e per la progressiva costruzione dei grandi spazi aperti.
(3) La nuova pista aeroportuale di Peretola, collocata a fianco dell'autostrada, con le sue strutture, la nuova viabilità, le opere di regimazione idraulica e le infrastrutture di contorno, oblitera l'intero parco della piana di Sesto, esteso su cinquecento di ettari.

Riferimenti.
Su eddyburg, tra gli altri, si vedano gli articoli di Paolo Baldeschi e Ilaria Agostini che raccontano gli aspetti salienti dell'oscura storia della nuova pista aeroportuale, con i suoi intrecci economici e di potere, le sue ricadute nefaste sul territorio e il metodo con il quale viene imposta attraverso forzature degli strumenti di piano, delle valutazioni ambientali e nella sostanziale indifferenza verso tutte le osservazioni pervenute.

il manifesto, 15 febbraio 2018. Un progetto pilota per evitare le multe per l'inquinamento atmosferico dopo gli scandali dell'industria che prometteva misura «alternative» antinquinamento. (m.p.r.)

Trasporto pubblico gratuito per fermare l’inquinamento atmosferico e scongiurare le multe di Bruxelles. È la proposta (sul modello di Tallinn) inserita nella lettera inviata martedì dal governo alla Commissione europea e diffusa ieri da Deutsche Welle.

Un progetto pilota innovativo da attivare - per il momento - solo nelle città di Essen, Bonn, Mannheim, Reutlingen e a Herrenberg, a Sud di Stoccarda. I sindaci del «campione» selezionato cadono (felici) dalle nuvole, ma le aziende di trasporto avvertono delle criticità del piano: non ci sono i bus, e la mobilità ticket-free costa circa 12 miliardi di euro all’anno. «Non siamo ancora in fase di pianificazione, il governo mi ha informato delle linee-guida solamente nel fine-settimana, però sono contento della notizia» è la reazione del borgomastro dell’ex capitale della Germania-Ovest.

Come lui, la lettera al commissario Ue Karmenu Vella firmata dalla ministra dell’ambiente Barbara Hendricks, dal titolare dell’agricoltura Christian Schmidt e dal capo della cancelleria Peter Altmaier, ha sorpreso tutti i municipi interessati. Molto meno chi a Berlino comprende la necessità di disattivare, prima possibile, la procedura di infrazione per eccesso di emissioni inquinanti.

Nella missiva spedita a Bruxelles è prevista, in parallelo anche l’istituzione di «zone a bassa emissione» per veicoli di grandi dimensioni, così come l’aumento dei taxi elettrici e degli incentivi ai mezzi eco-compatibili. Tuttavia emerge – prima di ogni altra – la difficoltà logistico-strutturale alla base dell’ambizioso progetto. L’organizzazione delle società di trasporto tedesche (Vdv) ammette senza mezzi termini: «Non conosciamo nessun produttore in grado di fornire così tanti bus elettrici con questo breve preavviso. Neppure quanto il trasporto gratuito peserà, davvero, sulle casse delle nostre aziende» riassume il portavoce di Vdv. La stima «spannometrica» è comunque impressionante: una dozzina di miliardi annui.

Ma vale comunque la pena, soprattutto alla luce della «minaccia» incombente dal tribunale amministrativo di Lipsia, che sta prendendo in considerazione il divieto di circolazione per le auto diesel. Il verdetto dei giudici è previsto per il 22 febbraio e potrebbe portare al blocco totale senza se o con pochi ma: ambulanze, autobus, smaltimento-rifiuti. Gli altri, dai pendolari ai consegnatari delle merci al dettaglio, potrebbero doversi adattare da un giorno all’altro alla nuova mobilità sostenibile.

Un'accelerazione di certo dovuta agli scandali dell’industria automobilistica nazionale, ma anche alla necessità di centrare il target climatico di Europa 2020, nell’evidenza che le misure «alternative» suggerite dai costruttori non reggono la svolta intrapresa con gli accordi della Cop di Bonn. Nessun retrofit degli attuali Diesel appare davvero sostenibile, anche politicamente, dopo il caso delle cavie umane utilizzate nei test sui motori Vw, Bmw e Mercedes.

Mentre non procede come dovrebbe l’annunciata de-carbonizzazione della Repubblica federale, che a Est dipende in tutto e per tutto ancora dall’energia fossile. Da qui il trasporto gratuito nelle città tedesche più inquinate, anche in assenza di un progetto da squadernare in dettaglio. «Avremmo una o due idee da proporre, dal momento che abbiamo lavorato su questo tema per diverso tempo» tiene a precisare il sindaco Cdu di Bonn, Ashok-Alexander Sridharan.

Per ora, però, l'analisi più attendibile sembra quella di Oded Cats, esperto di traffico intervistato ieri da Dw: «L’effetto immediato di replicare ciò che è stato sperimentato a Tallinn è piccolo perché i vantaggi si scorgono a lungo termine. Dopo un paio di anni l’aumento di viaggiatori nei mezzi pubblici si aggira sul 14%» spiega Cats. Ma non sono tutti automobilisti: «Per la maggior parte si tratta di persone che prima camminavano e adesso prendono il bus». Per questo secondo Cats il piano ticket-free è positivo ma la misura risulterebbe più efficace aumentando, al contempo, anche il «prezzo d’utilizzo» del mezzo privato. «Facendo in modo, cioè, che gli automobilisti paghino l’inquinamento atmosferico e la congestione delle strade con i costi di parcheggio e le tasse sul carburante».

il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2018. il drammatico e cruento incidente ferroviario, derivante dalla decisione di privatizzare le periferie e di privilegiare le linee redditizie risparmiando su quelle di lavoratori, studenti, casalinghe

I segni del deragliamento sono graffi profondi sulle traversine di cemento. Corrono a ritroso per tre chilometri, ancora prima della stazione di Limito di Pioltello. Si torna indietro sotto una pioggia ghiacciata per comprendere l’attimo che ha provocato il disastro ferroviario, il più grave degli ultimi dieci anni in Lombardia. Si cerca quel pezzo di rotaia saltato. Un avvallamento di 23 centimetri nell’acciaio. Il pezzo sarà trovato a circa 20 metri di distanza. Da qui si va avanti, passando per la stazione quando già il treno ondeggiava pesantemente, tanto da spaccare il cemento e sollevando centinaia di sassi dalla massicciata.

Sono le 6.57 di ieri. Ancora pieno buio. Sei vagoni, i primi due intatti, il terzo e il quarto distrutti. A bordo 360 persone. Nella terza carrozza moriranno tre donne: Giuseppina Pirri, 39 anni, Pierangela Tadini, 51, e Ida Milanesi, 62. Le ambulanze sul posto alla fine saranno trentasei. Nel momento dell’incidente, il terzo vagone staccato dalla carrozza pilota si gira a novanta gradi abbattendo diversi tralicci dell’alta tensione. La locomotrice invece sta in coda.

La tratta è gestita da Trenord, società partecipata da Ferrovie nord Milano, tra i cui soci c’è la Regione Lombardia. Mentre la rete, ovvero i binari, sono in carico a Rfi. Attualmente risulta indagato per disastro colposo il responsabile della sicurezza di Rfi, mentre i vertici di Fnm ieri sera sono stati convocati in Prefettura. L’attenzione è massima nell’attribuire le varie responsabilità.

Secondo le ricostruzioni della Polfer e dei tecnici di Rfi a provocare l’incidente sono state due cause coincidenti. Da un lato il pezzo di rotaia che tecnicamente viene definito un giunto isolato e incollato. Dall’altro uno (e uno solo) dei carrelli con le ruote che è uscito dal suo alloggiamento. È chiaro che al netto delle cause ancora da attribuire l’incidente è provocato comunque da una mancata manutenzione. Nel momento in cui il carrello si sposta, il treno sta viaggiando a 140 chilometri orari. Il macchinista frenerà fino a 70, l’impatto avviene a questa velocità. A guardare bene il percorso si comprende che il deragliamento riguarda solo quel carrello che fa inclinare il convoglio. Un’inclinazione che però non viene segnalata al macchinista. Questi treni, infatti, non sono dotati di allarmi specifici. C’è dunque da capire se quel pezzo di rotaia fosse già rotto oppure se sia stato il carrello già staccato a romperlo.

Su questa tratta, da Bergamo a Milano, passano ogni giorno 500 treni. Mentre i giunti sono posti ogni 1.350 metri. Stando a quanto emerge dalle prime indagini solitamente la rottura di un giunto viene rilevata dal macchinista che comunica il guasto. A quanto risulta, però, su quel particolare giunto non vi era stata nei giorni scorsi alcuna segnalazione. L’ipotesi, dunque, è che si sia rotto ore o minuti prima dell’impatto. Sul tratto in questi giorni alcune rotaie dovevano essere sostituite. Allo stato, quindi, le responsabilità sono attribuibili in ipotesi a metà tra Trenord e Rfi, anche perché di mezzo ci sono risarcimenti importanti. Nei prossimi giorni la Procura eseguirà una perizia tecnica sul giunto e sul treno posto sotto sequestro. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha già disposto il sequestro della scatola nera e dei registri della manutenzione del treno.

Camminando ieri pomeriggio sulla massicciata erano evidenti i tagli sulle traversine e oltre le rotaie. Secondo qualche addetto, però, appare difficile pensare che un treno, che ha vagoni da 40 tonnellate l’uno, possa deragliare su un avvallamento di 23 centimetri. Più probabile, ma resta una ipotesi, che il carrello staccatosi con gli urti alla fine abbia provocato lo schianto finale.

Il convoglio comunque ha viaggiato per tre chilometri fuori dalle rotaie, tranciando qualsiasi cosa, dai cavi alle traversine e scaraventando ai lati i sassi. Tanto che i testimoni hanno parlato di una sorta di “sassaiola”. Quando è passato nella stazione di Limito di Pioltello ha divelto le grate di acciaio vicine alle banchine. Le prime immagini sequestrate dalla Procura mostrano il treno passare per la stazione facendo delle scintille (a causa dello sfregamento contro il muro di cemento) mentre un uomo osserva terrorizzato. In quel momento le carrozze sono già pericolosamente inclinate verso sinistra e cioè verso la massicciata. Poco più di un chilometro dopo, il carrello salta via definitivamente, tanto da essere ritrovato intero accanto ai binari. In tarda serata si contano tre morti e 47 feriti, di cui cinque gravi.

Nella piuttosto patetica confusione terminologica sulle parole della città, si è da tempo infiltrata tra le altre cose la surreale equazione Piste Ciclabili = Gentrification (segue)

Nella piuttosto patetica confusione terminologica sulle parole della città, si è da tempo infiltrata tra le altre cose la surreale equazione piste ciclabili = gentrification. Che si unisce del resto ad altre stravaganze, tutte tese a scambiare qualche curioso sintomo collaterale per la malattia, vuoi male informati da una stampa superficiale (che da anni sul tema specifico confonde le acque in modo a dir poco sospetto), vuoi spaventatissimi da qualunque cambiamento anche in cose come il consumo di yogurt o cibi biologici, diventato in alcuni casi segnale certo che bisogna iniziare a scendere in piazza per scongiurare deportazioni di massa dai quartieri ex popolari. Ma la pista ciclabile probabilmente unisce diversi spunti, sia simbolici che tangibili, di quello che a torto o a ragione è considerato un attacco diretto alla propria esistenza, in quanto individui e comunità che condivide certi «valori». Esagerato? Parrebbe proprio di no, se guardiamo ai fatti.

Lo raccontano ormai infinite cronache locali, di vere e proprie barricate contro la realizzazione di percorsi dedicati o rastrelliere del bike-sharing a postazione fissa, anche e soprattutto da parte di quelli che potrebbero (dovrebbero) apparentemente essere i primi ad avvantaggiarsi, di una mobilità locale più comoda, capillare, economica, sana, addirittura esteticamente meno invasiva rispetto al tradizionale automobilismo tritatutto. E invece sono proprio i poveracci delle case popolari, gli esercenti delle botteghe che tirano avanti alla giornata, i padroncini di qualche bar o chiosco coi tavolini di formica e le sedie di plastica, i più feroci oppositori di tutto quanto evoca il pedalare. Perché? Escluso che qualcuno manovri in qualche modo tutte queste comunità (qui la pur assai in voga ipotesi di complotto mondiale, e neppure cittadino, suona particolarmente ridicola) indipendenti, prende corpo l'idea che in un modo o nell'altro l'universo pervasivo automobilistico sia sul serio percepito, e in modo universalmente condiviso, come «valore». Un valore addirittura identitario, qualcosa di quasi indiscutibile, che si è disposti a difendere con le unghie e coi denti. Nel caso delle comunità residenti nei classici complessi popolari novecenteschi, stiamo parlando di quartieri nati e conformati quando l'auto era il simbolo del progresso sociale ed economico, la tappa ineludibile del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, e in senso più allargato il nucleo centrale della vita urbana, attorno a cui tutto si piegava.

Se nel quartiere popolare per esempio addirittura appare vistosa, la differenza qualitativa tra gli spazi accessibili in auto e quelli che non lo sono (meglio tenuti i primi, mediamente, dei secondi), anche più in generale nella città pare diffusissima questa idea che accedere, fruire di uno spazio, di un servizio, conferire qualità attraverso la presenza umana, coincida con la circolazione e sosta automobilistica. Lo testimonia la stessa esistenza delle norme sugli standard a parcheggio minimi, e lo confermano se necessario gli infiniti casi in cui si sacrifica anche l'ultima briciola di buon senso su quell'altare della «fruizione della città», vuoi per tutti, vuoi in una accezione limitata per i privati proprietari. Un luogo non è tale a pieno titolo se non con la sua appendice automobilistica: si vedano quei giganteschi box singoli o doppi ricavati – in modo perfettamente legale «a regola d'arte» - in posizioni assurde, dentro il cuore profondo di spazi verdi naturali o angusti budelli monumentali, per il solo motivo di non separare fisicamente neppure di un solo metro in più il veicolo dal suo proprietario seduto in soggiorno o sdraiato in un letto. E naturalmente c'è tutto il resto dell'esistenza a far da contorno: benessere, vita, relazioni, pratiche sessuali, consumi, tutto là dentro e nelle immediate vicinanze. Pare quasi scontato, che mettere in discussione un caposaldo esistenziale del genere possa risultare sconvolgente, ben oltre le intenzioni di chi non l'aveva ben colto.

E arrivano così, tra capo e collo, quelle gioiose e un po' fessacchiotte (perché spessissimo lo sono, così concepite) pensate di benintenzionati amministratori per i loro microsventramenti virtuali dei quartieri, popolari o borghesi che siano, a colpi di vernice rossa, qualche decina di metri di a volte evitabile orrido cordolo, catarifrangenti, lampioncini finto liberty o design postmoderno, arredi urbani di contorno e raccordo. Che

Milano Gratosoglio - foto F. Bottini

sarebbero davvero carini, o per meglio dire «sostenibili», come recita il termine in voga tra gli svagati proponenti e le volenterose associazioni di settore, se qualcuno si prendesse la briga di contestualizzarli sul serio, ovvero rendere edotte le vittime (perché di vittime si tratta) dei vantaggi immediati e futuri di questa autotomia, praticata con le dovute cautele, e nel quadro di un luminoso verificabile futuro.

Perché pedalare sarà anche bellissimo, ma quando lo si impone, lo si scaraventa in testa agli interessati «invece» del confortante bozzolo della città automobilistica, è un dente cavato a tradimento senza anestesia. Strappare un pezzo del «suo» affaccio al bottegaio che da una manciata di generazioni per usucapione pienamente accettata da tutti, ci allestisce un pezzo del suo esercizio, e farlo in modo seriale come se si trattasse di politica repressiva di classe «dettata da esigenze tecniche», viene quasi spontaneamente recepito come sadismo piuttosto idiota. Che genera rifiuto generalizzato e reazioni spontanee di massa, come quelle figure sociali prima inesistenti e oggi frequentissime, del Predicatore di Strada del Codice, cioè quei tizi che bloccano di continuo ciclisti intenti semplicemente a salvarsi la vita (su un breve tratto di marciapiede, pedalando sulle strisce, superando di un paio di metri la linea d'arresto del semaforo …), per arringarli con toni diciamo così bruschi, sulle «civili regole di convivenza» infrante dall'eversivo pedalatore.

E figuriamoci quando, sempre di punto in bianco e senza pensare ad altro se non alla «applicazione tecnica del progetto», a qualcuno viene in mente di fare cose contronatura, che neanche i matrimoni tra gente dello stesso sesso in un villaggio contadino ottocentesco: il Senso Unico Eccetto Bici, inaudito, eresia! L'uomo della strada, predicatore di Codice o no, si sente davvero sottoposto ad apartheid da questi sventratori virtuali della sua città ideale tanto faticosamente costruita nei decenni del progresso. E bisogna dargli retta, perché non ha mica tutti i torti, a ben vedere: lo si sta emarginando sul serio impedendogli di fruire della città, di esercitare quello che a ragione o a torto percepisce come diritto umano e civile. Se gli leviamo qualcosa, dobbiamo prima sostituirlo con qualcos'altro, e la bicicletta feticcio dei fresconi Haussmann a propria insaputa è a mille miglia dal possedere (e per puri motivi storico-culturali) la medesima pervasività esistenziale dell'auto. Chi inizia a pensare a queste «politiche urbane», in definitiva, dovrebbe sempre ricordarsi appunto che sta facendo «politiche», è un amministratore eletto, non un gestore di risorse economiche da suddividere equamente tra questa e quella lobby di interessi, a seconda di chi gli sta più simpatica. O almeno provarci, e raccontarci pazientemente quale dovrebbe essere lo scenario finale. È chiedere troppo?

La Città Conquistatrice

Articoli di Giacomo Talignani e Paolo Rumiz, la Repubblica, 17 settembre 2017. Emilia e Lombardia separate, code di tir, pendolari esasperati “Vecchi e fragili il governo ci aiuti". (c.m.c)

la Repubblica 17 settembre 2017
I PONTI MALATI SUL PO
COSÌ IL GRANDE FIUME TORNA
A DIVIDERE L'ITALIA
di Giacomo Talignani

Parma.Separati dal grande fiume, isolati e colpiti da un’economia in sofferenza. Tra l’Emilia e la Lombardia migliaia di cittadini stanno soffrendo le pene di quella che era un’emergenza annunciata da tempo: i ponti di confine fra le province sono “malati” e sul Po non si passa più. Quello principale, fra Parma e Casalmaggiore, è stato chiuso a inizio settembre a tempo indeterminato per lesioni.

Con gli altri attraversamenti a mezzo servizio, un’itera area nel cuore della food valley è finita così in ginocchio. «Nessuno ha voluto curarli per tempo e questi sono risultati» dicono pendolari e residenti a cui è cambiata la vita. Il caos, a cavallo di tre province (Parma, Cremona, Mantova), è esploso a fine agosto quando un agricoltore, mentre lavorava sotto il ponte che collega Colorno a Casalmaggiore, ha notato problemi alle travi: dopo i primi rilievi il ponte è stato chiuso a data da destinarsi. Delle 156 travi, 93 sono risultate lesionate. Era una sorta di autostrada alternativa fra le strade della Bassa: lì passavano ogni giorno 25mila veicoli, per lo più tir che attraversavano le due regioni (anche per raggiungere il Brennero) e lavoratori “frontalieri”. Dalle mamme costrette ad allungare di un’ora il tragitto per portare i figli a scuola, ai pendolari senza più alternative, sino ai commercianti che hanno perso «il 90% dei clienti», riuscire ad arrivare “al di la dell’acqua” è diventata un’impresa.

Anche perché gli altri ponti, vecchi di 50 anni, soffrono tutti. Ci sono i cantieri sul viadotto della A21 nel cremonese. Il Ponte Verdi, a corsia alternata fra Ragazzola e San Daniele Po, vede code infinite nelle ore di punta e sull’unica alternativa senza lavori, Viadana-Boretto, si riversano migliaia di mezzi. I sindaci, precisando di «non avere soldi per intervenire», hanno definito la situazione «molto seria» e dopo una riunione d’urgenza delle Province hanno chiesto l’intervento del ministro Graziano Delrio e fondi governativi «immediati ». Come tampone all’emergenza, c’è chi propone perfino battelli mobili per le merci. Sono talmente esasperati, gli esercenti dell’Asolana, che nei bar a ridosso del grande ponte ormai gli affari si misurano in brioches.

«Quando funzionava a quest’ora del mattino ne vendevo almeno 100. Sa quante ne hanno mangiate oggi? Otto», si lamenta Luigi Dabellani del ristorante Il Lido, sul versante parmense. «Abbiamo perso il 90% dei clienti. Ieri ho tenuto aperto il ristorante da solo. I miei dipendenti vengono in treno e non sanno se faranno in tempo a tornare». Poco più in là, al ristorante Bello Carico, la titolare dice: «Dal 2000 il ponte l’hanno già chiuso tre volte. Ora non sanno nemmeno dirci quando riaprirà».

Le aziende agroalimentari sono costrette a far passare i camion più a ovest, tra Ragazzola e San Daniele Po, ma non va meglio. «Ieri c’erano chilometri di coda. Ho contato 17 tir fermi qui davanti», dicono dalla stazione di rifornimento sulla sponda lombarda. Il ponte è a una sola corsia e «si può stare in coda anche 40 minuti ». Su quello che va da Viadana a Boretto, il serpentone di veicoli si snoda a rilento in direzione Parma. Sul ponticello dell’affluente Enza, «si è passati all’improvviso da 20mila a 40mila mezzi », nota il sindaco. Uno di quei tir, pochi giorni fa, ha investito un’anziana uccidendola, forse la prima vittima di una «disastro che si poteva evitare».

la Repubblica 17 settembre 2017
QUEI SIMBOLI
DEL NUOVO MEDIOEVO

di Paolo Rumiz

I nostri ponti? Simbolo perfetto di un Paese fondato sull’incuria. Per capire, non devi guardarli da terra. Devi passarci sotto, con la corrente. Vedere i piloni circondati da una corona di spine di tronchi sospesi a mezz’aria; il segno del livello delle ultime piene. Li ho visti, scendendo in barca il fiume d’Italia, ed è sempre la stessa storia. Foreste intere di alberi morti sotto le campate, ai quali nessuno sembra prestare attenzione.

Per anni nessuno ci pensa, perché levare quella ramaglia è un affare costoso e complicato. Ma chiunque ha dimestichezza con l’acqua sa che, alla prima grande pioggia, quella foresta aggrappata alla pietra genererà sulla struttura una pressione intollerabile. Decine di ponti sono venuti giù, negli ultimi trent’anni, per questo unico motivo. Gli alvei troppo stretti, troppo veloci e troppo ingombri di materiali che vanno ad accumularsi attorno al primo pilone.

Oh certo, abbiamo le autostrade, il calcestruzzo, le grandi gallerie transalpine e transappenniniche, le ardite campate dei viadotti. Ma i ponti sfuggono allo sguardo di una nazione che ha perso dimestichezza con l’acqua al punto da diventare idrofoba. Quando andai a monitorare la scomparsa dei torrenti nel Mugello a causa del traforo ferroviario Bologna- Firenze, constatai che in alcuni Comuni i pubblici amministratori non s’erano nemmeno accorti che, sotto i loro ponti, i letti dei corsi d’acqua erano all’asciutto. Ora, attorno a Piacenza, Emilia e Lombardia, nuovamente separate del fiume, si ritrovano a scoprire la corretta etimologia della parola “rivale”, cioè “colui che, stando sull’altra riva del fiume, può essermi in qualche modo ostile se non nemico”. I ponti non sono soltanto realizzazioni ingegneristiche ma simboli di unità di un territorio altrimenti governato da antagonismi di campanile. I ponti hanno un’anima e chi li costruisce compie un sortilegio, da cui la parola “pontefice”.

Dopo duemila anni abbiamo ponti romani ancora in piedi. Alcuni esempi: il Pont du Gard nel Sud della Francia, e il Pont Saint Martin all’uscita del Lys sulla Dora Baltea in Valle d’Aosta. Sulla via Appia, molto di essi hanno funzionato ininterrottamente fino al 1944, quando i Tedeschi, ritirandosi a Nord, non li hanno fatti saltare. Ma la loro potenza è ancora visibile.

Giganteschi conci di pietra intatti nelle campate sopravvissute alla dinamite. La storia insegna. La fine della Romanità fu segnata dall’insicurezza delle strade. Dal crollo della loro manutenzione. E allora ci si chiede se non tocchi anche a noi tornare ai guadi. Ai santi traghettatori, tipo quello sul “Transitus Padi” del vescovo Sigerico, che qualcuno, forse per lungimiranza, ha rimesso in esercizio a Sud di Milano per via dei pellegrini della Francigena. In un Paese dove i Comuni in bolletta si svendono all’eolico o alla speculazione idroelettrica dei privati, la crisi dei ponti può avvertirci di un nuovo medioevo.

«Il povero automobilista, inquinatore e ingombrante sarà ben presto visto come un dinosauro della modernità trionfante. La conquista della città da parte dei ciclisti sarà il tratto dominante di questo secolo». la Repubblica Robinson, 14 maggio 2017 (c.m.c)

Ammiro la determinazione dei giovani che ogni mattina, sotto casa mia, armeggiano intorno al parcheggio dei vélib’ (il bike sharing parigino), prima di lanciarsi nella ressa di automobili che continuano a stiparsi lungo le grandi arterie della capitale francese. Ci vuole costanza e coraggio per navigare in mezzo alle macchine, e per non tremare, nelle corsie riservate a loro ma anche ad autobus e taxi, quando vengono superati dai mastodonti della Ratp, guidati per fortuna da esperti molto qualificati. Forse sperano che gli irriducibili del volante alla lunga finiranno per scoraggiarsi e la smetteranno di prendere l’auto anche per fare spostamenti minimi in città, perfino quando i trasporti pubblici consentirebbero loro di giungere più facilmente a destinazione.

Quando quel giorno verrà, si troveranno in una situazione più invidiabile: quella, per esempio, dei ciclisti berlinesi. A Berlino le automobili sono meno numerose e la città è più grande; i ciclisti la fanno da padroni e a volte lo fanno sentire ai malaugurati pedoni. Regnano sulla carreggiata, ma anche sui marciapiedi, e bisogna sempre stare in guardia quando, umili pedoni, si va in giro a fare compere o una passeggiata all’aria aperta. Anche in questo campo, la presa del potere comporta spesso eccessi e abusi.

Comunque sia, a mio avviso, la conquista della città da parte delle biciclette sarà il tratto dominante del secolo in corso, insieme allo sviluppo dei trasporti pubblici. Il povero automobilista sarà ben presto visto come un dinosauro della modernità trionfante. Inquinatore e ingombrante, egoista e malmenato dalle vessazioni poliziesche, si rassegnerà progressivamente a fare del suo veicolo uno strumento riservato alle vacanze.

Appena comincerà a dare qualche segnale di debolezza, la bicicletta farà un balzo in avanti. Verranno rimarcati i suoi benefici: niente più inquinamento, scomparsa del frastuono dei motori e degli ingorghi che riducono, di fatto, la libertà di circolazione. Verranno sottolineati i suoi progressi tecnici, e in particolare il suo piccolo motore elettrico, invisibile e silenzioso, che le malelingue insinuano abbia aiutato certi ciclisti professionisti a valicare con maggior facilità i colli più impervi. Restituirà ai più anziani le gambe dei vent’anni e verranno aggiunte al mezzo, all’occorrenza, una o due ruote supplementari per garantire equilibrio in ogni istante.

Sono in corso ricerche, a quanto si dice, per fabbricare macchine volanti. Non osiamo immaginare cosa sarebbero gli ingorghi nel cielo urbano, e il ruolo dei vigili dell’aria per regolare la circolazione sopra le nostre teste. È concepibile, in compenso, che la circolazione aerea in città sia riservata a certe funzioni necessarie, di approvvigionamento delle cose essenziali, e che le carreggiate urbane, lo spazio cittadino, diventino il luogo esclusivo della circolazione in bicicletta: i grandi trasporti su in aria e in basso le biciclette!

Tutto concorre alla moda della bicicletta: l’attenzione per l’ecologia, il culto del corpo e la voglia di sembrare giovani. Aggiungerei anche: la centralità dell’individuo. La bicicletta è lo strumento sognato della libertà individuale: permette di reinventare i propri itinerari e di trovare scappatoie luminose nella routine del quotidiano.

Oggi tutto ci invita a riesaminare il concetto di individualismo. La pratica della bicicletta è, in questo senso, una risposta concreta a una domanda politica (la libertà individuale è possibile?) che ha un fondo filosofico (che cos’è la libertà? Che cos’è un individuo?). Inforcare la propria bici è rispondere a questi interrogativi, o riformularli efficacemente. Non dimostrare il movimento camminando, ma sperimentare la libertà pedalando. Libertà relativa allo spazio (vado dove mi pare, mi avventuro dove voglio). E libertà relativa al tempo (chi non rievoca, quando va in bici, la sua infanzia e adolescenza?).

Ma nonostante tutto questo, la pratica della bicicletta non condurrà a un individualismo egoista e sfrenato. Come la pratica dello sport in generale, permette di misurare le proprie forze e rispettare gli altri. Inoltre ha una sua storia e i suoi miti, le sue figure leggendarie (Fausto Coppi fu l’eroe della mia infanzia, ed è merito suo se sono scampato già in tenera età allo sciovinismo), e il successo popolare di competizioni come il Giro d’Italia e il Tour de France testimonia l’attaccamento di molti all’immagine che propongono di qualche minuto di verità umana.

Al di là degli aspetti, commerciali e di altro genere, che tendono a offuscare questa immagine, le persone che si accalcano sulle strade per incoraggiare i corridori rendono omaggio a uno sforzo di cui riconoscono il valore. Permettetemi una confidenza: problemi di equilibrio mi impediscono da qualche tempo di usare la bicicletta, soprattutto in una città come Parigi. Guardo con una punta di invidia i ciclisti che si intrufolano nel traffico: mi ricordano le mie corse folli e solitarie nella Bretagna degli anni Cinquanta. Ho la sensazione che abbiano rappresentato un apprendistato, che mi abbiano insegnato a guardare gli altri, a osservare i paesaggi e a sentirmi solo e al tempo stesso solidale.

Non voglio dire, naturalmente, che facessi queste riflessioni quando avevo quindici anni. Ma sono convinto che esprimono qualcosa del mio stato d’animo di allora. In ogni caso è la ragione per cui oggi parlo di quei giorni lontani senza nostalgia: se un giorno risalirò su una bicicletta, anche solo per un minuto, saprò, per intima convinzione, come i giovani che vedo partire la mattina sulle loro bici a noleggio, e come scoprivo un tempo sulle strade della Bretagna, che la vita è sempre davanti a noi, sempre a venire.


«Per un intero secolo, pensatori e utopisti si sono esercitati sul tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale». Città Conquistatrice, 23 aprile 2017 (c.m.c.)


In principio era il concetto di crescita infinita ai suoi albori, unito alla meccanica specializzazione: per così dire, ci si allargava e ci si restringeva allo stesso tempo. Lo stabilimento o ufficio amministrativo più grande, per produrre più pezze di tela, barre di ferro, pratiche e pacchi di fogli stampati, aveva bisogno di spazio, e quello spazio si doveva automaticamente cercare «un po’ più in là».

Il medesimo luogo, in parallelo, perdeva concettualmente dei pezzi, dedicandosi in esclusiva a certe pezze di tela, certi tipi di barre di ferro, certe pratiche e servizi. Per le altre, erano disponibili altri spazi, contenitori, personale, e all’inizio questo processo era chiamato virtuosamente «decentramento», a evocare ariosità, salute, benessere, visto che il problema pareva giusto quello di una angusta soffocante «congestione».

Per un intero secolo, pensatori e utopisti si erano esercitati su questo tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale, e finalmente una innovazione tecnico-sociale pareva rispondere a quasi ogni difficoltà incontrata sul terreno pratico: l’automobilismo di massa. Che cancellando insieme alle telecomunicazioni l’idea stessa di distanza, poneva le basi di quanto sarebbe stato poi ribattezzato lo sterminato Tecnoburbio.

Matrix

E al centro di tutto questo azzeramento virtuale dello spazio e delle distanze, vera e propria torre d’avorio della modernità, stava il concetto di campus, luogo di ultraconcentrazione mentale degli eletti che sfornava puro pensiero, per spalancare ancora nuovi orizzonti di crescita ed espansione per il resto del mondo. Da lì, un po’ come da una sorta di computer centrale come ci si immagina qualunque organizzazione gerarchica, emanava la ragnatela di comando strategico per il mondo, i mercati, il futuro.

Che si trattasse di una struttura universitaria o legata alle imprese industriali, il campus ci è da sempre stato presentato secondo i medesimi criteri: cittadella esclusiva autoreclusa, anche se amichevolmente aperta, col verde a fungere sia da sfondo rilassante che da elastica barriera di reclusione, dentro cui si muoveva l’élite del pensiero creativo. Ma già agli albori, di quella che pareva l’alba dell’utopia, una versione migliorata di medioevo monastico, senza nessuno dei rovesci della medaglia draghi e barbari inclusi, qualche sociologo e studioso notava vistose crepe: disaffezione, stress da isolamento, e addirittura (udite udite) scarsa propensione a produrre pensiero, o almeno qualità innovativa nettamente inferiore a chi continuava a meditare e ricercare «congestionato» in città. Piccoli sintomi, all’inizio: il campus di impresa giusto un filino meno innovativo di quello universitario, era solo la dimostrazione dei prevalere naturale del pubblico rispetto al privato? Macché: c’era ben altro.

Sprawl di cervelli

Accadeva, e ancora accade semplicemente, che un ambiente chiuso e autoreferenziale, così come tende a diventare tutto ciò che si isola rispetto al resto della società, perde in vitalità complessiva e quindi proprio in ciò che dovrebbe esprimere al massimo grado. Se per il quartiere suburbano residenziale monoclasse dormitorio, questo isolamento poteva tradursi in stress, se per il centro commerciale introverso diventava occasione di sbilanciare l’offerta o incrementare gli aspetti pubblicitari e identitari, nel caso dello office park direzionale, e peggio ancora del campus di ricerca, la crisi tocca un nervo vitale, quello della sua fondamentale ragione d’essere produttiva.

Un centro di innovazione che non riesce a innovare, perché ha perduto i contatti con la società e il mondo con cui dovrebbe interagire, deve recuperarli in fretta, e il modo più immediato è quello di tornare a immergersi a strettissimo contatto. Da qui, tutte le tendenze, a partire dagli ultimi scorci del ‘900 sino ad oggi, al ricentraggio dei quartieri generali di riflessione di tante imprese, a volte si dice a «inseguire la propria materia prima», ovvero la creative class a cui lo sprawl suburbano non è mai andato troppo a genio. Basta così? Torniamo alla città tradizionale dopo mezzo secolo di ricreazione a piedi nudi nei prati dell’ex Nuova Frontiera suburbana? Molto probabilmente no, ma la lezione da imparare è che schematizzando troppo, schiacciando esseri umani e natura secondo qualche schema meccanico di breve respiro e troppo semplificato, si rischiano grossi guai. Evitiamoli, per quanto possibile.

Riferimenti:
– AA.VV. Rethinking the corporate campus, SPUR, San Francisco, aprile 2017
– Per la citata definizione di Tecnoburbio, si veda qui su questo sito l’estratto tradotto da The Bourgeois Utopia di Robert Fishman

Il maschio di quasi tutte le specie viventi, per attirare la femmina, riprodursi e provare a diffondere così il proprio patrimonio genetico... (segue)
Il maschio di quasi tutte le specie viventi, per attirare la femmina, riprodursi e provare a diffondere così il proprio patrimonio genetico, ostenta qualche forma simbolica di potenza. C'è chi gonfia piumaggi, chi si percuote il petto villoso, e chi come noialtri scimmie nude di epoca industriale, preferisce l'ostentazione paleotecnica della macchina: io ce l'ho più grossa di quell'altro, scegli me e vai sul sicuro. Si parla tanto di superamento della fase di sviluppo culturale meccanico-industriale, ma a quanto pare questi meccanismi sociali sono in qualche misura e modalità vivi e vegeti. Solo qualche giorno fa mi è capitato di fare due chiacchiere informali con la responsabile comunicazione di un'agenzia di car sharing, operante nel segmento di mercato più innovativo, che punta soprattutto sull'idea di sostenibilità, insomma a quelle cose di cui spesso leggiamo nei nuovi stili di vita dei millennials. E mi ha colpito ascoltare, proprio dal suo punto di vista, una frase che suonava più o meno: «Anche i nostri più convinti e affezionati clienti maschi, mi dicono che non andrebbero mai a prendere la fidanzata la sera con una delle nostre auto tanto prive di idea di potenza, in quei casi quasi sempre preferiscono un altro operatore». Il che, oltre a farmi un po' calare le speranze nel futuro prossimo dell'umanità intera, mi ha anche fatto capire il senso di tante cose altrimenti incomprensibili, nel mondo dell'auto in condivisione.

Per esempio il motivo per cui entrano in campo gestori di servizi altrimenti inspiegabili, senza tener presente quell'aspetto diciamo così sessuale, del gonfiare le piume meccaniche: auto più voluminose senza alcun riferimento al carico da trasportare, più costose sia per l'operatore che per la clientela, inutilmente più impattanti dal punto di vista ambientale, locale e non. Apparentemente sembrerebbero senza mercato, e invece non solo ce l'hanno, ma potrebbe essere addirittura prevalente: qualcuno che l'auto status symbol non ce l'ha, ma vuole lo stesso ostentarla a tempo parziale. Di tenore analogo a queste vaghe riflessioni, la notizia recente che dal 31 dicembre l'operatore Car2Go (quello con le Smart bianche presente anche in diverse città italiane) chiuderà il servizio a Minneapolis, dopo essere uscito da altri mercati locali, come Miami, San Diego, ma anche Londra. Più in generale, un articolo del periodico di settore Transportist si chiede se il car sharing abbia un futuro, visto che osservando i grafici si nota sul mercato nordamericano un picco di iscrizioni due anni fa, a cui segue un deciso calo. L'ipotesi, almeno una delle ipotesi, è che la pura ripresa economica dopo la recessione metta in dubbio tutti quei ragionamenti che si sono fatti sulla fine del modello proprietario, vuoi per motivi ambientali, vuoi per evoluzioni organizzative delle imprese, vuoi per innovazioni tecnologiche, in testa a tutte quella dell'auto senza pilota, per cui anche nell'Unione Europea di recente la Commissione sembra aver fissato il traguardo massimo del 2020, cioè dopodomani.

Foto F. Bottini

Insomma, invece della auspicata demotorizzazione (che va a braccetto, o andrebbe a braccetto, con altri processi virtuosi, dalla smaterializzazione alla ri-urbanizzazione degli stili di vita), il rischio è che ci si ritrovi con un settore auto, e tutto l'insieme degli operatori che danno forma all'ambiente e al territorio, assai fortemente intenzionato a non cambiare affatto modello. Diventerebbero realtà quelle ipotesi molto conservatrici di tanti «futurologi» che dalla stampa in questi anni ci hanno raccontato scenari da cartone animato dei Pronipoti, dove cambiano alcuni dettagli per lasciare identico il resto. La casetta suburbana, magari alimentata a energia solare, ma pur sempre la vecchia villetta, da cui ogni mattina esce l'auto pure elettrica del capofamiglia, rigorosamente in proprietà anche se senza pilota, che lo porterà all'ufficio rigorosamente in un posto diverso e lontano, consumando tempo, spazio, energia, per uno stile di comportamento che pareva e pare ancora privo di senso con le possibilità attuali, anche se caro a certi investitori. E tanti saluti alle aspettative suscitate dagli esordi del car sharing. Ma non può non tornare in mente, però, la vecchia vicenda dello Stereo8, a chi ne conserva qualche memoria, vicenda legata sia all'automobile che al mondo in cui si aggirava facendola da padrona.

La sigla si riferisce a un sistema di ascolto musicale comparso e presto tramontato in Italia a cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi '70. Tra le tante cose che a quel tempo si stavano evolvendo, possiamo senza dubbio metterlo al centro, l'abitacolo dell'auto, e insieme quel ruolo di status symbol. Straordinaria ad esempio la memorabile scena del sesso in auto in La Classe Operaia va in Paradiso, di Elio Petri (1971), in cui il protagonista tornitore modello Lulù Massa, interpretato da Gian Maria Volontè, per sedurre la collega Adalgisa squaderna tutti gli attributi erotico-simbolici del caso, dal modello utilitaria ma trendy «che dopo due anni la guardo ancora», al piccolo bar nel cruscotto, alla musica e via dicendo. Il sesso in sé, insomma, all'epoca è poca cosa se lo paragoniamo a tutti i parafernali di contorno, di cui il mitico Stereo8 rappresenta la punta di diamante. Poi le cose si evolveranno diversamente, perché quel particolare tecnico sarà sostituito da un altro lievemente quanto fondamentalmente diverso, l'audiocassetta poi arrivata fino al CD e poi ancora allo streaming eccetera. Entreranno in campo operatori diversi, ma quella rapida sparizione dello Stereo8 in sé e per sé salvo dettagli da elettrotecnici o da speculatori non significa sparizione dell'universo automobile sul territorio: non più semplice mezzo di trasporto, ma vero e proprio prolungamento dell'abitare, dell'essere, senza la quale l'uomo del XX secolo non si sente realizzato.

Ecco: se il car sharing attuale fosse un po' come quel sistema di ascolto musicale in auto di tanti anni fa, intuizione giustissima ma che si trascina qualche tara di cui liberarsi, magari facendo anche finta di estinguersi, tutto tornerebbe a posto. Perché adesso l'intuizione della sostenibilità, degli stili di vita urbani, non legati al possesso ma al valore d'uso, potrebbe benissimo produrre una mobilità assai diversa, dove i veicoli non occupano tutto lo spazio come accaduto per decenni, non sputano veleni nell'aria, non stanno fermi immobili a fare il totem per il 95% della propria esistenza, e non pretendono di fissare per legge a questo scopo infinite superfici asfaltate. Se un operatore di car sharing si ritira, se addirittura ci sono segnali evidenti di calo dell'interesse per quel comparto, certo vuol dire che da qualche parte bisogna cambiare. Ma potrebbe essere, forse dovrebbe essere, anche fuori dall'auto in sé e per sé, magari nell'organizzazione urbana, dei trasporti più intermodali (pare che le nostre Ferrovie ci stiano investendo, in quella direzione), del lavoro e delle comunicazioni. C'è tanto Stereo8, per nulla morto e sepolto, in tutto il nostro attuale casuale frugare in rete alla ricerca di quel passaggio musicale, mentre stiamo sul traghetto delle vacanze. E ci sarà allo stesso modo tanto, tantissimo car sharing in qualche futura pedalata verso un magazzino automatico di mobili ingombranti, che te li carica sul furgone driverless seguendo le indicazioni dello smartphone, o chissà.

Su La Città Conquistatrice il tag Car Sharing (quello Stereo8 non ancora)

«Nel nuovo piano della regione guidata da Roberto Maroni, il trasporto su gomma torna ad essere l’asse portante della mobilità, in barba alle linee guida europee e al flop della Brebemi». Sbilanciamoci.info, 3 novembre 2016 (p.d.)

Non se ne sono accorti in molti, ma nel settembre scorso è stato varato il piano dei trasporti della regione Lombardia, guidata dal leghista Roberto Maroni. Un documento ambizioso, che rimedia a 34 anni di vuoto programmatorio con una lista ipertrofica di opere e, soprattutto, con una colata di asfalto come non se ne vedevano dagli anni Sessanta. Il fatto è degno di nota, anche perché rischia di fare scuola nel resto del paese. Quanto poi sia realistica la furia asfaltatrice della giunta Maroni è un tema di cui si occuperanno le prossime generazioni, magari per coprire i buchi lasciati dagli attuali amministratori. Intanto però, in un sostanziale silenzio mediatico, il trasporto su gomma torna ad essere l’asse portante della mobilità in Lombardia, in barba alle linee guida europee su trasporto e ambiente e del tutto incuranti del flop di Brebemi, Tangenziale Esterna (Teem) e Pedemontana (lotti A e B1), tre autostrade costate quasi 10 miliardi di euro e ben lontane dal pareggio di bilancio.

Lo dicono anzitutto i numeri. Nei prossimi anni sono previste 331 km di nuove autostrade, su 715 di dotazione esistente (+46%), incluse arterie che sembravano estinte naturalmente come la Cremona-Mantova o la Broni-Mortara (bocciata recentemente anche dal Governo in sede di valutazione ambientale). Costo complessivo: 10,9 miliardi, di cui 3,5 provenienti da Stato, Regione o Anas, cioè dalle tasche dei cittadini. Il resto dovrebbe arrivare dalla banche, che al momento non si sognano nemmeno di mettere soldi su operazioni (quasi certamente) in perdita.

Nel complesso, strade e autostrade assorbiranno 17,6 miliardi di investimenti, dei quali 15,9 per nuovi lavori (cioè non riferibili a opere già cantierate). Ben 7,7 miliardi saranno soldi pubblici provenienti, nell’ordine, da Anas (quasi la metà), Stato, Province, Città Metropolitana, Serravalle e Regione.

Alle ferrovie invece sono destinati 15,9 miliardi, di cui solo 7,3 per nuovi lavori, ossia programmati dalla Regione. Ma ben 8,2 miliardi finiranno all’Alta velocità Treviglio-Verona e Milano-Genova e 11,7 miliardi saranno a carico delle ferrovie nazionali (Rfi). Altri 2 miliardi andranno al solo nodo di Milano e 1,2 miliardi al rinnovo del materiale rotabile. Dunque per le tratte locali, quelle di gran lunga più utilizzate e con trend in costante crescita, sono previsti 7,7 miliardi, incluse opere contestate ed impattanti come il traforo del Mortirolo (300 milioni).

È evidente che alla “cura del ferro” lanciata (per ora in gran parte a parole) dal ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, la giunta lombarda preferisce la collaudatissima “cura dell’asfalto”.

E’ appena il caso di ricordare che la Svizzera ha appena inaugurato il tunnel ferroviario di base del Gottardo, il più lungo del mondo, e nel 2020 aprirà quello del Ceneri: entrambi scaricheranno sulla linea transfrontaliera Italia-Svizzera fino a 260 treni merci al giorno (oggi sono 180) e già nel 2020 i convogli giornalieri merci e passeggeri saliranno a 390, 100 in più rispetto ad oggi. Per reggere in sicurezza tali flussi è previsto il quadruplicamento della Chiasso-Milano e il raddoppio di alcune tratte sulle direttrici Luino-Gallarate e Luino-Novara. Il costo previsto è di 4,2 miliardi (1,4 per la Milano-Chiasso) ma c’è un problema: in cassa ci sono solo 175 milioni, appena sufficienti per adeguare le infrastrutture al passaggio di treni più lunghi e pesanti dal Nord Europa. Insomma, se ne riparlerà nel 2023, sempre che si trovino i soldi, con taglio del nastro nel 2030.

Ma per restate all’oggi, si fatica a trovare anche 1,5 miliardi per rimettere a nuovo i treni locali, spesso fermi o in ritardo per la vetustà del materiale rotabile. Un ragionamento analogo potremmo farlo per la manutenzione delle strade ordinarie, di cui si dibatte in questi giorni dopo il crollo del ponte sulla statele 36 Milano-Lecco, per le quali quali lo Stato centrale ha destinato appena 250 milioni. Al contrario, sulla triade Brebemi-Pedenmontana-Teem, Stato e Regione hanno già messo sul piatto la cifra monstre di 1,95 miliardi. Questione di priorità.

E visto che, tornando al piano regionale, sulle ferrovie mancano all’appello 9,7 miliardi e sulle strade 10,5 miliardi, di cui 5,5 pubblici, bisognerà fare delle scelte, uscendo per un attimo dal libro dei sogni nel quale sembra caduta la giunta lombarda. E a quanto pare la strada, appunto, sembra tracciata: autostrade e alta velocità.

A meno di pensare che davvero abbiamo bisogno di 330 km di nuove autostrade. Ironia della sorte, a smentire questa ipotesi è in gran parte la stessa Valutazione ambientale strategica allegata al piano regionale, che dovrebbe giustificarne le scelte ma finisce per contraddirle. Con dovizia di numeri e grafici essa ci mostra come nell’ultimo quindicennio sia cresciuto sensibilmente l’uso del treno – grazie anche alle nuove linee suburbane – mentre si sono ridotti gli spostamenti in auto. E, dato interessante, i comuni maggiormente serviti dal trasporto pubblico e dalla ferrovia presentano un minor tasso di motorizzazione. Come a dire: quando c’è un servizio pubblico che funzione la gente è ben disposta a rinunciare all’auto.

Occorre poi sfatare il mito del cosiddetto “gap infrastrutturale”.L’Italia ha una densità autostradale (km rispetto alla superficie) pari a quasi tre volte la media europea, ma la Lombardia è al terzo posto in Europa con 30 km ogni 1000 km quadrati, dopo Germania e Paesi Bassi. Con le nuove arterie salirebbe al secondo posto, distanziando abbondantemente i tedeschi. Ma a costo di autostrade deserte, nuovo debito pubblico, aria inquinata e almeno 8.000 ettari di suolo compromesso, in un’Europa che sta andando in tutt’altra direzione. Se questa è l’eccellenza lombarda.

Roberto Cuda è autore di “Anatomia di una grande opera. La vera storia di Brebemi”, ed. Ambiente

«Alta voracità. I piani del governo per il gruppo Fs: socializzare le perdite del trasporto locale e degli investimenti sulla rete ferroviaria, privatizzare i profitti quotando in borsa nel 2017 i treni ad alta velocità e a lunga percorrenza. Con il Ponte sullo Stretto "infrastruttura ferroviaria", e l'interesse per il Tpl per pendolari e studenti». il manifesto, 29 settembre 2016

Privatizzare entro un anno i soli treni ad alta velocità e a lunga percorrenza, cioè quelli da cui Ferrovie dello Stato guadagnano. Entrare, e “scalare”, il settore del trasporto pubblico locale su gomma, ben nota passione del presidente del consiglio. E considerare il Ponte sullo Stretto come un’opera ferroviaria. Di più: “Come se fosse una galleria”. Dall’ad del gruppo Fs, Renato Mazzoncini, arrivano tre indizi che fanno prova: il governo Renzi insiste nella strategia di (s)vendere ai privati, attraverso la borsa, i gioielli della corona statale. E di far contenti i ras delle costruzioni con il Ponte sullo Stretto, travestendolo da infrastruttura su ferro per poter contare sui finanziamenti Ue. Al riguardo sono illuminanti le parole del fedele Mazzoncini: “Il ponte costa 3 miliardi e 900 milioni, tutte le infrastrutture dei corridoi ferroviari europei arrivano a 120 miliardi. Quindi il problema non sono i soldi, il ponte è stato sempre gestito come traffico stradale, con costi enormi. Ma trattata come un’opera ferroviaria sarebbe diverso”.

Così è se vi pare. Nel mentre il governo fa presentare ai vertici delle Ferrovie un megagalattico piano decennale, nel quale sono confermate opere fortemente discusse dalle popolazioni come il Terzo Valico (cioè la Tav Milano-Genova), e naturalmente la Torino-Lione con lo sventramento della Val di Susa. Poi, per tacitare le Regioni che sul trasporto locale (pendolari e studenti) si svenano da anni, per supplire alla strategia “Tav oriented” delle Ferrovie di Moretti e oggi di Mazzoncini, arriva il contentino della commessa già avviata per 450 nuovi treni regionali. Con i primi, previsti nel 2019, destinati all’Emilia Romagna fedele alla linea su cui Renzi tanto spera in vista del referendum costituzionale.

E il sud? Anche qui tutto ad alta velocità, con l’annuncio di Mazzoncini di voler aprire i cantieri sulla Napoli-Bari, sulla Palermo-Catania-Messina, e sulla Salerno-Reggio Calabria “che dovrà essere potenziata per lo sviluppo della Napoli-Palermo”. Con annesso Ponte sullo Stretto, così i centristi di Angelino Alfano saranno contenti. Poco o nulla invece sulle disastrate linee locali e periferiche del meridione, quelle che resteranno in carico alle Ferrovie (controllate al 100% dal Tesoro) dopo la (s)vendita del ghiotto boccone delle Frecce. In altre parole: socializzare le perdite – compresi i necessari investimenti sulla rete che resterà pubblica – e privatizzare i profitti.

“L’ipotesi su cui stiamo ragionando è una quotazione non inferiore al 30% – spiega Mazzoncini – e abbiamo ipotizzato di dividere Trenitalia in due, con la divisione della lunga percorrenza, ovvero Frecce e Intercity. Questa divisione oggi ha un fatturato di 2,4 miliardi che può crescere nel Piano fino a 3 miliardi, un Ebitda di 700 milioni che possono diventare un miliardo. L’appeal è molto evidente”. A ruota la presidente Fs, Gioia Ghezzi: “I tempi della quotazione di Fs sono quelli tecnici per portare a termine la quotazione, quindi a un anno da oggi, nel 2017”. Quando poi le fanno notare l’assenza di Pier Carlo Padoan, titolare del Tesoro, Ghezzi puntualizza: “Non saremmo venuti qui a presentare l’Ipo se non ci fosse perfetto allineamento con l’azionista”.

“La quotazione deve essere un mezzo per lo sviluppo dell’azienda e non un fine”, prova a dire Mazzoncini guardando alle prime reazioni sindacali. “Particolarmente delicato e complesso – fanno sapere Filt Fit e Uilt – si presenta il tema della cessione di quote di proprietà del ministero dell’economia, tema che suscita più di una perplessità”. Più diretto Matteo Mariani dell’associazione “In marcia”, che edita la storica rivista dei macchinisti Fs “Ancora in marcia”: “Si lascia quello che costa a carico dello Stato. Mentre si dà ai soliti noti quello che rende, ò può rendere”.

Fra gli obiettivi delle Ferrovie c’è anche il settore del trasporto pubblico locale su gomma. Insomma sugli autobus, giudicati come terreno fertile anche grazie al decreto Madia che, in spregio al referendum del 2011, “liberalizza” tutte le public utilities, dai rifiuti ai trasporti all’energia: “L’obiettivo è il mercato Tpl – spiega ancora Mazzoncini – cogliendo opportunità in tutta Italia, partecipando a gare e laddove possibile acquisendo operatori strategici”. Sul punto arriva la benedizione diretta di Renzi: “Il piano di Fs è un piano che sa rischiare, che sa guardare al futuro, che tiene insieme l’altissima eccellenza come l’alta velocità, e un’attenzione maggiore per i pendolari che hanno bisogno di nuovi treni e nuovi bus”. Però nella “sua” Toscana la gara c’è già stata. E non l’ha vinta la Busitalia di Fs – subito ricorsa al Tar – che è stata sconfitta dalla francese Ratp. Una società pubblica.

«Quando la megalopoli sta in uno smartphone. Con una spesa di 40mila dollari hanno ridotto il traffico del sedici per cento in due anni». Continuano a proporre aspirine quando occorrono amputazioni, o maquillages quando servono pesanti ristrutturazioni. La Repubblica, 4 settembre 2016

Siede in un ufficio spoglio ai piani alti del City Hall, il municipio di Los Angeles. Di futuribile ha poco questo palazzo bianco del 1928, con al centro una torre che vorrebbe ricordare il mausoleo di Alicarnasso. Pesanti ascensori in legno con pulsantiere in ottone consumato, corridoi polverosi, vecchie scrivanie in ferro. E un primato in altezza, i suoi 138 metri, che gli fu rubato negli anni Sessanta.

Eppure per guardare il nuovo volto della città bisogna venire qui e parlare con Peter Marx. Cresciuto nel quartiere Parioli di Roma, il padre lavorava a Cinecittà, lo avevamo incontrato due anni fa quando era appena stato nominato chief technology officer della città di Los Angeles dal sindaco democratico Eric Garcetti. Carica propria di aziende private e non certo di un ente territoriale.

Lui è stato fra i primi. Subito dopo altre metropoli hanno iniziato a fare la stessa cosa, da Amsterdam a New York. Marx ha subito sposato la causa degli open data e messo online tutto quel che di digitale raccoglievano i vari dipartimenti. Oltre alla coordinazione fra i diversi uffici, da quel momento per i vigili del fuoco è stato molto più semplice sapere dove stavano intervenendo quelli del dipartimento dell’energia elettrica, la speranza era che qualcuno avrebbe usato le informazioni per creare servizi. Qualcuno proveniente dal privato.

«Cosa è successo da allora? Che abbiamo speso appena quarantamila dollari», esordisce lui. «Quello che ricordo di Roma è il traffico. Ed è la stessa cosa che si potrebbe dire di Los Angeles. Ma quando vivevo a Roma, da piccolo, non esistevano gli smartphone. Le faccio un esempio: qui Waze è usata da due milioni di persone su quattro milioni di abitanti.

Lo schermo del telefono è la nuova interfaccia della metropoli. Il sistema di trasporto è computerizzato, gli autobus hanno il gps e della metropolitana sappiamo esattamente dove si trova in tempo reale. Sappiamo anche dove ci sono lavori in corso, dove sta intervenendo la polizia, dove c’è una perdita nella rete idrica. Ma la segnaletica tradizionale è statica, immobile. Ogni eccezione all’ordinario richiede che venga portata quella mobile. Ed è inefficace: non avvisa chi sta partendo da casa che in un certo tratto ci sarà un rallentamento. Ci sono solo i semafori che cambiano colore. Quel che abbiamo fatto è stato dare a chi realizza le app ogni tipo di informazione: quali strade sono bloccate e quali hanno lavori in corso, orari delle scuole, percorrenza dei bus, tempi della metropolitana e dei treni».

Di fatto una nuova forma di segnaletica, personalizzabile e dinamica che arriva ai cittadini sull’unico apparecchio hi-tech che hanno di sicuro, lo smartphone, e che permette di ridurre i tempi di percorrenza dal 15 al 40 per cento secondo i casi. E di conseguenza anche l’inquinamento. Marx per certi versi è stato fortunato, per questo ha speso così poco. Los Angeles dal 1984, quando accolse i giochi olimpici, ha un sistema di gestione degli incroci. Serviva a sincronizzare fra loro i semafori. Nel tempo all’Automated Traffic Surveillance and Control (Atsac) sono stati aggiunti quarantamila sensori sparsi per la città, cinquecento videocamere, quattromila cinquecento semafori. «Tutto integrato», spiega lui. «Compresa una serie di semafori dedicati ai cavalli. Già, abbiamo anche quelli in alcune aree. Del resto questo è pur sempre il West».

E non si tratta solo del traffico della automobili private. Dai porti di Los Angeles passano merci con un valore pari a circa il 40 per cento dell’economia statunitense. È un flusso enorme e costante che investe le strade, le ferrovie e la rete di magazzini. Ma il tassello più importante di Atsac, ora, sono quei due milioni di persone che grazie al loro telefono diventano dei sensori. Di qui una infrastruttura pubblica collegata a un ecosistema privato che produce informazioni accurate in tempo reale attraverso delle app. E, a loro volta, le app comunicano al comune i dati dei propri utenti in forma anonima.

«Abbiamo iniziato a usare tecnologie predittive — prosegue Marx — per avvertire in base alle informazioni raccolte nel corso di questi due anni se un certo giorno si prevedono code e dove si verificheranno». Lo fanno anche in altri campi, quello dello streaming musicale, tanto per citarne uno, dove riescono a prevedere il successo di un brano analizzando come le hit del passato si sono diffuse.

«C’è chi crede che il problema del traffico si risolva costruendo nuove strade», conclude Peter Marx, «ma è come mettersi a dieta ascoltando il proprio stomaco. Il traffico cresce in quei casi, senza contare costo e tempi per ampliare le strade. A un certo punto si tocca il limite: aumentare la capacità non risolve mai il problema di congestione di un network». Marx e Garcetti operano però in una città americana. E le multinazionali che producono app per la navigazione sono tutte americane. Compresa Waze, di Google dal 2013. In una metropoli europea un’operazione del genere richiederebbe un po’ più di cautela.

«Puglia Tragica. A Nord si investono miliardi in Alta Velocità, da Roma in giù si taglia. I veri tagli sono arrivati con il governo Berlusconi che 2010 ridusse le risorse del 50,7%. Da allora dilagano le società degli autobus. Uno dei convogli dell’incidente era del 2004, un lusso per gli standard concessi ai meridionali». Il manifesto, 13 luglio 2016
Ogni giorno al Sud circolano meno treni che nella sola Lombardia. 1738 corse contro 2300. Eppure, da Roma in giù, sono al servizio del doppio degli abitanti. Al Sud i treni sono più vecchi. L’età media dei convogli è di 20,4 anni, al Nord 16,6. La Sicilia è la quarta Regione in Italia per popolazione con 5 milioni di abitanti. Vi circolano meno di 1/5 dei treni regionali della Lombardia, regione che però ha solo il doppio degli abitanti. Al Nord c’è l’alta velocità (o forse sarebbe meglio dire l’alta voracità visti i costi). Molte linee del Sud viaggiano ancora su binario unico, raggiungendo anche i 250 treni al giorno (come nel tratto in Puglia dove si è verificato ieri il disastroso incidente).

Su 71 progetti programmati nel piano triennale dei trasporti 2017/2020 solo due riguardano il Sud.
L’Italia viaggia a due velocità e non fa nulla per cambiare le cose. I soldi per il Tav ci sono, così come ci sono stati quelli per la nuova tratta Milano-Torino (per essere economicamente conveniente doveva trasportare 400 treni, si arriva circa a 40). Per il Sud no. L’incidente di ieri accende una luce sul dramma di migliaia di pendolari di serie B. I treni protagonisti dell’incidente non erano vecchi. Uno dei due era addirittura del 2004, praticamente nuovo per gli standard concessi ai meridionali. Un treno di lusso. Viaggiava però su un binario unico come troppi da Roma in giù. Una condizione di minorità infrastrutturale che non può essere dimenticata di fronte alle possibili colpe umane celate dietro il disastro.

Treni con più di 20 anni? In Europa li fermano, in Italia li mandano al Sud
In Europa i treni che superano i 20 anni di attività vengono smantellati e sottoposti a un radicale revamping. In Italia vengono mandati al Sud. La cosa è evidente con Trenitalia ma lo è anche sulle linee regionali. I tagli hanno imposto alle società di gestione l’acquisto di mezzi sempre più logori. In Abruzzo ben l’84,7% hanno spento le 20 candeline. Un po’ come accade con i bus urbani delle municipalizzate. Quelli appena elencati sono tutti numeri riportati da Legambiente nel rapporto «Pendolaria 2015» che fotografa lo stato dell’arte delle ferrovie italiane.

Cresce il numero degli utenti ma da Roma in giù si taglia
Il numero delle persone che in Italia viaggia in treno è in crescita: +2,4% nel 2015. Eppure si tagliano i servizi in maniera discriminatoria: da Roma verso Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17, mentre oggi tra Frecciarossa e Italo sono 63, con un aumento dell’offerta in 8 anni pari al 370%. La situazione è completamente diversa a Napoli per coloro che prendono i treni della ex Circumvesuviana (120 corse al giorno): hanno subìto un calo dell’offerta del 30%. Rispetto al 2009 i passeggeri sono aumentati dell’8%; le risorse statali per il trasporto regionale si sono ridotte di oltre il 20%. Scrive Legambiente: “Da una parte il successo di treni sempre più moderni e veloci – si muovono tra Salerno, Torino e Venezia con una offerta sempre più ampia e articolata e un crescendo di passeggeri ogni giorno su Frecciarossa e Italo – dall’altra la progressiva riduzione dei treni Intercity e dei collegamenti a lunga percorrenza su tutte le altre direttrici nazionali (-22,7% dal 2010 al 2014), dove i tempi di viaggio sono rimasti fermi agli anni Ottanta”.

Dal 2010 tagli indiscriminati: da 6,2 a 4,8 miliardi

Il crollo nei trasferimenti è avvenuto con la finanziaria 2010 e i tagli di Tremonti, quando introdusse una riduzione a regime del 50,7% delle risorse per il servizio. Il Governo Monti a fine 2011 intervenne per coprire una parte del deficit relativo al 2011 e al 2012. Se si confronta il dato attuale con la cifra che sarebbe necessaria per il funzionamento del servizio (parliamo dei servizi di base), ossia quella stanziata fino al 2009, ci si rende conto della radice dei problemi del trasporto pubblico in Italia. Si è passati da 6,2 miliardi di euro per il trasporto su gomma e su ferro ai poco più di 4,8. Per il 2016 le risorse a disposizione sono state di poco superiori: si passa da 4,819 nel 2015 a 4,925 miliardi di euro. Per garantire servizi decenti non bisognerebbe scendere sotto i 6,5 miliardi (rimanendo comunque lontani dalle medie europee).

Quel contratto di servizio per gli Intercity fermo al 2014

Dal 2001 la competenza sul servizio ferroviario pendolare è in mano alle Regioni che definiscono i contratti di servizio con i concessionari. Il Ministero, però, è rimasto responsabile del Contratto di Servizio per i treni a lunga percorrenza non a mercato (gli Intercity, molto frequentati dai pendolari), dal valore di 220 milioni di Euro. Un contratto che è scaduto nel 2014. Non è ancora stato aperto un confronto per capire come rinnovarlo o se mandarlo a gara, per decidere se e dove potenziare. Si continua a procedere per proroghe, senza una visione sul futuro di questi treni, che pure percorrono tratte importanti del Paese, provando a tenerlo unito (su tutte le direttrici Adriatica e Tirrenica).

Il business del trasporto su gommaIl Sud è diventato in breve tempo territorio di conquista per le società di trasporto su bus. Non avendo alternative i cittadini prendono la corriera rinforzando, inevitabilmente, un sistema potentissimo che sembra impossibile da cambiare. Si sono moltiplicate le società specializzate, mettendo su un business che ha preso il posto del servizio ferroviario. I governi non hanno fatto nulla per invertire la rotta. Evidentemente conviene così.

Hanno inventato un nuovo animale: un mostro che si potrebbe definire: Vampiravvoltoio. Succhia il sangue ai pendolari delle ferrovie ex italiane e si getta a picco, rapace, per divorare quelle ancora greche. Il giornale degli ex industriali italiani plaude. Il Sole 24Ore, 5 luglio 2016

Pronta l’offerta di Fs per TrainOSE, la compagnia ferroviaria greca che il governo di Atene ha inserito tra gli asset da privatizzare. Ieri si è riunito in via straordinaria il consiglio di amministrazione del gruppo guidato da Renato Mazzoncini per affinare gli ultimi aspetti della proposta che dovrà giungere entro domani - quando scadrà la deadline per l’invio delle offerte vincolanti -, sul tavolo degli advisor finanziari cooptati per l’operazione (Investment Bank of Greece e Kantor Management Consultants). Già martedì scorso, a valle dell’inaugurazione della nuova terrazza Termini dello scalo ferroviario capitolino con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, il board di Fs aveva esaminato la documentazione per partecipare alla gara che vede in corsa anche il colosso russo Rzd (Rossijskie železnye dorogi) e ieri c’è stato un ulteriore passaggio tra i consiglieri per sciogliere anche gli ultimi nodi.

Ma quanto vale il deal? Sui numeri dell’offerta vige il massimo riserbo, ma era stato lo stesso ad Mazzoncini, intervenendo a fine marzo in audizione davanti alla commissione Trasporti della Camera, a fornire qualche indicazione in più sulla gara. «È una realtà piccolissima perché non riguarda i binari - aveva spiegato l’ingegnere bresciano - è un’operazione che potrà valere meno di 100 milioni di euro». TrainOSE, stando agli ultimi dati disponibili, ha un fatturato annuo di 130 milioni di euro e un Ebitda di 2 milioni, con un patrimonio netto di circa 40 milioni di euro. La società è stata fondata nel 2005, inizialmente come filiale della compagnia statale OSE Sa, per fornire servizi trasporto passeggeri e merci, e nel 2013 è stata trasferita sotto le insegne dell’agenzia governativa greca per le privatizzazioni (Hellenic Republic Asset Development Fund, Hradf) con l’obiettivo di essere ceduta sul mercato.

Un primo tentativo di vendita, attuato proprio in quell’anno, finì però nel vuoto per la mancata presentazione di offerte vincolanti dopo che la francese Sncf, la rumena Grup Feroviar Roman e gli stessi russi di Rzd avevano depositato una manifestazione d’interesse. Ora, pressato dalla necessità di rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, il governo di Atene ha ripreso in mano l’operazione e sta provando a privatizzare anche la società di manutenzione Rosco, anch’essa nata dopo la scissione delle ex ferrovie greche. Così, a gennaio, il cda di Hradf ha deciso di riavviare la procedura di vendita di TrainOSE con scadenza fissata per domani per raccogliere le offerte vincolanti dopo i numerosi rinvii delle ultime settimane.

Ferrovie è quindi decisa a tentare l’affondo per assicurarsi un varco oltreconfine a fronte di un impegno finanziario che, stando ai numeri diffusi dallo stesso ceo Mazzoncini, non dovrebbe essere enorme. Peraltro la Grecia non è l’unico dossier internazionale su cui il gruppo si sta misurando. A febbraio, come si ricorderà, l’ad era volato a Teheran per firmare con il viceministro dei Trasporti e presidente di Rai (Ferrovie iraniane), Mohsen Pour Seyed Aghaie, un memorandum of understanding che, di fatto, avviava la cooperazione tra i due gruppi per la realizzazione delle linee dell’Alta velocità Teheran-Hamadam e Arak-Qom e apriva altresì la strada alle controllate Italcertifer (certificazione) e Italferr (ingegneria). La prima è stata chiamata a lavorare alla progettazione preliminare del test center delle ferrovie iraniane, un centro di prova per testare con apparecchiature all’avanguardia sia l’infrastruttura sia il materiale rotabile, mentre la società di ingegneria del gruppo dovrà prestare assistenza tecnica per il progetto della linea alta velocità Teheran-Qom-Isfahan (circa 400 chilometri). Un fronte di sviluppo, insomma, dal potenziale enorme, come l’Inghilterra, dove il gruppo, forte dell’ottenimento del cosiddetto “passport”, l’abilitazione alla gara - unica azienda non inglese ad averlo conseguito - sta partecipando come gestore alla partita per l’alta velocità sulla linea Londra-Edimburgo.

Sempre, ieri, poi, si sono riuniti i cda delle tre società nate dopo la scissione di Grandi Stazioni, propedeutica alla vendita degli asset retail. Sono stati quindi nominati i i board di Gs Rail (100% Fs), Gs Immobiliare (60% Fs e 40% Eurostazioni) e Gs Retail (55% Fs e 45% Eurostazioni), al centro del processo di cessione che, come noto, ha registrato l’aggiudicazione della società al raggruppamento formato da Antin, Icamap e Borletti Group. Per quest’ultimo, su cui evidentemente ci sarà una discontinuità nel momento in cui avverrà il closing dell’operazione, atteso per metà luglio, sono stati individuati come presidente

GRANDI STAZIONI A valle della scissione sono stati nominati ieri
i board dei tre veicoli Gs Rail: Silvio Gizzi è il nuovo ad
e Vera Fiorani alla presidenza

1 of 2 05/07/2016 12:11

Il Sole 24 Ore http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/vetrina/edicola24web/edicola...

Riccardo Maria Monti e come ad Paolo Gallo, in uscita dall’azienda e destinato a guidare la nuova holding di Italgas che nascerà a valle dello spin off annunciato da Snam nei giorni scorsi. Per Grandi Stazioni Immobiliare, invece, sono stati designati alla presidenza Carlo De Vito e Gallo come ceo. Mentre il cda di Grandi Stazioni Rail sarà composto da Silvio Gizzi (ad), Vera Fiorani (presidente) e Umberto Lobruto (consigliere).

© RIPRODUZIONE RISERVATA Celestina Dominelli

In Italia solo cittadini e comitati si sono mobilitati per denunciare il grande inganno delle concessioni autostradali. Inascoltati si sono rivolti all'Europa, che ora interviene. Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2016 (m.p.r.)

La politica di manica larga del governo nei confronti dei signori pubblici e privati delle autostrade insospettisce parecchio l’Europa. Margrethe Vestager, la commissaria per la Concorrenza, ha inviato a Graziano Delrio una raffica di lettere chiedendo spiegazioni su tutte le scelte autostradali più importanti del ministero dei Trasporti: quelle missive sono l’apertura di una campagna in grande stile. Le lettere riguardano la Brebemi, la A 4 Brescia-Padova, la A 22 del Brennero, le Autovie Venete e la Sat, la Società dell’autostrada tirrenica del gruppo Benetton che all’inizio di aprile ha aperto il tratto tra Civitavecchia e Tarquinia (19 chilometri) imponendo un nuovo pedaggio.

Due in particolare le scelte su cui la Ue concentra l’attenzione: la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano) e la proroga della A 4 Brescia-Padova incardinata sulla estensione verso nord fino a Trento della Valdastico che ora da Rovigo raggiunge solo Piovene Rocchette. Per la Brebemi (socio di riferimento Banca Intesa) la lettera della commissaria più che una richiesta di chiarimento è il preannuncio di una procedura di infrazione per violazione della concorrenza. Inaugurata a luglio 2014 l’autostrada padana si è rivelata un flop con un’intensità di traffico molto più bassa di quella prevista dal Piano economico e finanziario (Pef) fatto a sostegno della realizzazione dell’opera. Lo scompenso tra attese e realtà è stato così disastroso che dopo un anno il governo ha deciso (luglio 2015) di intervenire con una delibera del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) a favore della società di gestione con una defiscalizzazione del valore di circa 320 milioni di euro sulle tariffe applicate per i pedaggi. L’iniezione di liquidità non è piaciuta all’Europa, propensa a ritenere che quell’intervento sia aiuto di Stato.

Anche la proroga della concessione della A 4 Brescia-Padova sta mettendo sul chi va là l’Europa. Scaduta a giugno di tre anni fa, la concessione della A 4 era stata temporaneamente prorogata senza gara per 2 anni dall’allora ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, sulla base dell’impegno da parte della stessa A 4 di completare la Valdastico verso nord. Intorno a questo tracciato autostradale relativamente breve (90 chilometri) nel frattempo è stato ingaggiato un braccio di ferro durissimo.

La A 4 è controllata da Banca Intesa più Astaldi, molto interessati alla costruzione dei 90 chilometri perché a essi è collegata la possibilità di estendere per altri 10 anni la concessione della stessa A 4 aumentandone il valore proprio nel momento in cui è stata messa in vendita. Gli spagnoli di Abertis da mesi premono per acquistare e ieri Astaldi ha annunciato di aver venduto proprio agli spagnoli la sua quota del 31,85 per cento per 130 milioni di euro. Ma la chiusura formale dell’affare è stata rinviata per la terza volta, in questo caso a fine luglio, subordinandola all’approvazione da parte del Cipe della realizzazione della Valdastico Nord.

Ma c’è un terzo incomodo, la provincia di Trento, azionista di maggioranza della A 22 del Brennero, l’autostrada su cui dovrebbe innestarsi proprio a Trento la Valdastico Nord. La provincia di Trento quei 90 chilometri non li vuole adducendo un motivo ecologico: scaricherebbe troppo traffico sull’Autobrennero in prossimità della città. In realtà le motivazioni vere sono altre: la Valdastico non scaricherebbe traffico sulla A 22, ma glielo toglierebbe a sud per riconsegnarglielo più a nord. E la provincia di Trento non vuole perdere traffico perché i viaggiatori dell’Autobrennero sono oro. Così, dopo aver ottenuto dal governo il prolungamento di 30 anni della concessione per la A 22 (valore 11 miliardi di euro) promettendo il suo assenso per la Valdastico, ora la provincia di Trento fa melina. In Italia nessuno fiata, in Europa vogliono vederci chiaro.

Non funzionalità e servizio ai passeggeri,(che non a caso vengono chiamati clienti) ma ancora una volta, il vero obiettivo è la mercificazione, il consumo e il massimo ricavo. Corriere della Sera, 3 maggio 2016 (c.m.c.)

E' degno di nota l’impegno con cui «Grandi Stazioni» — non so se spinta da una disperato bisogno di risorse per problemi di bilancio, o forse da pura avidità — si dedica da tempo a deturpare il patrimonio architettonico italiano e a contribuire al degrado ambientale del nostro Paese.

«Grandi Stazioni», per chi non lo sapesse, è una società del gruppo Ferrovie dello Stato, la quale gestisce per l’appunto le 14 maggiori stazioni del sistema ferroviario nazionale. O meglio, più che gestirle direi che le munge. Nel senso che da anni il suo unico scopo sembra quello di risistemarne gli interni allo scopo di riempirli all’inverosimile di spazi commerciali da affittare, obbligando poi i viaggiatori a seguire «percorrenze riorganizzate» (così nell’«italiese» del suo sito), al fine di indurli a comprare quante più cose possibili. Anche la scarsità di posti dove sedere e riposarsi obbedisce allo stesso scopo. Non solo. Pur di far soldi, infatti, «Grandi Stazioni» ha piazzato lungo le banchine dei treni anche una miriade di schermi dove si proiettano interrottamente, per il piacere di chi aspetta di partire, video pubblicitari dal sonoro altissimo.

Per avere un’idea del risultato di tutto ciò basta avventurarsi alla stazione Termini di Roma. Un vero inferno. L’intero disegno architettonico originario, niente affatto spregevole, è stato completamente stravolto da una miriade disordinata di chioschi e di box commerciali disseminati dappertutto, che obbligano i passeggeri a dei veri e propri slalom in un pigia pigia assordante per giungere ai treni. In pratica ci si muove come su un autobus nell’ora di punta. A tutte le ore, poi, centinaia di viaggiatori di tutte le età, non trovando un posto decente dove stare, giacciono buttati per terra. In compenso i negozi sono pieni, e «Grandi Stazioni» rimpingua i suoi bilanci.

«La carta vincente di queste ciclovie è il loro appartenere alla rete ciclabile europea. È il sogno verde dei cicloamatori. Adesso ci sono i fondi per 4 itinerari che corrono lungo il Paese». La Repubblica, 24 febbraio 2016 (m.p.r.)

Roma. In bicicletta da Verona a Firenze, da Venezia a Torino, dalle sorgenti del Caposele a Santa Maria di Leuca. E nella capitale un anello solo per i ciclisti, il Grab, Grande raccordo anulare delle bici. Per la prima volta il governo finanzia itinerari ciclabili di lunga percorrenza, vere e proprie “bicistrade” pensate per lanciare il cicloturismo e, soprattutto, per attirare i turisti stranieri, pronti a varcare le Alpi per visitare sì l’Italia in sella, ma in completa sicurezza, proprio come succede da decenni nei loro paesi.

La legge di stabilità stanzia 91 milioni in tre anni per la progettazione e la realizzazione di un sistema nazionale di ciclovie turistiche, con priorità per il tratto della Ciclovia del Sole da Verona a Firenze, per VenTo, sigla immaginifica per individuare il percorso da Venezia a Torino lungo il Po, la Ciclovia dell’Acquedotto pugliese e il Grab, 44 km per collegare Colosseo, Appia Antica, parchi e sistema fluviale della capitale con i quartieri di nuova costruzione. «Non sono molti soldi - riconosce il deputato Paolo Gandolfi, coordinatore dell’intergruppo parlamentare mobilità ciclistica, che ha organizzato il convegno di domani alla Camera “Italia in bici” - ma nella legge quadro sulla ciclabilità ora in commissione è previsto che i finanziamenti alle infrastrutture ciclabili siano rinnovati ogni anno, come si fa per le strade. È un cambio di passo».
Un cambio di passo reso possibile dall’attività di lobby di gruppi e comitati territoriali, dal pressing dei social e dall’impegno di alcune regioni. «Per ottenere la ciclovia lungo l’Acquedotto pugliese si è costituito un coordinamento di 56 associazioni e 20 imprese, per esempio pro loco, aziende alberghiere, tour operator. Tutti hanno capito che questa ciclovia sarà un volano di sviluppo turistico», dice Cosimo Chiffi, giovane economista, portavoce del coordinamento. «Dalle sorgenti del Caposele a Santa Maria di Leuca sono 500 km e tre regioni. Per la prima fase puntiamo ai 250 km da Venosa a Villa Castelli, sfruttando la strada sterrata di servizio all’acquedotto, più una bretella da Bari a Gioia del Colle», spiega Lello Sforza, mobility manager della Regione Puglia.
Il progetto di VenTo è del Politecnico di Milano, 632 km da Venezia a Torino e 47 da Pavia a Milano per un totale di 679 km. «La pista più lunga del sud Europa - dice uno dei progettisti, Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale - Alla fine dei lavori su questa ciclovia non ci saranno tratti promiscui, si potranno muovere soltanto i ciclisti, come succede sulle ciclabili europee. Perché i cicloturisti non esperti richiedono sicurezza e facillità di percorrenza. A servizio della ciclovia ci sarà poi la linea ferroviaria esistente.Tutto questo produrrà almeno 300mila passaggi all’anno». E già la Regione Friuli-Venezia Giulia lavora per prolungare la pista da Venezia a Trieste.
La carta vincente di queste ciclovie è il loro appartenere alla rete ciclabile europea. VenTo, che nel sistema europeo è un pezzo di Eurovelo 8, si incrocia a Pavia con Eurovelo 5, che arriva da Londra e Bruxelles e prosegue per Roma e Brindisi, a Mantova invece incontra Eurovelo 7, che parte da Capo Nord, passa per Berlino, Praga, Lienz e poi entra in Italia a Dobbiaco con la Ciclopista del Sole. «Con 20 milioni completeremo i 400 km del tratto Verona - Firenze » assicura Antonio Dalla Venezia della Fiab, «la scommessa è dare continuità a un itinerario lungo il cuore d’Europa». E per incoraggiare la formula treno più bici la legge di stabilità finanzia anche le velostazioni, parcheggi per bici nelle stazioni ferroviarie con officine e spazi ristoro.

Forse il significato migliore della definizione «le primarie più belle del mondo» per Milano sta nel far emergere le differenze di strategia, le varie idee di città: qualcuna dotata di senso, altre meno. La Repubblica, 27 gennaio 2016, postilla (f.b.)

Non c’è campagna elettorale senza sogni da tradurre in slogan. Servono a dare il segno della propria visione di città, ma anche a creare un dibattito che abbia al centro il nome del candidato di turno. Il libro dei sogni dei candidati alle primarie di Milano del prossimo febbraio potrebbe iniziare così: c’era una volta una città con l’acqua dei Navigli che scorreva ovunque, autobus e tram gratis per tutti, un reddito minimo garantito dal Comune per chi si trova in difficoltà. Sono, rispettivamente, le proposte più importanti di Beppe Sala, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino, il commissario Expo (in scadenza), la vicesindaco e l’assessore al welfare che, con Antonio Iannetta, si sfideranno alle primarie del 6 e 7 febbraio.

Alle proposte più concrete, quelle che si realizzano più o meno in poco tempo e senza grandi rivoluzioni, si aggiungono ormai quelle che hanno anche un forte valore simbolico. E che fanno discutere tanto: quando Balzani, ieri, ha presentato la proposta di rendere gratuiti i mezzi di superficie entro i cinque anni di mandato, tutti — dalla destra alla sinistra — hanno detto la loro. Accusandola di fare boutade elettorali senza coperture, di ipotizzare «finanza creativa con la demagogia tipica della destra» (è la frecciata di Sala), di non pensare all’equità sociale, dando così la possibilità di viaggiare gratis anche a chi non ha problemi a pagare un biglietto. Lei, ieri, ha spiegato: «Non è una promessa, ma un impegno che dovrà diventare una proposta strutturata ». Alla base del progetto c’è l’offerta di linee metropolitane a Milano (quattro, più una in costruzione) e l’idea che il trasporto pubblico sia da ripensare integralmente su area metropolitana. L’assessore alla mobilità Pierfrancesco Maran (che appoggia Sala) ha subito replicato che un’operazione del genere costerebbe almeno 160 milioni di minori introiti e quasi 60 per potenziare bus e tram. Preoccupazioni che Balzani liquida in poche parole: «Il bilancio deve essere un elemento propulsore, non per dire che non si può fare nulla: le risorse si trovano quando ci si dà una forte priorità».

Beppe Sala ha precisato subito che il suo sogno non è una priorità («prima il problema case»), che avrà bisogno di dieci anni e che non ha ancora studiato come trovare i circa 400 milioni che servirebbero per realizzarlo. Ma racconta: «Ho studiato a lungo il tema: non è un ritorno al passato, ma è pensare a una nuova mobilità per Milano, guardando a quella che diventerà. Riaprire tutta la cerchia dei Navigli, lasciando una corsia per mezzi pubblici e di soccorso e per le bici: non è follia». Un reddito di riscatto sociale «per proteggere chi è a rischio emarginazione», il primo in Italia: non sogni ma solide realtà, assicura Pierfrancesco Majorino. Tre interventi: 5mila euro annui per 10mila famiglie, sconti e gratuità per altre 70mila famiglie, 500 euro al mese per un anno per far lavorare altre 2mila persone. Costo del progetto: 55 milioni: 27 sarebbero già nel bilancio, 12 arriverebbero dal governo, mancano all’appello 16 milioni.

postilla

Benissimo fa, per una volta, la stampa a presentare sul medesimo piano le tre «strategie» dei tre principali candidati alle primarie del centrosinistra milanese. Forse un po' meno corretto sarebbe però considerarle davvero in qualche modo analoghe, schierandosi per un «progetto» o per l'altro senza porsi una questione di metodo, ovvero: c'è un'idea di città, dietro questi slogan-strategie esposti in forma necessariamente semplificata (anche troppo) durante la campagna elettorale? A parere di chi scrive una distinzione, almeno una, sta nella differenza tra piano e progetto delle tre opzioni, ovvero nella capacità di diventare contenitore-animatore-propulsore di molto altro, e riassumere in gran parte politiche pubbliche assai pervasive. Della riapertura dei Navigli fatta propria da Sala già si è detto in lungo e in largo sin dai tempi del referendum cittadino, di come il progetto in sé avesse magari obiettivi condivisibili, ma come senza la contestualizzazione di una sinora improbabile strategia metropolitana e coinvolgendo molti soggetti diversi dall'amministrazione comunale, si riducesse a ben poco (il disastro delle Vie d'Acqua Expo dovrebbe quantomeno suonare da campanello d'allarme). La solidarietà nei servizi ai più bisognosi, virtuosissima pratica messa ampiamente in campo dall'assessorato del candidato Majorino, pur del tutto condivisibile nel merito, pur apprezzabilissima nel mettere al primo posto l'obiettivo dell'eguaglianza e della solidarietà, vistosamente poco si presta a fare da contenitore di politiche locali non di settore. Resta l'ultima, l'ipotesi di parziale gratuità dei trasporti pubblici proposta da Balzani, che più è stata irrisa, messa in discussione nei presupposti minimi, contestata immediatamente dagli «specialisti». Ma che pure, anche alla luce di numerosissimi studi internazionali, ha caratteristiche piuttosto simili a quelle che hanno ispirato ad esempio i ricalcoli del Pil: un'idea di «bilancio» dove si fanno entrare negli equilibri nuovi fattori e attori, dove efficienza ed eguaglianza possono non solo convivere, ma alimentarsi l'una con l'altra. Forse anche i trasporti, come tanti altri settori, sono una cosa troppo importante perché li lasciamo ai trasportisti (f.b.)

In pompa magna, con sberleffi da giullare ai gufi di turno, celebrano un altro pezzo di autostrada. Intanto le città sono sotto una cappa di smog. Chi non è ubriaco dei suoi miti dovrebbe comprendere che c'è un nesso.

Potrebbero sembrare due problemi separati a prima vista ma invece c’è nella realtà un legame indiscutibile tra i due avvenimenti. L'inaugurazione della Variante di Valico è certamente un successo per Autostrade e per i tanti governi di destra e di sinistra che l'hanno promossa ed autorizzata. E la sua realizzazione è una sconfitta per noi ambientalisti e verdi, che tanto ci siamo impegnati per contrastarla.

Ma resto convinta che sia stata una buona battaglia perché il futuro non va in quella direzione, perché la riduzione dei gas serra imporrà scelte diverse invece di far crescere il traffico su strada, che la consapevolezza che il consumo di suolo va fermato e che non c’è una crescita infinita, sono temi molto più diffusi di 30 anni fa.

Perche “sbottigliare” il traffico al valico servirà a ben poco se i problemi stanno nei nodi urbani e lungo le tangenziali come accade a Bologna e Firenze,

Se la Variante di Valico avrà successo inevitabilmente aumenterà i flussi di auto e TIR sui due nodi di Bologna e Firenze dove proseguirà la discussione su tangenziali e bretelle di cui è nota la difficoltà ad individuare tracciati accettabili. E’ recente la decisione da parte dei sindaci della città metropolitana di Bologna di dire no al passante autostradale nella pianura bolognese e di tornare a ragionare di ampliamento della tangenziale urbana. Se questa è la prospettiva il traffico su strada aumenterà a ridosso delle città che già soffocano di traffico, dove bastano due mesi senza pioggia per portare le polvere sottili a livelli inaccettabili, con fenomeni che in futuro proprio a causa del caos climatico diventeranno sempre più frequenti.

Senza contare che in sede europea, oltre alla procedura d’infrazione aperta per la violazione dei limiti della qualità dell’aria ed il mancato risanamento, sono allo studio limiti più restrittivi per diversi inquinanti, tra cui le polveri sottili PM 2,5, quelle più insidiose per la salute umana.

Se poi realizzata la Variante di Valico il traffico restasse stabile, questo sarebbe un problema per i conti di Autostrade e per i tanti sostenitori politici, perché sarebbe stata realizzata una grande opera inutile.

Di sicuro la realizzazione dell'alta velocità ferroviaria Milano-Roma ha ridotto la quota modale dell'auto su questa tratta ed aumentato il numero di viaggi di breve distanza anche sull'autostrada, quelli a cui il nuovo valico autostradale e l’alta velocità servono a poco.

Perché sono le percorrenze di breve raggio per gli spostamenti - pendolari e non - intorno alle grandi città il vero nostro problema principale ed i grandi numeri da servire.

Manca il potenziamento dei servizi ferroviari metropolitani ed urbani, che invece è decisamente indietro rispetto a quello che era stato programmato, siamo al 30% di investimenti, di treni e servizi promessi sui nodi urbani.

E poi c’è il problema delle merci, che invece trarrà benefici dalla Variante di Valico, in termini di percorso, di pendenza e di chilometri effettuati. Un incentivo alla crescita del trasporto su gomma, che oggi già assorbe oltre il 60% del traffico merci, mentre gli obiettivi di riduzione dei gas serra richiederebbero il riequilibrio modale, come sembra voler fare anche la legge di stabilità 2016 del Governo appena approvata dal Parlamento, che sostiene con l’ecobonus l’intermodalità verso la ferrovia ed il trasporto marittimo.

Una misura giusta ma che rischia di non produrre i risultati attesi se il traffico su strada viene ancora agevolato con incentivi all’autotrasporto come avviene ancora oggi e da nuove infrastrutture come la Variante di Valico.

Non si intravede ancora un progetto concreto delle Ferrovie dello Stato di potenziamento del servizio merci che sembra non superare il 6% degli spostamenti merci, di sviluppo dell’intermodalità, di logistica integrata, di integrazione con i porti.

Sembrano questi – il trasporto pendolare ed il trasporto merci – gli obiettivi prioritari dei nuovi vertici aziendali di FS nominati di recente: speriamo davvero che questi obiettivi vengano perseguiti con la stessa determinazione che è stata dedicata all’Alta Velocità.

Infine vanno registrati dei mutamenti molto interessanti ed innovativi nel campo della mobilità: la sharing mobility sta cambiando l'atteggiamento verso l'auto, di cui è avviato l’uso condiviso senza la proprietà individuale. E’ un mutamento importante - dal possesso al servizio dell’auto - e vedremo che effetti produrrà sui flussi di traffico e sull’indice di motorizzazione. Nel 2014 come hanno dimostrato i dati c’è stata una ripresa del trasporto pubblico ed è aumentato l’uso della bicicletta.

In futuro il veicolo elettrico ad energia rinnovabile, in condivisione - e magari senza guidatore - sarà un elemento di forte innovazione per muoversi. Cosi come nei sistemi produttivi e della distribuzione delle merci ci sono delle innovazioni che cambieranno gli scenari conosciuti, come l’e-commerce e le stampanti 3D.E la programmazione delle infrastrutture - a partire dalla revisione della lista delle opere della legge obiettivo che prevede oltre 1000 chilometri di nuove autostrade – è un elemento essenziale di innovazione delle politiche dei trasporti verso la sostenibilità.

La battaglia degli ambientalisti e dei verdi contro la variante di valico è stata una battaglia per un diverso sistema di mobilità, un tema che resta come dimostrano i blocchi del traffico nelle principali città, di scottante attualità. Sarebbe bello tornarne a ragionare pubblicamente.

L'affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive».

L’interessante libro curato da Anna Donati e Francesco Petracchini Muoversi in città- Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia, Edizioni Ambiente 2015 - Collana Kyoto Club fa il punto sulle molte eterogenee innovazioni che interessano la mobilità urbana e formano, nell’insieme, un quadro di rapido e profondo cambiamento sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Proprio il fatto di affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo non solo uno strumento di conoscenza, ma uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive. Se ne sentiva francamente la necessità.

“Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia” recita il sottotitolo al volume. Dove il temine “mobilità nuova” fa riferimento a quegli Stati generali della Mobilità Nuova, giunti alle seconda edizione nel 2015, nei quali il confronto tra molti e differenti punti di vista ha portato ad elaborare una serie di principi e di concrete proposte di radicale innovazione. Secondo il Manifesto messo a punto in quella occasione «La Mobilità Nuova è un paradigma di organizzazione e gestione dei flussi di persone che impone il passaggio da un’ottica autocentrica a una umanocentrica». Con una attenzione senza precedenti ai movimenti a piedi, in bicicletta e alle diverse possibilità di trasporto pubblico e con un vero e proprio rovesciamento dei criteri di efficienza. Nella mobilità nuova assumono un peso prioritario obiettivi come la sicurezza, la salute delle persone, la vivibilità delle strade, l’equità sociale e la salvaguardia del territorio.

Questa “atmosfera” di fondo costituisce la chiave interpretativa delle innovazioni e dei casi di buone pratiche di cui il testo è ricco. Una interpretazione che permea in diversa misura tutti gli interventi dove si alternano ragionamenti di fondo sugli andamenti passati, sulle politiche e sulle prospettive dei prossimi decenni con approfondimenti su aspetti specifici, ciascuno affidato ad uno specialista del tema trattato. Gli approfondimenti spaziano sui molti aspetti rilevanti del problema. In primo luogo i temi classici dell’inquinamento dell’aria e delle emissioni di CO2.

La questione della qualità dell’aria, affrontata da un gruppo di ricercatori del CNR, dà conto dei vantaggi davvero rilevantissimi in termini di allungamento delle aspettative di vita e anche in termini monetari che si potrebbero ottenere riducendo il numero di sforamenti del valore limite per il PM10 (medie giornaliere e numero di giorni), che caratterizzano drammaticamente molte città italiane oppure, ancor più efficacemente, riducendo le medie annuali di concentrazione del PM2,5.

Il contributo dei trasporti alle emissioni di CO2, puntualmente documentato da Mario Zambrini, è centralissimo al fine della possibilità stessa di conseguire gli obiettivi comunitari di riduzione al 2020 e poi quelli ancora più ambiziosi al 2030 o al 2050. Nel primo ciclo di riduzione delle emissioni il nostro paese è riuscito per il rotto della cuffia ad aumentare solo del 2% le emissioni del settore rispetto al 1990. Saggiamente l’autore argomenta che il ruolo della crisi economica nel ridurre le attività di trasporto, e dunque le emissioni, è probabilmente stato determinante. Per il futuro si pone dunque la necessità di ben più strutturali trasformazioni in vista della fine della crisi e della necessità di non ri-produrre le insostenibili tendenze del passato.

Tali trasformazioni richiedono strumenti di pianificazione più adatti ai tempi rispetto a quelli oggi in uso. La tradizionale ripartizione in strumenti di breve periodo (PUT-Piano Urbano del Traffico) e strumenti strategici di medio-lungo periodo (PUM-Piano Urbano della Mobilità) tende a perdere rilevanza nel contesto di forte rallentamento della espansione urbana, di drastica riduzione delle risorse disponibili per investimenti infrastrutturali e, al tempo stesso, per la applicazione diffusa di strumenti di governo della domanda come le politiche di pricing, di telecontrollo, di moderazione del traffico.

Tutte politiche che assumono senso solo se inserite in una pianificazione strategica orientata verso la sostenibilità accompagnata da regolari processi di Valutazione degli aspetti ambientali (VAS). Le argomentazioni in proposito avanzate da Alfredo Drufuca appaiono particolarmente interessanti, così come le aperture verso una nuova generazione di Piani dei trasporti: i PUMS (piani Urbani per la Mobilità Sostenibile). Questa nuova generazione di piani, ad oggi proposti a livello comunitario, costituiscono un reale cambiamento di paradigma, che pone al centro delle politiche per la mobilità non il traffico, ma la qualità della vita dei cittadini.

Le altre sezioni del libro trattano con ampiezza temi specificamente modali: la mobilità collettiva, le forme di mobilità condivisa come il car sharing o il car pooling (ma anche il controverso Uber), l’ampia gamma di esperienze e di soluzioni per il muoversi in bicicletta o ancora la distribuzione urbana delle merci. L’automobile è presente nella sua transizione verso tecnologie che rendano il veicolo sostenibile (motorizzazioni e carburanti), ma anche le innovazione normative, finanziarie e organizzative atte a trasformarla da bene individuale a servizio da usare solo dove e quando serve. Il tema dei “trasporti intelligenti” tratta delle applicazioni della telematica alle diverse modalità di trasporto, e offre un interessante spaccato di tecniche, di applicazioni non convenzionali, di modi nuovi di tariffazione e di informazione tra produttori e utenti dei servizi di trasporto

Ciascuno di questi temi è articolato in una “narrazione” particolarmente efficace. Dopo aver messo a fuoco il quadro dei problemi e delle innovazioni per ciascun tema sono esaminate le esperienze effettivamente realizzate da Amministrazioni locali italiane e di altri paesi, le nuove economie e gli interessi imprenditoriali attivati dalle nuove condizioni della mobilità, le associazioni che se ne occupano e il loro ruolo, le innovazioni ancora in fieri.

In coda mi sia concesso di citare la post-fazione da me scritta sul tema di prospettive per la mobilità urbana sostenibile che nascono da politiche “altre”. Il pezzo si intitola Non solo trasporti intendendo che una mobilità urbana sostenibile si ottiene anche cogliendo le opportunità di “risparmiare traffico” che derivano dalle politiche di rigenerazione urbana che vanno diffondendosi a livello europeo,

Sono politiche che hanno profondi effetti sui modi di muoversi ma nascono nell’ambito di strategie come le risposte al cambiamento climatico, oppure la tutela della biodiversità oppure ancora le iniziative per la coesione sociale. Ai fini della mobilità nuova una componente particolarmente interessante di tali politiche è costituita dalla green infrastructure, ovvero dalla formazione della rete continua di spazi aperti permeabili, parchi e giardini (pubblici e privati), alberate raccordati in modo da realizzare un vera e propria nuova infrastruttura urbana. Una nuova rete per regolare il microclima, assorbire CO2, rimpinguare le falde, gestire l’eccesso di acque di pioggia e anche permettere di muoversi senza mezzi motorizzati nella dimensione urbana, con capillarità, piacevolezza e sicurezza.

Il quadro delle idee, delle suggestioni, delle possibilità che derivano dall’insieme delle riflessioni presentate dal testo è sicuramente utile per gli addetti ai lavori, ma al contempo costituisce una notevolissima fonte di ispirazione per quanti tecnici delle amministrazioni locali, progettisti, associazioni, gruppi di interesse, si trovano ad aver a che fare con problemi di mobilità urbana.

Sarebbe bello se qualcuno dei decisori e degli operatori pagasse per i danni compiuti stupidndo e arricchendosi. Ma siamo in quest'Italia del neoliberismo straccione. Il Fatto quotidiano, 14 ottobre 2015

Ci sono nuovi problemi per la Variante di Valico, la grande opera autostradale che dovrà unire Bologna e Firenze affiancando la vecchia Autostrada del sole e che ancora non è conclusa a 11 anni dall’inizio dei cantieri. A Rioveggio sul lato emiliano dell’Appennino, un muro di contenimento posto all’inizio delViadotto Casino in direzione nord (non ancora aperto al traffico) ha iniziato a muoversi alcuni mesi fa e a “ribaltarsi” verso l’esterno. Parliamo di movimenti di pochi centimetri, ma che avrebbero preoccupato Autostrade per l’Italia, la società posseduta al 30 per cento dalla famiglia Benetton, concessionaria per i lavori. Sulla pavimentazione stradale infatti si è aperta una lunga fessura longitudinale oggi transennata e coperta con un telo. Stando a quanto ha potuto fotografare ilfattoquotidiano.it dall’esterno dei cantieri, a causa dei movimenti sull’asfalto si è formato anche un gradino trasversale di diversi centimetri. La società Autostrade, interpellata non ha commentato.

Il pezzo di strada era stato consegnato, con tanto di certificato di ultimazione lavori, nel 2013. A portarlo a termine un’associazione temporanea di imprese di cui faceva parte anche un’azienda del Gruppo Maltauro (l’ex amministratore delegato Enrico Maltauro finì coinvolto nel 2014 nella maxi inchiesta su Expo). Ora, da qualche settimana, sul lato a valle del viadotto si sta quindi costruendo un nuovo enorme muro in cemento armato, ancorato con delle fondazioni profonde, al fine di bloccare il movimento. Il compito sarebbe stato affidato alla cooperativa Cmb di Carpi (che non aveva partecipato alla costruzione di quel tratto di strada).

Nei cantieri sono già arrivati i Carabinieri della Compagnia di Vergato per fare dei rilievi che della questione di quel muro che si è mosso avrebbe informato, come di prassi in questi casi, la stessa Procura della Repubblica di Bologna. I pm bolognesi avevano aperto in passato delle inchieste sulla Variante di valico (quella sulla frana di Ripoli è ancora in corso). Che cosa abbia causato il problema a Rioveggio non è chiaro. Il Viadotto Casino è posizionato a pochi metri del fiume Setta, ai piedi del versante di una montagna: è possibile, ma è solo un’ipotesi, che a farlo muovere sia stato proprio un movimento franoso proveniente da quel versante.

Non è il primo problema della grande opera. A marzo 2015 davanti alla commissione trasporti in SenatoGiovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, aveva rivelato che la grande opera era costata il doppio rispetto al previsto: 7 miliardi di euro invece di 3,5. “I soldi li mettiamo noi”, aveva rassicurato il numero uno di Autostrade, azienda che raccoglie l’85 per cento dei suoi ricavi dai pedaggi che pagano gli automobilisti. “Molti problemi – aveva detto Castellucci riferendosi alla Variante – sono dovuti alla scelta del tracciato, che aveva un livello di rischio geologico, misurato successivamente, superiore a quello ipotizzato dai progettisti”. Il manager aveva però allontanato da sé, e dalla sua lunga gestione, ogni colpa: “La Variante è stata progettata negli anni Novanta, io non c’ero, sicuramente, col senno di poi, oggi la progetteremmo in maniera differente, più in galleria e più profonda”.

Il riferimento del numero uno di Autostrade è ai due casi più eclatanti che hanno rallentato i cantieri della Variante di valico. Sul lato emiliano ci sono stati infatti i guai con due gallerie. La Val di Sambro ha risvegliato una frana sotto il paesino di Ripoli, che ancora continua a muoversi insieme alla vecchia A1, che passa a monte. Pochi chilometri più in là un’altra galleria, la Sparvo, ha dovuto essere letteralmente blindata internamente con degli anelli in acciaio perché un’altra frana aveva iniziato a spaccare la copertura in cemento. Sul lato toscano, una inchiesta giudiziaria per presunti reati ambientali, sfociata poi in un processo, ha bloccato per lungo tempo i lavori. Ma nonostante i problemi c’è chi è fiducioso: “Lavoriamo pancia a terra per aprire al traffico entro metà dicembre”, ha assicurato il sottosegretario ai trasportiRiccardo Nencini in un’intervista al Resto del Carlino.

Un successo inaspettato della ragione nella Commissione ambiente della Camera. Se fossero coerenti adesso dovrebbero abolire lo "Sblocca Italia", 4 ottobre 2015
Finalmenteun autentico passo in avanti per la cancellazione della Legge Obiettivo: laCommissione Ambiente della Camera dei Deputati ha votato un emendamento a primafirma Realacci (presidente della Commissione e storico ambientalista) cheprevede “l’espresso superamento” della legge 443/2001 nell’ambito della LeggeDelega per la completa riscrittura del Codice Appalti.

Nella sedutadi Commissione era presente anche il Ministro Delrio, che in diversi interventiaveva auspicato il superamento di una norma inefficace ed inefficiente e che haespresso parere favorevole all’emendamento.

Da mesi IlParlamento sta discutendo il recepimento di tre direttive europee ( n. 23/14,24/14 e 25/14) in materia di appalti e concessioni e la revisione completa del Codice Appalti del2006. Il testo contiene una Legge Delega che dà la facoltà al Ministro Delrio direcepire le tre Direttive entro il 18aprile 2016 e di riscrivere il codice appalti entro il 31 luglio 2016.

Iltesto è stato già approvato dal Senato e contiene senza dubbio molte cose utili edopportune, come il potenziamento dell’Autorità Anticorruzione, una strettasulle varianti e la centralità del progetto, la riduzione delle stazioniappaltanti, l’incremento dei poteri di vigilanza pubblici sul contraentegenerale, un incremento del sistema di messa a gara delle opere delleconcessionarie. (anche se dal 100% di messa a gara già fissato dal Senato, laCommissione della Camera ha abbassato ad 80%). Cosi come la norma sulleconcessionarie, gare e rischio operativo ancora non va bene, per indurre gare etrasparenza nella gestione.

Ora conl’inserimento alla Commissione Ambiente della Camera del criterio per ilsuperamento della Legge obiettivo, il testo viene migliorato, grazie anche alprezioso lavoro di tessitura e riscrittura della relatrice Raffaella Mariani.

Il testoapprovato è piuttosto articolato e completo: oltre al superamento della Legge obiettivo443/2001 prevede anche l’aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti e dellaLogistica del 2001, la riprogrammazione delle risorse alle opere sulla base deicriteri individuati nel “Documento Pluriennale di pianificazione (DL 228/2011)”nonché l’applicazione delle procedure di valutazione ambientale strategica(VAS) e di Valutazione di impatto ambientale (VIA).

L’ultimaparte del testo prevede “norme transitorie per gli interventi per i quali visiano obbligazioni giuridiche vincolanti” e la ridefinizione della “famosa”struttura tecnica di missione del Ministero.
Come direche la strada per uscire dalla legge Obiettivo non sarà semplice, dato cheormai parliamo di una mostruosa lista di 419 opere per un valore di 383miliardi, di cui decine di opere hannogià il progetto definitivo e spesso anche il soggetto realizzatore(Concessionarie, RFI, Anas, imprese private). Del resto anche la prima selezione adottata dal Governo nell’ambito del DEF per 25 opere prioritarie contienediversi progetti sbagliati come la TAVMilano-Genova e la Torino Lione, le autostrade Pedemontana Lombarda e quellaVeneta.

Proprio perquesto la scelta di cancellare la leggeobiettivo è indispensabile ed opportuna, per tornare a ragionare di politicadei trasporti entro cui collocare la lista delle opere utili, per restituire aiterritori la possibilità di decidere sui progetti, per eliminare definitivamente tante autostradeinutili come la Orte-Mestre o il TibreParma-Verona, per restituire centralità alle opere per la riqualificazione ed iservizi delle città, la vera priorità,per applicare la VAS sulla pianificazione delle infrastrutture.

Certamente aquesto prezioso risultato hanno contribuito in tanti. Le battaglie storiche di associazioni ambientaliste come WWF,Legambiente ed Italia Nostra, i Verdi ed i Comitati sul territorio contro legrandi opere inutili. Ma anche il fatto che la legge non abbia prodottorisultati, abbia agevolato tangenti ed inchieste della magistratura e cheun’autorevole figura come il presidente dell’Autorità Anticorruzione RaffaeleCantone l’abbia definita “criminogena”. Un sostegno è arrivato anche laraccolta di firme estiva del movimento di Civati “Possibile” che tra gli ottoreferendum aveva anche la cancellazione della legge obiettivo, quesito elaborato insieme a Green Italia.

Adesso iltesto della Legge Delega deve superare il parere di altre commissioni e poiandare in Aula per il voto definitivo. Infine tornare al Senato per l’approvazionedefinitiva. E poi passare allariscrittura dei testi dei decreti attuativi.
Come direche se un primo passo importante è stato fatto, la strada da percorrere è lungae carica di insidie. Come ci dimostra il voto recente dell’Aula della Camerapreteso da NCD per riaprire il dossier sul Ponte sullo Stretto di Messina, unadelle opere simbolo della Legge Obiettivo di Berlusconi.

La vigilanzacontinua dunque perché la cancellazione della Legge Obiettivo diventi unasolida realtà.
2 ottobre2015

E difficile per la ragionevolezza e l'interesse dei più prevalere sulla follia e sugli interessi dei potenti. Il mondo sembra appartenere ai matti e ai rapaci. Eppure si resiste. La Città invisibile, 1° ottobre 2015

Il progetto TAV fiorentino è sempre più screditato: due pesantissime inchieste in corso, un processo appena iniziato dove gravissime responsabilità sono confermate, lavori quasi fermi, ma costi che vanno alle stelle, la prospettiva è che i lavori non possano nemmeno riprendere per i problemi normativi irrisolti.

Davanti a questo quadro che dovrebbe indurre ad un dibattito politico sulla scelta di realizzare un sottoattraversamento a Firenze, abbiamo solo un glaciale silenzio. Tutti tacciono: il Comune tace sulla autorizzazione paesaggistica scaduta, materia di sua competenza; la Regione tace sullo sperpero vergognoso di risorse mentre il trasporto locale è in condizioni sempre peggiori; la ex Provincia tace davanti all’impatto sulla falda che sta creando pericoli; né il Ministero dei Trasporti, né quello del Tesoro (che controlla le Ferrovie italiane) guardano il verminaio che si agita dentro le FSI; nessun ente locale o nazionale, che in teoria dovrebbe essere parte lesa in questa vergognosa vicenda, accenna a costituirsi parte civile nel processo avviatosi da poco sulle vicende relative al Passante TAV.

La prospettiva più realistica, se nessuno interviene, è che questa agonia si protragga all’infinito, oppure, ipotesi ancor più infelice, è che si cerchi di accelerare nonostante i problemi non risolti.
Le persone di buon senso ormai sono convinte che quello del Passante TAV è un progetto da abbandonare e la cosa più saggia sarebbe avviare un percorso che accompagni alla morte questa sciagurata vicenda.

Per questi motivi si è costituito un fronte di soggetti che vogliono far sì che questo progetto di sottoattraversamento sia abbandonato e che le stesse risorse vengano dirottate a scopi di forte valenza sociale: la creazione di un sistema di trasporto pubblico su ferro cominciando a riutilizzare e potenziare le linee del nodo ferroviario metropolitano; i principali beneficiari di tutto questo sarebbero soprattutto gli abitanti della Piana fiorentina, dove non esiste alcun sistema di trasporto pubblico coerente.

Oltre allo storico Comitato No Tunnel TAV fanno parte di questo fronte le associazioni ambientaliste Italia Nostra, Legambiente e Rete dei Comitati per la difesa del Territorio, il laboratorio perUnaltracittà e i gruppi politici presenti nei consigli di Comune e Regione Alternativa Libera, Firenze Riparte a Sinistra, Movimento 5 Stelle, Si –Toscana a Sinistra.

Il primo obiettivo di questo gruppo sarà di realizzare interrogazioni alle Giunte mirate a far chiarezza sulla situazione del progetto, chiedere audizioni delle commissioni consiliari dei tecnici e dell’Università che hanno studiato i problemi del Passante e elaborato alternative, promuovere la costituzione di parte civile da parte degli enti locali nel processo TAV che si sta avviando.

Le stesse associazioni del “fronte” stanno valutando l’opportunità di costituirsi a loro volta parte civile nel medesimo processo.

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