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I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato. (segue)

Introduco con una parafrasi dai testi di James Hillman, psicologo biologo filosofo, in Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 1999:
I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato.

È successo con la fase di media durata del whirl-capitalism che ha man mano intensificato la lotta contro la classe operaia e, più estesamente, i lavoratori subalterni schiavizzati; ma anche verso i senza lavoro poveri o miseri destinati a servire i ricchi e i riccastri (non sempre e propriamente capitalisti ma, in ogni modo, esperti nella sottrazione di beni altrui o di risorse comuni). Sicché la massa di popolazione ha raggiunto, magari negandolo, un grado d’infelicità più alto di quello immaginato dal giovane Marx se costretta a vivere nella necessità. L’alienazione e lo sfruttamento generano sofferenza; alleviarla divenne, come la libertà, un imperativo dei comunisti. Le società precapitalistiche conoscevano le norme di un mondo etico delle istituzioni (Sittlichkeit); il capitalismo ha oltrepassato ogni limitazione e ha distrutto tutte le autorità morali. All’interno della lotta di classe il capitale ha travolto come Moloch tutti i sistemi culturali benemeriti già sottostanti all’assetto «immorale» della società: compreso i sistemi dell’architettura e dell’urbanistica. Se oggi qualcuno nell’azione politica e in qualsiasi branca sociale o culturale desse forte rilievo alla dimensione morale, non potrebbe resistere alle ondate d’odio e disprezzo che lo colpirebbero.

Non siamo riusciti (architetti, urbanisti e protagonisti di culture socialiste) a dotarci di un armamento adatto e sufficiente, in definitiva, per vincere la guerra dei settant’anni, seppur abbiamo vinto qualche battaglia. La cinquina di cui sopra è la risultante delle vicende provocate e sovrintese dai direttori capitalistici per raggiungere la più alta e mai vista accumulazione di profitti e di rendite; che, infatti, richiede distruzione del buono-felice di massa e costruzione del tempio dei chierici fedeli. Dappertutto nel mondo le disuguaglianze fra le popolazioni ed entro le popolazioni aumentano, con punte dove la miseria più nera si accompagna alle insegne del potere architettonico e urbanistico del capitalismo mondializzato, sempre come grattacieli deformati ad arte, pure immagini sacre (icone) del Moloch invincibile. La reductio ad unum delle cinque parti della realtà di cui (noi che pensiamo di non appartenere alla chiesa) siamo costretti a riconoscere la durezza e l’impossibilità o l’enorme difficoltà di modificarla, promuove il conto d’oggi e lo confronta con altri conti di altri tempi non ancora contraffatti totalmente dall’immoralità del capitalismo.

Nelle prime prove di libera progettazione e nell’insegnamento ai politecnici di Milano e di Torino (per qualche iniziativa anche all’Istituto universitario di architettura di Venezia), un gruppo di giovani architetti si muoveva lungo le seguenti direttrici: applicare la convinzione, già maturata in ambito filosofico, che le discipline fondamentali potevano rompere i propri recinti e condurre gli studiosi, qualunque fossero le loro basi prioritarie, verso più vasti orizzonti della conoscenza. L’architettura, l’urbanistica, l’arte e la storia sociale avevano bisogno l’una dell’altra. L’urbanistica, poi, doveva acquistare una nuova forza «personale» per oltrepassare la qualifica di tecnica (mediocre) e aprirsi alle scienze umane: non attraverso il contributo di esperti estranei ma per propria capacità di introdurre in se stessa l’essenziale di economia, geografia umana, sociologia … Insomma, doveva costituirsi come sapere integrato per potersi misurare con l’incessante mutamento della realtà. Tuttavia il modello non resistette a lungo se non in ridotte troppo esposte ai nemici, simili a quegli stessi che il fisico e letterato inglese Charles P. Snow accusava di voler consolidare la separazione fra cultura scientifica e cultura umanistica (C.P. Snow, Le due culture, Feltrinelli 1964, Marsilio 2005 - originale 1959, seguito 1963. Vedi L. Meneghetti, La cultura spezzata, in eddyburg 11 febbraio 2006, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006).

La realtà duratura parve configurarsi così: da una parte le rare mosche bianche di un’architettura di buona qualità, spersa nel mare della raccapricciante «architettura», totalmente bruta edilizia aziendalista; dall’altra un pezzo ristretto di urbanistica, «competente», distaccata dal consueto progetto di sfrenato espansionismo edilizio dei territori comunali («rapallizzazione»), ma propensa a pronosticare il futuro delle città e dei territori senza poterne definire la conformazione fisica. Eppure, se con la memoria retrocedessimo nel secolo breve fino al dopoguerra noteremmo il risveglio della vecchia quartieristica pubblica, ordinario incrocio fra urbanistica e architettura. Lasciando da parte il QT8 milanese con il Monte Stella, testimonianza impareggiabile di simbiosi fra piano urbano, progetto architettonico e paesaggio costruito, e ugualmente La Martella di Matera, caso particolare legato all’unicità della condizione abitativa del capoluogo, rievochiamo due quartieri Ina-Casa: a Roma il Tiburtino, a Cesate (Milano) il borgo nuovo progettato e curato fino al dettaglio costruttivo dal gruppo Albini, Gardella, Albricci e BBPR. Entrambi gli insediamenti, appartenenti al primo settennio dell’istituto, furono avviati nel 1949. Del secondo (Cesate) permane un evidente valore storico giacché il progetto urbanistico e diversi progetti architettonici (serie di case con alloggi duplex) rappresenteranno l’Italia nell’esposizione internazionale allestita al CIAM 1953 di Aix en Provence e la realtà del costruito sarà ancora oggi esempio di un’efficace manutenzione.

Il secolo macinava gli anni. Quando dal 1962 si potette applicare la legge 167 per i Piani di edilizia economica e popolare, in alcuni Comuni i progettisti sfruttarono intelligentemente le norme previste e le procedure per ottenere l’approvazione dei piani per quartieri residenziali non limitati a schemi planimetrici atti soltanto a impegnare i terreni, bensì definiti da una specifica organizzazione dello spazio e dai volumi delle case trattati secondo differenti tipologie (come dall’esperienza Ina-Casa e Gescal), prossime alle risoluzioni architettoniche. Intanto i piani di zona potevano diventare il quadro reale dell’attuazione del piano regolatore, quasi un ricupero dei principi della legge del 1942 che legavano la realizzazione del piano generale ai piani particolareggiati esecutivi. Insomma, anche in questi casi l’intervento pubblico poteva favorire l’unità fra conoscenze diverse e completezza della progettazione. La stessa maniera di interpretare la legislazione spremendone il massimo di possibilità attuative ben oltre lo zoning del piano regolatore generale riguardò in qualche comune la rappresentazione avulsa del centro storico in scala a denominatore di cinque volte inferiore, atta a presentare i provvedimenti di tutela o modifica o restauro degli spazi pubblici e dei singoli edifici.

Il Piano di edilizia economica e popolare per il centro storico di Bologna, 1973, raggiunse il punto più alto di unificazione fra le discipline necessarie per la costruzione della parte di città. Si doveva lavorare su aree un tempo edificate ma svuotate dai bombardamenti (di terra e di cielo) o da abbattimenti successivi. La ricostruzione avvenne non secondo la concezione del dov’era com’era ma attraverso un metodo definito «ripristino tipologico»: che rispettava essenziali indicazioni provenienti dalle preesistenze e proponeva soluzioni non estranee alle tipologie storiche insieme a una modernizzazione dell’abitabilità interna e alle forme architettoniche come restauro riconoscibile. L’inserimento dei nuovi manufatti dovuti al ripristino accanto alle case salve fu un successo, irrilevanti le critiche verso certi aspetti «mimetici» nei confronti degli edifici esistenti contigui. Nei comparti urbani bolognesi di San Leonardo, Solferino e San Carlo l’urbanistica, il restauro, l’architettura, la storia, l’habitat cantarono insieme come un coro a cappella l’inno della vittoria sul pensiero negativo riguardo all’unità delle arti e della scienza. Peraltro si era vinta una battaglia, non la guerra delle forze pro unione contro altre viventi e crescenti sulla divisione.

La separatezza fra urbanistica e architettura creava una condizione mai sperimentata nella storia della società e delle opere necessarie alla vita del cittadino e delle comunità. L’isolato urbano proveniva dal disegno dell’organizzazione generale degli spazi, le parti di città o la città intera. La storia mostra che la vita urbana si strutturava secondo un ordine perfetto di strade e piazze bordate da cortine architettoniche di altezza costante e forme quali dettate dalla cultura dell’epoca, differenti e coerenti, oppure simili nell’avvento di una nuova maniera.

In pieno XIX secolo fu il Plan Cerdà per Barcellona, noto da allora anche agli studenti spagnoli delle scuole elementari, a rappresentare la città nuova costituita dalle strade e dagli isolati. Ciò che avrebbe potuto completare il modello reale, i lati (qualcuno lasciato aperto) del quadrilatero saldamente unitari nella costruzione delle case (non uguali) e la corte interna libera, semmai destinata a giardino, non ha retto di fronte all’aggressività della rendita fondiaria. Nondimeno la forza straordinaria dell’insieme urbano ha resistito e funzionò secondo la concezione dell’autore: la vita della città deve riconciliare lo stare (il risiedere) e il muoversi.

Avanzando il secolo verso i due ultimi decenni, si affermerà il primo piano regolatore milanese, dovuto a Cesare Beruto, ingegnere di reparto all’ufficio tecnico del Comune di Milano. Il disegno non nega l’espansione urbana come un gonfiotto uniforme dalla circonvallazione «spagnola» all’esterno, eppure anch’esso costituisce un discreto esempio d’integrazione fra urbanistica e architettura nella parte dove il complesso di isolati e strade, con impianto nettamente ippodamico, sostiene la continuità delle cortine edilizie. Naturalmente, vien da dire, la possibilità di destinare i campi interni a verde invece che lasciarli al mercato edilizio non ebbe l’approvazione del passaggio del tempo (salvo qualche eccezione).

È al principio del XX secolo che il più grande architetto-urbanista della modernità, Hendrich Petrus Berlage raggiunge col progetto per Amsterdam Sud (e la sua realizzazione) il livello più alto di compartecipazione fra urbanistica e architettura. Ho cercato di dimostrarlo nell’articolo, 1917-2017. Centenario del piano di Berlage per Amsterdam Sud… (et al.). I blocchi cooperativi residenziali con le case in cortina unitaria lungo i bordi degli isolati definenti le strade, l’interno a parco frequentato anche dai cittadini residenti altrove, l’architettura della Scuola di Amsterdam incorporata nell’urbanistica secondo il principio basilare del messaggio e dell’attività stessa del maestro: tutto l’insieme organico della parte di città sarà magari, come scriverà Giedion alfiere dei razionalisti, una riforma ancora legata alla tradizione e non una rivoluzione; proprio per questo ci parla oggi della possibilità di ribaltare la sconfitta (ancora in atto) subita dalla cultura dell’unità contro quella della separatezza.

La prima amministrazione di una grande città italiana a ritrarsi dal compito di protagonista (obbligatorio) della pianificazione urbanistica sarà quella di Milano. In eddyburg si è commentato più volte il caso, celebre, dell’espansione gigantesca alla Bicocca sui terreni liberati dagli insediamenti industriali Pirelli, non prevista da un piano generale e senza alcuna motivazione della priorità rispetto alla miriade di domande della società urbana. Un accordo diretto fra sindaco ed ex padrone delle ferriere sancisce il dominio dell’interesse privato sull’utilità pubblica: insieme al paradosso, questa volta, che l’architettura, controllata in approssimativa coerenza al disegno di isolati e strade, riempia l’urbanistica privata, garanzia del miglior modo di produrre rendita.

Esaurite le forze del secolo breve in grado di sostenere il progetto di unità, la divisione divenne il modo normale di condurre le trasformazioni urbane e territoriali. L’architettura era già isolata e in crisi riguardo alla tradizionale o antica capacità di raggiungere in sé il valore di opera d’arte; intanto, l’urbanistica preminente esibiva da una parte il disinteresse per l’architettura, dall’altra i pochi successi (specie in pianificazione strutturale) insieme alla certezza d’essere oltre che indispensabile autosufficiente. Non si accorgeva di aver raggiunto la soglia della controrivoluzione privatistica, d’altronde preparata da due decenni di vergognoso cedimento della pianificazione pubblica alla pratica della negoziazione/contrattazione/accordo di programma…, sempre attenta alle proposte private, anzi nettamente piegata su di esse (l’INU maestro). Questa soglia infine è stata varcata nel secondo decennio del nuovo millennio specialmente per opera di amministratori e urbanisti professionisti proprio nelle regioni e nei comuni in cui, durante il secolo breve, s’era instaurato un modo esemplare di disegnare il piano generale e di progettare-realizzare coerenti insediamenti quantomeno prossimi all’architettura. Ancora una volta Bologna sorprendente, ma al contrario: l’urbanistica d’oggigiorno, con l’amministrazione di fatto neo-liberista, consiste nell’alienare la pianificazione e qualsiasi progetto ai detentori della rendita fondiaria e dell’edificazione senza regole; l’ente pubblico garantisce in anticipo l’approvazione e persino ogni facility per veloci attuazioni.

Milano al principio del XXI secolo apre la porta della città ad architetti vogliosi di intrappolarla in un’espansione, spettacolare per brutalità, costituita da costruzioni in forma di grattacielo. È raggiunto il massimo grado di defezione da qualsiasi presupposto o controllo urbanistici e, come spesso denunciato anche in questo sito, da contesti sociali e urbani riconosciuti nella loro capacità di far confluire diverse materie nel «fare città». La madre di questa nascita è la dubbiosa vicenda del concorso per Ground Zero, dominata da stolti esibizionismi personali, tutti sotto la bandiera del Guinness dei primati e tutti mancanti di moderatezza espressiva. Ce lo aspettavamo, ha vinto il grattacielo più alto, di Daniel Libeskind, che a Milano contribuirà alla costruzione di City Life – cosiddetta – nel luogo dell’ex Fiera Campionaria, dispensando insieme agli altri due progettisti, Arata Isozaki e Zaha Hadid, insensatezza e tristezza urbana.

Ad ogni modo, nei non-luoghi dove edifici di ogni genere non c’entrano con la costituzione di un habitat umano, alla superficiale veste del grattacielo non importa se ci sia o cosa sia l’interiore. Piccoli oggetti, soprammobili posati qui e là sui tavoli o altri arredi casalinghi, per esempio di legno pieno, modellini di 10-20 cm di altezza: potremmo moltiplicarli quante volte ci piaccia, otterremmo «architettura»?

A Milano esiste un centro privato per presentazioni e discussioni pubbliche intorno all’architettura, all’urbanistica, alla politica… et al. È l’atelier dell’architetto Emilio Battisti, già professore ordinario di composizione al Politecnico. Gli incontri sono ben organizzati, la partecipazione è sempre numerosa e comprende personaggi noti della cultura milanese, talvolta un componente dell’amministrazione comunale. Tutto il dibattito è registrato, quindi diffuso con larghezza. In generale il soggetto è un singolo edificio nuovo giudicato «interessante» dall’ospite, mancano soggetti di architettura urbana complessa (pezzi di città) poiché non ne esistono di attuali anch’essi «interessanti». Quasi sempre ci si può rivolgere all’autore presente.

Dall’esame delle Residenze Carlo Erba, prossime alla zona di Città Studi, sostituzione totale dell’onesta edilizia residenziale e di un corpo della Rinascente (con obbligo – stupido – richiesto dalla sovrintendenza di conservarne una facciata), è derivata una discussione (sera del 7 maggio 2019) il cui termine è caduto come il parmigiano grattugiato sul risotto milanese, ossia sulla nostra difesa e riconquista della città fatta di isolati e strade, case in cortina coordinate lungo i lati e spazi interni a giardino (si è visto, soprattutto in Berlage nostra guida). Il progetto è dell’architetto newyorkese Peter Eisenman (assente), collaboratore Lorenzo degli Esposti (presente). Il lotto in causa, privo della chiarezza di figure geometriche elementari, presenta il massimo sfruttamento mediante una forma della pianta come un grasso biscione che s’insinua dappertutto lungo l’irregolarità del terreno.

Riassumiamo dalla registrazione. La Commissione del paesaggio aveva imposto di raccordare il corpo dell’edificio con il filo stradale, invece la costruzione si stacca dai confini del lotto contrassegnati da una massiccia inferriata. Secondo Battisti, gli interventi architettonici che sostituiscono i vecchi isolati con edifici perimetrali non solo nascono arretrati dalla strada ma sono inavvicinabili. Così è compromessa seriamente la tradizionale spazialità urbana di Milano «fatta di strade e piazze delimitate da edifici che si possono materialmente toccare». Dovrebbe competere alla normativa urbanistica e edilizia prescrivere l’allineamento delle facciate degli edifici lungo i limiti dell’isolato. Sorprendente l’intervento di Jacques Herzog: «Milano è una città con un’impronta urbanistica molto specifica: l’isolato che definisce i corsi, le vie , le piazze. Ogni edificio è parte di questo principio urbano e determina il proprio ruolo all’interno di questo schema. È il concetto urbanistico quasi ostinato dell’isolato che fa la bellezza e l’unicità di Milano. Perché dovremmo cambiarlo?». Disgraziatamente il Comune e altri potentati pubblici e privati l’hanno già cambiato in molti casi, o stanno cambiandolo. Difenderlo dove persista e rilanciarlo ovunque altre «Nuove Milano» si apprestino a negare la tradizione è un dovere di architetti, urbanisti, storici, sociologi, artisti: alleati contro il disfacimento liberista.

Il giorno dopo il dibattito, una lettera a Degli Esposti dello studio De Agostini Architetti svela la realtà di una speculazione fondiaria e edilizia enorme, nascosta dietro la presunta eccellenza architettonica e la consuetudine odierna di impiegare il parametro mq/mq per misurare e giudicare la volumetria. 3 mq/mq, difatti, corrispondono, notano i De Agostini, a dieci volte l’indice del piano. Traducendo la verifica, come si faceva in altri tempi, utilizzando la cubatura, risulta una densità di 90-100.000 mc/ha, un’entità incredibile mai richiesta nemmeno dai peggiori liberi speculatori degli anni Sessanta, fermi alla pretesa massima di 60.000 mc/ha.

Continua senza pudore a Milano la farsa della consultazione dei cittadini sui ‘grandi progetti’ di rigenerazione urbana. (segue)

Continua senza pudore a Milano la farsa della consultazione dei cittadini sui ‘grandi progetti’ di rigenerazione urbana. L’8 maggio sul sito del Comune informaMi si annunciano le prossime consultazioni: si tratta di incontri di riflessione sui master plan di due degli scali ferroviari dismessi, vincitori del concorso indetto dai privati (FS Sistemi Urbani a cui si è aggiunto Coima SGR di cui è presidente il ben noto Manfredi Catella) grazie al verdetto di una giuria presieduta da Dominique Perrault, nell’ambito dell’Accordo di Programma con il Comune di Milano (gli scali Farini e San Cristoforo). Obiettivo dichiarato: “far conoscere il progetto e ascoltare i cittadini per rendere la proposta finale di rigenerazione delle aree il più condivisa e partecipata possibile”.
Il calendario è fitto, ma ridicolo e irritante: in rapida sequenza un incontro della durata di un’ora ciascuno con i progettisti vincitori (il 9 maggio), seguito da un incontro pubblico nel tardo pomeriggio dedicato a San Cristoforo il 10 maggio e allo Scalo Farini il 14 maggio; segue un altro incontro pubblico con i progettisti (un’ora ciascuno) e, infine, una giornata conclusiva di consultazione pubblica dalle 9 alle 13 nel Salone d’onore della Triennale (rispettivamente il 23 e 24 maggio)! NB: Per prendere la parola nelle due giornate conclusive è comunque necessario scrivere in anticipo alla FS Sistemi Urbani; non sia mai che l’evento pubblico venga disturbato da qualche testa calda o cittadino perplesso…anche se si tratta di un operatore il cui statuto proprietario è incerto (le Ferrovie dello Stato) e anche se la partecipazione civica è ben altra cosa e dovrebbe potersi esprimere liberamente e con i tempi necessari!

Che la Giunta Sala abbia molto più a cuore gli accordi con i grandi proprietari di aree e con la finanza immobiliare che l’ascolto dei cittadini è ben noto; che le buone pratiche di coinvolgimento civico non facciano parte della tradizione del nostro paese è altrettanto tristemente noto. Ma in questo caso si sta sfiorando il grottesco: per tempi, modi, assoluta passività dell’amministrazione nella privatizzazione delle più rilevanti, e ultime, risorse territoriali disponibili nella città.

Due articoli pubblicati su arcipelagomilano.org fanno il punto della situazione: un editoriale lucidamente polemico del suo direttore proprio nel merito della partecipazione in salsa milanese e dal divertente sottotitolo “meno gente c’è, più si va via spicci”; e "Città Studi. Una questione ormai sotto traccia", un aggiornamento sul silenzio assordante dell’amministrazione nei confronti delle lettere e delle richieste di ascolto in merito al progetto di deportazione delle Facoltà Scientifiche dell’Università Statale da Città Studi all’area ex Expo da parte di una cittadina in prima linea nel comitato Che ne sarà di Città Studi.

L’insostenibile leggerezza del ruolo dei cittadini nei grandi affari urbanistico/edilizi milanesi è confermata una volta di più, anche se oggi è arrivata la notizia che la Procura Generale ha chiesto la condanna del Sindaco Sala per la vicenda della Piastra EXPO.

Giovedì 28 febbraio, ore 18.00, a Milano presso l’auditorium Stefano Cerri di via Valvassori Peroni si tiene un importante incontro pubblico per discutere dell’inaccettabile progetto di svuotamento di Città Studi: con Salvatore Settis, Paolo Berdini e Serena Vicari Haddock. (m.c.g.) Qui il link all'evento

arcipelagomilano.org, 14 gennaio 2019.
La Storia si ripete puntualmente, la Storia non insegna. (m.c.g.)

Quando al principio del nuovo secolo gli studiosi attenti ai cambiamenti delle relazioni fra l’urbanistica, l’economia e i proprietari fondiari ammonirono che la disciplina era entrata a pieno titolo nel libero mercato come qualsiasi altra merce, dovevano sapere che essa nel secolo breve apparteneva già in qualche modo al mercato. Anzi, in un processo alla rovescia era il mercato a essersi introdotto nell’urbanistica poiché lì c’erano territorio (terreni), piano (progetti), regole (eccezioni)… Con altre parole: la nuova condizione proveniva da lontano. Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta amministratori pubblici e urbanisti, spregiudicati gli uni e gli altri, ritenevano ordinaria utilità proporre a imprenditori e a proprietari di aree destinate a verde pubblico dal piano regolatore la cessione di metà della superficie vincolata, concedendogli sull’altra una cubatura da calcolare, da contrattare, magari fino al limite massimo implicante l’intera area secondo l’indice di edificazione previsto per la zona. Sicché la densità di costruzione sarebbe risultata doppia nella parte neo-edificabile privilegiata, per di più beneficata dalla presenza del confinante verde pubblico. Secondo loro non esisteva altra possibilità di realizzare giardini comunali, ancorché dimezzati rispetto alle previsioni.

Era una negoziazione sui generis, fra persone appartate ignote alla vita della città; originale vocazione proveniente da germi corruttivi già presenti allora nei partiti. Ad ogni modo non era caso di mercato «libero»; mancava la concorrenza stante la preesistenza della proprietà immobile o, nel caso dell’imprenditore, il legame con la proprietà e talora la collusiva alleanza precostituita con l’amministrazione pubblica. Tuttavia, quando questa vecchia maniera di mercanteggiare si allargava ai diversi quadranti della città poteva nascere un vero commercio urbano contraddistinto da una specifica situazione topografica e fondiaria, una specie di gara (quasi-concorrenza) delle proprietà vincolate e relative imprenditorie: per ottenere la priorità del contratto fra cessione del fondo e «diritto di cubatura», se così si può dire. Quale tramestio, inoltre, poteva nascondersi fra le quinte di tale rappresentazione con attori privati e pubblici?
In seguito il mercantilismo, se non il mercato come lo si intende oggi (anche in modo capzioso), ha dominato il territorio e il relativo pensiero comprendente derivati economici, urbanistici, edilizi (come nei famigerati titoli finanziari) gravidi di squassanti conseguenze sui rapporti sociali. La vittoria degli immobiliaristi e della rendita non fu messa in discussione neppure da un certa ripresa del profitto (anni dopo la sconfitta causata dal contratto all’Alfa Romeo del 1963), né da qualche infortunio nella speculazione finanziaria del minus habens fra quelli.
Mercato concorrenziale o monopolistico o oligopolistico, oppure offerto ai mercanti dalla stessa autorità pubblica, la compravendita si estendeva all’intero suolo nazionale. Si impiega (o si dovrebbe impiegare) il termine «libero», nel significato di aperto confronto fra domanda e offerta, di chiara trattativa in ogni specie di possibile scambio, materiali o prestazioni, corpi o anime quando niente di esterno la ostacoli o nessuna autority ne detti qualche regola a difesa di eventuali compratori deboli. Era dunque un’altra cosa il mercato del e nel territorio di allora? Un mercato bloccato? Non lo era, bloccato, se ha potuto esprimersi attraverso la gigantesca ampiezza che conosciamo; tanto, appunto, da costituire quasi in ogni anno dal dopoguerra la fetta maggiore o comunque troppo grossa della torta degli investimenti totali.

Qualche impedimento alla privatizzazione liberista e conseguente sottrazione della terra nazionale alla società dei cittadini esisteva al tempo (quasi preistoria) di un relativo funzionamento anti-speculativo dei demani (terreni e costruzioni civili). Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, quasi per naturale contraddizione rispetto ai comportamenti disonesti, fu approvato qualche Piano regolatore contenente aree di riserva demaniale, cioè intoccabili. Poi un precipizio si è aperto in questa resistita crosta; amministratori e politici intossicati dal bacillo liberista vi gettarono i beni patrimoniali della collettività insieme al proprio doppio dovere: di osservatori critici del mercato privato urbanistico-edilizio e di promotori e attori del progetto pubblico. Del resto negli anni Trenta le amministrazioni milanesi avevano ceduto buona parte del ricco demanio fondiario a gerarchi fascisti, a imprenditori amici, a finanzieri speculatori.
Dunque oggi niente di nuovo sul fronte nazionale dopo il Novecento e l’avvento del secondo millennio? Eh, purtroppo una novità spaventevole. Il neo-liberismo non vige soltanto nella realtà del territorio e nella gestione urbanistica di molti comuni e regioni. Il mercato «libero liberista libertario» del territorio e della stessa pianificazione (come, da prima, processo edilizio e progettazione architettonica) è diventato pensiero duro e forte fissato come una spessa piastra di titanio nel cervello dei politici e degli amministratori pubblici, mentre si conformava come profondo basamento e impenetrabile diaframma delle postazioni tenute dai rappresentanti della sinistra e degli urbanisti a loro collegati (succubi o maestri …). La negoziazione, vantata per prima dalla proposta del ciellino milanese Maurizio Lupi, assessore nella giunta del sindaco Gabriele Albertini (1997-2006), rilanciata inopinatamente dall’Istituto nazionale di urbanistica, non avrà bisogno di appartenere a un nuova legge approvata dal parlamento. Una pragmatica abitudine di enti pubblici e società private a contrattare fuor di ogni legittimazione democratica si consoliderà attraverso una miriade di episodi susseguitisi sempre più velocemente e costituirà essa la riforma legislativa dell’urbanistica.
A partire dalla vecchia madre di tutti gli accordi, la grande espansione di Milano sui terreni della Bicocca (chi avrebbe potuto immaginarla prima?) concessa da un sindaco a un «padrone delle ferriere» deciso a passare dal dovere capitalistico del profitto alla pacchia possessoria della rendita fondiaria, l’applicazione della nuova urbanistica privata intaccherà man mano ben più malamente città e territori. E cagionerà la trasformazione culturale anche dell’ultima classe resistente di intellettuali, in senso opposto ai bisogni e diritti della maggioranza dei cittadini, vale a dire della società tout court: termine sentimentale proveniente dall’analisi sociale dei maestri del socialismo. Un punto d’arrivo tanto più sorprendente del punto di partenza sarà impiantato a Bologna, la città leggendaria per i risultati ammirevoli raggiunti al suo tempo nella pianificazione pubblica, con realizzazioni esemplari anche a scala di piano particolareggiato.
Ah! Il famoso modello bolognese. Gli amministratori pubblici lo hanno capovolto in armonia con un’esagerazione masochistica dichiarata: la pianificazione e tutti i progetti siano alienati ai padroni della rendita fondiaria e della produzione edilizia, l’ente pubblico anticiperà l’approvazione e il supporto, magari oneroso. Così siamo pervenuti a un intreccio culturale ultraliberista, letteralmente reazionario. Parafrasando Marx: assistiamo a nuovi trionfi dei signori della terra, del capitale, della spada sui cittadini (vedi M. Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica, Einaudi 2018, p.122, IV capoverso).

Intanto a Milano l’ultima narrazione costituita dal negoziato con FS per il riutilizzo dei sette scali ferroviari liberati dalla vecchia funzione è sfociata in un lungo silenzio. Cosa ne sappiamo ora? Dopo le discussioni pressapochiste, le commesse progettuali inutili giacché illegali, il rifiuto dei concorsi, restano gli scartafacci del più importante problema urbanistico della metropoli nell’ufficio dell’assessore polivalente Maran. Tuttavia ci ha pensato il sindaco, invece di far ordine nelle carte e ritornare al confronto con FS da una posizione meglio costruita, forte, atta a rappresentare davvero il bene della popolazione e dei frequentatori, a rivolgere un invito stravagante alla controparte circa la destinazione del milione e 300 mila metri quadrati in causa. Mi sembra che pochi l’abbiano saputo, a me invece è capitato di ascoltare l’intervista ritrasmessa da Radio Popolare il 12 dicembre. Premessa di Sala: «Noi non facciamo case popolari». Seguito: «Le Ferrovie facciano quello che vogliono. Basta che il trenta per cento sia riservato a edilizia convenzionata» (sottolineatura mia). Così la richiesta, data l’identità sostanziale della convenzionata con l’edilizia corrente, non è altro che consentimento alla cementificazione dell’intera superficie.

arcipelagomilano.org, 17 aprile 2018. Un caloroso invito a partecipare al grande corteo sonoro organizzato per difendere Città studi, un'area vitale per la città che vorrebbero distruggere mediante la "rigenerazione urbana". Le ragioni dei cittadini di Augusta per una vicenda connessa

Rispondo all’appello di Luca Beltrami Gadola a difesa della città di Milanocontro scelte politiche inadeguate, e chiedo ai lettori di Arcipelago dimettersi insieme e unirsi al corteo sonoro che giovedì 19 aprile partirà dapiazza Leonardo da Vinci per dire NO al trasferimento delle facoltàscientifiche a Rho Expo e SI’ al loro sviluppo nella storica sede di CittàStudi. Con vari strumenti musicali faremo sentire nuovamente la nostra vocedopo il grande successo della fiaccolatadel 7 novembre scorso che ha visto oltre 1000 persone scendere instrada a difesa di un pezzo di città.
Perché?
Come esposto più volte in vari articoli apparsi su questa rivista:

1.Città Studi è un quartiere universitario che funziona, è integrato neltessuto urbano, è vivace e accogliente, unisce saperi diffusi e sperimentacoesione nella città. Tutte le università, là dove possibile, si espandonopartendo dal loro nucleo centrale e a Città Studi lo spazio c’è. Costerebbeanche di meno. Ma del famoso studio comparativo, tra quanto costerebberilanciare Città Studi e quanto andare a Expo, non c’è traccia. Studiocomparativo tanto richiesto dai cittadini, durante i vari momenti di cosiddettapartecipazione, che servirebbe a capire con quali criteri si facciano certe sceltepolitiche con i soldi pubblici.

2. L’Università Statale verrebbe penalizzata con quasi 100 mila mq in meno.Sì, certo, a Expo si razionalizzerebbero gli spazi, come sostengono i fautoridel trasferimento, ma andate a chiedere ai matematici e agli informatici cosapensano di questa tanto decantata razionalizzazione che in pratica non sarà chel’allocazione dentro anonimi edifici di tutte le aule per lezioni della Facoltàdi Scienze, da utilizzare a rotazione per i vari corsi di laurea.
Ricordiamo che a causa di questi limiti di spazio, la maggior parte delpatrimonio librario delle attuali biblioteche di Matematica, Fisica, ecc. nonpotrà confluire nell’unica Biblioteca prevista in area Expo e questi tesorifiniranno dimenticati in un magazzino inaccessibile a Sesto. Inoltre non cisarebbe alcuna possibilità di futura espansione del nuovo campus, visto che illuogo è notoriamente chiuso fra tangenziali e autostrada.

3. Un intero quartiere subirebbe un graveespianto: si trasferiscono servizi pubblici come l’UniversitàStatale e due Istituti ospedalieri, Besta e Tumori, in cambio di vaghe promessee progetti per i quali non è stanziato neppure un euro.

Unica eccezione il barcone naufragato nel Canale di Sicilia il 18 aprile2015 – evento in cui morirono 700 migranti- che dovrebbe arrivare la prossimaestate nel cortile di Veterinaria, in via Celoria. Per il suo trasferimento daAugusta sono stati stanziati 600 mila euro nell’ultima legge di bilancio. Unemendamento voluto dall’onorevole Quartapelle, con l’intenzione di creare unMuseo dei diritti umani, caldeggiato dalla professoressa Cristina Cattaneo delDipartimento di Medicina Legale che ha coordinato l’umanissimo lavoro diidentificazione dei cadaveri delle vittime.

Senza nulla togliere a questo lodevole progetto, resta da chiedersi se nonabbia invece ragione il “Comitato 18 Aprile” di Augusta, sorto nel 2016, di cuifanno parte vari cittadini partecipi e attivi sul fronte della migrazione,oltre che la Cgil e Legambiente, e sostenuto da parroci e dalla sindaca CettinaDi Pietro. In un comunicato stampa del 18 dicembre 2017 sostiene che queisoldi avrebbero potuto essere utilizzati per salvare vite umane e, soprattutto,ribadisce che il “Giardino della memoria” gli abitanti di Augusta lo vorrebberogiustamente a casa loro, visto che è proprio la comunità siciliana che si è distintanella solidarietà nei confronti dei migranti. I giovani democratici siciliani hanno già espresso la loro contrarietà a tale progetto.

Claudio Fava, consigliere regionale di Centopassi ha presentato a febbraio2018 un’interrogazioneal presidente della Regione, Nello Musumeci, e all’assessoreregionale alla Cultura, Vittorio Sgarbi, per chiedere di intervenire colgoverno nazionale al fine di evitare l’ennesimo scippo ad Augusta e l’ultimadepredazione del patrimonio museale dell’isola.”. Viene da chiedersi per qualimotivi Milano voglia arrogarsi tale diritto sul relitto/simbolo. Secondo leparole del consigliere comunale di Augusta Giancarlo Triberio: “a Milanorisulterebbe del tutto decontestualizzato sia sotto il profilo geografico,perché totalmente estraneo al luogo del naufragio, sia sotto il profilostorico, perché è questa città e questa regione a subire il maggiore impattodell’immigrazione dal mare.”
Ancora una volta si ignora la proposta e la voce di una collettività dipersone, in questo caso sensibili e impegnate sul fronte dell’accoglienza.

4. L’intera città sarebbe impoverita, preda di una politica urbanisticaassoggettata a interessi privati. In tutta questa vicenda assisto oramai datempo a operazioni dove gli interessi privati prevalgono sul bene pubblico,dove le sane e spontanee reazioni dei cittadini vengono distorte e si vuol farpassare una critica costruttiva come una visione miope e conservatrice. Osservoun’amministrazione pubblica che sta progressivamente trasferendo all’areaprivata alcune delle proprie competenze fondamentali. Un’amministrazione che èsotto il controllo del mondo dell’impresa, dell’economia e della finanza.Scelte politiche su come assegnare risorse, stanziare fondi, distribuirebenefici, localizzare investimenti e altri tipi di decisioni vengono dirottativerso direzioni altre, che noncoincidono con il bene della collettività. Scelta di strumentifinanziari come il project financing che relegano ilsoggetto pubblico ad una marginalità decisionale e ad una sudditanza operativasempre più marcata a vantaggio di grandi operatori privati”.

Un’amministrazione pubblica depauperata della sua coscienza sociale chevorrebbe cittadini con una coscienza partecipativa allineata e mai critica.Nella pratica una riduzione di libertà. Perché ogni cm quadrato di territoriodella città mal gestito, gestito senza una visione unitaria e armonica ogestito solo nell’interesse di pochi è un cm quadrato di libertà in meno perciascun cittadino. Sia che si tratti di un cittadino del centro storico o diuna periferia. Senza alcuna distinzione.
Nonostante l’abilità comunicativa nel creare un consenso diffuso erassicurante costruito su una serie di promesse e illusioni.

5. Sarà la nostra risposta alle carichedella polizia del 6 marzo. E se anche dovessimo essere solo in 10 alcorteo del 19 aprile, quei 10 non saranno mai dei perdenti, perché i perdentirimarranno coloro che hanno voluto blindare, chiamando poliziotti e carabinieriin assetto antisommossa, la via S. Antonio dove il Senato accademicodeliberava. Un corpo accademico che teme i propri studenti con le mani alzate.Studenti che chiedono di partecipare e far sentire la loro voce su una sceltastorica di tale portata. Zittiti, manganellati. La forza contro la parola. Unabrutta scena alla quale non avrei mai voluto dover assistere.
Per tutti questi motivi è davvero arrivato il tempo di unirci, di tornare albene comune della città, di riappropriarci anche della solidarietà e dellareciproca partecipazione tra i tanti comitati milanesi che difendono unavisione etica e unitaria della città, che si oppongono a scelte improvvisateper sanare precedenti operazioni fallimentari che hanno arricchito solo pochi eimpoverito la città. Comitati di cittadini che difendono il verde contro lacementificazione, il pubblico contro il privato.

Raccogliamo l’appello del Direttore di Arcipelago, e mettiamo in atto leparole con cui si chiude un articolo su Città Studi apparso suOfftopic:
«Si sta giocando in questi mesi una partita che città e istituzionivorrebbero chiusa. Noi diciamo invece che la partita è ancora aperta, e che lacittà può essere convocata. Perché c’è già in atto un processo collettivo,disperso nei quartieri, di difesa dei beni comuni. Un percorso che riguardastudenti, collettivi, comitati, cittadini, abitanti di diverse parti dellacittà, lavoratori».
Immaginiamo la forza che avrebbe questa cosa. La forza di una rivoluzione.

Cominciamolaquesta rivoluzione pacifica. Partiamo dal corteo del 19 aprile!

il Fatto quotidiano, 4 aprile 2018. Il drammatico elenco della gigantesca indigestione di cemento, vetro, acciaio, asfalto e pattume vario che sta ingozzando, usque ad mortem, una città una volta non priva di futuro e bellezza

Milano è cambiata (in meglio) negli ultimi anni. Ma promette di cambiare ancor di più nel prossimo decennio (in peggio?). Sono in cantiere in questi mesi progetti che coinvolgono oltre 3 milioni di metri quadrati: spazi immensi, che possono trasformare la città. Area Expo (1,1 milioni di metri quadrati). Scali ferroviari (1,2 milioni di metri quadrati), Bovisa Gasometro (850 mila metri quadrati), Aree Falk e Città della Salute (1,4 milioni di metri quadrati). Quest’ultima è a Sesto San Giovanni, ma ormai non c’è soluzione di continuità tra Milano e i Comuni che la circondano. Se poi ci aggiungiamo le trasformazioni in corso o progettate a Città Studi, a Citylife, a Fiera Milano City, alla Piazza d’Armi e nell’infinito cantiere di Milano Santa Giulia a Rogoredo, il cambiamento diventa ancor più radicale.

È possibile valutare i grandi progetti uno per uno, soppesando annunci e realtà, promesse palesi e interessi sotterranei. Ma poi si può fare un esercizio ulteriore: guardarli tutti insieme, quei progetti, confrontarli e sovrapporli, scoprendo duplicazioni, conflitti, imposture. Il quadro che ne esce mostra che a Milano si sta progettando il futuro con tanto cemento ma senza alcuna visione strategica globale, più attenti agli interessi privati che al bene comune dei cittadini. Si sta anche preparando una nuova bolla immobiliare?

Area Expo. L’operazione “Mind” è il più grosso affare in corso a Milano: 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno 40 mila utenti, per un progetto da 2 miliardi di euro. Sarà soprattutto terziario (200 mila mq), con l’arrivo, per ora solo ipotizzato, di grandi aziende come Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Celgene, Ibm. Poca residenza (63 mila mq) di cui 9 mila senior living, cioè residenze di altissimo livello, e 30 mila di social housing, ossia case a prezzo calmierato. In più, altri 54 mila mq di residenze per studenti. Completano il progetto 16 mila mq di spazi commerciali, ma senza grande distribuzione, e 7 mila mq di hotel. Tutto gestito dai privati di Lend Lease insieme alla società pubblica proprietaria delle aree, Arexpo.

Investimenti previsti: 2 miliardi pubblici e 2 privati. Per sviluppare il progetto e “valorizzare” almeno 250 mila mq, Lend Lease verserà ad Arexpo 671 milioni di euro, in cambio di una concessione che durerà 99 anni. Altri 230 mila mq saranno “valorizzati” direttamente da Arexpo, che conta di ricavarci 130 milioni, o vendendoli a Lend Lease o direttamente a privati. Oltre a tutto ciò, sull’area sorgerà anche un ospedale, l’ortopedico Galeazzi, che pagherà ad Arexpo 25 milioni per i 50 mila mq ottenuti.

Ma ciò che renderà davvero possibile l’operazione “Mind”, facendo da calamita per le aziende hi tech e big pharma, sarà il trasferimento sull’area Expo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale (150 mila mq, costo ipotizzato 380 milioni), oltre al più piccolo centro di ricerca Human Technopole su genoma e big data, che ha già occupato Palazzo Italia e si amplierà ad alcuni edifici a ovest dell’Albero della Vita.

Secondo il progetto Lend Lease, 460 mila metri quadrati dell’area saranno occupati da un parco. Ma per raggiungere questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno, l’arena, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in viali pedonali alberati (rispettivamente di 60 e 35 mila mq), su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto. Chi non ha la memoria labile ricorda inoltre che i cittadini milanesi nel 2011 hanno votato “Sì” a un referendum consultivo che impegnava a lasciare a parco tutta l’area.

Scali ferroviari.Sette grandi aree delle Ferrovie dello Stato (scali Farini, Romana, Porta Genova, Lambrate, Greco Breda, Rogoredo, San Cristoforo), per oltre 1 milione di metri quadrati, saranno riprogettate. È stato fatto un accordo con il fondo anglosassone Olimpia investment fund: sorgeranno nuovi edifici per 674 mila metri quadrati. Meno di un terzo dovrebbe essere edilizia convenzionata, per il resto speculazione immobiliare: residenze, uffici, aree commerciali.

La giunta di Giuseppe Sala presenta il progetto come una grande occasione per rinnovare la città. Ma nelle due aree più grandi e preziose, lo Scalo Farini e lo Scalo Romana, l’indice edificatorio è altissimo, più dello 0,8: vuol dire quasi 1 metro quadrato di superficie lorda di pavimento (slp, in pratica la somma delle superfici dei piani costruiti) per ogni metro quadrato di area. Un diluvio di cemento, che potrà portare almeno 500 milioni di euro nelle casse delle Ferrovie.

Questi terreni sono stati pagati dalla collettività e dati in passato alle Fs per il trasporto pubblico, ma oggi le Ferrovie li usano per fare cassa, come fossero un immobiliarista privato. Il Comune di Milano ha lasciato loro mano libera e concesso un accordo di programma, trattandole alla stregua di un investitore estero. Le istanze di cittadini e comitati, che chiedevano di destinare le aree soprattutto a verde, non sono state prese in considerazione. Contro il progetto sono stati presentati ricorsi al Tar, alla Corte dei conti, alla Presidenza della Repubblica, all’Autorità sulla concorrenza. Si denuncia la mancata pubblicazione di una variante al Pgt (Piano di governo del territorio), che ha impedito ai cittadini di formulare osservazioni, e la carenza dei necessari spazi pubblici.

Città della Salute. Sulle aree di Sesto San Giovanni un tempo occupate dalle acciaierie Falk saranno costruiti edifici per 1 milione di metri quadrati. L’indice edificatorio è altissimo, 0,90: si potrà costruire quasi 1 metro quadrato di pavimento per ogni metro quadrato di area. Il progetto è stato chiamato “Città della salute e della ricerca”, perché qui saranno edificate le nuove sedi dell’Istituto neurologico Besta e dell’Istituto dei tumori: spesa 480 milioni (328 li mette la Regione, 40 lo Stato, 80 i privati). Quanto alla ricerca, il progetto sull’area Expo ha sostanzialmente scippato l’idea a questa area. Così, a parte i due ospedali, tutto il resto è il solito terziario, residenziale e centri commerciali. Tanto che Renzo Piano, che aveva firmato il primo progetto, se n’è andato sbattendo la porta (“Lascio il progetto dell’area ex Falck. Non sono certamente il garante di uno shopping center con un parco divertimenti”). L’operatore è la Milano Sesto dell’immobiliarista Davide Bizzi, insieme al gruppo arabo Fawaz Abdulaziz Alhokair che ha il 25 per cento della società.

Bovisa Gasometro
. Nel quartiere della Bovisa c’è una vasta area che dal 1906 ha ospitato i gasometri e poi, fino al 1994, è stata utilizzata per la produzione di energia. Una parte, chiamata “La Goccia”, di 80 mila metri quadrati, sarà bonificata (da metalli pesanti, arsenico, cianuro, idrocarburi e composti organici cancerogeni), dopo una sospensiva chiesta da un comitato locale, e restituiti a verde.

Una parte più vasta, di 850 mila mq di proprietà mista Comune, Politecnico e A2a, non ha ancora una destinazione, che sarà decisa nella prossima revisione del Piano di governo del territorio. Il Comune sostiene che manterrà per l’area una destinazione prevalentemente pubblica, con un parco e la realizzazione del campus del Politecnico. Ma, anche qui, una parte della volumetria sarà probabilmente usata per residenza e terziario.

Citylife. È il nuovo quartiere residenziale costruito sulle aree della vecchia Fiera campionaria di Milano e realizzato da Generali con Allianz (socio di minoranza che poi si è sfilato). Ha il record della cementificazione: l’indice edificatorio è 1,15. È quasi completato: pronti i grandi palazzi disegnati come fossero navi, pronto il centro commerciale Citylife, pronti due dei tre grattacieli progettati, quello di Zaha Hadid (lo Storto), dove andrà Generali, e quello di Arata Isozaki (il Dritto), nuova sede di Allianz. Mancano ancora il terzo grattacielo, “il Curvo”, firmato da Daniel Libeskind, che sarà affittato a PricewaterhouseCoopers, e alcuni edifici minori. Per finire quel che manca non c’è la ressa dei finanziatori, visto che quasi il 50 per cento delle residenze già completate, 10 mila euro al metro quadrato, sono invendute. Anche il rapper Fedez, che aveva comprato un appartamento, lo ha già messo in vendita.

Santa Giulia. Santa Giulia è un quartiere residenziale su un’area da 1,2 milioni di metri quadrati, con accanto la grande sede di Sky. Avventura intrapresa dall’immobiliarista Luigi Zunino, con progetti ambiziosi affidati all’archistar Norman Foster, finito però in mano alle banche dopo il crac di Zunino del 2010 che ha impedito il completamento del progetto: ci sono ancora 400 mila metri quadrati da edificare. Ci penserà Lend Lease, lo stesso gruppo che ha vinto la gara per le aree Expo e che gestisce il project management (cioè lo sviluppo) di City Life. Ha sottoscritto a ottobre 2017 un accordo con Risanamento spa, la società che un tempo era di Zunino, e ora dovrebbe edificare i lotti Nord, quelli rimasti incompiuti, 50 per cento residenziale di lusso, il resto terziario e alberghiero.

Piazza d’Armi. È un’area militare di 416 mila metri quadrati, compresa tra la caserma Santa Barbara e gli ex Magazzini di Baggio. Invimit, la società del ministero del Tesoro incaricata dal Demanio della valorizzazione della Piazza d’Armi, aveva incaricato l’architetto Leopoldo Freyrie di realizzare un masterplan che prevedeva un eco-quartiere di 4 mila alloggi, con un parco di 270 mila metri quadrati (più grande dei Giardini pubblici di Porta Venezia). Poi invece è arrivata la proposta dei nuovi padroni dell’Inter, che vogliono farne il campus della squadra, investendo 100 milioni di euro per 300 mila metri quadrati (dei 416 totali), realizzando 20 campi da calcio, una residenza sportiva, palestre e un centro medico specializzato. Sparisce il quartiere progettato da Freyrie, ma in compenso il verde prima pubblico diventa privato. E il costruito è comunque di 270 mila metri quadrati (equivalente a quello di Citylife). Sono in corso valutazioni sul rischio bellico e indagini ambientali, per quantificare i costi delle bonifiche necessarie.

Progetti di Catella. Manfredi Catella, immobiliarista figlio d’arte che si è fatto le ossa con Salvatore Ligresti, è forse l’investitore italiano più attivo negli ultimi anni nel business immobiliare milanese. Dopo aver guidato le attività italiane di Hines, colosso immobiliare americano, ha fondato Coima. Con Hines ha realizzato la riqualificazione dell’area di Porta Nuova (che comprende, tra l’altro, il celebrato Bosco Verticale di Stefano Boeri e la Unicredit Tower di Cesar Pelli, che racchiude piazza Gae Aulenti, diventata uno dei luoghi glam della città).

Il progetto Porta Nuova lo aveva rilevato da Ligresti alla vigilia del suo fallimento e lo ha poi girato al fondo sovrano del Qatar. Di Coima è il business center delle Varesine, il quartier generale della Vodafone in via Lorenteggio e la nuova sede di Microsoft e Fondazione Feltrinelli disegnata da Herzog & de Meuron a Porta Volta.

Coima costruirà anche il grattacielo di 26 piani che prenderà il posto della torre Inps di via Melchiorre Gioia e si è aggiudicata gli attigui 32 mila metri quadrati, ex parcheggio su area comunale.

In conclusione. Cifre totali: a Milano sono in arrivo nuove costruzioni su oltre 3 milioni di metri quadrati, di cui buona parte a destinazione terziario e residenziale. Questo in una città che ha invenduti o sfitti 1,5 milioni di metri quadrati a uso commerciale. Secondo la società immobiliare internazionale Cushman & Wakefield è vuoto il 6,8 per cento degli uffici nelle aree centrali, il 16 per cento in periferia e il 13 per cento nell’hinterland. A questi “vuoti” si sommano, nell’edilizia residenziale, circa 30 mila appartamenti sfitti o inutilizzati.

A che cosa serve, allora, aggiungere altro cemento? Agli operatori immobiliari serve perché le aree edificabili e i progetti da realizzare sono valori preziosi da mettere a bilancio ed esche per ottenere altri ricchi finanziamenti dalle banche. Un capitale fittizio (finché non si vende) che negli anni scorsi ha portato al dissesto di operatori come Zunino e Ligresti e all’esplosione dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche. Il rischio dunque è che il nuovo sviluppo di Milano stia costruendo, nell’euforia generale, la nuova bolla immobiliare destinata a scoppiare in un domani ormai non troppo lontano.

Quello che manca è una visione d’insieme, un progetto unitario, saldamente nelle mani del pubblico amministratore (che dovrebbe essere il sindaco della città metropolitana, dunque Giuseppe Sala). Ogni area ha una storia a sé, ogni grande progetto (Expo, Scali Fs, Città della Salute) è pensato come un’isola senza contesto, ha i suoi padrini politici, passati e presenti, ed è sostanzialmente lasciato in balìa degli operatori privati che decidono che cosa fare, mentre la pubblica amministrazione si limita a ringraziarli per i soldi che portano. Nel migliore dei casi, la pubblica amministrazione cerca di contenere un po’ le volumetrie per non fare esagerare con il diluvio di cemento.

È questa la grande Milano che sta crescendo sotto i nostri occhi, celebrata con enfasi da amministratori e media?

Articolo ripreso dalla pagina qui raggiungibile

ArcipelagoMilano, gennaio 2018. Analisi giustamente impietosa di una città, avvelenata dall'immobiliarismo, che si disfa a furia di distruggere e ricostruire, più brutte e più inique, parti di se stessa

«L’afflusso di capitali nella trasformazione fisica della città è sempre e comunque positivo, un segno della vitalità di Milano»: c’è questo assunto alla base delle scelte urbanistiche delle amministrazioni che si sono succedute a palazzo Marino dal dopoguerra a oggi. Ma è un assunto tutto da dimostrare. È vero che c’è stato un momento, nell’avvio della ricostruzione, in cui mettere mano alla città rispondeva, fra le esigenze vitali, alla necessità di creare lavoro in un’economia bloccata; così come è vero che per i due o tre decenni successivi è potuta apparire fondata l’affermazione per cui «quando l’edilizia va tutta l’economia va»; ma oggi una tale supposizione è sempre meno credibile.

Basti pensare che i grandi complessi edilizi appena realizzati nella città ambrosiana si configurano come assemblaggi di componenti per lo più non prodotti nel territorio sul quale sorgono (i vetri degli ultimi grattacieli, per fare un esempio, vengono dalla Cina). Ma soprattutto non si può non tenere conto dell’invenduto e delle risorse finanziarie che la produzione in eccesso di case e uffici immobilizza sottraendole a investimenti strategici. La crisi delle banche è all’ordine del giorno, ma difficilmente viene in chiaro che, tra le cause prime della crisi, c’è il sostegno incondizionato alla deriva immobiliarista.

A Milano il quadro sembra ora presentare un’impennata (del resto il nuovo skyline che cos’è se non l’istogramma della rendita immobiliare?). Così la messa in campo delle grandi operazioni che caratterizzeranno i prossimi decenni (Expo e Scali ferroviari) ha potuto avvantaggiarsi di un’onda montante: i peana elevati senza sosta dai media tanto al nuovo paesaggio urbano (da Porta Nuova a Citylife) quanto al crescente interesse dei grandi investitori per il capoluogo lombardo. Ma il coro plaudente ha molto della claque.

E che non sia innocente lo dice il silenzio degli stessi media sui grandi fallimenti: Santa Giulia, l’area ex Falck di Sesto San Giovanni, la “Nuova Defense” dello Stephenson Business District, il mancato recupero dell’ex Ortomercato, per limitarci ai casi più eclatanti. Sta di fatto che, invece che rimanere con i piedi per terra, chi ha la responsabilità dell’amministrazione della città preferisce esibirsi in volteggi su quell’onda mediatica, sperando che anche gli elettori finiscano per vedere la realtà attraverso il filtro magico delle sirene incantatrici.

La mistificazione, va detto, è di casa nell’urbanistica moderna. Nel secolo scorso obiettivi come il risanamento igienico e l’efficienza viabilistica hanno fatto velo sulle vere finalità dei piani urbanistici. Se nei bombardamenti della Seconda guerra mondiale Milano ha perso un quarto dell’edificato, in nome dell’igiene e dell’accessibilità automobilistica la città ha conosciuto altre due guerre in tempo di pace: quella ingaggiata dal piccone demolitore mussoliniano e poi quella condotta dal rinnovamento urbano degli anni della ricostruzione e del boom economico (quando si portavano a esecuzione molti dei piani messi a punto negli anni del fascismo).

Risultato: più di tre quarti della città entro i Bastioni ha meno di cent’anni. Ma invano, nelle relazioni di piano, si cercherà traccia del fatto che tutto questo abbia coinciso con un colossale ridisegno della topografia sociale (in senso classista) e con una radicale semplificazione della complessità urbana. Un’eccezione si è avuta sotto il regime fascista quando i rapporti di forza erano tali che non costituiva un problema chiamare le cose per nome. In quel contesto l’autore del piano regolatore del 1934, Cesare Albertini, poteva indicare apertis verbis nel novembre 1931 che l’obiettivo primo del piano per la città centrale era la sistematica rimozione, con «il ferro ed il fuoco», di quel che rimaneva dei quartieri popolari nella zona centrale e la «deportazione degli abitanti» (all’incirca 100.000 persone, secondo i calcoli di Graziella Tonon e di chi scrive).

Il trionfalismo sul successo immobiliarista attuale (che, come si è detto, è solo una faccia della medaglia) è l’ultimo espediente messo in campo per evitare che la pubblica amministrazione si misuri sulla portata strategica delle trasformazioni urbanistiche da essa innescate. Tutta l’attenzione è volta a rendere appetibile l’investimento immobiliare (da cui l’adozione di un irragionevole indice di edificabilità destinato a condizionare negativamente gli interventi sugli ex Scali ferroviari).

Nel contempo si ignora quello che l’esperienza dice in modo incontrovertibile e cioè che l’iniziativa privata è del tutto disinteressata agli obiettivi strategici sui quali dovrebbe invece puntare un responsabile governo della città. Così il destino di Milano viene consegnato nelle mani di operatori che non si porranno il benché minimo problema su due fronti essenziali: 1) la capacità delle trasformazioni urbanistiche di attrezzare la città e il contesto metropolitano alle sfide economiche della globalizzazione; 2) la qualità della civitas (le relazioni sociali) e la qualità dell’urbs (i singoli luoghi come l’edificato nel suo insieme). L’ottimismo che accompagna i quadri previsionali è funzionale all’esclusione di ogni verifica su tutto quanto concorre a definire la sostanza squisitamente civile e politica delle decisioni urbanistiche. Sostanza che si può sintetizzare in quattro punti: coesione del corpo sociale; inclusione; urbanità e bellezza dei luoghi; sicurezza.

Invece che perseguire questi obiettivi, l’amministrazione comunale concentra l’attenzione sulle entrate fiscali in cui hanno un peso rilevante gli oneri di urbanizzazione. Siamo all’ennesima mistificazione: quelle entrate non coprono gli esborsi attuali e futuri per le opere pubbliche e questo non farà che rendere cronico il deficit delle amministrazioni locali.

Ma il deficit più preoccupante è sul fronte del fare città. A Milano si è imboccata la strada del proliferare di spazi pubblici inospitali, presidiati da edifici fuori scala, oscillanti fra l’indifferenza al contesto e l’arroganza; quando invece si dovrebbe puntare su una riqualificazione urbana capillare, a cominciare dalle periferie. Lo scialo di denaro pubblico in un’operazione anti-urbana come quella del recupero dell’area ex Expo (vero e proprio buco nero di risorse collettive) dimostra che non è solo e tanto una questione di scarsità di risorse: fare città (nel senso di difendere e incrementare la qualità urbana dei luoghi) o disfare le città esistenti, è questo, più che mai, il tema centrale della politica.

arcipelagomilano.org n. 41, 12 dicembre 2017.Lo afferma un giurista:l’urbanistica è tecnica, ma prima è politica e dunque diritto. (m.c.g.) con postilla.

In diritto hanno ragione i ricorrenti – Italia Nostra e gli altri, ciascuno per quanto gli interessa e tutti nell’interesse comune – a far annullare, perché illegittimo, lo sciagurato “Accordo di programma” che il Comune di Milano, la Regione Lombardia e il Gruppo F.S. hanno sottoscritto sulla “rigenerazione” urbana dei sette scali ferroviari che – venuta meno la loro destinazione al servizio ferroviario – sono tornati nel patrimonio pubblico dello Stato o, addirittura, del Comune di Milano.

Nell’accordo di programma ci sono protagonisti in più e protagonisti in meno di quello che sarebbe stato necessario e legittimo: in più ci sono certamente il fondo immobiliare Savills – un soggetto privato che non c’entra con il programma urbanistico oggetto dell’accordo, nel quale avrebbe potuto inserirsi dopo, ma come attuatore (e avrebbe dovuto inserirsi a seguito di pubblico concorso); in meno c’è la neocostituita Città Metropolitana di Milano, direttamente interessata, data la sua competenza concorrente con quella del Comune (e forse addirittura di essa sostitutiva), al governo del territorio insieme alla Regione.

Ma cosa c’entra il gruppo F.S., che invece è parte dell’accordo – e vi fa la parte del leone? Chi mai ha stabilito che sono sue (di sua privata proprietà) le aree dismesse del servizio ferroviario, e che solo a tale scopo, con tale specifica destinazione, le F.S. (allora Azienda dello Stato, ma oggi divenuta SpA “privata”) avevano in uso/concessione?

Ci sono due parole che servono a fissare le idee e a dimostrare che il c.d. “Accordo di programma” è un contratto senza base giuridica, che serve soltanto, in realtà, a privatizzare beni e funzioni pubbliche; e che esso è uno strumento di speculazione edilizia a favore di possenti Signori del mercato, ai quali, per ingenuità o per inesperienza, o per servilismo, i politici/rappresentanti del popolo, e i pubblici burocrati ai loro ordini, cedono le chiavi della Città, a loro delegando le funzioni di governo del territorio. Sono le parole “abdicazione” e “monopolio”.

Anche a prescindere da altre censure (pure pesanti) su sue particolari clausole, delle quali diciamo più avanti, l’Accordo si rivela radicalmente illegittimo se si considerano due effetti fondamentali che esso produce:
1) di abdicare, da parte del Comune/Città Metropolitana (e della Regione), alla loro funzione fondamentale di governo del territorio, e di abdicarvi a favore di un ente formalmente (e sostanzialmente) privato (che, quindi, provvederà a tale governo anzitutto nel suo proprio interesse);

2) di creare, in capo a tale ente (in sostanza, al Gruppo F.S.), una posizione di monopolista: invero, l’edificabilità in Comune di Milano, ora e per i prossimi 30 anni, sarebbe assorbita da quella correlata agli ex scali ferroviari: cosicché chi vorrà costruire dovrà acquisirne i diritti dal “concessionario” individuato dal c.d. Accordo di programma e da tale Accordo promosso a gestore/governatore del territorio e monopolista dei diritti edificatori nella Città di Milano. Per questo aspetto, l’Accordo merita una segnalazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Queste sono le anomalie fondamentali dell’Accordo censurato e impugnato. Alle quali vanno aggiunte – perché indiziarie di chi sia l’autore dell’Accordo, donde esso provenga (che esso, che non nasce da un dibattito trasparente e democratico, ha origine in privati colloqui in riservate stanze: ma quali?) e perché sintomatiche della sua non temperata propensione a favore di una parte – due clausole che nessun autorevole e accorto negoziatore della parte pubblica avrebbe accettato, se non “costretto”:

1. Quella che il cessionario, a fronte della proprietà delle aree, assume l’impegno di corrispondere al Comune 50 milioni di euro: allorquando stime attendibili valutano i ricavi dell’uso edilizio delle aree stesse in non meno di 600 milioni di euro;

2. Quella – di evidente importazione da culture giuridiche estranee alla nostra tradizione e al nostro ordinamento costituzionale – che stabilisce che l’impegno del cessionario di dare al Comune quei 50 milioni decade ove mai taluno osasse impugnare l’Accordo in sede giurisdizionale: clausola capestro vistosamente contraria al diritto di ricorso costituzionalmente garantito ai cittadini. Una clausola siffatta basta da sola a squalificare l’Accordo, inficiandone in radice la legittimità.

Ancora una volta è al diritto, e quindi alla Magistratura, che occorre far capo per frenare gli abusi di un’Amministrazione della cosa pubblica asservita dai politici (pseudo rappresentanti del popolo e che di tale “rappresentanza” abusano) ai loro interessi di casta, di tribù, di mercato – come li si voglia qualificare – anziché al bene comune.

postilla

L’articolo di un giurista, Scotti Camuzzi, pone in evidenza con chiarezza le gravi illegittimità procedurali dell’indecente Accordo di Programma sul riuso dei sette scali ferroviari milanesi. Su questo accordo si stanno accumulando molteplici ricorsi ed esposti da parte di associazioni, professionisti e cittadini: - il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avanzato da Italia Nostra che ha denunciato la rinuncia del Comune a dirigere la riqualificazione delle aree, cedendo a Ferrovie dello Stato il timone dell’intera operazione, con l’esito che “questo operatore potrà trarre profitto dalla gigantesca speculazione immobiliare che metterà in pericolo la qualità della vita e il futuro della città”; - due ricorsi al TAR della Lombardia, recentemente depositati da parte di cittadini; - cinque esposti, presentati da soggetti interessati a vario titolo, all’Anac, al Garante della concorrenza, alla Commissione europea, alla Corte dei conti e alla Procura della Repubblica. L’articolo conferma altresì il danno erariale per la collettività che scaturirebbe da un accordo sleale quale è quello che si sta configurando: un ricavo netto di ben 600 milioni di euro, come ha cautelativamente calcolato Roberto Camagni, sui quali il Comune dovrebbe ricevere il 50%, sulla base della nuova legge sul contributo straordinario (art. 16 comma 4 del TU sull’Edilizia) e che il Comune sembra intenzionato a non esigere accontentandosi delle briciole (www.arcipelagomilano.org/archives/47304 ). Si annuncia una lunga battaglia in difesa dei beni comuni a rischio di privatizzazione con il consenso inaccettabile dell’amministrazione locale: una amministrazione, quella di Milano, che da lungo tempo ha rinunciato alle sue responsabilità in materia di governo pubblico del territorio. (m.c.g.)

La presentazione del progetto denominato (piuttosto pomposamente, per adesso) Human Technopole si è svolta, in fondo come suggerivano gli uffici stampa congiunti dei vari interessi coinvolti (segue)

La presentazione del progetto denominato (piuttosto pomposamente, per adesso) Human Technopole si è svolta, in fondo come suggerivano gli uffici stampa congiunti dei vari interessi coinvolti, ovvero puntando su un cocktail nazionalpopolare tra rendering di architettura e ariose metafore da centro studi di settore. E lo svarione del top manager di lungo corso leghista di nomina regionale, che ha reinterpretato l'ex Decumano Expo a verde chiamandolo con dizione comico-celodurista «il parco più lungo d'Europa», a suo modo conferma l'impressione. Impressione per nulla positiva se si esce da certi aspetti contingenti (come il sollievo generale per avere a quanto pare trovato uno sbocco al pasticcio finanziario con le aree combinato in epoca formigoniana) e si entra in considerazioni più ampie sulla cosiddetta idea di città che ne esce: soggetti, scenari, equilibri, e anche le forme, pur al netto delle importanti ma qui di secondo piano questioni architettoniche. Il fatto è che da lustri ormai si discetta qui e là del ruolo di punta delle economie della conoscenza nel delineare la città futura, e su cui si basano tante altre riflessioni su lavoro, ambiente, sostenibilità, e giù giù fino al ruolo dei trasporto o delle comunicazioni o della composizione funzionale.

Per capire che posto occupa questo costosissimo quartierino periferico ai confini autostradali tra Milano e hinterland metropolitano, nel dibattito sulla città futura in generale, forse val la pena di introdurlo in un processo più generale che potremmo tranquillamente chiamare «impresa e territorio», e che negli anni recenti si è arricchito dell'abbastanza noto scontro, più o meno dialettico, tra i fautori di una opzione urbana, e i sostenitori di modelli vari più meno legati all'antico decentramento produttivo, declinato in forme contemporanee. L'opzione urbana più nota e pubblicizzata da un individuabile filone tecnico e immobiliarista è quella delle nuove professioni creative, coi quartieri vivi su 24 ore 7 giorni la settimana, che confondono tempo di lavoro e tempo libero, dove tutti si aggirano a piedi in bicicletta coi mezzi pubblici o su veicoli elettrici, compulsandeo su qualche diavoleria elettronica il flusso di informazioni che si chiama «lavoro», e che naturalmente fornisce il reddito adeguato a viverci, in quei posti. Fatti di negozi esclusivi, gallerie d'arte, ambienti ibridi libreria-caffè-ufficio, e complessi residenziali più o meno densi costituiti da microappartamenti, simili più a uno studentato che a un condominio, perché tanta parte di quella vita post-adolescenziale si svolge negli «spazi pubblici» esterni. Inutile sottolineare come nella pratica questi quartieri o interi settori urbani siano diventati una variante della gated community, dove alle pareti fisiche si è sostituito uno zoning socioeconomico esclusivo, molto esclusivo.

La gerarchia spaziale capitale-lavoro a Crespi d'Adda (foto F. Bottini)
La seconda opzione è quella classica del castello simbolo di potere sul territorio, già incarnata dalla tipologia dello office park suburbano e che alcune grandi aziende continuano pervicacemente a perseguire, come simbolicamente e su precisa eredità di Steve Jobs la Apple, nell'astronave toroidale posata dallo studio Norman Foster nell'ex terreno della Hewlett Packard a Cupertino. Se la scelta urbana nascondeva lo strapotere dei soldi e dell'impresa frammentando spazi, tempo di lavoro, aspirazioni e incarnazioni individuali, la fortezza suburbana dichiara la sua autorità, direttamente discendente dalla classica company town delle ciminiere ottocentesche, magari addolcita dal paternalismo strumentale di questo o quel CEO. Le forme insediative e architettoniche restano però praticamente quelle classiche con rigida separazione funzionale tra fabbrica e territorio, segregazione socioeconomica, e ruoli familiari, per non parlare della estrema difficoltà o impossibilità di introdurre aspetti di maggiore sostenibilità ambientale nei trasporti, nell'agricoltura e consumo di suolo, nei servizi.

Alle opzioni in qualche modo estreme corrisponde però una infinita serie di varianti possibili, dove si mescolano in equilibri diversi vari fattori, sia spaziali che sociali che di potere. Due esempi recenti e significativi riassumono molto bene due percorsi opposti ma in qualche modo convergenti. Il primo è il quartier generale che Amazon vuol collocare nella città che si mostrerà più accogliente, per approfittare delle economie esterne garantite dall'ambiente urbano in termini di mercato del lavoro prossimità e stimoli. Il rovescio della medaglia di questa scelta di insediamento centrale sta nel mantenimento del formato accentrato, che si traduce in un trasloco di fatto del grande campus suburbano autosufficiente dentro un ambiente centrale che si classifica in qualche modo di rango inferiore, e ovviamente senza alcuna contaminazione funzionale. Il percorso opposto è quello scelto dalla Microsoft per il proprio centro direzionale nell'area metropolitana di Seattle, dove nello stile della densificazione suburbana promossa da certa scuola New Urbanism, si cerca invece di introdurre pedonalità, multifunzionalità, pratiche sostenibili e modalità di lavoro più elastiche, in pratica tendenzialmente rendere più simile il campus di impresa a un normale quartiere dove si è insediata anche l'impresa.

Possiamo dire che la strategia insediativa dello Human Technopole in qualche modo appartiene di diritto a questa «terza via», del percorso misto, quanto a metodo (indipendentemente quindi da alcune osservazioni che si possono fare sul rapporto con la città e specie con le forme urbane italiane correnti). C'è una collocazione decentrata ma non troppo verso cui confluiscono funzioni di varia provenienza a costituire una massa critica di parco scientifico, a cui si aggiungeranno presto anche altre funzioni residenziali e di servizio, a discutibile ma effettivo riuso di un'area periferica ma fortemente integrata al tessuto urbano e metropolitano. Entra qui, proprio pensando alla dimensione metropolitana spesso evocata dagli stessi proponenti, il dubbio sull'inserimento organico o no, nell'equazione, delle dismissioni di altri spazi per le funzioni trasferite, e in particolare per dimensioni rilevanza e prossimità quella dell'Università Statale dal suo quartiere attuale a Città Studi, nel cuore di Milano. Sostanzialmente due le possibilità: la prima è che analogamente a una dismissione sul modello industriale, anche l'università in questo caso si faccia tentare dall'approccio puramente immobiliare-finanziario (e che in sede di contrattazioni varie nessuno possa correggere questa tendenza); la seconda è che il ruolo delle economie della conoscenza fisiologicamente orientate a interazioni di tipo urbano «alla Richard Florida» per usare una definizione schematica, riesca a cogliere i vantaggi di un approccio effettivamente a scala di regione urbana, facendo dialogare i due poli e cercando integrazione. Forse non si arriverà a cittadelle ideali del capitalismo più o meno illuminato del terzo millennio, ma si darà un segnale culturale importante.

Qualche considerazione in più su La Città Conquistatrice e un link alla descrizione puntuale del progetto Microsoft dal Seattle Times; specificamente su alcuni aspetti dell'operazione milanese il blog del lunedì sul quotidiano online Today

arcipelagomilano, 4 ottobre 2017 «Tra negazionisti - Maroni e l'ex prefetto Lombardi - e i distratti». ( m.c.g.)

Chissà se questa volta si incrinerà qualcosa nella granitica certezza di chi fa economia a Milano e dintorni, o nella favolosa Brianza che allunga a nord. Dopo che a Seregno un intero sistema di potere è franato sotto l’accusa di mafia, con un sindaco descritto dai magistrati come “lo zerbino” ideale per i voleri della ’ndrangheta. Dopo che il consiglio comunale è stato costretto ad autosciogliersi per evitare l’ignominia del commissariamento per mafia a opera del governo. Oppure dopo che a Cantù è emersa una mafia tutt’altro che silente, ma capace di pestare e minacciare i negozianti sulla pubblica piazza.

Chissà se si farà largo il dubbio che questa continua rimozione, questa idea pervicace che “altre” siano le cose con cui deve confrontarsi la modernità, possa alla fine consegnare paesi e cittadine, e alla fine pezzi della regione Lombardia, alla egemonia (culturale anzitutto) dei clan calabresi.

Già, l’omertà. Ho raccontato nei giorni scorsi la paradigmatica storia della tesi di laurea di un mio studente, Simone. Titolo: La penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia: il caso di Seregno. Anno accademico 2011/12. Cinque/sei anni fa un ragazzo di ventitré anni vedeva dunque quel che imprenditori e amministratori non vedevano, fino al punto di volerci fare la propria tesi di laurea. E di scrivere che “solo l’omertà” spiegava perché a Seregno non vi fosse un’idea “nemmeno approssimativa” del peso che la mano mafiosa stava esercitando sulla vita cittadina.

Omertà e rimozione si spalleggiano, procedono insieme, si danno la mano e infine si fondono in un unico grande silenzio fatto di parole trite. Lo dicono le interviste televisive condotte sul posto. Si tratti di Lonate Pozzolo, di Desio, di Seregno, di Pavia, di Corsico, di Sedriano, di Brescello, la Lombardia e l’Emilia non si riconoscono più. Sembra che si siano affidate a un ventriloquo, sempre lo stesso, impegnato a parlare per loro. Perché chi dovrebbe parlare non lo fa, si ripara nei ridotti della coscienza e dell’intelligenza. Illuso che la partita della modernità si giochi in altre, più eteree ed eleganti sfere. Che vi sia sempre un altrove in grado di nobilitare la resa.

Il bello è che basterebbe chiedere e sapersi battere per alcune cose molto pratiche per restringere l’acqua della palude. La prima è quella che la Commissione parlamentare antimafia sta proponendo da un paio d’anni. Introdurre cioè, oltre allo scioglimento dei consigli comunali, una misura meno traumatica ma forse perfino più efficace: quella dell’appaiamento al sindaco ritenuto pauroso o compiacente di un funzionario prefettizio che aiuti a vigilare sul rispetto della regolarità della vita amministrativa.

Una seconda è quella di associare alla firma del questore anche la firma del sindaco per autorizzare l’apertura di nuove sale giochi (singolarmente sono infatti in genere le questure a mostrare più generosità). Una terza è quella di intervenire sul codice degli appalti, in certi punti trasformato in colabrodo per gli interessi mafiosi. Una quarta, almeno in Lombardia, è quella di chiudere i varchi sistematici aperti nella sanità, rivedendo il sistema delle convenzioni. Una quinta è la penalizzazione della querela (ma anche della causa civile) temeraria, passaggio obbligato per restituire libertà di parola in una società omertosa.

Si sa insomma che cosa fare. Ma ogni passaggio appare un’impresa impossibile. Meglio: resa impossibile dal sonno della ragione. Si svegli quindi l’economia, si svegli la politica. O corruzione e mafia sommergeranno una grande storia civile, con le sue glorie culturali e scientifiche. Mentre tutt’intorno divamperanno i fuochi. Quelli della provincia di Pavia, o di Bruzzano, o di Cinisello Balsamo. I fuochi, segno della “loro” arroganza. E segno della nostra insipienza.

arcipelagomilano.org 19 settembre 2017.Una sintesi critica degliattori (e degli interessi) che, con argomenti a dir poco controintuitivi, purdi garantire la valorizzazione delle aree postExpo, sono disposti a tutto:anche a svuotare dalle facoltà scientifiche Città Studi


Dopo lapresentazione del professor Balducci & C. il 18 luglio scorso a PalazzoMarino, avrei voluto intervenire criticamente a botta calda, ma sarei cascatonella completa disattenzione estiva. Ai fini del prosieguo del dibattito tra lacittadinanza attiva da un lato, e l’amministrazione comunale e i responsabilipolitici della maggioranza, dall’altro, è mancato un serio lavoro diconfronto-e-verifica intorno al tavolo con le rappresentanze della cittadinanzaattiva.

Le riunionipubbliche a Palazzo Marino sono state in pratica per poter dire che il metododi scelta è stato democratico. Inoltre si è cercato di dimostrare che èl’Università che chiede di andare a ex-Expo. Comunque, in uno generaleripensamento urbanistico di questa portata le università e gli enti di ricercapubblici possono esprimere le proprie esigenze e orientamenti, ma non in modounico ed esclusivo rispetto alle altre componenti della cittadinanza.

Il traslocodi Statale scientifica da Città degli Studi a Rho-ex-Expo è un fatto politico?Sì. Cercherò di dimostrarlo, analizzando alcune frasi autoconsistenti (incorsivo) espunte da quattro documenti che rappresentano la posizione dellagiunta Sala e delle forze politiche che la sostengono:
* la Comunicazione stampa del Comune di Milano, del 10 maggio2017;
* il documento “
Da Città Studi allo studio dellacittà” diSinistraXMilano, datato 13 maggio 2017;
* il volantino del PD del Municipio 3 intitolato “
Città Studi rinnovata”, diffuso in giugno 2017;
* lo studio del professor Alessandro Balducci, commissionato dal Comune,intitolato “
Città Studi 2.0”, presentato a Palazzo Marino il 18luglio 2017.
Per avereun’immagine urbanistica di questa infelice area ex-Expo basta guardare in Google Map la sua struttura: un triangolocontornato da strade-autostrade di grande comunicazione (A8 – E64 – A62),Milano-Fiera, ferrovia a sud-ovest, con alcuni ingressi, proprio come le portenelle mura dei ghetti di infausta memoria.

La Comunicazione stampa del Comune di Milano
Èintitolata: Città Studi. Comune, Regione, Università e Agenzia del Demanioconfermano la funzione universitaria anche dopo il 2022. Mi limiterò asegnalare alcuni punti intrinsecamente critici.
Mantenere [a Città Studi] la funzione universitaria del quartiere … eprevedere un nuovo polo dell’Amministrazione Pubblica che riunisca tutti gliuffici del Demanio a Milano.” Ma come, per mantenere la funzioneuniversitaria si svuotano 100.500 mq di organismi scientifici per sostituirlicon una cattedrale di uffici amministrativi?
“… si è fatto il punto sull’attuale situazione delle aree ad oggi occupatedagli studenti che andrebbero a liberarsi“– È uno strafalcione semantico.Le università, in particolare quelle scientifiche, in tutto il mondo, sono“occupate” strutturalmente dai ricercatori-docenti che lì sviluppano il propriocurriculum scientifico individuale e di gruppo, durante anni di ricerca, e inbase a esso sono in grado di insegnare agli studenti.
Nella lunga comunicazione stampa si tacciono le vere ragioni dell’operazione:l’errore di investire tanti soldi in Expo2015 ha lasciato grossi debiti dasanare.
Il documento di SinistraXMilano
Anche inquesto caso tralascio un’analisi puntuale, preferendo segnalare alcunequestioni salienti: a proposito della nuova area scientifica a ex-Expo dice: “…costruire strutture e infrastrutture moderne, che permettano agli universitaridi studiare meglio, ma anche di avere alloggi a prezzi compatibili e cibo diqualità … accedere a servizi, divertimento …” – Tutte cose che già esistonoa Città Studi dove, semmai, potrebbero essere potenziate. Oggi studenti e docentiuscendo a piedi dai dipartimenti sono in città. Da ex-Expo dovrebbero venire incittà.
Lestrutture delle facoltà scientifiche in Città Studi non sono adeguate …” –Non è vero, specialmente per il quadrilatero Ponzio – Celoria – Golgi –Venezian e piazza Aspari (Farmacologia). I dipartimenti di Fisica, Chimica,Bioscienze, Farmacologia, Virologia, Scienze Alimentari, Scienze della terrasono stati tutti costruiti a iniziare dal 1975-1980 e non sono ruderi che“cadono a pezzi”; l’edifico di Informatica è oggi in fase costruttivaterminale.
Un’altraaffermazione di SinistraXMilano è degna di particolare rilievo (in questo casopositivo!): “L’area ex-Expo, abbandonata o privatizzata, sarebbe unasconfitta… Potremmo discutere per anni sulle scelte sbagliate di RegioneLombardia e di Letizia Moratti“. – Meno male che SXMi ha il coraggio didire la verità! Bisognerebbe aggiungere a questa affermazione che il sindacoPisapia, all’inizio del mandato (i lavori per Expo non erano ancora iniziati),dopo una lunga pausa di riflessione, ha deciso di procedere (seconda sceltasbagliata). Oggi, proprio per evitare una terza scelta sbagliata, molto piùgrave delle precedenti, bisogna trovare soluzioni diverse per l’utilizzo diquell’area: ad esempio, un parco pubblico di 100 ettari. Appare piuttostomistificatorio cercare di dimostrare che la scelta di spostare Statalescientifica a ex-Expo, sia una scelta ottimale dal punto di vista tecnico: “…si tratta di una area fondamentale [?] altamente accessibile [?] e infrastrutturata,che può diventare un modello di sviluppo urbano [?] …” – Ma vogliamoscherzare?

Il volantino del PD del Municipio 3
Dopo varierichieste (inevase) dall’interno del PD per discutere il problema in modoesaustivo su un tavolo specializzato, è circolata una prima bozza, seguita daltesto definitivo distribuito nel quartiere il 26 giugno scorso. Innanzitutto vaesaminato il titolo Città Studi Rinnovata – Cosa vuol dire “rinnovata”? Ilvolantino lo spiega: “Si trasformerà in un polo inter-universitario dirilevanza europea” – Cioè, secondo gli estensori del volantino, finora èstato un polo di secondo ordine, con scarsa qualità scientifica? Questaformulazione suona come un insulto ai matematici, fisici, chimici, biologi,geologi che vi hanno lavorato finora con produzioni scientifiche di ottimolivello e rapporti internazionali.
Nuovefacoltà e una cittadella della Pubblica Amministrazione (Uffici del Demanio) nefaranno parte … Nella riunione del 10 maggio [vedi sopra] si è convenuto dimantenere intatta la vocazione universitaria del quartiere” – Non si riescea credere che la riduzione secca del 60% degli attuali spazi di ricerca edidattica, e la loro sostituzione con gli uffici del demanio (1600amministrativi) possa essere spacciata per un “rinnovo” di Città Studi. Nelrestante quadrilatero Colombo – Celoria – Ponzio – Botticelli (area nonvendibile perché demaniale e vincolata), dopo lo svuotamento di Agraria,Veterinaria, Scienze Alimentari, Medicina triennio, verrebbero collocatiscampoli e spezzoni di risulta di Statale-Umanistica, Poli-Architettura,Milano-Bicocca, più un museo dei diritti umani (che era stato previstoprecedentemente di insediare nel Cimitero di Musocco!). Il “rinnovamento”, dicui parla il volantino, si commenta da sé.

Lo studio Città Studi 2.0
Nell’intervistapubblicata dal Corriere il 27 marzo 2017 il professor AlessandroBalducci aveva affermato: “Tutti gli insediamenti della Statale, trannequalche eccezione, cadono a pezzi e sono in gran parte degradati. Unasituazione inadeguata per un’università che vuol competere nel mondo … “ –Ci aspettavamo che Balducci il 18 luglio presentasse una dettagliatadocumentazione tecnica sul degrado dei singoli edifici di Città Studi,attualmente occupati dai ricercatori-docenti, dalla quale emergesse la“inadeguatezza” di quegli edifici, quindi l’impossibilità di ristrutturarli.Invece non dice nulla!
Viceversa,l’indagine sintetica sul campo del professor Riccardo Ghidoni (presentata aPalazzo Marino il 19 maggio 2017) riporta per ciascuna delle 20 sedi dellaStatale a Città Studi: Dipartimento, Proprietà, Anno di costruzione, Grado dioccupazione, Condizioni strutturali e edilizia. Essa smentisce nettamente lavalutazione sommaria del professor Balducci, sopra citata, che vienesbandierata negli altri tre documenti come motivo della non idoneitàstrutturale della situazione attuale. In effetti la “inadeguatezza” è una falsamotivazione.

Tre domandeal Comune, alla Regione, al Governo
1. Come mainella relazione Balducci, commissionata dal Comune di Milano, non esiste alcunadettagliata e credibile analisi per dimostrare la “inidoneità” dell’areaCeloria – Golgi – Venezian – Ponzio alla permanenza di strutture di ricercaqualificate a livello internazionale?
2. Come maitra le tante aree dismesse-abbandonate di Milano, per trasferirvi la Statale-scientifica, è stata scelta la ex-Expo la più infelice da tutti i razionali puntidi vista?
3. È seriodefinire “rinnovamento” l’eliminazione dei dipartimenti scientifici e la lorosostituzione con gli uffici dell’Agenzia del Demanio?

«Nel 1948 l'Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso (segue)

«Nel 1948 l'Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso: invitò per una conferenza l'architetto anarchico italiano Giancarlo De Carlo. De Carlo era rimasto molto colpito dalla situazione abitativa dei poveri nel suo paese, una situazione, spiegava “non molto diversa da quella degli schiavi del terzo secolo avanti Cristo, o dei plebei nella Roma Imperiale”. Le abitazioni di iniziativa comunale non si erano rivelate una soluzione adeguata, dato che si trattava di “squallide baracche come quelle che oggi si allineano monotone ai margini delle nostre città”. E dunque, sosteneva, “Il problema delle abitazioni non si può risolvere dall'alto: si tratta di un problema delle persone, che non può trovare soluzione, e nemmeno provare ad essere avvicinato in alcun modo efficace, salvo attraverso la concreta volontà e azione delle persone stesse. La pianificazione urbanistica poteva contribuire, nella misura in cui era concepita in quanto “manifestazione di collaborazione comune” e se diventava “impegno a liberare davvero l'esistenza umana, il tentativo di stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana”».

Su questo breve passaggio, o se volete lunga ragionata citazione, Peter Hall nel suo classico Cities of Tomorrow (p. 271) innesta la nascita moderna del movimento partecipativo di base nella costruzione della città. Dobbiamo subito aggiungerci che, trattandosi del 1948, solo un paio d'anni scarsi dopo l'approvazione del New Towns Act, è la stessa lettura dell'intuizione di De Carlo (perché di intuizione si tratta) a meritare qualche inquadramento storico in più, che ne illumina meglio il senso, probabilmente ben oltre le intenzioni originali. È infatti proprio nel dipanarsi del gigantesco programma attuativo delle nuove città, che si ripropone l'equivoco mai risolto sin dai tempi di Ebenezer Howard e del suo braccio secolare Raymond Unwin: chi decide le forme dei contenitori sociali, e neppure troppo implicitamente il modello di relazioni che finiranno per plasmare? Ma soprattutto, in base a quali principi, forme di comunicazione e interazione, avviene la decisione del modo in cui «stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana»? Secondo la coppia fondatrice del modello spaziale città giardino, la lettura della tradizione identitaria nazionale (il villaggio ancestrale), filtrata dalla cultura critica dell'architetto-urbanista, era già anni luce più avanti di quella sterile «risposta del mercato» che aveva prodotto sino a quel momento i tuguri speculativi in affitto. De Carlo a ben vedere pare ancora fermo a quella dicotomia, salvo appunto individuare la risposta nella partecipazione attiva degli abitanti, per evitare che qualche architetto pur benintenzionato finisca per riprodurre alveari di alloggi «come quelli che oggi si allineano monotoni ai margini delle nostre città». Già: ma quali bisogni e quali progettualità vanno lette? E interpretate da chi?

Unwin e De Carlo, lontanissimi su ogni fronte, condividono però l'approccio caratteristicamente architettonico del piano-progetto, che ne inquina loro malgrado in vari passaggi, la lucidità dell'analisi e della proposta. Un tema non vagamente intuito, ma assai trattato, sistematicamente, proprio nel citato successivo svolgersi del programma New Town, le cui «polemiche urbanistiche» più interessanti, dal nostro punto di vista, non sono certo quelle tra i fautori del modello razionalista-modernista-corbusieriano e i sostenitori del vernacolo popolare (tema presente anche nelle nostre coeve discussioni interne al Fanfani-Case), ma tra progettisti e sociologi-operatori sociali. Riassunto in poche battute, tutto si riduce a: come leggiamo i bisogni e le aspirazioni di quelle persone? In cosa esattamente coinvolgiamo la loro partecipazione? Per gli architetti risulta quasi automatico, immaginare quelle sessioni di co-progettazione, in cui i futuri residenti esprimono gusti e preferenze sulle qualità spaziali più desiderate. Ma per il sociologo, giustamente, si tratterebbe di guardare un po' più in là della disposizione dei locali, degli edifici nel verde, della dislocazione dei servizi. E chiedere invece: che modello sociale, familiare, economico quotidiano, volete? Da quelle risposte, adeguatamente filtrate e interpretate, e non dall'improvvisarsi progettista dilettante allo sbaraglio, dovrebbe discendere poi tutto il resto, inclusa magari anche la sessione coi foglietti appesi in bacheca così di moda, o la campagna stampa, o i corsi divulgativi nello stile dell'antico Wacker's Manual concepito a Chicago nel lontano 1913.

Il Naviglio Pavese in periferia. Foto F. Bottini
E se vale per le forme dei quartieri e il loro rapporto coi servizi, i posti di lavoro, i trasporti locali, perché non dovrebbe valere, a maggior ragione, sul futuro prossimo e non prossimo della società locale? Questa lunghissima premessa che pare guardare molto all'indietro e poco all'oggi, ha invece un preciso obiettivo di metodo, e un legame diretto con la cronaca contemporanea: il Progetto Navigli a Milano, di cui molto recentemente è stato presentato e in parte discusso il piano di fattibilità. Con una serie di limiti di metodo e trasparenza che proprio quella lunga introduzione prova a sottolineare: sia il referendum originario, sia la discussione mainstream, sia gli approfondimenti tecnici ed economici, paiono sorvolare abbondantemente su un aspetto molto sociale e molto di per sé visibile, che riguarda la vera e propria «ricostruzione artificiale del centro storico» che Milano di fatto non ha mai avuto, perlomeno da quando esiste quel concetto. Anzi è addirittura l'identità locale popolare a far propria a modo suo l'antica invettiva di Marinetti contro il folklorismo decadente tanto manifesto a Venezia, centro storico paradigmatico dell'immaginario turistico, già parco a tema della nostalgia prima che il concetto si manifestasse esplicito.

S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. la notissima canzoncina sul testo di Luciano Ramo musicato da Vittorio Mascheroni, esce nel 1928, ovvero quasi contemporaneamente alla tombatura della fossa dei Navigli, e nel quadro delle grandi trasformazioni prospettate dalle prospettive di Piero Portaluppi e sviluppate nel piano di Cesare Albertini per la «Manhattan tascabile» dal Duomo alle lontane periferie dei Comuni appena aggregati, e idealmente alla regione metropolitana (per la prima volta introdotta ufficialmente dall'assessore Cesare Chiodi come requisito per il concorso di piano regolatore nel 1925-27). «Ogni vicolo Fu. Strade non ce n'è più. Con lo sfondar, son tutti boulevard. Ti smollan qua, ti sgonfian là. StraMilano, S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. Piano piano, Monte Merlo confondi col Pincio, e il Naviglio col Po». Da più di un punto di vista, mai autoironia fu più illuminante di questo breve estratto, una specie di riverniciatura in allegro e ottimista dei quadri periferici di Boccioni, dove anche i simboli cittadini, come l'amata collinetta del passeggio ai Giardini Pubblici (il Monte Merlo, col gazebo per la banda) o gli storici canali, entrano nel turbine della sarabanda. Ovviamente, di come poi debba e possa svilupparsi questa sarabanda, che lascia come ogni mutamento le sue vittime e i suoi vincitori, c'è sempre molto da dire. Ma la vera domanda a cui risponde è di sicuro: volete la «città che sale» o quella sonnacchiosa chiusa nelle sue mura che aspetta i viandanti di passaggio per vendergli vino annacquato nelle osterie?

A suo modo illuminante, un titolo di giornale locale di questi giorni parla del centro di Milano dopo il ripristino dei Navigli e dei quadretti paesaggistici, come di «Una promenade per la movida», illuminandoci a modo suo su quale sia l'idea di città inconsapevolmente (almeno inconsapevolmente per molti) inseguita da operatori e tanti cittadini: una sorta di centro storico posticcio, privo di storia degna di questo nome, file di locali in cui si spilla birra e si esibiscono orchestrine più o meno improvvisate, locale milanese e autentico come certe sagre paesane decise a tavolino da una pro-loco molto attiva, con prodotti made in China spacciati come frutto del territorio. Certo, nulla in contrario a qualche progetto di abbellimento, e ri-arredo, dell'ex Manhattan tascabile e incompiuta malamente improvvisata negli anni '20, ma sulla base di quale idea di città, localizzazione delle attività economiche, mix sociale di residenti, servizi e immaginario? Forse questo, sarebbe stato un quesito più coerente e trasparente da porre ai cittadini, invece dell'ovvio «volete una città più brutta o più carina?» a cui ci hanno sottoposto, con una logica che continua a permeare un dibattito che non è tale. L'alternativa tra la popolare e amata S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. e l'ennesimo dozzinale S.T.R.A.P.U.N.T.I.N.O del turismo alcolico di massa, magari coi medesimi gravissimi problemi delle città d'arte, non pare un tema di secondaria importanza.

Su questioni analoghe, ho già espresso altre perplessità di lungo periodo in Arcipelago Milano, più di recente nel mio blog del lunedì su Today o in generale le riflessioni su Milano

Una posizione e una proposta diametralmente opposte a quelle di progettisti, costruttori, immobiliaristi e via cementando, e perciò ragionevole. Arcipelagomilano.org online, 26 luglio 2017, con postilla (m.c.g.)

Cosa fare degli ex scali ferroviari di Milano? Con l’Accordo di Programma recentemente approvato si sono definite molte delle future funzioni, nonché le vocazioni delle singole aree, e a partire da lì architetti, tecnici e politici si stanno garantendo almeno un decennio pieno di dibattiti sul cosa, perché e come fare. E, per i più fortunati di costoro, anche un decennio di parcelle e incarichi.

Vorrei presentare una visione che sicuramente dispiacerà a quanti sono interessati a pilotare quel qualcosa che si dovrà muovere, non importa in quale direzione. Partiamo da una banale considerazione: è giusto investire delle risorse laddove queste servono a soddisfare i nostri bisogni. Bisogni ormai piuttosto complessi che richiedono trasformazioni del territorio, con la destinazione di parti di questo alla produzione di cibo, o a parco, o la costruzione di edifici, di strade e di altre infrastrutture che riteniamo indispensabili per la nostra sopravvivenza.

Sopravvivenza che per attuarsi pienamente deve trascendere il nostro tempo della nostra vita e proiettarsi verso le generazioni future, alle quali dovremmo lasciare un territorio che, pur trasformato secondo i nostri bisogni, lasci anche a loro lo spazio per soddisfarvi bisogni probabilmente diversi dai nostri. Se mi trovo costretto a enunciare tali banalità, è perché tutto ciò non sta avvenendo.
Perché per una sorta di horror vacui se c’è un pezzo di terra che si libera dauna funzione precedente subito bisogna destinarlo a qualcosa, che nella bipolarità grossolana della cultura corrente significa o costruirci sopra edifici o farci parchi, come di sicuro accadrà per gli ex scali ferroviari.

Bipolarità di comodo, che consente ad ambedue le parti (l’avrete capito, da una parte l’amministrazione pubblica per i parchi, dall’altra le imprese per gli edifici) di non guardare in faccia i veri problemi della città. Che non sono quelli di riusare gli ex scali ferroviari.

Innanzitutto, per quanto estese siano le aree degli ex scali, la superficie occupata da edifici pubblici e privati abbandonati, sparsi su tutto il territorio milanese, è meno appariscente ma ampia (guardate la mappa dell’edilizia abbandonata fatta dal Comune ) quanto quella degli scali in questione. Centinaia di ettari occupati da milioni di metri cubi in stato di degrado e abbandono (palazzi per uffici vuoti, cantieri lasciati a metà, abitazioni, fabbriche) quasi tutti in aree già densamente edificate. Di questi, molti recuperabili a nuovi usi, con un buon risanamento e le necessarie trasformazioni anche ad uso residenziale.

postilla

“L'horror vacui del pensiero urbanistico milanese” sottotitola l’autore, ed ha ragione: sembrerebbe puro buon senso, ma non lo è. E infatti non l’ha scritta un urbanista mainstream milanese questa riflessione, ma uno studioso che traduce grandi opere letterarie e di poesia dal polacco.

Dialoghetto sull'azione congiunta di due importanti attori delle politiche urbane: Regione e università. Jobnotizie.it online


Cosa è venuto fin qui daRegione Lombardia in fatto di pianificazione urbanistica? Governo dellatendenza insediativa in coerenza con interventi mirati sul sistema deitrasporti? Non scherziamo. Il respiro strategico non è andato oltre il recuperodi sottotetti e cantine. E, naturalmente, l’approvazione e il sostegno ainterventi infrastrutturali nati altrove e tesi a privilegiare ancora una voltail trasporto su gomma (Brebemi, Pedemontana). Niente male per un contesto untempo all’avanguardia per i trasporti su ferro.
- Ma come – misento tirare per la giacca –: non hai visto la messa in campo di una cittànuova?
- E dove?
- Non fare lognorri: è la prospettiva finalmente definita per l’area ex-Expo: un fattoeccezionale che, per una volta, vede concordi Stato, Regione, Comune di Milanoe Città Metropolitana.
- Ma guarda: unanuova città nell’area più densamente costruita e abitata d’Europa! Occorreavere una grande intelligenza strategica, oltre che una considerevole riservadi risorse economiche, per mettere in campo una cosa simile. Sono sbalorditodalla lungimiranza dei nostri governanti…
- Siccome ilrischio di aggiungere un nuovo capitolo alla vicenda delle cattedrali neldeserto è dietro l’angolo, si è deciso di fare sul serio: non singolicontenitori, ma una vera e propria città…
- E come concepita?
- La piastrasupertecnologica c’è già: basta attaccarvi gli edifici in modo dar vita a unpolo di rilevanza metropolitana.
- Prima leinfrastrutture primarie e poi il disegno urbano: un caso curioso dirovesciamento della logica.
- È il contesto chelo richiede…
- Un esperimentoche potrebbe fare scuola: da utilizzare, per esempio, nella colonizzazione diMarte.
- Intanto su quellapiastra occorre portare la giusta massa critica. Che in questo caso viene dallospostamento delle facoltà scientifiche dell’Università Statale da Città Studi…
- Curioso: in questiultimi decenni sul fronte dell’Università non si è fatto che tagliare ifinanziamenti pubblici e ora si trovano soldi freschi per questo intervento…
- È un premio alladisponibilità ad assecondare operazioni strategiche che hanno un consensobipartisan…
- L’università-Cenerentolaritrova appeal entrando nel risiko immobiliare. Vedo i padri fondatoririvoltarsi nella tomba…
- Chi non risicanon rosica…
- Diciamopiuttosto: chiodo schiaccia chiodo.
- ???
- Dapprima si èandati in soccorso di Cabassi (primo chiodo), ora si va in soccorso di Arexpo(secondo chiodo). Sempre a spese del contribuente.
- Ma sull’areaex-Expo le facoltà scientifiche della Statale troveranno una straordinariaoccasione di rilancio…
- Si gioca sullapelle degli studenti che dovranno fare due chilometri a piedi per raggiungerele aule dalla stazione della metropolitana…
- Una soluzione sitroverà…
- C’è pur semprel’esempio di Bicocca (altra operazione dove il pubblico è corso in soccorso delprivato). Con in più che ora non siamo in una fase espansiva dell’università(vedi il numero chiuso adottato per le facoltà umanistiche) e ci viene servito sulpiatto un trasferimento di cui non si sentiva proprio il bisogno. E che nessunpiano, regionale o comunale, aveva previsto: il classico coniglio dal cappello…
- Un coniglio èsempre meglio che la morta gora. L’operazione metterà comunque in moto nuoviinvestimenti su Città Studi…
- Dove, perchél’Università Statale trovi la parte rimanente delle risorse necessarie altrasferimento, si dovranno fare concessioni agli operatori immobiliari da partedel Comune…

- Di cosa tiscandalizzi: se si è fatto per CityLife, perché non si può trovare una modalitàanaloga per un’operazione di ben altra portata strategica?

Il 13 luglio il Consiglio Comunale ha approvato a grande maggioranza l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari. Milano ha “venduto”(segue)

Il 13 luglio il Consiglio Comunale ha approvato a grande maggioranza l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari. Milano ha “venduto”, come ha amaramente commentato Luca Beltrami Gadola (secondo altre autorevoli opinioni, addirittura ‘svenduto’) alle Ferrovie dello Stato le aree che, per localizzazione e superficie, costituivano una cruciale risorsa strategica per la rigenerazione e la riqualificazione urbana. Non si trattava infatti di friches (aree dismesse periferiche, inaccessibili, di modesto valore), ma di vere jachères: suoli preziosi da rigenerare attraverso un piano e una regia pubblica ferma, ‘lasciandoli a riposo’ tutto il tempo necessario per definirne una coerente e precisa destinazione funzionale in un quadro di strategie lungimiranti per Milano e la sua regione urbana. D’altra parte il PGT è in revisione: quale occasione migliore si sarebbe potuta cogliere per ripensare il discutibilissimo modello negoziale con il quale negli ultimi decenni si è realizzata a Milano la trasformazione urbana?

Grazie al silenzio acquiscente del sindaco (assente alla votazione!) e alla determinazione dell’assessore all’urbanistica Maran che aveva già deciso a favore del proprietario sin dall’inizio del suo mandato; grazie al supporto ‘tecnico-scientifico’ dei corifei zelanti del mondo delle professioni e dell’accademia, tutti uniti appassionatamente nelle chiacchiere sulla “occasione storica” e “sulla partecipazione entusiastica dei cittadini”; grazie alla sudditanza della stampa che racconta sempre quello che gli operatori immobiliari si aspettano che venga propinato ai cittadini, si apre ora una fase di drammatica incertezza. Perché questo accordo, così squilibrato e sleale, darà luogo sicuramente a ricorsi contro il Comune e la Regione.

Come è stato sottolineato su Arcipelago Milano da molti - giuristi, economisti e urbanisti come ad esempio Roccella, Camagni, Battisti – l’ADP ha dei punti di debolezza gravissimi: ampia sottovalutazione, peraltro condivisa da tutti gli attori, delle plusvalenze che secondo il rinnovato art.16.4 del Testo Unico sull’edilizia dovrebbero essere attribuite almeno al 50% al Comune; vantaggi minimi per la collettività e, soprattutto, per le fasce più deboli; realizzazione, con le poche plusvalenze riconosciute al Comune, di infrastrutture ferroviarie che dovrebbero essere di competenza finanziaria delle FS; nessun impegno esplicito in capo a FS a realizzare la Circle-line sull’anello ferroviario. E tutto ciò, come dicevo, in barba alla nuova legge nazionale che impone un “contributo straordinario” sulle varianti urbanistiche, attraverso sconti non giustificabili e, soprattutto, non giustificati sulle prevedibili plusvalenze: un regalo al proprietario privato (o meglio: che agisce come privato) che potrebbe configurare un danno erariale da parte degli amministratori e dei consiglieri comunali nei confronti della cittadinanza.

L’unico grande assente in questa ennesima vicenda di totale asservimento agli interessi privati (perché di questo si tratta, malgrado i terreni siano di proprietà delle Ferrovie dello Stato) è stato l’attore pubblico che avrebbe dovuto svolgere un ruolo strategico fondamentale: la Città Metropolitana. Provate a entrare nel sito del ‘grande assente’ (et pour cause, visto che grazie alla legge Delrio, ormai definitivamente delegittimata dall’esito del referendum sulla riforma della Costituzione, ha poco potere e irrisorie risorse; ma anche perché governano la Città Metropolitana di Milano amministratori inerti, afasici, che sembrano pienamente condividere logiche tutte milanocentriche.

Nel tristissimo portale della città metropolitana (www.cittametropolitana.mi.it) non si trova alcun cenno, e men che meno un link, dedicato agli scali milanesi; come se non esistesse il problema, davvero cruciale, degli effetti prevedibili di ulteriore banalizzazione dell’hinterland una volta che le visioni e i grandi progetti avranno assolto al loro compito precipuo, che non è di garantire più qualità, vivibilità e soprattutto inclusione, ma di attrarre investitori internazionali nel cuore della regione metropolitana.

Ogni paragone con i percorsi partecipati e i processi di autentica integrazione territoriale avviati nelle Métropoles francesi dall’anno della loro istituzione (la legge MATPAM è stata approvata nel 2014, come la Delrio) sarebbe frustrante, e persino un po’ umiliante.

Non è dunque casuale che la “Festa Metropolitana”, già Festa de l’Unità, del PD in corso a Milano dall’8 al 23 luglio nell’ex scalo Farini, abbia scelto quest’anno come tema della auspicata kermesse lo slogan “Oggi Milano, domani Lombardia”, pur trattandosi appunto di una festa metropolitana. Un tema forse incomprensibile ai più, ma certamente non ai due convitati/conniventi dell’ODP sugli Scali ferroviari (il Comune e la Regione appunto). La festa si svolge nell’ex scalo Farini: «una location (sic!) scelta appositamente poiché nei prossimi anni, insieme ad altri scali ferroviari cittadini, sarà al centro di un importante piano di riqualificazione». In effetti, si tratta dell’area dismessa più ampia fra quelle in gioco, sulla quale potrebbero atterrare nel prossimo futuro non uno soltanto, ma un grappolo di Boschi Verticali.

Nel programma sono previsti incontri e dibattiti su una congerie eterogenea di temi, alcuni anche interessanti e con relatori pertinenti. Manca però un momento dedicato a una riflessione sull’urbanistica negoziata ‘alla milanese’, sostituito invece, dulcis in fundo, da un dibattito programmato per il tardo pomeriggio del 23 luglio e con la partecipazione dell’assessore all’urbanistica Maran su “La riqualificazione degli scali ferroviari”.

Per concludere in bellezza la Festa Metropolitana, nelle ultime giornate sono attesi i relatori ‘più prestigiosi’- fra cui Martina, Minniti, Lotti, Pinotti, Boschi e forse (a sorpresa!) Renzi. Ma c’è un problema considerevole: finora la festa non ha attratto i milanesi, come testimoniano le foto scattate domenica 17 luglio alle 19! Un flop colossale che ha anche penalizzato i malcapitati venditori di street food che hanno dovuto pagare un affitto salato e non hanno visto l’ombra di un avventore!

Ma che importa se il popolo della sinistra non partecipa? Il futuro dello scalo Farini e di tutti gli altri scali si annuncia comunque radioso.

«Lo storico impianto di Milano è abbandonato da quattro anni e sull’area si scatenano gli appetiti immobiliari. Braccio di ferro in corso tra Palazzo Marino e Pirellone sulla proposta di vincolo». il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017 (p.d.)

Una mattina di mezza settimana nel grande piazzale dello stadio Giuseppe Meazza. Caldo, afa, lavori in corso davanti ai cancelli. Il resto è silenzio rarefatto. Poche auto. Il tram che ferma in piazzale Axum. Ci s’infila a destra. Via dei Piccolomini. Ombra e mura ingiallite, murales anche, scritte da ultras. Legno marcio agli infissi. Sono le stalle, viste da fuori. Dieci metri oltre, il cancello. Eccolo laggiù il “tondino” di allenamento. Assalito dalle piante, con il tetto, bellissimo una volta. Casca a pezzi. Il silenzio ora si fa denso. Il tempo non si muove. Giri lo sguardo verso la pista ed eccolo, ancora lo puoi vedere, il lampo sulla terra chiara, il rumore delle ruote, il sudore, il volto teso del driver, corre Varenne. È il 1999, il mito si forgia qua alla Scala milanese del trotto. Gran premio delle nazioni. “Varenne très bien”. Arriverà l'Amerique a Parigi,due volte. Ma ora è qui a Milano, giovane e semi sconosciuto.
Stravince e vola via, questo figlio di Waikiki Beach e Ialmaz. Lo chiameranno il Capitano. Si sente, nel degrado di adesso: c'è ancora l’Enzo Janacci che lo canta, c’è il pubblico di allora, la Milano di allora, che riprende fiato dagli scandali di Mani pulite e dalle bombe mafiose. In comune a palazzo Marino, il fruscio delle tangenti ha soffiato via i socialisti. È passata la Lega nord. È arrivato il Polo delle libertà. Il nuovo mazzettificio meneghino, però, attende sotto il finto sdegno dei politici. Il tempo è elastico. E torni qui ora nel deserto dell’abbandono.
Quattro anni fa nel 2013, battenti chiusi. Snai spa dà l’annuncio. L’Ippodromo del trotto di via dei Piccolomini smette di vivere e oggi soffoca tra sporcizia ed erba secca. C’è la crisi, si disse, basta corse. Addio azzardo, adrenalina da scommessa, vecchi malavitosi e giovani boss. Un pezzo di città è in lutto. Non i palazzinari che su questo tempio del costume e dello sport oggi fanno di calcolo. La burocrazia da carte bollate ha tolto vincoli, rimodellato piani, inanellato varianti, niente più sport o aree verdi, solo 290 mila metri cubi sul tavolo per nuove e golose speculazioni. Snai festeggia. E ci mancherebbe. Ma qualcosa si rischia di perdere, un pezzo di vita reale della città, uno stralcio di Dna unico. Che se, poi, dal tondino si cammina verso la tribuna passando dalla biglietteria, facendo attenzione a non calpestare escrementi e monnezza varia, con il sole di questo luglio che brucia, ancora si ascolta la mitragliata dei seggiolini alzati, scatta in piedi il pubblico, qui nell’ovale ippico che fu mondiale.
Nobili signori e industriali, travet e banditi. Politici, amministratori, mafiosi. Adesso s’intravedono le ombre, che nulla resiste se non il degrado. Sembra cent'anni fa, quando Epaminonda il Tebano, tra una corsa e un Negroni al bar Basso, si prendeva la città e la politica. Erano solo gli Ottanta da bere. Milano che cambia e dimentica la sua storia, cancella i suoi simboli. In via dei Piccolomini, e oltre via dei Rospigliosi: incendi, racket, omicidi, debiti senza rimedi, commedia umana che rischia di svanire per sempre. Milano, trotto, cemento.
Ecco il punto. Che succede adesso? Nell’epoca del post Expo, nella risacca da grandi opere che in città riprendono vigore. Nuovi affari. Con le ruspe che attendono a motori accessi. Ci sono ospedali: il San Paolo e il San Carlo da traslocare. C’è l’università Statale da trascinare a forza sui terreni dell’Expo. Ci sono le aree degli ex scali ferroviari. E c’è l’ippodromo che fa gola e ci mancherebbe. Zona di gran lusso. San Siro, ville, residenze di calciatori superpagati. Poco più in là, l’Ippodromo del galoppo. Verde e liberty ovunque. Salvato per fortuna dal cemento anche se qualcuno, negli anni, ci ha tentato. Ma lì il vincolo è oggi inamovibile.
Il cavallodi Leonardo, dieci tonnellate d’imponenza, sorveglia austero. Fino al 2010 il rischio è stato concreto. Poi il comune ha blindato tutto.Non con il trotto, però. A fine 2016 Italia nostra e i Verdi ci hanno provato. Vincolo anche sull’area del trotto. La proposta è stata portata in Regione Lombardia. Al vaglio della Commissione. Richiesta bocciata e rispedita al mittente. Pazzesco in effetti. Anche perché la richiesta viene portata avanti dal sovrintendete del comune, competente per l'ippodromo, e silurata dal Pirellone. Porte aperte alle ruspe? Non ancora. Si attende l’esito sul rinnovamento della proposta di vincolo. La Regione, in sostanza, boccia la richiesta sul 100% dell’area e chiede di rimodulare. Nell’attesa, però, gli atti di quella decisione ancora non sono accessibili. Enrico Fedrighini, assessore al Verde nel Municipio 8, e storico animatore delle battaglie ambientaliste a Milano, ha richiesto il fascicolo ma le risposte ancora latitano. Snai, che è proprietaria dell’area, non può influenzare la decisione. Sta lì e attende. Dalla sua una determina dirigenziale del comune di Milano, datata 2014. Carta vincente, in effetti. Niente più vincoli per aree sportive. E così Snai si ritrova in mano un tesoro.
Enrico Fedrighini, figuriamoci, mica ci sta. Stuzzicato, sbotta: “Sono rimasto molto sorpreso dal fatto che la Commissione regionale abbia bocciato la prima proposta di vincolo presentata dalla sovrintendente Ranaldi. La bocciatura è un evento non comune anche perché la proposta mi risulta frutto di un’accurata istruttoria e anche perché l’originaria richiesta di vincolo del trotto ricalcava la proposta già presentata nel 2004 per vincolare l’ippodromo del galoppo. Spero che la lettura degli atti, ai quali peraltro non ho ancora avuto accesso, serva a fugare definitivamente i non pochi dubbi sull’intera vicenda”.
La decisione della determina di tre anni fa, motivata in 10 pagine, è legata, tra i vari motivi, anche al fatto che Snai dopo la chiusura della struttura di via dei Piccolomini, all’epoca promise, e in effetti oggi è così, la riapertura del Trotto nella pista Maura. Ma è trotto dimesso, e spettacolo al ribasso. Nel frattempo, Snai ha presentato un’istanza per introdurre una variante al Pgt e rendere edificabili 97 mila metri quadrati equivalenti a 290 mila metri cubi. Per questo i terreni del trotto oggi valgono una fortuna.
Allo sfregio del mattone ci sarebbe una soluzione mediana. Quella di affidare a Inter e Milan il progetto di trasformare la struttura nel cosiddetto “quarto anello”, allestendo all'interno ristoranti e negozi in stile inglese. Le “milanesi” però nicchiano. Il sindaco Beppe Sala, interista conclamato, ha più volte ribadito la volontà di seguire questa strada. Solo parole. Perché, nella realtà, l'assenza del vincolo paesaggistico rende difficoltosa questa opzione. I terreni, così com’è la situazione oggi, sono un tesoro inestimabile. Eppure ancora, da questa parte abusivo, tra la pista e il “tondino”, sembra di risentirle le parole dello speaker di quel 1999, 14 novembre, serata fredda, luci e nebbia. Varenne primo al traguardo. “La gente in pista – sono quelle di allora –, San Siro che salta, le braccia al cielo, e tutta Milano che esplode”. Quattro colpi di escavatore sul piazzale del Meazza bastano a riportati dentro a questo luglio bollente. Di fronte al dissesto di un pezzo di cuore milanese.
«In un Paese democratico i cittadini hanno libertà di parola, e il “potere” ha il dovere di ascoltare. Se non si ascolta non c’è democrazia, meno ascolto meno democrazia». arcipelagomilano, 12 luglio 2017 (m.c.g.) con postilla


Sentire o ascoltare. La lingua italiana, forse una delle più belle del mondo, è umiliata dall’uso che ne vien fatto soprattutto dai social e nella comunicazione politica. Il guaio maggiore è che insieme alla lingua si sono persi i pensieri ma forse non tutto è andato perduto almeno nel significato delle parole: il sindaco Sala e l’assessore Maran nella vicenda scali hanno certamente “sentito” molte voci ma poche o nessuna ne hanno “ascoltata”. Per il momento almeno confrontando il testo del vecchio Accordo di Programma con il nuovo, quello firmato dal sindaco il 22 giugno scorso, di ascolto non se ne vede e non se ne vedrà perché ormai è un testo immutabile: sottoscritto com’è dalle parti va ratificato entro il 22 luglio.

Sentire, nella lingua italiana, tra gli altri significati che lo riconducono a quello di avvertire una sensazione, ha anche quello delle sensazioni colte col senso dell’udito: sentiamo rumori, sentiamo parole, sentiamo suoni. Un atteggiamento passivo.

Ascoltare è tutt’altro. Ascoltare vuol dire due cose essenzialmente, udire con attenzione ma anche accettare consigli, suggerimenti, cogliere pensieri altrui. Ascoltare in tutte le sue accezione è un atteggiamento attivo.In un Paese democratico i cittadini hanno libertà di parola, possono farsi sentire, è un loro diritto ma non sempre ne hanno gli strumenti necessari. In un Paese democratico il “potere” ha il dovere di ascoltare. Se non si ascolta non c’è democrazia, meno ascolto meno democrazia. Che altro?

In un Paese democratico il potere ha anche il dovere di rispondere quando viene interpellato. Certo il potere chiede di essere interpellato nelle forme e nelle sedi previste dai regolamenti ma vi sono anche interrogativi sollevati in altre sedi e pure di questi va tenuto conto. Sugli scali nessuna risposta a fronte di tante domande “fuori sede”.L’irritazione degli inascoltati si coagula attorno ad iniziative di contrasto destinate a percorrere vie giudiziarie spesso coronate da successo soprattutto nel nostro Paese, tanto attento più alle forma che alla sostanza: ci sono appigli per tutti.

Perche non ascoltare? Chi è, se c’è, l’anima nera in questa vicenda? Chi suggerisce di non ascoltare? Milano ha dunque la sua Aracne?

Il dito, la luna e il sindaco Sala – Lette le carte della Procura il sindaco Sala dichiara: ” Mi sembra tutto molto trasparente, il Consiglio di amministrazione ha approvato il tutto” e a seguire il suo avvocato Salvatore Scuto: “Tutta l’azione da lui svolta è stata improntata alla più assoluta trasparenza”. La domanda preliminare resta un’altra: lo scorporo della fornitura del verde dall’appalto della piastra per come è stata fatta rispetto al codice degli appalti è un atto legittimo? E ancora: quali sono le ragioni dello scorporo? Nell’interesse di chi si è proceduto alla scorporo? Se è vero, come appare dai giornali, che a scorporo avvenuto non vi è stata riduzione dell’ammontare dell’appalto principale, lo scorporo è doloso in quanto non solo costituisce illecito arricchimento dell’appaltatore ma danno evidente per il committente.

Se dunque nella vicenda dello scorporo vi è stato dolo, il fatto che una decisione dolosa sia stata presa non solo da un singolo ma da un intero consiglio di amministrazione di una SpA pubblica, regolarmente trascritta nei verbali di Consiglio e dunque”trasparente”, non sposta di una virgola il vero quesito: fu un atto legittimo? Non inquinato da pressioni esterne e fatto nell’esclusivo interesse pubblico? La trasparenza di un atto non ne legittima la correttezza. Se poi tutti i consiglieri hanno approvato l’atto risultato doloso potrebbe persino configurarsi l’associazione a delinquere. Se poi non vi fu dolo ma solo “leggerezza” dovremo parlare di danno erariale.

Dalle carte della Procura emerge comunque uno spaccato della società che ruotava attorno a Expo 2015 molto si avvicina al “mondo di mezzo” di Mafia Capitale. La visita negli uffici di Expo di Greganti e Frigerio la dicono lunga e avrebbero dovuto essere un campanello d’allarme. Da chi siano andati ancora non si sa. Chi aveva l’obbligo di garantire con ogni mezzo la legalità delle procedure e la lealtà e onestà dei propri collaboratori?

postilla

Un convincente commento critico a due vicende di ‘malaurbanistica’ che non sembrano intaccare le certezze della gioiosa macchina da guerra dell’amministrazione milanese: la approvazione dell’Accordo di Programma sugli scali ferroviari, ormai in dirittura di arrivo malgrado le numerose voci che si sono levate contro la cementificazione delle ultime grandi risorse territoriali disponibili nel cuore della Città Metropolitana di Milano; e la vicenda giudiziaria del sindaco Sala la quale, al di là degli esiti, lo delegittima agli occhi dei cittadini consapevoli, di chi ha a cuore il bene comune e non gli interessi degli immobiliaristi.
Nel frattempo, dall’8 al 23 luglio, è in corso alle scalo Farini la “Festa metropolitana” del PD, dall’incomprensibile titolo “Oggi Milano, domani Lombardia”. Insomma, già dal titolo si evince che, in questa sedicente ‘Festa metropolitana’, agli amministratori e responsabili politici del PD della Città Metropolitana non importa nulla; ma delle occasioni di speculazione immobiliare molto. E infatti, Pietro Bussolati, segretario del Partito Democratico di Milano, nella enfatica e trionfalistica pagina introduttiva al calendario della Festa, scrive: “Dopo lo scalo di Porta Romana dell’anno scorso, quest’anno è la volta dello scalo Farini, oggi un fantastico sito di archeologia industriale, destinato a diventare il terzo parco – per estensione – della città, che ospiterà verde, spazi di aggregazione, terziario e social housing. La riqualificazione degli scali cambierà il volto urbanistico di Milano e il progetto è il simbolo di una città che corre verso l’innovazione”. Peccato che la festa sia totalmente disertata dai cittadini. Ma nelle giornate conclusive sono previsti anche alcuni oratori illustri che certamente ne risolleveranno le sorti: Luca Lotti, Stefano Boeri, Marco Minniti, Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi.

Il tunnel per collegare la M3 alla futura M4: un commento F. Bottini, La Città Conquistatrice; due opinioni contrapposte, la Repubblica Milano; e una descrizione di Ilaria Carra, la Repubblica Milano. 5 luglio 2017 (p.d.)

La Città Conquistatrice, 4 luglio 2017
MILANO: DALL'IDEA DI CITTA'
ALL'IDEA DI PROGETTONE
di Fabrizio Bottini

Una volta si parlava correntemente di urbanistica come idea di città complessiva, ma forse già covava qualcosa di sbagliato, e lo si doveva capire guardando certi «progetti ideali» cavati dal cappellino di prestidigitazione degli ubiqui studi di architettura. Non per discutere la qualità di quei progetti, nessuno vuol contestare nulla in quel senso, ma proprio il metodo. Ricordo di averne usato uno (uno fra i tanti che però aveva il vantaggio, non da poco, di essere integralmente disponibile, e orgogliosamente pubblicato da Urbanistica, organo ufficiale e istituzionale) per cercare di spiegare un pochino alle menti aperte degli studenti di pianificazione del territorio, cosa avrebbe dovuto in teoria distinguere il loro approccio da quello dei progettisti tout court. Si trattava di uno di quei «quartieri autosufficienti», ideologicamente concepiti come tali e cacciati nella più bieca estrema periferia extraurbana, nella fase matura e discendente di quel genere di trasformazioni, dopo che dal punto di vista simbolico erano già girate in tutto il mondo le riprese della morte dell’architettura-urbanistica moderna, con le cariche di dinamite a tirar giù gli stecconi del Pruitt-Igoe di Minoru Yamasaki. Il fatto più significativo e abbastanza spudorato, di quel progetto, era la vera e propria cancellazione dell’urbanistica, ridotta a puro fatto tecnico e autoreferenziale, in cui i retini e le norme arrivavano a valle del progetto, anziché precederlo immediatamente alla fine di tutt’altro percorso logico. Metafora illuminante, quei retini già sgocciolanti di rendering (anche se allora non si usava la pratica, pudicamente contenuta in qualche schizzo prospettico a china e matita «per dare l’idea»).


Dalla piccola escamotage alla grande rinuncia
E veniamo ai nostri giorni, parecchi decenni più tardi, ad avvenuta evaporazione di fatto anche di quei preliminari retini, che ormai arrivano talmente dopo il progettone da essere diventati inutili, eventuali, pura sanzione di ciò che si è già deciso in base a criteri a ben vedere del tutto estranei, di solito tecnico-finanziari, un po’ l’uno un po’ l’altro, ma di solito non si capisce bene neppure con quanto peso relativo. Ultimissimo esempio l’idea piuttosto tardiva, anche se obbligatoriamente tale per motivi politici (un cambio di maggioranza comunque dal peggio al meglio) di collegare in rete le linee delle metropolitane milanesi, anziché lasciarle assurdamente scorrere una accanto all’altra, miliardi buttati inutilmente in una idea di «mobilità collettiva» surreale, perché sganciata dai luoghi e dalle funzioni, e pensata soltanto come opera a finanziamento pubblico, e travaso di risorse dalle tasche di qualcuno a quelle di qualcun altro, con la scusa della pubblica utilità. Due delle linee più nuove, la M3 e la M4, scorrono in centro e nei pressi di un fondamentale polo di servizi, appunto ignorandosi, perché progettate malissimo e senza riferimento alla città, come un gruviera sotterraneo autoreferenziale, che deve risolvere solo «problemi ingegneristici», mica quelli dei cittadini, dell’ambiente, dell’abitabilità eccetera. Anche la soluzione viene concepita sostanzialmente col medesimo stile T.I.N.A. There Is No Alternative da specialista indiscutibile: per collegare due buchi ci vuole un altro buco. Ma la cosa più stupefacente (uso l’aggettivo in senso sarcastico, per chi non avesse ancora colto) è il «dibattito» che ne esce, lo «scontro» fra posizioni diverse.
Tertium Non Datur, proprio proprio?
Su un quotidiano locale, il classico paginone dedicato al tema vede la contrapposizione dialettica tra due posizioni che si vorrebbero antitetiche: un trasportista e un urbanista (sic), tra l’altro entrambi da sempre impegnati in politica locale, con cariche di rilievo. Assai schematicamente, l’esperto di trasporti ex assessore comunale, è favorevole al tunnel tra i due tunnel: «c’è da fare un corridoio di collegamento tra due stazioni dove dentro passa chi ha pagato, non si può prendere e uscire e quindi il collegamento andrebbe protetto. E poi incrocerebbe le strade, interferendo con il traffico»; dall’altra parte l’urbanista ex assessore regionale ritiene invece che « Una persona normale non fa un percorso così lungo sotto terra […] sarebbe troppo lungo e i costi non si giustificherebbero […] io lascerei tutto così com’è oggi». La cosa da sottolineare, qui, è il fatto che ancora una volta, come nei casi eclatanti e recenti degli scali ferroviari, o dello scoperchiamento dei Navigli, seppur su scala più piccola ma forse più evidente, non si scontri proprio nulla se non una lettura diversa della tabellina costi-benefici, ma dove alla voce «benefici» non si esce di un millimetro dal progetto, considerandolo evidentemente imprescindibile in sé, chiuso e chiavi in mano. E l’idea di città, dove la mettiamo? Poniamo, l’occasione di partire da un’idea di spazio di massima, estesa all’intero corridoio teorico tra i due ormai fissati poli delle stazioni, e ragionare a scala di porzione urbana? Quel posto non è una fila di formichine dal buco al mucchietto di zucchero e viceversa, ma incrocia una quantità di flussi, e per inciso proprio per quel motivo si sono fatti passare da lì quei copiosi investimenti. Tenerne conto, mai? O tenere conto, che so, del biglietto del tram «smaterializzato», che rende ridicolo il concetto di tunnel sotterraneo continuo e dedicato, perché «entrare e uscire» si sgancia dalle tariffe? In pratica, siamo tornati, o restati, a quella reazionaria idea secondo cui «noi non sappiamo che farcene, del piano regolatore, ci regoliamo benissimo da soli». Alla faccia dei cittadini, della sventolata partecipazione, della sostenibilità e compagnia bella.
la Repubblica Milano, 4 luglio 2017

IL DIBATTITO SUL
TUNNEL A MISSORI
di a.m. e i.c.

Perché no. “Costi non giustificati non sarebbe usato”Roberto Biscardini, ex assessore regionale ai Trasporti e già docente al Politecnico di Teorie urbanistiche e Qualità urbana, che cosa ne pensa del collegamento pedonale per unire la linea gialla e blu del metrò?
«Mi sembra che fare un tunnel sotterraneo lungo ottocento metri partendo da Missori, ma anche di seicento se si partisse da Crocetta per raggiungere la fermata Sforza Policlinico della linea M4 sarebbe troppo lungo e i costi non si giustificherebbero ».
Perché?
«Oggi se un milanese che ha viaggiato sulla linea 3 del metrò volesse andare davanti al Policlinico, cosa farebbe? Uscirebbe alla stazione Crocetta andrebbe a piedi o al massimo prenderebbe il tram».
Non sarebbe scomodo?
«Io che sono una persona normale lo farei. Molto meglio che camminare sottoterra per troppo tempo».
Da anni, c’è un sottopassaggio tra Cordusio e Duomo che collega le linee 1 e 3 del metrò.
«È lungo solo trecento metri e di solito i passeggeri lo usano solo se piove».
Quindi non le piace questo progetto.
«Capisco che c’è un peccato originale. La mancanza di una fermata di corrispondenza tra la linea 3 e la futura M4. Il nuovo sottopassaggio dovrebbe tagliar via Pantano, via Larga, passare sotto l’università, cosa, peraltro, molto complicata, per arrivare al Policlinico. Una persona normale non fa un percorso così lungo sotto terra».
Lei cosa propone?
«Lascerei tutto così come è oggi. È vero che a Parigi ci sono i passaggi sotterranei tra una linea e l’altra. Per esempio, a Concorde e a place de la Republique, ma non sono così lunghi».
Perché sì. “Non c’è alternativa a scavare sottoterra”
Giorgio Goggi, ex assessore comunale ai Trasporti della giunta Albertini e uno dei saggi che sta studiando la riapertura dei Navigli, è d’accordo con l’idea di un tunnel tra la M4 e la M3 a Missori?
«Farlo sotterraneo mi pare una strada obbligata. L’importante è capire bene i flussi di viaggiatori che si stima utilizzeranno l’interscambio, se ne vale la pena. Anche perché mezzo chilometro almeno a piedi non è poco. Ma immagino abbiano già valutato che c’è bisogno di farlo».
Perché deve essere per forza un passaggio sotterraneo?
«Un normale camminamento pedonale in superficie, cosiddetto a raso, ha due controindicazioni: il sistema del metrò è chiuso, c’è da fare un corridoio di collegamento tra due stazioni dove dentro passa chi ha pagato, non si può prendere e uscire e quindi il collegamento andrebbe protetto. E poi incrocerebbe le strade, interferendo con il traffico».
Perché scarta una passerella sopraelevata?
«Tecnicamente si può fare tutto ma una passerella aerea oltre che esteticamente discutibile potrebbe creare interferenze con le case. Insomma sarebbe una soluzione più problematica, vista anche la necessità di ascensori per scendere e salire».
Lei era assessore quando si iniziò a progettare la linea, come mai non avete inserito questo interscambio?
«Io ho finito il mio mandato nel 2006, siamo riusciti ad arrivare alla delibera Cipe e a ottenere i finanziamenti. Allora non ci avevamo pensato, era stato escluso. Ora avranno valutato con uno studio che c’è bisogno e una forte richiesta di un tale collegamento».




la Repubblica Milano, 3 luglio 2017

MILANO, IN MISSORI UN TUNNEL PEDONALE
PER UNIRE LA LINEA GIALLA E LA BLU
DELLA METROPOLITANA
di Ilaria Carra
Troppo complicato chiudere corso di Porta Romana per mesi e mesi: è lo scenario che tutti vorrebbero scongiurare. È anche per evitare un cantiere con un impatto ritenuto eccessivo, che il collegamento pedonale tra la futura linea metropolitana Blu e la Gialla già esistente avverrà in piazza Missori e non a Crocetta. Una fermata che sarà anche un po' più lontana dalla stazione della M4 Sforza Policlinico che verrà, ma che comunque rappresenta la strada più semplice per chi deve realizzarla. È una delle decisioni che la giunta Sala sta prendendo. Perché poi serviranno mesi per mettere a punto il progetto. Che è una variante rispetto a quello iniziale e che probabilmente potrebbe aver bisogno di un ulteriore via libera dal Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica.
La linea sembra comunque dettata. E sono stati tecnici e costruttori a farlo. La cordata guidata da Impregilo ha consegnato di recente a Palazzo Marino un dossier aggiornato sui lavori per la quarta linea della città, che entro il 2022 aggancerà San Cristoforo a Linate. Una tabella di marcia in cui sono inseriti anche gli scenari possibili per l'interscambio tra la 4 e la 3. E legare la stazione di Sforza Policlinico a Missori è proprio la strada suggerita: per i costruttori è questa la via meno problematica rispetto all'altra ipotesi, quella di collegare la M4 con Crocetta. Un conto è chiudere un pezzo di via Pantano e un altro è bloccare tutto corso di Porta Romana, è il ragionamento che si sta facendo in Comune in questi giorni e che fa propendere verso l'opzione B, quella di Missori.
Che le due linee metropolitane sarebbero state collegate era assicurato, soprattutto per evitare di far pagare un biglietto doppio. Nei mesi scorsi il Municipio 1 aveva insistito molto sulla necessità di avere questo tunnel pedonale sotterraneo, che potrebbe essere lungo dai 200 ai (più probabili) 500 metri a seconda del tracciato. Nelle valutazioni in corso c'è da tenere presente tutto: la fermata della Gialla più vicina a quella di Sforza Policlinico della linea blu è Crocetta, ma è anche quella dal potenziale archeologico sotterraneo più elevato. Per questo nei mesi scorsi si è studiata anche l'ipotesi di aggiungere decine di metri al tunnel fino a Missori, passando sotto via Pantano e scavando poi anche sotto al Policlinico, già coinvolto dai lavori per costruire l'omonima stazione. Si vedrà poi se utilizzare una talpa meccanica o il metodo di scavo tradizionale.
Il collegamento dovrebbe costare intorno ai 35 milioni: si pescherà dai 70 milioni già messi in conto nel Patto per Milano firmato col governo: fondi in parte in arrivo da Roma che serviranno anche a garantire l'anticipo delle cosiddette "tratte funzionali" e a recuperare i ritardi accumulati su tutte le altre. Perché nel dossier e ci sono soprattutto le scadenze aggiornate sulla consegna dei lavori, assieme a quelle dei costi. L'assessore alla Mobilità Marco Granelli e il sindaco Sala l'hanno studiato e hanno chiesto ai costruttori alcuni approfondimenti sui tempi e garanzie di apertura. Come, tassativa, è la richiesta di far viaggiare i treni lungo la linea da Linate e Forlanini, pronta praticamente dai tempi di Expo, entro giugno 2021.





Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità mediatica del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli (segue)
Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli. Invisibile nella solita, patinata pubblicistica decantatoria, sulla stampa di informazione, e nella coscienza collettiva in generale, tranne in quella degli utenti di quel luogo, naturalmente. Per chi non lo sapesse, nella terminologia un pochino gergale dei progettisti dicesi plinto urbano (Cfr. Jouke van der Werf, Kim Zweerink, Jan van Teeffelen, History of the City, Street and Plinth, in AA.VV. The City at Eye Level, 2016) l'interfaccia al pianterreno o comunque ai livelli inferiori, tra edificio e città, quello che da un lato sarebbe la vera misura dell'equilibrio prestazionale fra spazio pubblico e privato, ma dall'altro più di ogni altro dettaglio subisce il devastante impatto della coatta eterna «intermodalità», consistente nell'imperfetto passaggio da un veicolo qualsivoglia, alla naturale condizione di nudo pedone.

Non è forse un caso se, sul lungo arco vagamente positivista di vero e proprio trionfo del veicolo a motore nel determinare le forme urbane, si afferma l'utopia dell'ubiquità di quel plinto cavo costituito dall'obliterazione dei piani bassi, trasformati vuoi in varchi cavernosi di accesso ad autorimesse interne, vuoi in muraglioni ciechi concepiti per schermarsi militarmente dall'assedio del rumore e dell'inquinamento. Poi vennero la cosiddetta architettura post-modernista e i suoi epigoni, a ripensare la città secondo criteri pedonali, sostenibili, ambientalisti, ma con un piccolo dettaglio per nulla insignificante: la città che pensavano loro, stava solo negli sfondi dei rendering, quella vera continuando ad essere non molto diversa da quanto intravisto nel cartone automobilistico Futurama del 1939, o nei disegni di Victor Gruen per la pedonalizzazione di Fort Worth del 1954.

Oggi iniziano a vedere la luce e a entrare a regime i progettoni privatistici della T Rovesciata di Ricostruire la Grande Milano, variamente concepiti dalle archistar di turno e soprattutto dagli «sviluppatori» di riferimento proprio secondo quel criterio da superblocco, già stigmatizzato sul nascere a suo tempo da William Whyte, secondo cui qualunque obiettivo è da perseguirsi e comunque intendersi internamente alla trasformazione, non certo nel rapporto con la città e men che meno nell'interfaccia del plinto urbano. Il quale viene così a ridursi a incrocio piuttosto casuale fra la città dei rendering tutta pedonale, o addirittura guarnita di tricicli da consegne, deltaplani, droni, danze folk multietniche di passaggio in variopinti costumi tradizionali, e la triste grigia realtà di un sistema di flussi, pendolari o casuali, ancora in gran parte caratterizzato dall'automobile, e di cui i pur progettati interfaccia interni di box sotterranei o autosilo sono solo caricature della soluzione (esattamente come i dettagli folkloristici high tech o di socialità posticcia elencati prima). Accade che poi il solito fai-da-te riempie i buchi vuoti di senso lasciati dalla non urbanistica, ma li riempie a modo proprio, e nel caso specifico di Porta Nuova ammucchiando ferraglia assediante, sotto forma di centinaia di motorini, scooterini e motoroni sparsi sul marciapiede dalla parte del «vicolo di servizio» su cui si aprono alcuni degli scaloni di accesso alla mitica Piazza Aulenti e ai luoghi di lavoro e svago trendy.

L'area di Porta Nuova in uno dei progetti integrati del PUMS
Perché appunto, a recitare il ruolo del figurante più o meno hipster che si aggira tra torri e vetrine griffate, ci si deve arrivare in qualche modo, e tanti (praticamente tutti) di quelli che compaiono nelle foto patinate non abitano esattamente a un tiro di sasso da lì, e devono arrangiarsi.

Quei racconti di gente che scende dall'aereo e magari trascinandosi appresso un trolley da venti chili scorazza serena da un mezzo di trasporto pubblico sostenibile all'altro, senza neppure smettere di spolliciare sul tablet, come ben si sa appartengono alla narrativa ufficiale, come le promozioni che un paio d'anni fa proponevano improbabili fuori-Expo food-oriented in città al turista internazionale. La realtà più prosaica è quella di chi è almeno tanto fortunato da potersi muovere qualche decina di chilometri in scooter, per poi mollarlo sotto le scale e salire come in un episodio di Star Trek dentro la realtà parallela della post modernità autoindotta. E quanto detto per il caso del quartiere modello, vale ovviamente in termini anche assai peggiori per tanta parte della città e dell'area metropolitana, quella stessa città metropolitana coperta dalla buona novella del nuovo Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile, in questo momento nella fase delle osservazioni. Piano che a sfogliarlo, e a osservarlo anche nei dettagli, parrebbe promettere parecchie soluzioni anche al grosso problema descritto sopra, nonché a tanti altri.

Ci sono anche minuscole cadute di stile, dentro al complesso documento di piano del PUMS proposto ai cittadini, di cui val la pena forse ricordare almeno quei passaggi dove si afferma addirittura che «La linea M4, attualmente in costruzione, rivoluzionerà la mobilità [...] connetterà l’aeroporto di Linate, aumentando l’accessibilità internazionale». Prefigurando magari un utente che parte fiducioso dalla sua villetta di Willow Springs, Montana, con già salvato sullo smartphone il biglietto della linea blu che lo porterà dritto dritto davanti al bar del Cerutti Gino al Giambellino, agognata meta finale.

Sul medesimo registro, stavolta probabilmente per dare ai cittadini quel senso di atmosfera accogliente-futuribile già visto nella pubblicistica dei vari Eventi e Fuori-Eventi, la promessa di «realizzare High Line» sul modello dell'imitatissimo progetto newyorchese, anche se a ben vedere si tratta di cose con un rapporto inverso rispetto alla mobilità vera e propria, riuso di infrastrutture di trasporto dismesse ri-adibite al passeggio, ma appunto si tratta di dettagli di poco conto in sé. L'impressione è che anche nel caso del PUMS, esattamente come osservato per i plinti urbani dei progettoni pubblico-privati di riqualificazione, si tratti di qualcosa molto cresciuto su sé stesso e su una (assai organica e interconnessa, per carità) logica interna.

Da un lato il piano degli spazi che pare considerare i flussi qualcosa di indefinito, a cui certamente adeguarsi, ma fino ad un certo punto. Dall'altro il piano dei flussi, dove le funzioni, la loro ubicazione, le dinamiche e tendenze sociali, le innovazioni prevedibili o auspicabili, hanno certo uno spazio anche importante, ma stanno lì senza davvero interagire. Eppure, si tratta in ogni caso esattamente dei motivi per cui ci si muove verso quel posto e non verso altri, la ragione che induce a investire molto in infrastrutture pesanti e complesse in alcuni casi, e al massimo a ricucire un po' al risparmio in altri meno prioritari, vuoi per lo sviluppo socioeconomico, vuoi per lo specifico ruolo strategico generale. Ma già: quale strategia? Dentro il cervello dei cittadini, spesso leggendo questi grandi progetti di trasformazione urbanistica, o di rivoluzione trasportistica, o di innovazione immateriale del tipo smart city, si formano dei vuoti di senso colmabili solo con un briciolo di immaginazione.
Una immaginazione che deve però trovare punti fermi nella realtà tangibile: navigo sulle onde della smart city ancorato alla trasportistica di oggi, ai problemi di parcheggio e shopping di oggi, dentro i contenitori e le polarità di oggi, mentre invece tutto sta cambiando sotto i nostri piedi, e lo sta facendo secondo altri piani e programmi di settore. I quali a ben vedere si rivelano poco più che grandi complessi e coordinati patchwork di progetti, avendo rinunciato in partenza alla natura sostanzialmente olistica e comprensiva che dovrebbe avere un piano, nonché alla autentica trasparenza delle intenzioni rispetto ai cittadini. Quella piazza così trendy e pedonale assediata dalla ferraglia assai poco postmoderna delle moto e delle auto dei suoi frequentatori hipster, era un piccolo ma assai rivelatore sintomo di un male peggiore. Magari rifletterci aiuta, sempre che non ci accontentiamo di sognare una passeggiata sulla futura High Line, tra le fioriere.

La quantità e la natura dei reati per i quali il discusso personaggio, oggi sindaco di Milano, è indagato richiederebbero una discussione più ampia sulla città giannibarbacetto.it, 24 giugno 2017, con postilla (m.c.g.)

La candelina del primo anno da sindaco di Giuseppe Sala, a palazzo Marino, è stata spenta dal ventaccio soffiato dal palazzo di Giustizia. La Procura generale ha chiuso l’indagine sul più grande appalto Expo, quello della “piastra”, e ha comunicato a Sala di essere indagato non solo per falso ideologico e materiale, ma anche per turbativa d’asta: ha falsificato la data di nomina di due commissari di gara; e ha condotto in modo irregolare l’appalto per gli alberi dell’esposizione universale, alla fine pagati quasi il triplo del loro valore.

C’è voluta la Procura generale per riuscire a riscrivere la storia della “piastra” Expo, un appalto da 272 milioni di euro per preparare la base su cui impiantare tutta l’esposizione. La Procura di Edmondo Bruti Liberati (nel 2014 in guerra con il suo vice Alfredo Robledo) aveva alla fine chiesto di riporre tutto in archivio. Ma ora il sostituto procuratore generale Felice Isnardi, che aveva avocato le indagini sostituendosi alla Procura, avvisa otto persone e due aziende che l’inchiesta è conclusa e si prepara a chiedere i rinvii a giudizio. Scrive una storia che si dipana tra gli uffici Expo sopra il Piccolo Teatro e l’area dell’esposizione a Rho, ma che arriva fino all’abitazione privata a Brera di Sala, allora amministratore delegato e commissario Expo e oggi sindaco di Milano.

Tutto comincia nel 2012 nella sede di Mm, la società d’ingegneria che insieme a Expo spa prepara il progetto esecutivo della “piastra”. Un dipendente di Mm, l’architetto Dario Comini (già condannato in altre indagini Expo e solo omonimo di un grande barman milanese che realizza ottimi cocktail), estrae dai computer dell’ufficio i documenti sul progetto esecutivo, ancora segreti, e li porta a Piergiorgio Baita, il numero uno della Mantovani, l’impresa già coinvolta nelle indagini sul Mose di Venezia.

Poi lo incontra, per spiegargli per bene, punto per punto, come fosse un personal trainer, il progetto e i suoi problemi. Forte di questa formidabile preparazione atletica, Baita partecipa alla gara e nell’agosto 2012 sbaraglia i concorrenti. Presenta un’offerta tecnica che risulta prima per punteggio qualitativo (46,8 punti su 60) e un’offerta economica prima per ribasso (148,9 milioni su 272, il 41,8 per cento). Comini (l’architetto, non il barman) viene premiato con 30 mila euro mascherati da incarico professionale (inesistente).

Ma intanto era scoppiato il caso della commissione giudicatrice della gara: Sala scopre, dopo che la commissione si è già riunita una prima volta il 18 maggio 2012, che due commissari sono incompatibili. Rischia di saltare tutto. Allora fa carte false. Firma tre atti che annullano gli atti precedenti e aggiungono due commissari “supplenti”, che poi sostituiscono i due incompatibili: li firma il 31 maggio 2012, ma la data sugli atti è 17 maggio. Li firma nella sua casa di Brera, dove gli hanno mandato i documenti.

Poi, nel luglio 2012, la commissione proclama il vincitore. Scoppia il finimondo: a vincere l’appalto doveva essere il costruttore Paolo Pizzarotti, ne erano convinti il presidente della Regione Roberto Formigoni e il suo fedelissimo Antonio Rognoni, numero uno di Infrastrutture Lombarde, gran regista degli appalti lombardi (poi sarà arrestato per altre indagini). E invece, grazie a Comini, stravince la Mantovani. Da dove spunta questo Baita? Rognoni e i suoi cercano di convincerlo a farsi da parte lasciando il posto al secondo classificato (Pizzarotti appunto). Cercano di invalidare la gara. Baita non molla. Allora Pizzarotti stringe con lui un accordo: lo convince a non fare ricorso, nel caso risultasse escluso da una “verifica di congruità” della sua offerta; e in cambio offre di fare a metà, tra Pizzarotti spa e Mantovani spa, dei 50 milioni di differenza tra le due offerte. Ma la verifica poi non viene fatta, perché l’offerta della Mantovani è ai limiti, ma regolare.

Allora Baita viene vessato con richieste aggiuntive (e non previste dal bando): raddoppio della fideiussione assicurativa, limitazione dei subappalti. Baita ingoia. Intanto però ha ingaggiato Angelo Paris, braccio destro di Sala a Expo e rup (responsabile unico del procedimento) della “piastra”, che gli racconta in diretta tutto quello che succede nella sala di comando dell’esposizione. Lo aiuta a far approvare un “premio di accelerazione” (30 milioni) e una ristrutturazione del contratto (55 milioni). Ma nel maggio 2014 Paris viene arrestato per un’altra indagine su Expo e il suo “lavoro” s’interrompe.

Intanto Sala è alle prese con un’altra grana: quella degli alberi di Expo. La fornitura delle 6 mila piante è dentro l’appalto della “piastra”. Ma “esponenti politici della Regione Lombardia” (prevedibilmente i ciellini di Formigoni e Rognoni) vogliono coinvolgere l’Associazione lombarda florovivaisti. È già pronta a scattare la ditta Peverelli, con il sostegno di uno sponsor, la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, che era in attesa di realizzare il progetto di “Città della salute” sull’area Falck di Sesto San Giovanni. Sala accetta: “Senza un provvedimento formale, dispone lo stralcio dal bando” della fornitura di alberi, del valore di circa 5 milioni di euro. L’importo non viene scorporato dai 272 milioni della “piastra”, ma viene “artificiosamente spalmato sulle altre lavorazioni allo scopo di mantenere inalterato il valore della base d’asta”. Viene “omesso di predisporre un nuovo bando di prequalifica” a cui avrebbero potuto partecipare altre imprese e “già dal 15 marzo 2012” viene “individuato l’affidatario della fornitura nella ditta Peverelli in associazione con uno sponsor”. Ecco dunque scattare per Sala la nuova accusa di turbativa d’asta. Poi però la triangolazione non riesce, Bizzi si sfila e Peverelli si ritira. Paris allora “concorda con la Mantovani l’affidamento diretto” della fornitura di alberi, per 4,3 milioni di euro (716 euro a pianta). La Mantovani li compra in un vivaio a 1,6 milioni (266 euro a pianta).

Nell’indagine che la Procura di Milano voleva archiviare, la Procura generale ha individuato ben 12 ipotesi di reato. Una corruzione (Comini e Baita), tre turbative d’asta (Sala, Rognoni, Perez, Comini, Baita, Morbiolo), una ricettazione (Baita), tre abusi d’ufficio (Paris), un falso in atto pubblico (Sala e Paris), una intrusione in illecita in sistemi informatici (Comini), una rivelazione di segreti d’ufficio (Comini), una omessa denuncia (Paris). Ora gli indagati potranno replicare. Poi arriveranno le richieste di rinvio a giudizio.

postilla

Al di là delle effettive responsabilità penali che spetterà alla magistratura valutare, molti avevano ritenuto che quella di Sala fosse una candidatura inopportuna. In questo clima di crescente delegittimazione, sarebbe comunque doverosa una pausa di riflessione da parte del governo locale sui sedicenti grandi progetti di rigenerazione in discussione: in primis sugli Scali Ferroviari, ma anche sul riuso delle aree exEXPO e sul futuro di Città degli Studi (m.c.g
.)

«Le prese di posizione dei due maggiori partner dell’Accordo di programma sugli ex scali ferroviari milanesi nei confronti del dibattito che si è svolto in questi ultimi due mesi si possono sintetizzare in quattro parole: colpevoli silenzi e fumo negli occhi», arcipelagomilano.org, 20 giugno 2017. Con riferimenti

Le prese di posizione ufficiali dei due maggiori partner dell’Accordo di Programma sugli scali nei confronti del dibattito – politico ma anche tecnico – che si è svolto in questi ultimi due mesi si possono sintetizzare in quattro parole: colpevoli silenzi e fumo negli occhi. I silenzi, inaccettabili, si riferiscono alla impermeabilità alle considerazioni critiche, in punta di diritto e di economia, che sono state rivolte da varie parti alla procedura e alle clausole del vecchio Accordo di Programma, che convergono su una evidentissima sproporzione fra il vantaggio di FS Sistemi Urbani in termini di valorizzazione delle aree di proprietà (pura rendita o, tecnicamente, valore di trasformazione) e il Comune, che dovrebbe essere il custode dei vantaggi pubblici.

Sordi alle indicazioni di vizi giuridici rilevantissimi, i due partner persistono nel mantenere immutati i termini del vecchio accordo. Il fumo negli occhi si manifesta invece nella proposta, da parte del Comune, di modifiche non essenziali e finanche peggiorative ai contenuti urbanistici del programma, nonché nel computo di vantaggi pubblici (spesso inesistenti) che dovrebbero dimostrare l’attenzione della Giunta al bene della città. Vorrei indicare rapidamente i punti che mi paiono più importanti, anche se sono stati già sottolineati (si vedano i recenti articoli di Camagni e Roccella su ArcipelagoMilano del 26 aprile e del 12 aprile 2017, e molti altri). Sui colpevoli silenzi sembra cruciale evidenziare (soprattutto al Comune che è la parte penalizzata e stranamente consenziente) i punti seguenti:

A- Le plusvalenze che FS realizzerebbe dall’Accordo di Programma, che configura una variante di piano, sono sottoposte a partire dal 2014 alla nuova disciplina nazionale del “contributo straordinario” in aggiunta agli oneri tradizionali (come integrati all’art. 16 comma 4 del TU sull’edilizia): il “maggior valore generato […] da interventi in variante urbanistica” sono ripartiti fra il proprietario e il Comune “almeno” al 50%. La Regione Lombardia non ha ancora legiferato al proposito, come hanno fatto altre Regioni, per cui la legge nazionale è direttamente applicabile.

B- Il “maggior valore generato da interventi in variante urbanistica” non è quello definito dalle clausole del vecchio Accordo di Programma, che già appariva contra legem nel 2015: non è la differenza fra il valore netto di trasformazione delle aree (dato dai ricavi prevedibili di vendita al netto dei costi e di un adeguato margine di profitto per la funzione del developer) e il valore delle aree a bilancio di FS (che può essere cambiato in ogni momento dalla società) (1), come proprietà e Comune si ostinano a sostenere.

Il “maggior valore” previsto dalla legge nasce dalla differenza fra il primo valore (generato dalle nuove volumetrie assegnate in variante) e il valore di mercato che le aree hanno nella attuale definizione degli usi consentiti dal piano (e cioè “servizi ferroviari”), un valore dunque pari a zero. Le aspettative di rivalutazione non sono la realtà, come la bocciatura dell’accordo in Consiglio ci ha dimostrato. Se anche attribuissimo un puro valore agricolo alle aree, esso sarebbe più che annullato dai costi prevedibili di bonifica. Eppure i fatidici 222 milioni in bilancio FS continuano a essere presentati – in riduzione della plusvalenza – anche da parte del Comune in occasioni formali (come nella riunione delle Commissioni Consiliari urbanistica e mobilità del 12 giugno scorso).

C- Nel documento presentato dal Comune alla suddetta riunione delle Commissioni Consiliari, si va anche più oltre nel defalcare costi e oneri in riduzione della plusvalenza realizzabile. Si deducono le imposte che FS deve (dovrà?) pagare, con la dizione “fiscalità 2015”. Quale fiscalità? Sembra di capire quella nazionale, forse sulla rivalutazione dei cespiti: ma perché mai dovrebbe essere addossata al programma? Inoltre, si sottraggono le “anticipazioni per la C-line” e cioè i 50 milioni promessi al Comune. Ciò è contabilmente un errore: i 50 milioni fanno parte della plusvalenza realizzata, che andrà successivamente divisa al 50% fra FS e Comune.

A quanto ammonterebbe il maggior valore, tecnicamente la “rendita” generata dall’Accordo di Programma in capo al proprietario delle aree, valutando il tutto in senso cautelativo e accettando tutti i veri costi previsti dall’accordo nella misura ivi indicata?

Partirei dalle valutazioni di Gabriele Mariani esposte nell’articolo del 31 maggio su ArcipelagoMilano, assai analitiche, fedeli ai valori esposti nell’Accordo di Programma e non viziate da duplicazioni di costi. Le completerei aggiungendo una valutazione del profitto lordo da attribuire alla figura del developer nonché proventi e costi dell’edilizia sociale (che Mariani teneva separati).

Ipotizzerei di includere a pieno titolo nell’ambito privato l’edilizia convenzionata (89.000 mq di slp), che ha una sua profittabilità, mentre lascerei alla diretta responsabilità del Comune la costruzione e gestione dell’edilizia a canone concordato e agevolato, le due fattispecie a maggiore interesse sociale, da finanziare direttamente attraverso le entrate della fiscalità comunale generata dal programma. Quest’ultimo valore è quello che la nuova legge impone di tassare e suddividere fra pubblico e privato, tassando la pura rendita (e non i profitti imprenditoriali di costruttori e developer) (3), mentre il plusvalore complessivamente generato dal programma si conferma sul valore di 1 miliardo di euro, già variamente evidenziato nel dibattito.

Ipotizzando una ripartizione al 50% del valore di trasformazione, come vuole al minimo la legge dello Stato, al Comune toccherebbero 352 milioni, con cui si potrebbero realizzare non solo i lavori per la Circle Line (i famosi 50 milioni previsti dall’accordo), la parte più seria dell’edilizia sociale prevista (a canone concordato e agevolato, con un costo prevedibile di circa 100 milioni), magari con un aumento assai desiderabile della componente agevolata (che qui, come tradizionalmente a Milano, è ridotta ai minimi termini) e altri possibili interventi a vantaggio collettivo, anche sulle infrastrutture di mobilità.

Dunque, si tratta di un valore molto differente da quello stimato negli scenari pubblicamente presentati dal Comune, che prevedono un ventaglio da 54 a 86 milioni. A FS toccherebbe la stessa cifra, al netto di tutti i costi (smantellamento binari, bonifiche, interessi e comunicazione) che verrebbero “socializzati” nel programma complessivo. Ma veniamo al fumo negli occhi:

1- I vantaggi per il Comune sarebbero questi che ho indicato, che derivano da una valutazione delle plusvalenze coerente con la nuova legge e con la dottrina estimativa e non basata sulle clausole fantasiose (e giuridicamente rischiose se accettate dalla parte pubblica) del vecchio accordo. Basterebbe solo che la politica si impegnasse in questo senso, con determinazione e fantasia. E non sono certo i vantaggi che ci si ostina a indicare, come nel documento già citato, rappresentati dagli oneri ed extra-oneri urbanistici.

Questi servono infatti per realizzare le infrastrutture che consentono l’utilizzazione civile e l’accessibilità delle aree e degli immobili prodotti e sono in conseguenza sempre pagati dai costruttori/developer: banalmente, servono per poter usare nelle case i servizi igienici, per non arrivare a casa su uno sterrato, per avere un poco di verde condominiale e spazi per servizi di base ad uso dei nuovi quartieri; non costituiscono un regalo alla città, come si vuole far credere!

2 – Il recente aumento della quota di spazi ceduti al Comune per realizzare verde (dal 50 al 66%), introdotto fra le clausole dell’accordo, sembra un messaggio per generare facile consenso, ma contiene molti possibili effetti perversi. Innanzitutto si lascia credere che tale clausola avvantaggia i cittadini a scapito del proprietario delle aree, mentre così non è, poiché i volumi costruiti restano gli stessi ma sono solo compattati in altezza, e quindi resta immutato il valore economico del programma. In secondo luogo, densità edilizie eccessive possono squalificare l’intervento, riducendone l’appetibilità e quindi il prezzo di vendita. In terzo luogo, occorre dire chiaramente che non abbiamo bisogno né di foreste urbane (comunque artificiali!), né di grandi estensioni di verde difficili da gestire e da securizzare, ma di parchi e giardini ben fruibili e diffusi anche a livello di vicinato.

3 – Il rafforzamento delle quote previste per edilizia a scopo sociale sarebbe una buona cosa se non si abbandonasse quasi totalmente la possibilità di realizzare edilizia pubblica e non si privilegiasse la componente dell’edilizia convenzionata, ormai da considerare ampiamente inutile per finalità sociali. Nel caso degli scali, i prezzi di vendita, scontati e convenzionati, sarebbero pari in media a 2.700 euro/mq, con punte fino a 3.700 (stime di Mariani): non si tratta certo di un’edilizia per gli esclusi dal mercato abitativo, in uno scenario verisimile di aumento della povertà urbana e di crescente difficoltà per giovani coppie e classi a reddito medio-basso.

In conclusione: precipitarsi a firmare un accordo fotocopia del precedente quanto a condizioni economiche – e anzi per altri versi peggiorato – senza soffermarsi a considerarne criticamente alcune clausole palesemente contra legem sarebbe colpevole e irresponsabile nei confronti della cittadinanza; si sprecherebbe l’ultima grande occasione per ripensare un pezzo importante di città con un approccio finalmente moderno ed europeo, che realizza un bilanciamento fra gli interessi pubblici e quelli privati.

(1) Il valore delle aree iscritto a bilancio ha un puro valore civilistico e semmai concerne la sola eventuale tassazione nazionale del capital gain.
(2) I valori di costo e di ricavo per le diverse fattispecie di edilizia convenzionata e agevolata sono state stimate da Mariani, che ringrazio.
(3) Il profitto riconosciuto al developer può dipendere da molte circostanze (condizioni del mercato, rischi, forza contrattuale delle parti). Se il proprietario riconoscesse un profitto pari al 30% dei costi, tale profitto del developer sarebbe di 421 milioni, il valore incassato dal proprietario (valore di trasformazione) si ridurrebbe a 635,3 milioni (il gioco è a somma zero) e la quota del Comune a 318 milioni.

Riferimenti
Per un inquadramento della vicenda si veda su eddyburg Scali ferroviari a Milano - Storia, progetto, conflitto.

Un'analisi "sfogo" e una ricetta sicura per vincere la depressione relativa alle vicende degli scali ferroviari dismessi di Milano, Arcipelago Milano, online, 13 giugno 2017 (m.c.g.)

Pare che la depressione colpisca sempre di più, (Organizzazione Mondiale della Salute – aprile 2017), e che sia una della principali cause di suicidio, 780.000 casi nel mondo l’anno scorso, perché una causa della depressione è la mancanza di “speranze”: la Hopelessness Depression (HD). Pensando agli scali mi deprimo ma non mi suiciderò, ho trovato l’antidoto, pare sia un “classico”: l’incazzatura.

Sono incazzato perché vedo che per gli scali le cose vanno avanti come se nulla fosse sebbene una parte non trascurabile dell’opinione pubblica “avvertita” cerchi di raddrizzare le gambe al cane.

M’incazzo perché penso che tutto sia cominciato quando si poteva fermare e non lo si è fatto. Poco dopo l’elezione di Pisapia a sindaco, il Piano di Governo del Territorio, quello voluto dal duo Moratti Masseroli, un piano vecchio stile all’insegna dell’ossequio agli interessi immobiliari e del tutto indifferente al bene comune della città, s’incagliò per un errore procedurale. C’era l’occasione di mandare a monte tutto ma si preferì mandarlo in porto per non dare l’impressione di voler fermare tutto, si sarebbe detto: arriva la sinistra nemica di quelli che chiama “speculatori”, un suo vezzo demagogico. Fu rielaborato un piano modificato per quel poco che si poteva accogliendo le osservazioni disponibili utili a smorzarne gli effetti più dirompenti. Tanto l’edilizia si era fermata.

Pensavo che la politica urbanistica del duo Pisapia De Cesaris fosse una svolta. Non lo era. Semplicemente la pressione degli operatori immobiliari si era arenata nelle secche di un mercato inesistente. Ma sottotraccia un operatore immobiliare che guardava lontano c’era: un Ligresti vestito da pubblico, le Ferrovie dello Stato. Il pelo cambia ma il vizio resta.

Poi l’Accordo di Programma che poteva sancire la sconfitta del bene comune, la subordinazione della città e del suo patrimonio agli interessi immobiliari – a un nuovo Ligresti -, questa volta si arena nelle secche di un Consiglio comunale che si scopre scavalcato, ridoto a ruolo di notaio delle decisioni della Giunta.

M’incazzo a posteriori con me stesso: quando l’assessora De Cesaris disse di aver raggiunto il miglior accordo possibile con le Ferrovie dello Stato, e lo portò in Consiglio, me ne rallegrai invece di mettermi un nastro nero al braccio come si faceva una volta per mostrare il lutto: lutto per la morte della speranza di una nuova urbanistica. La fortuna mi ha consolato: l’accordo non è stato ratificato, è ancora lì, speriamo.

M’incazzo perché quando nel programma di Sala ho visto che al primo punto c’era la sistemazione degli scali ferroviari ho sperato che avesse riflettuto sul problema e su quello che era successo in Consiglio comunale. L’Accordo di Programma poteva essere ben diverso da quello bocciato dal Consiglio: sostanzialmente è ancora quello. L’eredità della vecchia Giunta pesa ancora.

M’incazzo perché vedo un assessore all’urbanistica, digiuno della cultura necessaria, gestire il futuro di Milano e che dichiara di aver aperto le porte alla partecipazione dei cittadini senza nemmeno saper bene che cosa sia la partecipazione: dire, come dice, che molte migliaia di persone hanno “partecipato” solo perché erano a un convegno o a una riunione, compresi coloro che hanno “visto “ i progetti sugli scali, le Visioni dei cinque studi di architettura, vuol dire non aver capito nulla. Noto tra l’altro che in molti incontri ai quali ha partecipato l’assessore, le voci di dissenso sono state parecchie, inutili, non se ne troverà traccia nel nuovo Accordo di Programma.

M’incazzo quando sento il consigliere Monguzzi dire che la nuova “mozione” di indirizzo sugli scali è “un segnale contro la speculazione” semplicemente perché avendo aumentalo l’altezza degli edifici residenziali previsti e quindi riducendo la loro superficie al piede ci sarà più verde. La storiella dell’edilizia convenzionata poi, che si fa solo quando quella libera si muove, non la beviamo più.

Ma m’incazzo soprattutto quando vedo che tutto si muove senza che vi sia stata una seria “analisi dei bisogni” della città, che avrebbe potuto evitare in futuro almeno clamorosi errori come quelli fatti in passato quando il Comune non ci pensò nemmeno di offrire alternative migliori all’Istituto Europeo di Oncologia di Veronesi purché non andasse a collocarsi in fondo a via Ripamonti, lontano da qualunque mezzo pubblico. E l’Humanitas? Ed Expo? E poi e poi ….

M’incazzo quando vedo che si convocano dei tavoli “tecnici”. I tecnici servono per dar corpo a un progetto a valle dell’analisi dei bisogni, analisi che prelude a ogni decisione “politica” che va comunque fatta: i tecnici sono la foglia di fico di chi non sa fare scelte politiche, tecnici che per quanto capaci non sostituiscono la politica.

M’incazzo perché, ingenuo, non ho ancora capito che l’analisi dei bisogni non si fa perché, se fosse fatta nell’interesse pubblico, molto ma molto difficilmente coinciderebbe con i “bisogni” degli operatori immobiliari.

M’incazzo ma non mi uccido perché ho ancora qualche speranza. Vedo passare il tempo a chiudere grossolanamente e a posteriori le falle più vistose dell’elaborazione e della partecipazione, dando spazio a ogni tipo di opposizione. C’è ancora tempo per fare un’analisi dei bisogni – i dati già raccolti non mancano – e a valle di questa rileggere tutto il prezioso lavoro fatto tra tavoli, e commissioni e convegni: ritrovare la razionalità. Lo scontro politico vero si può fare solo sui bisogni, la loro valutazione e le priorità. Chi vuole qui potrà ritrovare destra e sinistra. Dopo ma solo dopo sugli strumenti.

Ebbene sì, vinco la depressione incazzandomi. “M’incazzo ergo sum” (Suivant Descartes, 2017).

Il dibattito sugli Scali Ferroviari su arcipelagomilano.org

Nel dibattito sul destino degli ex scali ferroviari c'è un grande assente: l 'obiettivo di un più alto livello di«convivenza civile, nel cui manifestarsi rifulgano tre elementi: la coesione sociale; le relazioni virtuose che promuovono la crescita umana e culturale dei singoli come della collettività; e un abitare condiviso». Arcipelago Milano, 9 maggio 2017

Sul recupero delle aree degli scali ferroviari sono già emerse diverse indicazioni utili a meglio definire, dal punto di vista della Pubblica amministrazione, i termini del nuovo Accordo di Programma: una riforma del trasporto su ferro così da rimettere a sistema la mobilità urbana e regionale; il perseguimento di una stretta connessione fra accessibilità e destinazioni funzionali; il conseguimento di complessità nelle attività e nella popolazione insediabile.

Eppure, più complessivamente, si sta facendo strada un’idea cardinale: le aree degli ex scali sono un’occasione straordinaria per riattrezzare la città e il contesto metropolitano con una ricaduta che investe l’intera regione.

Questo porta subito in evidenza una contraddizione sul piano strategico: operazioni come quella di buttare denaro pubblico nella voragine dell’area ex Expo (oltretutto mettendo a repentaglio il destino di Città Studi) e la stessa Città della Salute avrebbero richiesto una rigorosa verifica a tutto campo sull’impiego delle risorse della collettività e sul convogliamento delle stesse energie private.

In questi mesi sono emerse questioni tutt’altro che peregrine e dalla soluzione tutt’altro che scontata: di chi è l’effettiva proprietà delle aree (Maria Agostina Cabiddu et alii)? E poi, quanto delle plusvalenze conseguite nella trasformazione spetta al Comune (vedi l’articolo di Roberto Camagni e Alberto Roccella su ArcipelagoMilano del 12 aprile 2017)?

Su questi nodi si può disquisire e dividerci; ma è difficile non convenire che siamo di fronte a una grande questione politica. Più che mai il Comune è chiamato a decidere se intende guidare il processo e controllarne gli sviluppi o se, come è accaduto nella trasformazione delle grandi aree dismesse degli ultimi tre decenni, delega di fatto questo compito agli operatori immobiliari.

Il bilancio di cosa sia disceso da questa delega assume i contorni di un grande fallimento: un campionario di errori o comunque di occasioni mancate sul fronte della messa a frutto delle potenzialità per la città (fallimenti solo in parte mascherati dai successi registrati sul piano dell’investimento immobiliare). Non c’è tempo qui per un’analisi nel merito, ma un fatto è certo: il recupero di grandi aree comporta un’operazione complessa in cui concorrono insieme la fondazione di parti di città e la riqualificazione del più ampio comparto urbano interessato.

Su entrambi i versanti, a Milano come in molte altre città, gli operatori immobiliari si sono dimostrati inadeguati, se non del tutto disinteressati. L’intervento privato, ancorché di grande portata, è stato capace di sfruttare parassitariamente la città esistente (e in particolare le economie esterne da questa espresse), ma non di promuovere valori urbani che non siano quelli del lievitare dei prezzi a mq. Il risultato è uno scambio decisamente asimmetrico in cui nel rapporto pubblico/privato la città ha fatto la parte della benefattrice, senza esserne adeguatamente ripagata in termini di avanzamento della qualità urbana.

Nel dibattito, pur ricco, che si è sviluppato fin qui sulla questione del recupero degli Scali ferroviari a Milano la qualità urbana, in specie l’urbanità che ne è il culmine, è la grande assente. Eppure, in fatto di trasformazioni urbanistico-architettoniche, nel processo di programmazione, progettazione e realizzazione un posto non secondario dovrebbe spettare alla promozione di questa qualità che rappresenta il punto più alto raggiunto dalla civilizzazione.

L’urbanità ha a che vedere con la convivenza civile. Nel suo manifestarsi rifulgono tre elementi: la coesione sociale; le relazioni virtuose che promuovono la crescita umana e culturale dei singoli come della collettività; e un abitare condiviso che si fa carico dell’habitat, con attenzione alla difesa/incremento delle risorse per il vivere e alla cura dei luoghi.

Accanto alle infrastrutture primarie (trasporti, telecomunicazioni, fognatura, acqua, gas etc.) e alle infrastrutture cosiddette secondarie (i servizi sociali ai vari livelli di utenza, a cui andrebbero aggiunte le attività culturali in senso lato), va introdotta la nozione di infrastrutture della socialità riconoscendo il ruolo che gli spazi aperti pubblici (strade, piazze, verde etc.) e i rapporti fra spazio pubblico e spazio privato possono assolvere nel favorire le relazioni di prossimità e in generale la qualità urbana di una formazione insediativa.

La costituzione delle infrastrutture della socialità dipende molto, anche se non esclusivamente, dai seguenti fattori: la scelta appropriata delle destinazioni d’uso e l’istituirsi di sinergie fra le attività; l’instaurarsi di una stretta relazione fra spazi pubblici e privati e l’esaltazione della loro mutua appartenenza, in un equilibrio sempre da ritrovare fra relazione e difesa; la qualità degli spazi aperti pubblici e la loro capacità nel fare da connessione e da legante tra gli organismi edilizi; il definirsi di luoghi dotati di “bellezza civile” (nozione che traggo da Giambattista Vico), in particolare di bellezza dialogica, ovvero di bellezza che nasce dall’interazione (qualità in cui le città italiane sono state maestre).

Questo porta a riconoscere le potenzialità dello spazio pubblico quale sede basilare delle infrastrutture della socialità, rispetto a cui le infrastrutture primarie dovrebbero svolgere un ruolo di servizio (esattamente il contrario di quanto accade con la piastra dell’area Expo), mentre le infrastrutture secondarie (nel senso estensivo sopra indicato) dovrebbero costituirne i capisaldi.

A ben guardare, negli interventi di recupero delle aree dismesse realizzati a Milano da Bicocca a Citylife, passando per Porta Nuova, un’evoluzione c’è stata: dall’imitazione della città ottocentesca (assai inferiore al modello) si è assistito all’avanzare di gated communities camuffate.

Tre potenti fattori spingono in questo senso: la predilezione degli operatori immobiliari per i grandi complessi edilizi in cui si combinano autoreferenzialità ed esibizionismo, a discapito di una complessità che si affida a interventi minuti e integrati all’insegna della misura e dell’affabilità; l’adozione di tecnologie costruttive che finiscono per ridurre la stessa architettura (per come l’abbiamo conosciuta fin qui) a un ruolo ancillare nella configurazione degli edifici: un ruolo prossimo a quello del disegno delle carrozzerie automobilistiche; e, motore primo, l’inseguimento esclusivo della massimizzazione della rendita immobiliare con tutto quello che consegue (selezione funzionale e sociale, aumento dei processi di specializzazione e segregazione etc.).

Se le decisioni sul riassetto urbanistico-architettonico delle aree degli scali fossero lasciate agli operatori immobiliari, il piatto è già servito: grandi complessi per lo più sviluppati in altezza (grattacieli per uffici sigillati e torri residenziali di lusso, con boschi verticali o meno, su palafitte o meno) e aree verdi anche in grande quantità ma scarsamente infrastrutturate e poco frequentate e per questo destinate a diventare poco sicure: una ricetta di matrice lecorbuseriana che è tra i modi inventati nella modernità per dire addio alla città. Il verde è importante ma va visto come teatro di relazioni, intessuto di articolazioni, di attività e di presenze che arricchiscano di opportunità l’impiego del tempo libero.

Se non si cambia rotta, lo scenario prossimo venturo è già disegnato: solitudini che si giustappongono a solitudini; estraneità conclamate, quasi urlate, con gli abitanti e i city users orfani del carattere accogliente e ospitale degli interni urbani che ha caratterizzato i momenti migliori della storia della città.

So bene che i media fanno il tifo per quel tipo di scenario e che più di un amministratore pubblico non fa nulla per evitarlo, ritenendo esaurito il proprio compito nell’innescare la trasformazione il prima possibile. Dopotutto, le conseguenze – fratture nel corpo sociale, lacerazioni nel tessuto urbano, accentuazione dei problemi di sicurezza – si faranno sentire sul lungo periodo e nessuno sarà chiamato a risponderne.

Se avesse invece consapevolezza della portata in gioco, chi ha responsabilità di governo della cosa pubblica potrebbe evitare il disastro ponendo precise condizioni perché la trasformazione, oltre che sui principi richiamati all’inizio, sia imperniata sulle infrastrutture della socialità. Come? Puntando essenzialmente su due elementi: la creazione di complessità funzionale e sociale favorendo sinergie e l’instaurarsi negli spazi aperti pubblici di interferenze nei modi d’uso e nelle presenze così da favorire, con la socialità, il naturale presidio dei luoghi urbani; il rinnovarsi di una stretta relazione fra spazi aperti pubblici, spazi collettivi e spazi privati che, architettonicamente interpretata, faccia da principio fondante dei luoghi del convivere: della loro vitalità e della loro bellezza.

Per concludere, a Milano nei prossimi decenni occorre puntare sul “ring degli scali”: un sistema forte e riconoscibile di luoghi a elevata qualità relazionale e di grande bellezza civile, capaci di innervare di linfa vitale interi comparti urbani, periferici e no. Si tratta di un’operazione complessa ma che va introdotta e regolata nell’Accordo di Programma al pari delle altre questioni strategiche da cui molto dipende il futuro della città.

Una riflessione critica sul modello negoziale milanese relativo ai grandi progetti di trasformazione urbana: un modello condizionato dal capitalismo finanziario immobiliare. Sintetica analisi comparativa sull’esperienza francese dove è la regia pubblica che detta le condizioni al privato


Come ha efficacemente sottolineato Giancarlo Consonni in un articolo pubblicato su la Repubblica del 13 aprile scorso dal titolo Tutti i rischi di eventopoli:la Milano da bere, il capoluogo lombardo sta subendo un bombardamento di messaggi trionfalistici sulle sue magnifiche sorti che meriterebbe una quotidiana azione di disvelamento. Fra i cittadini attenti sono comunque in molti a non cadere nella trappola mediatica, anche se il messaggio ridondante che arriva, anche dai quotidiani di diffusione nazionale e dalla televisione, continua a prediligere un racconto incantatore.

Quali sono gli attori che supportano questa narrazione effimera, accattivante e per molti aspetti lontana dalla realtà? Quale strategia è sottesa all’enfasi, davvero stucchevole, sul rango europeo o addirittura mondiale del capoluogo lombardo (un déjà vu inquietante rispetto alla “Milano da bere” degli anni ’80 che tutti sappiamo come si è conclusa)? In ultima istanza: chi comanda (o meglio, continua a comandare) a Milano grazie anche al supporto di questo stile argomentativo? Chi sono i suoi principali, e spesso entusiasti, supporter?

Chi comanda a Milano senza discontinuità l’abbiamo già capito da molto tempo: la finanza immobiliare. È attorno a questo indomabile impero che ruota il sistema decisionale milanese. E sono numerosi i complici, ben identificabili e davvero censurabili. Fra questi, spiccano alcuni attori che, in teoria, dovrebbero avere a cuore il bene comune della città (e di tutti i suoi cittadini).

Il primo, e principale, è rappresentato dall’amministrazione municipale. È dagli anni ‘90 che, malgrado il mutare delle maggioranze, il governo locale condivide, e facilita, una trasformazione della città che asseconda gli obiettivi e le strategie dei grandi gruppi privati e del settore finanziario/immobiliare. Questa strategia è contrabbandata, e questo appare davvero inaccettabile, per ‘rigenerazione urbana’ con un promesso benefico effetto sui consumi di suolo, ampiamente contraddetto in realtà dalle dinamiche attuali e prevedibili nell’hinterland.

Le cose non sono cambiate con i governi di ‘sinistra’. Lo ha immediatamente dimostrato, nella disillusione di molti suoi elettori, la giunta Pisapia approvando in gran fretta nel 2012 un Piano di Governo del Territorio affollato di interminabili chiacchiere retoriche, già compilate da Masseroli/Moratti - nel loro PGT adottato ma non approvato -, e attuato attraverso regole iperflessibili (ricordiamo, in particolare, il principio di ‘indifferenza funzionale’ e il modello della ‘perequazione estesa’’) che hanno rappresentato un vero e proprio regalo alla speculazione immobiliare.

Lo sta dimostrando la giunta attuale. Giuseppe Sala, un personaggio apparentemente gioviale e talora anticonformista(1) sta assecondando, con il suo profilo basso, tutti i progetti di trasformazione attualmente proposti dai privati. Chi invece si espone in prima linea è il suo assessore all’urbanistica, Pierfrancesco Maran il quale, anziché adoperarsi, forte delle deleghe che gli sono state affidate, per arginare le mire speculative degli attori privati, sta di fatto ripercorrendo un modello di mero marketing urbano, ormai più che obsoleto e abbandonato da decenni nelle grandi città europee: un modello attento solo alla immagine esterna della città, agli annunci pubblicitari, alla continua evocazione dei grandi progetti in cantiere - qualsiasi ne sia il contenuto -, a una modalità di comunicazione sui media enfatica e ridondante, alla sponsorizzazione di manifestazioni culturali effimere ma di garantito successo mediatico.

Continua comunque a mancare, dopo decenni di deregolazione urbanistica, una valutazione degli effetti a scala municipale – e a scala metropolitana – dei grandi progetti già realizzati; e, a maggior ragione, di quelli prevedibili con la realizzazione dell’accozzaglia di progetti di rigenerazione urbana oggi in discussione. Manca insomma totalmente, in attesa che partano i lavori per il nuovo PGT, una valutazione complessiva degli effetti prodotti sul territorio milanese (e metropolitano) dal PGT approvato dalla giunta Pisapia, da misurare, come si fa nelle migliori pratiche internazionali, attraverso indicatori di prestazione di efficacia, sostenibilità, equità, vivibilità e, oggi più che mai, accoglienza.

Considero dunque le attuali iniziative urbanistiche del Comune di Milano più che desuete, perché improntate a un modello di marketing urbano che ha goduto di un transeunte fascino nelle città europee soltanto negli ormai lontani anni ’80.

Come giudicare altrimenti il questionario enfaticamente somministrato ai cittadini sul sito dell’Assessorato all’Urbanistica e contrabbandato come iniziativa partecipativa preliminare all’elaborazione del nuovo PGT (2)? Il questionario (3) appare incomprensibile ai più per il linguaggio che utilizza - anche se familiare a chi ha insegnato al Politecnico…. Il suo obiettivo è meramente retorico, sia per i quesiti complessi somministrati all’incauto cittadino volonteroso, sia perché si configura come un episodio una tantum che non prelude all’avvio di procedure formalizzate e continue di ascolto.

Sarebbe stato molto più utile per coinvolgere i cittadini presentare una disamina attenta dei risultati ottenuti con il ‘vecchio’ PGT, evidenziandone successi e limiti, e individuando possibili alternative qualitative e scenariali per il nuovo PGT, sulle quali invitare i cittadini ad esprimere le loro valutazioni e le loro priorità.

E ancora: come giustificare l’artificio di aver sbandierato come un grande evento partecipativo la presenza di migliaia di visitatori alla mostra dei progetti per gli scali ferroviari? L’evento, intitolato con la consueta enfasi “Gli scenari per immaginare il futuro della città”, ha in realtà presentato i progetti per il riuso degli scali elaborati da cinque affermati studi di architettura (su incarico non del Comune ma di FS Sistemi Urbani).

Sulla scelta ampiamente discutibile della giunta Pisapia di porre ai voti un Accordo di Programma per gli scali ferroviari quando era ormai in scadenza di mandato – un accordo clamorosamente bocciato dal consiglio comunale nel dicembre 2015 - è stato già scritto molto, soprattutto su Arcipelago Milano (e i contributi più interessanti sono stati pubblicati su eddyburg).

Si concedevano a FS Sistemi Urbani indici volumetrici elevatissimi e spalmabili indiscriminatamente su aree che rappresentano l’ultima occasione per realizzare progetti di vera mixité: progetti di intensificazione e non di mera densificazione. Stupisce però che la esposizione dei progetti, con i loro rendering mistificatorî, sia stata ampiamente pubblicizzata sul sito del Comune, anche incorrendo in un imbarazzante ‘lapsus freudiano’(4).

Tutto ciò dà l’impressione di una decisione ormai presa, di un accordo lieto fra l’amministrazione e una azienda pubblica che agisce da privato, nel quale il ruolo di regolatore e di decisore ultimo, che dovrebbe essere in capo al governo locale, si è, come ormai da decenni avviene, completamente affievolito. Ancora più inquietante è il sospetto che, nella più totale mancanza di trasparenza e di procedure di evidenza pubblica, ai cinque studi di architettura incaricati da FS Sistemi Urbani per suggerire visioni progettuali per il complesso degli scali sia già stata garantita la progettazione di singoli scali, come si scopre da un articolo pubblicato dal Journal of the American Institute of Architects che dà per scontato l’incarico a MAD Architects per la progettazione esecutiva dello scalo di Porta Genova (5).

Ma vi è un secondo attore sul cui comportamento vorrei avanzare una perentoria riflessione critica, perché pare a me sommamente censurabile il ruolo che, da qualche anno a questa parte, sta giocando sul tavolo delle decisioni che contano nella trasformazione di Milano: il sistema universitario milanese. Ne sono protagonisti soprattutto alcuni atenei e, in particolare, alcuni accademici in posizione apicale. È una pratica, quella del coinvolgimento degli atenei milanesi, che non esito a definire, in taluni casi, come ‘collusiva’, sottolineando al proposito che agli accademici spetterebbe il compito precipuo di elaborare il pensiero critico più avanzato sulla società e sulla città e, soprattutto, spetterebbe loro il compito eminente di ‘guardiano culturale dei beni comuni’.

Invece, a Milano non vi è strumento urbanistico, progetto di rigenerazione, ma anche occasione speculativa promossa dal capitalismo finanziario/immobiliare (6)che, soprattutto negli anni recenti (quelli della ‘sinistra al governo’), non siano stati legittimati anche ricorrendo a esimi consulenti del Politecnico di Milano; in particolare, al suo ex rettore (Giovanni Azzone) e relativo prorettore (Alessandro Balducci), e a docenti appartenenti all’area urbanistica /progettuale: dal supporto tecnico-scientifico al PGT adottato dalla giunta Pisapia (un piano fotocopia di quello approvato dalla Giunta Moratti), al coinvolgimento diretto nel progetto per il riuso dell’area exEXPO, alla presidenza della società titolare dell’area(7), al progetto per ridefinire il futuro di Città Studi, colpita dalla decisione, dissennata e comprensibile solo in termini immobiliari, di trasloco della facoltà scientifiche della Università Statale.

In questo caso è intervenuto il rettore della Statale Gianluca Vago intenzionato a deportare tutte le facoltà scientifiche di Città Studi nelle aree exEXPO, grazie anche al sostegno dei contributi finanziari erogati dal governo centrale (8). Anche se la decisione sembra ormai presa, il progetto sta incontrando, a differenza degli scali ferroviari che sono costituiti da siti prevalentemente in abbandono, l’opposizione dei residenti e degli studenti di Città Studi; un movimento nato dal basso che ha già dato luogo a un comitato preparato, agguerrito e in rapida crescita: il Comitato “Salviamo Città Studi”).

Il terzo soggetto, sempre più influente nella capitale della moda e del design, è ovviamente rappresentato dalle archistar, abilissime nel catturare il supporto osannante e martellante dei media. Quante volte abbiamo letto e visto, sui quotidiani più diffusi e in televisione, le meraviglie del Bosco Verticale dello studio Boeri e associati? Dal 12 al 17 giugno prossimi, è in programma a Milano la “Prima settimana dell’architettura”: una manifestazione ‘diffusa’ - come è d’obbligo oggi dichiarare, in ossequio al principio, più evocato che agìto, del rilancio delle periferie - guidata da Stefano Boeri, il quale ha dichiarato al Sole 24Ore: «C’è stato un cambiamento spettacolare della città – Prada, Feltrinelli, City Life (sic!), Porta Nuova (sic!) – ed è avvenuto con qualità elevate e in un periodo molto breve»(9).

E gli ‘urbanisti’? Salvo rare e qualificate eccezioni, sembrano una ‘specie in estinzione’, sempre al seguito del potere, e persino un po’ patetica nel rimpiangere, nel caso rarissimo in cui ciò rischi di verificarsi, le occasioni perdute: per la finanza immobiliare naturalmente(10).

Ciò che conta, insomma, per tutti gli attori sinteticamente evocati qui sopra, non è interrogarsi davvero sul futuro della metropoli lombarda, ma assecondare, sempre e comunque, decisioni prese altrove: nelle segrete stanze di chi decide della città col mero scopo di incrementare rendite e profitti privati.

Che cosa hanno guadagnato e possono guadagnare la città e la cittadinanza da tutte queste violente trasformazioni, al di là di uno skyline più ‘moderno’? Come si comportano in altri paesi più attenti ai beni collettivi? Può forse essere utile rammentare a tutti noi urbanisti, e soprattutto a chi decide del destino della città (perché di questo si tratta, considerando la rilevanza dei progetti di trasformazione in discussione), come si articola il processo decisionale relativo ai progetti negoziati di trasformazione urbana in Francia: un processo normato da leggi nazionali e periodicamente aggiornato sulla base delle trasformazioni economiche e politiche e di un costante affinamento critico.

Concluderò quindi questa mia riflessione con un cenno, sia pure sintetico e schematico, alle procedure, rigidamente strutturate, adottate in quel paese, per la realizzazione dei progetti di trasformazione urbana qualora si realizzino in deroga agli strumenti urbanistici vigenti e attraverso il partenariato pubblico/privato: attraverso le Zones d’Aménagement Concerté (ZAC).

Cosa è una ZAC. La procedura di Zac si applica a 3 categorie di interventi: viabilità primaria e secondaria; servizi pubblici di rilevanza locale e sopralocale; interventi del privato da immettere sul mercato (abitazioni, terziario,…); ma si prevede sempre anche una quota rilevante di HLM (abitazioni in affitto per gruppi a basso reddito).

I plusvalori fondiari e immobiliari devono essere ripartiti equamente fra pubblico e privato; mentre i costi delle infrastrutture e dei servizi pubblici sono completamente a carico del privato.

I vantaggi pubblici ottenuti con la procedura di ZAC, rispetto a quelli ricavati dalla fiscalità urbanistica ordinaria, sono elevati perché garantisce un recupero molto più significativo dei costi relativi alla realizzazione di servizi e infrastrutture grazie agli accordi su misura realizzati da un attore pubblico in posizione di forza (nella SEM, la società di economia mista che presiede a ogni ZAC, la partecipazione pubblica - fra il 51% e l’85% del capitale - garantisce che in seno al consiglio di amministrazione, di cui fanno parte anche gli amministratori locali, vi sia uno stretto controllo della corrispondenza del progetto agli interessi della collettività).

L’evoluzione della ZAC. Nel corso del tempo, la procedura della ZAC è più volte stata riformata in coerenza con le riforme urbanistiche nazionali.

1967: le ZAC vengono istituite con la «Loi d'orientation foncière» del 30 dicembre1967 (strumenti cardine della pianificazione urbanistica sono il POS - il nostro PRG- e lo SDAU - Schema direttore intercomunale). Le ZAC devono essere inquadrate dallo SDAU : devono cioè essere compatibili con le strategie indicate dal piano di area vasta.

1982/83: si approva la legge sul decentramento che conferisce ampia autonomia decisionale ai comuni anche in materia urbanistica. Lo SDAU diventa opzionale e, come conseguenza, le ZAC vengono ‘municipalizzate’. I Comuni ne faranno un uso disinvolto: grande fortuna dei progetti in deroga - più del 50% dei progetti realizzati negli anni ‘80 nelle maggiori agglomerazioni urbane; proliferazione eccessiva di ZAC di piccola dimensione promosse dalle amministrazioni locali che interpretano il decentramento in chiave deregolativa; spreco di risorse pubbliche dedicate al marketing territoriale, specialmente nei comuni di corona metropolitana afflitti dalla deindustrializzazione.

2000: con la riforma della legge urbanistica approvata dal governo Jospin (Solidarité et Renouvellement Urbain/ SRU del 13 dicembre 2000), vengono corrette alcune distorsioni verificatesi negli anni ’80/’90. La procedura di ZAC torna a essere subordinata a un quadro di coerenza territoriale complessivo predisposto dal piano direttore intercomunale (SCOT: Schéma de la Cohérence Territoriale), riformato in termini più cogenti rispetto allo SDAU; e agli obiettivi di fondo del riformato piano urbanistico comunale (PLU/Plan Locale d’Urbanisme).

La procedura di ZAC oggi. La realizzazione di una ZAC prevede due passaggi obbligatori attraverso i quali devono emergere con chiarezza e trasparenza i vantaggi pubblici offerti dal progetto: dossier de création; dossier de réalisation; inoltre, è fatto obbligo di realizzare in primo luogo i servizi e le infrastrutture pubbliche; successivamente si può procedere al completamento del progetto; la ZAC, una volta approvata, viene incorporata nel piano urbanistico comunale: il progetto, il suo mix funzionale non saranno più modificabili.

Dossier de Création. La legge SRU ha soppresso il PAZ (Plan d’aménagement de zone) sostituendolo con il PADD: Projet d’aménagement et de développement durable. Nel PADD il dossier de création deve essere costituito da: una relazione di presentazione del progetto; una valutazione di impatto ambientale corredata da una sintesi accessibile al più ampio pubblico; un piano particolareggiato con la precisa delimitazione dell’area; il modello finanziario e di attribuzione di competenze per la realizzazione delle opere; il regime fiscale prescelto (Taxe Locale d'Equipement – i nostri oneri di urbanizzazione - o regime di partecipazione negoziata: quasi sempre preferito); il cronoprogramma dei lavori. E’ inoltre obbligatorio attivare procedure di coinvolgimento pubblico (abitanti, associazioni, interessi organizzati). Quanto al perimetro: una ZAC può costituirsi in qualsiasi porzione del tessuto consolidato di un comune, se dotato di un POS o un PLU. Il dossier de création è approvato dall’organo deliberante dell’ente pubblico che ha preso l’iniziativa del progetto.

Dopo il dossier de création, si passa alla fase realizzativa. E’ necessaria la acquisizione al pubblico dei terreni, dato che il progetto richiede una ricomposizione delle parcelle e la realizzazione in primis di servizi e infrastrutture. L’«acte de création» ha dunque affetti sul regime fondiario, anche in assenza di un diritto di prelazione. I proprietari di suoli nelle aree sottoposte alla ZAC beneficiano di un «droit de délaissement» per la cessione delle loro proprietà (entro 1 anno). Se non si perviene a un accordo di cessione amichevole con la proprietà, si può ricorrere all’esproprio.

Dossier de réalisation. Definisce le condizioni economiche, tecniche e finanziarie necessarie per la progettazione e l’infrastrutturazione della ZAC. Approvato dall’organo deliberante della collettività locale, o dal Prefetto, deve essere sottoposto a procedure di evidenza pubblica, così come il dossier de création. Con la SRU, il dossier de réalisation ha assunto un peso rilevante. Deve infatti includere: il progetto dettagliato dei servizi pubblici da realizzare; il programma complessivo delle nuove costruzioni; la previsione delle modalità di finanziamento. Queste ultime sono indicative, devono essere spalmate nel tempo, devono essere basate su una realistica ipotesi previsionale di entrate e spese.
Le spese di acquisizione e aménagement dei terreni devono in linea di principio essere compensate dalle entrate ottenute dalla vendita dei lotti costruiti. Si devono evidenziare gli impegni rispettivi degli operatori privati e quelli a carico della amministrazione locale, oltre che i rischi eventuali per quest’ultima. Quanto alle modalità di realizzazione di una ZAC, l’amministrazione locale può realizzare direttamente il progetto, assumendosene i rischi finanziari; oppure ricorrere alla Concession d’Aménagement, che è il modello preferito: chi realizza possono essere delle agenzie pubbliche, delle strutture ibride come le SEM o delle imprese private

In estrema sintesi, tutti i grandi progetti di rigenerazione urbana sono in Francia affidati a una salda e inaggirabile (incontournable) regia pubblica e a processi di coinvolgimento civico strutturati e continui. Niente dunque hanno a che vedere con le effimere, pubblicitarie e opache iniziative milanesi che vengono promosse per legittimare (e velocizzare) le decisioni in merito ai progetti di trasformazione/rigenerazione urbana.

Forse gli amministratori pubblici di ‘eventopoli’, della sedicente ‘metropoli globale milanese’, dovrebbero guardarsi un po’ attorno, anziché continuare ad assecondare, con il supporto dei loro corifei, la privatizzazione delle politiche urbanistiche e, quindi, della città.

note

1) E’ del 21 aprile il suo sostegno alla manifestazione in favore del consumo libero di marjuana!
2) Si veda a questo proposito la critica ironica e puntuale di Marianella Sclavi, “Piano di Governo del Territorio: casalinga di Voghera dove sei? L’apprendista stregone nel castello dei questionari”, arcipelagomilano.org, 4 aprile 2017.
3) Il questionario è stato pubblicato sul sito del Comune di Milano il 27 marzo; termine ultimo per le risposte il 14 aprile!
4) Una gaffe dell’ufficio stampa del Comune di Milano, il quale il 3 aprile pubblica un post in cui si scrive che è l’amministrazione ad “aver selezionato” i cinque studi di architettura che stanno propinando ai milanesi le visioni progettuali per gli scali ferroviari. Subito dopo, alla domanda di un lettore attento (“ma i progetti non sono stati elaborati per un committente esterno, vale a dire la FS Sistemi Urbani?”), l’ufficio stampa censura la frase incauta, con tante scuse!
5)“MAD architects will construct Scalo Porta Genova for events, performances, and markets to encourage social interaction”. Si veda Carodine V. (2017), “Scali Milano, MAD Architects”, Architects, Journal of the American Institute of Architects, 12 aprile.
6) Perché di questo oggettivamente si tratta: anche quando sono gli attori pubblici i proprietari delle aree, è la logica speculativa che prevale – esempio paradigmatico l’uso e il riuso delle aree dedicate all’EXPO.
7) Arexpo s.p.a. è partecipata da Fondazione Fiera Milano con una quota del 27,66%, Comune di Milano e Regione Lombardia, che detengono ciascuno il 34,67%. Quote minori sono possedute dalla Città Metropolitana di Milano (2%) e dal Comune di Rho (1%).
8) Vago gode inoltre del pieno sostegno del governo regionale; infatti, ha nominato nell’aprile 2016 come direttore amministrativo dell’Università Statale, Walter Bergamaschi, già direttore generale dell’assessorato alla Sanità.
9) Luca De Biase, “La città del futuro possibile”, Il Sole24Ore, 16 aprile 2017.
10) Si veda al proposito la riflessione preoccupata e volutamente banale di Federico Oliva su arcipelagomilano.org del 20 settembre 2016 dal titolo “Scali ferroviari: il meglio è nemico del bene. Non buttare via il lavoro fatto”. Si tratta di una riflessione critica in merito all’intenzione espressa dalla giunta Sala appena insediata di rivedere l’ADP sugli scali ferroviari bocciato dal consiglio comunale precedente, che termina con questa frase a dir poco di ovvia saggezza e sconfinata furbizia: “Concludendo, non vorrei che alla fine di un lungo e faticoso percorso, il presunto meglio (tutto ancora da definire) fosse nemico del bene, come spesso accade nelle vicende urbanistiche nostrane”.





















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