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Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Ricordo bene il primo giorno da sindaco di Luigi Petroselli. Allora ero segretario del Pci della zona Tiburtina e quella mattina mi trovavo in sede a commentare con i compagni la seduta del consiglio comunale in cui era stato eletto. Tra di noi c'era molta curiosità e forse anche una trattenuta preoccupazione su come avrebbe interpretato quel ruolo. Come dirigente di partito aveva mostrato la lucidità politica, l'indiscussa autorevolezza, nonché la rudezza del carattere. Avevamo qualche dubbio, senza il coraggio per dircelo, sulla possibilità di coniugare quei tratti della personalità con il nuovo compito, certo più bisognoso di empatia verso i cittadini.

Mentre eravamo immersi in questi ragionamenti si sentì un baccano nel vicino mercato rionale. In un momento di follia un giovane aveva sparato colpi di fucile, per fortuna senza fare vittime, seminando sgomento in tutto il quartiere. Subito i nostri militanti, come si usava allora in un quartiere popolare a maggioranza assoluta di voti comunisti, si riversarono in strada e nei lotti dello Iacp a parlare con i cittadini per dare una risposta collettiva a quello spavento. Dopo un'oretta ci arrivò una telefonata dal Campidoglio. Era Amato Mattia – il bravissimo capo-segreteria che tanto contribuì al successo di quella stagione – e ci chiedeva di organizzare per la sera una grande manifestazione nella piazza di Pietralata con la partecipazione del sindaco per segnare una presenza democratica in quel clima degli anni di piombo. Ci mettemmo subito al lavoro, senza le mail e gli sms di oggi, ma con gli altoparlanti, i manifesti e soprattutto gli attivisti della sezione. Nonostante le poche ore a disposizione la piazza si riempì di cittadini accorsi anche dai quartieri limitrofi. Petroselli prese la parola in un silenzio carico di ansia e di aspettative. Fece un grande discorso, si appellò alle tradizioni di lotta civile di Pietralata, impegnò il Campidoglio a fianco dei cittadini nella buona e nella cattiva sorte. Esplose un applauso interminabile da parte di un popolo che capì subito di avere davanti il proprio sindaco. Poteva sembrare eccessiva la mobilitazione di piazza per un episodio che in fondo non aveva avuto conseguenze e non mostrava cause politiche. Tuttavia, quel surplus di partecipazione cancellò la paura della mattina e creò una sensazione di forza dell'azione collettiva. Oggi i politici di destra e forse anche qualcuno di sinistra risponderebbero a un fatto analogo invocando leggi d'emergenza contro i criminali. Allora, un sindaco come Petroselli rispondeva parlando al popolo di solidarietà.

Conclusa la manifestazione ci ritrovammo nella sede del partito e fummo tutti d'accordo nel risolvere i dubbi che erano affiorati la mattina. Capimmo dal primo giorno che Roma avrebbe avuto un grande sindaco. Le successive uscite nei quartieri seguirono lo stesso stile. Anche quando portava soluzioni concrete coglieva l'occasione per accrescere le risorse morali e civili della città. Lo vedevamo trasformato come persona non solo come politico. Erano scomparsi quei modi eccessivamente severi che, almeno noi giovani, avvertivamo come caratteri di una dura pedagogia di partito.

Si potrebbe pensare che il movente del cambiamento fosse politico, poiché si trattava di una personalità cresciuta nel clima culturale del totus politicus. Pur non avendo avuto la fortuna di frequentarlo di persona, ho avuto modo però da vicesindaco di raccogliere molti ricordi di persone che lo avevano conosciuto e – fosse un borgataro o un intellettuale, un burocrate comunale o un politico anche di destra – ho spesso visto la commozione negli occhi dei miei interlocutori. Questa intensa umanità non può essere solo frutto del politico, ma deve trovare spiegazione in una dimensione più interiore. Azzardo qui, senza alcun titolo per farlo, un'interpretazione unilaterale, che cioè fosse proprio quella espressa nella personalità calda e coinvolgente del sindaco la vera indole dell'uomo e che, al contrario, quella più fredda e severa che temevamo noi giovani, era invece un carattere autoimposto nella sua formazione politica.

In ogni caso il successo del sindaco derivava proprio dall'autenticità della persona. E ciò spiega anche il senso tragico con cui adempì al compito, ben sapendo che il cuore non avrebbe retto a quella fatica, ma gettandosi ugualmente in uno sforzo fisico e psicologico che lo avrebbe portato consapevolmente a morire da sindaco. A mettere a rischio la vita secondo la ragione della sua vita.

Tuttavia, questa rimane pur sempre una spiegazione unilaterale e quindi molto poco petroselliana, essendo molto forte per lui la ricerca dei nessi tra i diversi fenomeni. D'altronde, il filo tra il lato umano e quello politico è stato sempre molto forte nei dirigenti comunisti e in particolare in quelli romani. Ci sono precedenti significativi. Edoardo D'Onofrio pur essendo di cultura terzinternazionalista fu l'unico a capire i Ragazzi di vita di Pasolini respingendo gli attacchi della critica letteraria ortodossa di partito. Paolo Bufalini pur essendo un raffinato intellettuale dedicava molte serate a discutere con i militanti nelle osterie di periferia, per capire la sensibilità del sottoproletariato romano e per condurlo alla coscienza politica. Quei dirigenti conoscevano quell'eccedenza di umanità della vita popolare che andava oltre i rigidi schemi dell'ideologia. A questa tradizione apparteneva Luigi Petroselli e da essa traeva quel nesso tra l'umano e il politico che da sindaco riuscì a esprimere meglio che da dirigente di partito.

Con una differenza fondamentale rispetto ai due predecessori. D'Onofrio e Bufalini avevano piena fiducia nel partito come strumento per “fare popolo”, cioè trasformare in una forza politica il ribellismo sottoproletario. In Petroselli invece, a mio avviso, c'è già una percezione, seppure non dichiarata, delle difficoltà della forma partito e una ricerca di nuovi strumenti della politica. In questo egli condivide l'analisi ma non i rimedi con Enrico Berlinguer. E' sulla diversità comunista come risposta al rischio di decadenza dei partiti popolari che si consuma il doloroso distacco dal segretario. Ciò non gli impedisce di vedere con altrettanta acutezza la crisi del vecchio sistema politico, a partire da una lettura non contingente della rottura dei governi di unità nazionale. Da sindaco si muove all'interno di questa consapevolezza, cercando comunque concrete risposte a partire dall'esperienza amministrativa.

Con il suo stile di governo anticipa elementi significativi che emergeranno solo tre lustri più tardi con la stagione dei sindaci eletti direttamente. All'interno di un sistema politico basato su alleanze tra partiti e legge proporzionale introduce una relazione diretta tra sindaco e cittadini, una sorta di responsabilità di mandato rispetto al programma di governo, un indirizzo compatto verso la squadra di assessori e la macchina amministrativa. Le risposte in diretta ai cittadini nelle trasmissioni di Video Uno esemplificano un modo di fare il sindaco innovativo per quei tempi. Per via politica egli forza il vecchio sistema e anticipa l'ordinamento comunale che verrà poi codificato negli anni novanta.

Per tornare all'esempio del primo giorno, Petroselli sa che per parlare come sindaco a tutti i cittadini di Pietralata ha ancora bisogno della mobilitazione dei militanti del suo partito. Anzi, da sindaco continua a dirigere quei militanti e riesce a farlo meglio di prima, fornendo motivazioni civiche laddove non funzionavano già da tempo quelle politiche. Noi giovani quadri avvertiamo chiaramente che si sposta in Campidoglio il centro di orientamento della nostra organizzazione. Proprio in questa nuova collocazione il Pci a Roma può prolungare la funzione di partito popolare, che già cominciava ad appannarsi, come dimostra la sconfitta elettorale del 1979. Non a caso quello è il campanello di allarme per accelerare l'avvicendamento del sindaco Argan.

Petroselli è rimasto sempre il capo di una parte, se non intendiamo questa espressione nel senso restrittivo che ha assunto nella politica di oggi, ma nel significato storico-politico che aveva allora. Basta rileggere i suoi discorsi per capire che egli si considerava l'espressione politica di un più vasto movimento storico di emancipazione dei lavoratori e della periferia romana.

Ciò determinava in modo univoco l'azione di governo. Prima di tutto promuovere la giustizia sociale dove era sempre mancata. E' impressionante la mole di realizzazioni volte a risolvere i bisogni primari: demolizione di tutti i borghetti, costruzione di asili e scuole per eliminare i doppi e tripli turni, acqua, luce e fogne nell'immensa città abusiva, avvio dell'eliminazione delle barriere architettoniche, invenzione dei centri sociali per anziani, realizzazione di un programma titanico di edilizia economica e popolare, conclusione del cantiere ventennale della metropolitana. Fu una gigantesca redistribuzione di ricchezza a favore dei ceti popolari, come non si era mai vista prima nella storia della città e come non si vedrà più in seguito. Essere parte per quelle amministrazioni significava prima di tutto risarcire la povera gente e i lavoratori.

Il piano di edilizia popolare, in particolare, fu realizzato mediante un'importante innovazione nella struttura economica. Petroselli fece cambiare mestiere ai “palazzinari”, convincendoli a smettere di giocare a monopoli con le aree fabbricabili. Il comune avrebbe espropriato le aree ai proprietari e le avrebbe assegnate agli imprenditori perché costruissero case a prezzi calmierati e accessibili ai lavoratori. In tal modo gli operatori economici venivano stimolati ad abbandonare la speculazione per concentrarsi invece sulla effettiva capacità imprenditoriale nella costruzione degli alloggi. Su queste basi si fece l'accordo, siglato con il famoso Protocollo d'intesa nei primi mesi del mandato del sindaco. Anche in questo caso bisogna dire per la prima volta a Roma si bloccò la rendita immobiliare e si favorirono gli investimenti produttivi.

Per siglare quell'accordo Petroselli certamente utilizzò la funzione di sindaco ma fece pesare anche il ruolo di capo politico della sinistra. Anche i costruttori lo percepivano in questo modo, sapevano che stipulavano un patto con la parte che li aveva avversati per decenni e questo aveva un significato che andava oltre l'accordo con l'amministrazione. Si trattava di una mediazione che spostava in avanti il ruolo di entrambi i contraenti: l'uomo politico che si sentiva rappresentate di una lunga lotta popolare contro la speculazione era chiamato a governare i processi offrendo una soluzione diversa; gli imprenditori si impegnavano ad abbandonare le vecchie pratiche raccogliendo la sfida di un nuovo sistema di convenienze.

Certo, a quel piano edilizio sono state rivolte molte critiche, in buona parte giustificate, per la qualità degli interventi e le modalità gestionali. Si trattava di errori prodotti da mentalità amministrative e competenze tecniche troppo rigide e già antiquate per quei tempi. Erano errori da correggere e invece vennero strumentalizzati dalla controffensiva degli interessi colpiti. Anche nella legislazione nazionale vennero smantellati di strumenti di controllo del territorio. Il risultato fu il ritorno al gioco di valorizzazione delle aree e l'abbandono di qualsiasi politica di edilizia pubblica. Nei trentanni successivi in tutta Italia la rendita immobiliare si è rafforzata tramite l'alleanza con la finanza nell'economia di carta e di mattone. E in assenza di qualsiasi politica per la casa ai ceti popolari non è rimasto altro da fare che lasciare le città e andare a vivere negli hinterland in cerca di affitti e prezzi di acquisto più bassi.

Straordinaria fu la capacità di Petroselli di incidere in poco tempo, circa due anni, sulle strutture portanti dell'economia romana. Questa intensità di governo non si è più realizzata nei governi successivi, neppure nel nostro quindicennio che pure ha portato tanti risultati positivi alla città, ma non ha avuto la stessa ambizione di modificarne i caratteri strutturali. La differenza è ancora più rilevante se si considerano gli strumenti a disposizione. Quelle degli anni Settanta erano amministrazioni tradizionali e fortemente burocratiche; noi al contrario abbiamo utilizzato i potenti strumenti messi a disposizione dalle riforme degli anni novanta: società di scopo, conferenze di servizi, spoil-system, autonomia statutaria comunale ecc. Soprattutto i poteri del sindaco erano ben diversi. Se Petroselli, come si è detto, li rafforzò per via politica, i successori hanno ottenuto dalla legge l'investitura diretta dai cittadini. Infatti, all'inizio degli anni novanta in tutta Italia la nuova legge elettorale sembrò conferire al primo cittadino una forte capacità di governo. Ma ben presto la stagione dei sindaci si esaurì e negli anni successivi quel ruolo cambiò segno. Rimanendo prigionieri delle ansie da sondaggi i leader municipali hanno gradualmente ridotto le ambizioni di governo, preferendo assecondare la frammentazione sociale e dedicandosi a interventi di breve durata ma di forte impatto mediatico. La personalizzazione non mantiene la promessa della decisione. Spesso il sindaco è più impegnato a raccontare se stesso che a trasformare la città. E arrivato al secondo mandato comincia a pensare al prossimo incarico, distraendosi dal governo della cosa pubblica. Morire da sindaco è davvero un programma d'altri tempi.

Ecco perché oggi vale la pena di riflettere su Petroselli, non solo sull'uomo e non solo per il caro ricordo che ci lega a lui, ma per porsi domande attuali su come si decide nel governo delle città italiane. Le recenti elezioni amministrative hanno fatto vedere le prime crepe nel modello di governo comunale, che pure sembrava il migliore assetto istituzionale maturato nella Seconda Repubblica. Basti pensare che per una quota del 40 per cento i sindaci uscenti non sono stati confermati, mentre in passato era quasi scontato il passaggio al secondo mandato.

Nella Prima Repubblica c'è stata un'alta concezione della rappresentanza di una parte come contributo alla democrazia. Nella Seconda, al contrario, è prevalsa l'attenzione al leader di governo che risponde direttamente ai cittadini. Se entrambe le forme politiche mostrano i propri limiti non vuol dire che siano sbagliate, ma solo che non si reggono in piedi da sole, perché hanno bisogno di vivere insieme. Quando si separano, infatti, perdono forza e decadono, la prima nella programmatica rinuncia a governare e la seconda nel dare ragione a tutti senza prendere alcuna decisione. La grandezza di Petroselli è stata nel tenere insieme la parte e il tutto. Questo ci lascia in eredità come problema. Uomo di parte e sindaco di tutti è ancora oggi la condizione per prendere le grandi decisioni nel governo delle città.

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Luigi Petroselli lo ricordo con una nitidezza che fa male: gli occhi quasi infantilmente interroganti, l’eterna sigaretta pendula al lato della bocca, l’andatura randagia e il vestire piuttosto trasandato, l’indimenticabile pronuncia non proprio romanesca – era originario di Viterbo – ma alquanto sciatta, a tratti fra il sottovoce e il farfugliare fin quasi a sfiorare l’incomprensibile. Era stata Maria Michetti, indomita «eretica» minoritaria nel seno del Pci romano, vicina a Pietro Ingrao, consigliere comunale da sempre, a parlare di me a Luigi Petroselli, all’epoca – primi anni Settanta – segretario della Federazione romana, interessato e, anzi, «impressionato» dai dati, ma anche dall’intento dissacrante del mio libro Roma da capitale a periferia, uscito da Laterza nel 1970, proprio in occasione delle celebrazioni di Roma capitale come un controcanto sardonico, duro, fin quasi sfrontato, rispetto alle fanfare dell’ufficialità. Anni prima, Maria Michetti era venuta a trovarmi, accompagnata dal mio fido assistente anziano Corrado Antiochia, per chiedermi di fare da «relatore» alla sua tesi di laurea, della quale sperava di liberarsi in pochi anni. Dopo averle parlato una mattina nel mio ufficio al terzo piano della Galleria Esedra, dopo un lungo silenzio sbottai: non tre anni, tre mesi; laureata e quindi nominata assistente sul campo, Maria Michetti, nello stuolo ormai fitto di assistenti, dimostrò subito qualità di studiosa e di ricercatrice eccezionali.

Era una di quelle incerte primavere romane, con giornate quasi uggiose di piogge intermittenti, di colpo interrotte da pomeriggi caldi, ormai estivi, e poi da brevi, salutari giorni di tramontana secca e cielo terso. Con Petroselli ci vedevamo nel mio ufficio; poi, sotto, al bar Dagnino, si cementava l’amicizia parcamente, con un aperitivo analcolico. Il mandato del sindaco democristiano Clelio Darida volgeva ingloriosamente al termine. C’era nell’aria una certa voglia, ancora indistinta, di cambiamento. Petroselli era semplice e diretto: il prossimo sindaco doveva esser un indipendente di sinistra, un nome nuovo, non di apparato. Toccava a me, diceva con definitiva semplicità, aprendo e chiudendo in poche parole il discorso. Io prendevo tempo. Forse Petroselli non lo sapeva o forse lo sapeva e non gliene «fregava» niente. Le sue parole riaprivano in me antiche ferite. La politica l’avevo già fatta. Ero stato deputato indipendente nella terza legislatura (1958-1963). Ero l’unico rappresentante del Movimento Comunità di Adriano Olivetti. Appartenevo al gruppo misto, con uomini come Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Oddo Biasini, ma anche i monarchici Alfredo Covelli, il marchese Lucifero, il duca Rivera, mio dirimpettaio in Via Appennini.

Con sottile, forse inconsapevole crudeltà, Petroselli, accompagnato nelle prime visite da Maria Michetti, mi stuzzicava, dunque, e giocava, per così dire, sulla mia mai completamente sopita ambizione e desiderio di riconoscimento pubblico e l’impegno alla coerenza di chi aveva studiato le borgate, i borghetti e le baracche di Roma e che, adesso, senza alcuna condizione, si vedeva offrire su un piatto d’argento o se si vuole, di stagno, la possibilità di verificare sul metro dei rapporti di potere quotidiani le sue brillanti ipotesi intellettuali.

Aveva così inizio il mio Tabor privato. A questo punto Maria Michetti cominciava a dare chiari segni di preoccupazione: temeva per la mia distratta tendenza a parlare e a dire esattamente ciò che al momento pensavo senza badare alle conseguenze; mi stava cercando un buon avvocato di vaglia da mettermi alle costole, come già aveva fatto con Guido Calvi all’epoca in cui Enzo Biagi mi aveva querelato per diffamazione aggravata con ampia facoltà di prova. Maria era mossa, nei miei confronti, da un atteggiamento protettivo più materno che accademico.

Intanto Luigi Petroselli veniva giù esplicito, ormai sicuro di avermi in pugno: «Che vuoi. Hai analizzato la vita e la miseria delle borgate. Ne hai descritto la povertà materiale, ma anche politica, culturale… L’espediente come mezzo normale di sussistenza. La mancanza di un reddito regolare. Gli allacciamenti abusivi e pericolose con i cavi elettrici. La mancanza di fognature… Hai studiato tutto. E adesso? Adesso ti dò la possibilità di fare qualche cosa di pratico, di non limitarti alle parole, alla sterile denuncia, a sfruttare la miseria degli altri per i tuoi libri di successo…».

L’uomo sapeva come adoperare bene il bisturi psicologico. Ma le vacanze di Pasqua stavano arrivando. Avrei accompagnato la famiglia a Urbino a visitare il Palazzo ducale. Chiedevo una pausa di riflessione. Ma Petroselli era tenace come un montanaro, furbo come un vero contadino, più rapido di un intellettuale. «Ti farò dare 45 mila voti di preferenza. Se, come dici, vuoi aver tempo per studiare e scrivere, bene, mi dai tre anni. Dopo subentro io. Sta tranquillo. Se mi dici di no, dovrò imbarcare il “vecchio”». Alludeva probabilmente al noto storico dell’arte Carlo Giulio Argan. Nulla di irrispettoso, solo la rude franchezza dell’organizzatore politico di base, dell’uomo d’azione che ha il senso della scadenza e che non può permettersi alcun amletismo fra pensiero e decisione.

Sapevo che il caso di Roma, dopo la breve, luminosa parentesi dell’amministrazione di Ernesto Nathan, era un caso da manuale per quanto riguarda la speculazione edilizia dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni ’70. A questo tema doloroso e vergognoso, che aveva visto coinvolte le gerarchie ecclesiastiche e non solo i famelici partiti e gli interessi, sostanzialmente parassitari, della rendita e del «generone» avrei in seguito dedicato il libro Roma madre matrigna (Laterza, 1991). Avrei affermato in quella sede, con sicurezza e baldanza forse eccessive, che Roma era non solo una doppia capitale, del Vaticano e dello Stato italiano, ma anche una doppia economia, della rendita e del capitale, maggiormente caratterizzata da una proprietà assenteistica e parassitaria che da un capitalismo moderno, in grado di operare la combinazione ottimale fra terra, capitale e lavoro. Notavo il fatto che Roma sia divenuta una «capitale del capitale», ossia una delle sedi dove assai rapido è il movimento di denaro a livello mondiale, non contrasta davvero, ma concorda, con le caratteristiche della città; e, anzi, le esalta. Le attività industriali di una qualche consistenza continuano ad essere quasi totalmente assenti entro i confini del Comune di Roma, che con i suoi 150 mila ettari ha il territorio più vasto di ogni altra città italiana. Esse hanno trovato una loro collocazione, sollecitata e favorita dal potere centrale, lungo la direttrice Pomezia-Latina e costituiscono nel loro insieme un’importante realtà sociale e non solo un fatto economico di rilievo. La separatezza di questa consistente area industriale dalla città crea problemi anche al pianificatore urbanista, ma quei problemi presentano sempre una costante: entro i confini del Comune è il blocco edilizio che conserva vigorosamente il suo dominio.

La scelta della vicenda dei piani regolatori di Roma per definire una possibile tipologia del pianificatore urbanista non è davvero arbitraria e tanto meno «di comodo». Essa offre l’occasione di osservare come tale figura giochi uno specifico ruolo di mediazione intellettuale in una situazione assai semplificata di confronto-scontro tra interessi privati e interesse collettivo.

La letteratura urbanistica più avveduta è ben consapevole del fatto che a Roma si misura quello che abbiamo chiamato il confronto diretto tra pianificatore e «blocco edilizio». Essa è venuta rappresentando questa situazione con l’immagine delle «due città», «Roma e l’altra Roma», giustamente evitando rigide ed esclusive collocazioni di classe e prestando attenzione ai fattori ideologici, ai processi storici, al complesso delle tensioni sociali. Essa, però, ci è apparsa e ci pare a disagio nell’acquisire coscienza di quello che le ricerche sociologiche su Roma hanno individuato e definito come «interfunzionalità economica e ideologica tra le due città».

Queste due città – occorre esserne avvertiti – non sono oggi visibili a Roma nei ghetti contrapposti di quartieri residenziali e di borgate. Apparentemente è andato avanti un processo di integrazione, di omologazione, che ingannava anche Pasolini. È vero che oggi, a Roma, ci sono meno baracche e meno borghetti. Gli occhi colgono un intrecciarsi di tipologie edilizie e di modi di abitare che tendono a ridurre le differenze e comunque ad «occultare» le baracche: è meno agevole oggi intuire dalla facciata della casa la condizione concreta di vita di chi vi abita dentro.

Il rapporto tra le due città non è più riassumibile nel visibile contrasto tra miseria e ricchezza: esso si manifesta nelle forme assai più complesse che assumono i diversi livelli di potere, le modalità e le possibilità attraverso le quali essi sono individualmente e socialmente raggiungibili. L’uscita dalla baracca è (meglio, può essere, ma può anche non essere) solo il primo passo per acquisire un qualche potere.

Le vicende dell’amministrazione capitolina rispecchiano fedelmente la situazione: il sindaco Rebecchini, notoriamente «uomo dell’Immobiliare», viene travolto dalla vicenda del mega-hotel Hilton, e deve passare la mano a Umberto Tupini, chiamato a governare una situazione resa incandescente dalla questione del piano regolatore generale e dal «sacco di Roma» che accompagna gli interventi straordinari per le Olimpiadi del 1960. La sua è una giunta di minoranza, ancora una volta sostenuta di fatto dal Msi.

Appena due anni dopo, a Umberto Tupini subentra Urbano Cioccetti, che estende la maggioranza ai monarchici laurini (popolari). Si apre un biennio di acuti contrasti, principalmente sulla questione del piano regolatore generale (1959). Rieletto nel 1960 con il voto determinante della destra – alla quale paga un elevato prezzo morale rifiutandosi di far celebrare l’anniversario della Liberazione di Roma –, Cioccetti tenta un monocolore Dc di segno conservatore. Ma le vicende nazionali, con la fiammata antifascista del luglio 1960, e la paralisi amministrativa indotta dall’insostenibile stallo sul Prg, rendono impraticabile la sterzata a destra. Urbano Cioccetti è costretto a dimettersi nel luglio del 1961 e un commissario prefettizio è incaricato di predisporre le consultazioni anticipate che si svolgeranno nel giugno dell’anno successivo.

La Dc, sollecitata da Aldo Moro a sperimentare nella capitale un governo di centro-sinistra, è sconfitta. A destra, il Msi sbaraglia la concorrenza monarchica e si conferma con 13 consiglieri nel ruolo di terzo partito, dimostrando così la persistenza culturale e, insieme, la perdurante funzionalità politica della destra nel sistema amministrativo romano. Nel contesto romano, del resto, la crisi del partito trasversale reazionario, che abbiamo definito «partito romano», non ha ancora prodotto una frattura irreversibile fra neo-fascisti possibilisti e cattolici conservatori. Anzi, a tessere nuove trame e intese rese appetibili dalle risorse di scambio del sottogoverno municipale, lavorano varie riviste e associazioni tradizionalistiche.

Si tenga presente come, ancora per tutti gli anni Cinquanta, quello missino si configuri a Roma come un voto interclassista di massa, in cui gli appelli simbolici all’anima nostalgica e ai ceti sociali di antica lealtà reazionaria, si confondono con la gestione di incentivi più prosaici, di provenienza sottogovernativa e prevalentemente diretti alle aree di immigrazione sottoproletaria. Ma la destra mantiene presenze non irrilevanti nel mondo delle professioni e un discreto circuito associazionistico di fiancheggiamento. Per tutto il decennio, ad esempio, una parte consistente della stampa locale – in continuità con le campagne del «Tempo» e del «Popolo di Roma», veri organi ufficiosi del «partito romano» - asseconda contro l’ipotesi di centro-sinistra la ricomposizione di quel partito trasversale conservatore di cui i neo-fascisti sono parte costitutiva.

Il centro-sinistra – progetto legato a una seppur generica domanda di razionalizzazione e modernizzazione – rappresenta insomma il catalizzatore del conflitto e, insieme, il fattore di accelerazione della crisi. Ciò vale tanto per il fronte conservatore del vecchio «partito romano» quanto per il Blocco del popolo che in un paio di occasioni (e segnatamente con le politiche del 1952) sembra rivestire i panni del vecchio radicalismo anticlericale e antimonopolistico. Alla fine degli anni Cinquanta l’egemonia della Dc – partito del potere nazionale con ramificazioni locali non più totalmente identificabili con i notabili pacelliani – appare elettoralmente solida, ma politicamente fragile per gli effetti indotti dai nuovi termini del conflitto e dal sovrapporsi di interessi compositi che intersecano lo schieramento del cattolicesimo politico entro una dialettica tradizione-innovazione non sempre lineare. A destra, si è andata consolidando attorno al Msi un’aggregazione populista di tipo nuovo, che alza il prezzo della mediazione sotterranea con i potentati Dc e gioca sulle minacce all’ordine democratico per imporre regole del gioco ormai estranee alle possibilità di controllo del «partito romano». Il Blocco radicale si spegne fra il 1953 e il 1956. Al suo posto c’è la grande forza organizzata di un Pci atipico e destinato a fornire l’imprinting per i conflitti che animeranno nei decenni successivi la sinistra romana (’68 compreso).

Il panorama complessivo prelude a un processo di omologazione di Roma alle coordinate politiche nazionali, secondo l’ispirazione strategica del centro-sinistra in versione fanfaniana. Nel luglio del 1962, Glauco Della Porta – tecnocrate di area morotea – è il primo sindaco a guidare una maggioranza di centro-sinistra. Ancora una volta, Roma rappresenta il laboratorio delle scelte nazionali. Ma la giunta di Della Porta dura solo, e stentatamente, un biennio.

La situazione, non solo romana, precipita. I tardi anni Settanta sono l’imprevedibile, spaventoso scenario della tragedia italiana: la lotta armata, il sequestro e l’uccisone di Aldo Moro, la «notte della Repubblica». Argan si dimette; gli subentra, come previsto, Petroselli. Ricordo le sue previsioni. Quando rifiuto di farmi candidato indipendente di sinistra appoggiato dal Pci, Petroselli non nasconde la sua delusione. Arriva quasi a darmi del traditore, tanto gli sembrava scontato che la mia personale ambizione avrebbe vinto le mie resistenze interiori, squisitamente e, a suo giudizio, evanescentemente intellettuali. Era già accaduto nel 1963, quando gli amici di Ivrea giuravano che non avrei mai avuto il coraggio di lasciare Montecitorio, concupito com’ero da forze politiche che andavano da Giancarlo Pajetta a Riccardo Lombardi a una certa sinistra sociale fanfaniana. È difficile capire il fondo, il mondo proprio, lo Eigenwelt di un’anima.

Con una precisione impressionante, esaurita l’esperienza della debole giunta del democristiano Clelio Darida, eletto e quindi dimessosi il professore Argan, tocca a Petroselli prendere in mano il timone del Comune. Incredibile a dirsi, il suo atteggiamento verso di me, lungi dall’essere freddo a causa del mio «gran rifiuto», si fa sempre più stretto, amichevole, quasi fossi investito d’un ruolo di consigliere-ombra. Ci vedevamo abbastanza spesso, alle tre del pomeriggio, in una saletta del Campidoglio, dove lui riceveva le persone che avevano qualche problema, da vero rappresentante del popolo.

Era quello che gli americani, con un felice espressione, chiamano un «grass roots politician», un uomo politico delle radici dell’erba, uno che governa dal di sotto più che dall’alto, un politico che ascolta, sempre con tramezzino e una sigaretta a portata di mano, una specie di Humphrey Bogart di Tor Pignattara. Succedeva, dopo circa tre anni, a Giulio Carlo Argan, eletto, come Petroselli aveva progettato, nell’agosto del 1976, il primo sindaco laico dalla prima decade del secolo, quando era stato eletto sindaco di Roma da un «blocco popolare» messo in moto dal Paese Sera di Tommaso Smith, Ernesto Nathan (1907). Non risparmiavo le critiche al Petroselli divenuto sindaco. Gli rimproveravo, talvolta con ironia e asprezza eccessive, di cedere al gusto di riforme che erano, al volte, operazioni di cosmesi urbana. Il suo recupero delle borgate, non mi stancavo di dirgli, in una prima fase, si limitava a rinnovare la segnaletica, a normalizzare la distribuzione dell’acqua e della corrente elettrica, con grave disappunto dei borgatari, che adesso dovevano pagare le bollette. In un secondo momento in effetti va riconosciuto che egli si è impegnato in interventi più efficaci e duraturi in quanto strutturali, mettendo in piedi case popolari che risanavano, che cancellavano l’obbrobrio di borgate e borghetti. Anche se a volte ciò è accaduto con modalità tali da indurre forti dissensi rispetto al Comune e al Pci (v. il caso di Valle dell’Inferno/ Valle Aurelia) perché la gente avrebbe preferito non lasciare il proprio habitat.

A proposito, però, della speculazione edilizia non mi risparmiava bofonchiate repliche brucianti, come quando mi rammentò le sfortunate conseguenze dei miei consigli all’on. Fiorentino Sullo, ministro dei Lavori pubblici nel governo detto delle «convergenze parallele» di Amintore Fanfani. A bloccare o comunque a rendere più difficile la speculazione edilizia occorreva, avevo suggerito al ministro Sullo, fare ciò che in Inghilterra da tempo immemorabile si era fatto: tutto il territorio del Paese non è privato, ma pubblico. Sullo ebbe il coraggio o l’ingenuità di prendermi in parola e dichiarò questo suo intento pubblicamente. Come se avesse sfiorato un cavo dell’alta tensione, perdette il posto di ministro, fu espulso dalla Dc, cercò rifugio presso i socialdemocratici e forse, alla fine, qualche sollievo nella bottiglia. Morì prematuramente, solo e depresso.

Niente di personale nelle risposte sulfuree di Petroselli. Solo il realismo di un uomo politico che conosce le durezze della vita e la difficoltà di dare un senso di orientamento alla convivenza umana. Luigi Petroselli incarnava una concezione del potere esattamente opposta e simmetrica a quella oggi prevalente: il potere vissuto non come appannaggio personale per i propri interessi privati, ma come semplice, quotidiano sevizio alla comunità.

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Luigi Petroselli moriva tragicamente d’infarto il 7 ottobre 1981, al termine di un appassionato discorso tenuto al Comitato centrale del Pci. Come toccò a un altro famoso parlamentare comunista, Mario Alicata, che qualche anno prima, a soli quarantotto anni, fu schiantato da un ictus dopo un polemico, tempestoso intervento nell’aula di Montecitorio. Per non parlare della prematura fine di Enrico Berlinguer che in circostanze analoghe poneva fine alla sua nobile esistenza nel giugno 1984, dopo il drammatico discorso da una tribuna di Padova. Destini di alto significato umano e politico, comuni ad alcuni esponenti di spicco della sinistra italiana.

Anche Petroselli moriva a quarantanove anni, di cui solo due vissuti nella veste di Sindaco di Roma ed era accreditato, in quanto autorevole uomo di partito, quale ispiratore delle politiche adottate dal Comune fin dal 1976, anno in cui Giulio Carlo Argan era stato eletto primo cittadino di Roma nelle liste del Pci.

Un’elezione che fece epoca, dopo ben tredici Sindaci democristiani e un trentennio dominato dallo scudo crociato; si dice che fosse stato proprio Petroselli a proporre e sostenere la candidatura dell’illustre studioso e storico dell’architettura moderna. Argan, come si sa, restò svogliatamente in carica tre anni, cedendo la poltrona proprio a Luigi Petroselli nel settembre 1979, passaggio forse sollecitato dal Petroselli stesso, deluso dalle gesta del suo protetto, più attento ai rapporti con il Vaticano e con gli illustri visitatori della Città eterna che non agli stringenti problemi della stessa.

Sono peraltro noti i meriti da attribuire a Petroselli, sia nei due anni del suo mandato da Sindaco, sia in qualità di segretario regionale del Pci durante il pontificato di Argan. Nel breve arco di quei cinque anni (1976–1981), nello scenario delle opere pubbliche e soprattutto nella realizzazione dei quartieri romani di edilizia pubblica, accadevano fatti di grande rilievo, a cui la pervicace iniziativa di Luigi Petroselli risultava tutt’altro che estranea e in qualche caso determinante.

Credo sia utile rievocare qui brevemente l’intero decennio, quei “dannati Settanta” e i relativi rivolgimenti, non solo a livello locale, come ho iniziato a fare, ma anche a livello nazionale. Agli inizi, si avvertiva l’influenza degli anni Sessanta, legati al mito dello sviluppo senza limiti, si dava grande importanza all’edilizia pubblica e si aspirava a raggiungere il traguardo di una produzione di trecentomila alloggi annui (limite mai raggiunto). Con la legge 865/71 si promulgava un riordino e un rilancio del settore: la creazione del Cer, organo nazionale di coordinamento, la trasformazione degli Iacp da istituti provinciali a strumenti attuativi di livello nazionale sui quali concentrare i finanziamenti pubblici, le cui leggi ora includevano oltre agli alloggi – udite udite – anche i servizi primari; si confermava inoltre la tendenza a procedere per insediamenti coordinati autosufficienti nelle immediate periferie dei centri urbani. Su queste basi, nella prima metà del decennio, si realizzavano nelle più importanti città italiane grandi quartieri, autoreferenziali e perentori, con i toni di un modernismo europeo. A Roma, oltre ai ben noti Corviale e Vigne Nuove, un esempio tipico fu il Laurentino 38. Nel loro insieme, questi tre quartieri costituivano un programma straordinario omogeneo varato nel 1969–1970, finanziato con settanta miliardi di lire.

Ma l’impatto fu traumatico; si registrò rapidamente un riflusso, l’esigenza di una dimensione minore, di maggiori risparmi, di un habitat più articolato e umano. Nasceva allora la legge 513/77 che introduceva norme edilizie più spartane, con tipologie ridotte e più differenziate, nuovi parametri di controllo economico, l’esclusione dei servizi di base tornati di competenza delle amministrazioni locali. Intanto la cultura scopriva lo storicismo, il recupero, la sostenibilità, una trasformazione del gusto detta post-modern. In parallelo, si adottavano nuove forme operative, quali le concessioni a privati.

Alla fine del decennio, con la legge 25/80 si dava modo ai Comuni, di avviare iniziative autonome, riferite più direttamente alle esigenze e alle risorse produttive locali. A Roma, esempi tipici furono il quartiere di Tor Bella Monaca (dal 1980) e il quartiere Quartaccio (dal1984).

A partire dai primi anni Settanta ho partecipato, con ruoli diversi, alla realizzazione dei quartieri sopra citati, attraversando tutte le tendenze, le normative, le storie che hanno segnato quel periodo, e trovando sul mio percorso tracce dirette o indirette del pensiero e dell’operato di Petroselli, che peraltro non ho mai avuto modo di incontrare di persona. Quelle esperienze, nel loro insieme, sono state tali da indurre Vezio De Lucia a includermi fra coloro che potrebbero fornire qualche testimonianza sui fatti dell’epoca, utile ai fini delle rievocazioni in corso per la ricorrenza dei trent’anni dalla morte di Luigi Petroselli.

Non appena eletto Sindaco, nel 1976, Argan dovette occuparsi di una grana concernente la realizzazione del quartiere Laurentino 38 (per 30/32 mila abitanti), di cui avevo diretto il gruppo di progettazione urbanistica, poi di quella di edilizia sovvenzionata, e di cui a quel punto ero uno dei responsabili della realizzazione nelle vesti di coordinatore generale delle progettazioni e condirettore dei lavori. Il progetto del quartiere Laurentino era nato sotto una spinta innovativa che aveva reso necessario un lungo iter burocratico (ben quattro passaggi in Commissione urbanistica), da cui nascevano forti attese psico-sociali e disciplinari. L’idea fondante del progetto, cosi come quella di altri quartieri Iacp, nasceva sotto l’influsso dei recenti interventi di edilizia pubblica realizzati in Gran Bretagna e in Francia, che fra l’altro avevo visitato di recente.

La grana di cui sopra consisteva nel ritrovamento di resti archeologici di epoca preromana in seguito al quale fu decretato il fermo dei lavori, peraltro in fase avanzata, malgrado la regolare autorizzazione rilasciata dalla Sovrintendenza competente. Gli interessi in ballo erano cospicui e contrapposti, in quanto si doveva scegliere fra il rispetto dell’antico e le urgenze dell’attualità e del moderno. Tutti i rappresentanti delle varie fazioni erano mobilitati e i contrasti apparivano irriducibili. Argan lo studioso, il massimo storico dell’architettura moderna, sembrava il Sindaco ideale per risolvere la questione, e difatti convocò una riunione generale al Campidoglio, fissata per il 13 dicembre 1976 nel suo studio. Le attese erano alle stelle.

L’esito fu deludente, Argan evitò di addentrarsi nella questione, trascurandone la gravità. Esigeva un compromesso e rimandò tutto a un comitato dei rappresentanti delle tre maggiori autorità presenti sul campo: il Comune, l’Iacp e la Soprintendenza. Gli architetti, a cominciare dal sottoscritto, ne furono esclusi. Il comitato – composto da Marcello Girelli, Direttore tecnico della XVI ripartizione comunale per l’edilizia economica e popolare, da Luigi Petrangeli Papini, Direttore centrale tecnico dell’Iacp, e dal Soprintendente La Regina – stilò un accordo che teneva conto solo degli interessi delle amministrazioni da essi rappresentate. Furono disposte tutte le modifiche necessarie alla creazione di un nuovo comprensorio vincolato a parco archeologico. Un classico rattoppo all’italiana, nessuno si curò delle conseguenze che quelle affrettate modifiche avrebbero avuto sulla qualità e sul destino del quartiere.

A mio parere, Argan si comportò da burocrate e non da esponente della cultura internazionale. Venne a mancare quella mediazione colta e illuminata che la situazione esigeva e in cui tutti, a cominciare dal sottoscritto, speravamo. Sta di fatto che da quegli eventi prese avvio una profonda avversione, che peraltro covava da tempo, fra i due corpi separati della pubblica amministrazione, responsabili locali degli interventi sul territorio: il Comune di Roma e l’Iacp romano. I quali presero a fronteggiarsi a tutto campo anteponendo le ragioni di parte agli interessi collettivi, in forza di una profonda differenza fra le loro rispettive origini e culture, fra i loro modi e tempi di lavoro, fra le loro ultime finalità.

Oltre a riconoscere, dopo più di trent’anni, i danni che questa avversione ha causato alla vita dei quartieri realizzati dall’Iacp, e in modo particolare al Laurentino 38, è interessante risalire alle cronache dei tardi Settanta onde cogliere i presupposti culturali di questa diversità, poi degenerata nel caos amministrativo e gestionale. Dal quale, occorre dirlo, discese il totale abbandono di quei quartieri, che fra l’altro condusse alle recenti demolizioni di alcuni edifici ponte al Laurentino 38. Può essere considerato un primo segnale di quella avversione un articolo di Renato Nicolini, trentacinquenne Assessore alla Cultura nella Giunta Argan, apparso sul «Corriere della Sera» nel 1977 in coincidenza con i ritrovamenti archeologici al Laurentino, nel quale il giovane studioso protestava per il carattere insolito dei nuovi quartieri di edilizia popolare, così diversi dalle tradizioni dell’Icp di Sabbatini e di Quadrio Pirani. Più che di un moto momentaneo di fastidio si trattava della classica punta emergente di un iceberg di notevoli dimensioni .

Non si può non ricordare, fra le cause lontane di tanta avversione, la ventata di interesse sollevata nei Sessanta dallo strepitoso housing britannico, nonché da quello olandese e scandinavo e dalla progressista tecnologia industriale francese, tutte conquiste di livello europeo che, come sopra ricordavo, avevano fortemente influenzato i quartieri Iacp varati nei primi Settanta, sull’onda di un nuovo slancio nella ricerca progettuale sostenuta peraltro dalla dirigenza di quell’istituto. Eventi che avevano colto del tutto impreparato il Comune, anche sul piano psicologico oltre che operativo. Troppo grande la differenza fra la mole degli impegni, improvvisi e pressanti, richiesti dalla realizzazione dei nuovi quartieri Iacp e il pigro andazzo degli uffici municipali, incapaci di uscire dalla routine quotidiana. I nuovi quartieri così poco tradizionali, ma soprattutto Corviale e Laurentino, diventavano il classico pomo della discordia, una vetrina delle abissali diversità fra l’attivismo innovatore dell’Iacp e l’inerzia dell’amministrazione capitolina.

Ne fanno fede i comportamenti riluttanti e dilatori delle strutture comunali preposte alle opere di urbanizzazione di quegli odiati quartieri e infine il clamoroso rifiuto degli organi centrali dell’ amministrazione comunale di gestire quei quartieri una volta ultimati, malgrado le intese iniziali di ben diverso tenore. Ne fanno altresì fede alcune scelte di politica amministrativa quale ad esempio l’accordo patrocinato nell’estate 1978 da un Petroselli non ancora Sindaco, fra l’Italstat, l’Isveur e la Lega delle cooperative per un rilancio dell’edilizia pubblica e privata a scala comunale, in certo modo contrapposta ai grandi interventi promossi dallo Stato. Si trattava di un orientamento complessivamente romanista, aperto verso l’imprenditoria locale, sensibile agli aggiornamenti legislativi a scala nazionale, ma lontano da quel modernismo europeo di matrice anglosassone che aveva ispirato i quartieri appena ultimati dall’Iacp. Se ne condannavano l’esotismo, la grande dimensione, il carattere perentorio delle architetture, la disumanità, i sistemi costruttivi, i costi, le difficoltà di gestione, le procedure di affidamento degli appalti.

In antitesi a quel corso, si affermava una cultura locale di stampo più nostrano e dimesso, post-moderna, che guardava alle tradizioni dell’Icp romano, sostenuta dalla rivista «Controspazio» e dal numeroso gruppo di pressione culturale che faceva capo a Paolo Portoghesi. Per ricordare quanto questa avversione fosse profonda e avesse conquistato larghi strati socio-culturali, devo ricordare che essa nacque e prosperò durante tutto l’arco dell’influenza petroselliana culminando, dopo la sua morte, in quel pubblico processo organizzato dal Comune al San Michele nella sala detta dello Stenditoio, nel quale fu nominato quale presidente della Corte improvvisata il noto urbanista milanese Bernardo Secchi, pubblico ministero Paolo Portoghesi, cancelliere moderatore Carlo Aymonino. Si trattò di una messa in scena, il cui fine era quello di screditare i quartieri moderni realizzati dall’Iacp processandone i responsabili: Fiorentino per Corviale, Passarelli per Vigne Nuove, Barucci per Laurentino, De Feo per Val Melaina, tutti presenti al banco degli imputati. La pubblica accusa, sostenuta da Portoghesi e fortemente ispirata dagli ambienti comunali, ebbe la meglio e, senza mezzi termini, in quell’aula fredda e solenne la condanna risuonò così: gli autori di quei progetti non sono stati all’altezza della situazione!

Precedendo largamente tali conclusioni, Luigi Petroselli, prima da “grigio funzionario di partito” e poi da Sindaco aveva coltivato rapporti di collaborazione con importanti operatori privati e pubblici del settore edilizio locale, in vista di una trasformazione radicale del settore stesso, imperniata sul nuovo istituto della concessione a imprenditori privati e che avrebbe dato carattere al successivo periodo Settanta-Ottanta.

Fra tutti, restava fondamentale l’incontro fra Luigi Petroselli e Carlo Odorisio, manager di alto profilo, animatore e presidente dell’Isveur, qualificato istituto privato in cui si associavano i più importanti costruttori romani e che sarebbe diventato uno dei maggiori enti concessionari del Comune di Roma.

Fu in questo quadro che Petroselli, oltre a dare il meglio di sé nella sistemazione dell’area archeologica centrale (ispirata da Antonio Cederna), immaginò la sua creatura prediletta, il nuovo quartiere di Tor Bella Monaca, operazione di punta di cui gli organi tecnici del Comune (Canali, Anna Maria Leone, Paolo Visentini) stesero il progetto urbanistico nel 1979, all’avvio del suo mandato da Sindaco. Il progetto risultò un mirabile compendio delle tendenze maturate in quel periodo: un elaborato urbanistico per 28 mila abitanti volutamente, polemicamente elementare e semplicistico, un ritorno ai primordi. Nulla a che vedere con la complessità, la carica sperimentale dei quartieri moderni dell’Iacp messi sotto accusa, ma fortemente espressivo del nuovo corso immaginato e promosso da Luigi Petroselli.

Devo precisare a questo punto, ancorché non ce ne sia forse bisogno, che questo mio discorso ricorda il procedere incerto di un funambolo sul cavo teso nel vuoto, che impugna il bilanciere di sicurezza (sto leggendo il romanzo Let the Great World spin di Column McCann). Anche io difatti ho intrapreso una traversata pericolosa, parlando della figura di Petroselli in modo favorevole, data la ricorrenza celebrativa, ma non senza riserve, data la mia posizione culturale che spesso mi ha visto schierato in campo opposto. Il pericolo che corro è di cedere d’improvviso al tentativo di denunciare i casi in cui Petroselli si è comportato in modo a mio parere biasimevole e di precipitare così nel baratro della maldicenza, cosa a cui mi devo opporre dato il mio ruolo attuale: il mio compito resta quello di spigolare fra gli argomenti probanti dei suoi meriti, ma è un procedere incerto.

Ma dovendo scegliere fra il localismo (il campanile) e l’internazionalità (Bauhaus e dintorni) ho sempre scelto la seconda, come posso dimenticarlo? Quando il Comune ha rifiutato di prendere in gestione i ponti e le scuole del Laurentino, come concordato, Petroselli come non poteva “non sapere”, che ruolo ha avuto? Quando nel dicembre 1979 la scelta del Comune, come risulta dal rapporto riservato del Direttore centrale tecnico dell’Iacp, Petrangeli Papini del 1° maggio 1984, “di innescare un quartiere della qualità e delle caratteristiche del Laurentino con 100 famiglie di abusivi, sgomberati dal centro della città proprio per eliminare quella che il Comune riteneva una piaga anche per l’ordine pubblico, ha voluto significare compromettere per almeno l’arco di una intera generazione il futuro del quartiere”: e il Sindaco Petroselli ne era il principale responsabile, come posso dimenticarlo?

È sufficiente un ricorso al bilanciere (restare nell’agiografico) per evitare di precipitare? Forse no. La mia partecipazione alla repentina vicenda di Tor Bella Monaca fu intensa e molteplice. L’incarico più importante mi fu affidato dall’Isveur per la progettazione del famoso comparto R5, indicato nel progetto urbanistico originario come una coppia di grandi corti chiuse, per complessivi 1.200 alloggi e 5 mila abitanti. Data l’importanza dell’intervento, il presidente Odorisio aveva ordinato all’uopo un gruppo di ben dieci studi professionali, poi ridotti a otto, di cui mi affidò la direzione, fra cui era in particolare evidenza lo studio di Elio Piroddi, importante e stimato collega con cui ebbi un ottimo rapporto di lavoro. Progettare l’R5 fu un’operazione campale, data la difficoltà e le dimensioni del tema, i tempi iugulatori concessi, la complessità del quadro operativo.

L’organigramma attuativo del quartiere fu un capolavoro, un ingranaggio perfetto finalizzato alla realizzazione contemporanea delle urbanizzazioni, delle abitazioni e dei servizi primari, in tempi estremamente contenuti. Il tutto affidato a un apposito Consorzio concessionario Tor Bella Monaca, formato da Isveur, Consorzio cooperative costruzioni, Interedil e Cooperative Roma, presieduto da Carlo Odorisio. Tutte le progettazioni furono organizzate dall’Isveur, suddivise fra le sezioni di edilizia abitativa, opere di urbanizzazione, edilizia scolastica, verde e arredo urbano, con un efficiente coordinamento esercitato dallo studio Passarelli, che garantì tempi assai contenuti; la direzione lavori fu svolta dallo studio Lotti & Associati per conto dell’Isveur. Furono realizzati, a seguire, il centro civico (studio Passarelli) e il complesso parrocchiale (Pier Luigi Spadolini), architetture di notevole qualità.

Si deve riconoscere che la collaborazione Petroselli-Odorisio, almeno sul piano operativo, ha dato frutti eccellenti. Nell’ottobre 1981, alla prematura scomparsa di Petroselli, i cantieri erano in avanzato corso di lavorazione e sarebbero stati rapidamente ultimati.

Nello stesso quartiere progettai inoltre, stavolta con il mio studio, altri due importanti comparti edilizi denominati rispettivamente M4 e R11, per 300 e 280 alloggi, con finanziamento Iacp, per incarico dell’impresa concessionaria Lamaro. Il mio contributo complessivo alla realizzazione dell’intero quartiere fu pertanto tutt’altro che secondario. A prescindere dagli aspetti attuativi decisamente positivi, devo dire che la riuscita generale del quartiere Tor Bella Monaca non fu migliore di quella dei precedenti quartieri Iacp ai quali si contrapponeva, anche perché rispetto ad essi la qualità complessiva era decisamente inferiore, o solo volutamente diversa quanto ai contenuti strettamente disciplinari.

Quartiere spartano ma unitario nelle architetture, con modesto “effetto città” anche per i grandi spazi vuoti richiesti dagli standard urbanistici, condizionato dalla qualità dell’utenza, condannato al rapido degrado dalla dura realtà della inesistente gestione comunale. La solita musica, con il coro dei benpensanti scandalizzati per i disagi sociali. A cui, incredibilmente, si associa oggi lo stesso Comune, unico responsabile dei rovesci, che ne propone per bocca del Sindaco Alemanno, la totale demolizione!

Trascinato dalla foga narrativa, ho fin qui messo in evidenza due argomenti contrapposti e rappresentativi di un’epoca e che, fra l’altro, mi riguardano particolarmente: il Laurentino 38 (1971-1978) e Tor Bella Monaca (1980-1982). Ho tralasciato la descrizione della breve ma importante fase intermedia (1978-1980) che ha visto la mia partecipazione, assieme agli illustri colleghi Lucio Passarelli e Marcello Vittorini, alla stesura della legge 513/77 che, come ho accennato prima, apportò fondamentali trasformazioni all’edilizia residenziale pubblica sotto il profilo normativo e tipologico.

Seguendo lo spirito dei tempi e gli intenti fondativi della legge, con Passarelli e Vittorini, abbiamo allestito e pubblicato uno studio approfondito delle nuove tipologie edilizie, contribuendo inoltre a stabilire i nuovi parametri di riferimento delle economie e delle semplificazioni perseguite dalla legge in campo progettuale. A riprova e in applicazione del portato della legge, abbiamo anche avuto l’incarico di progettare a Roma il quartiere di Torrevecchia, che fu realizzato dal 1979 e che, nella considerazione generale, resta uno dei migliori quartieri romani di edilizia residenziale pubblica. Alla legge 513/77, oltre a un generale rinnovamento sul piano progettuale, hanno fatto seguito altri provvedimenti di natura affine, fra cui la 457/78 e la 25/80. Fu quest’ultima uno dei principali strumenti che permisero al Sindaco Luigi Petroselli di immaginare e avviare a rapida realizzazione il quartiere di Tor Bella Monaca.

Petroselli resta il Sindaco di Roma più amato e rimpianto, per la sua origine popolare, per la passione con cui si è dedicato all’esercizio del suo mandato.

Spero che in questo ultimo tratto della mia traversata il bilanciere abbia funzionato a dovere.

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