loader
menu
© 2024 Eddyburg

Nel corso del 2007, la regione Puglia guidata da Nichi Vendola, con l’assessore all’Assetto del territorio Angela Barbanente, ha avviato la redazione del nuovo Piano paesaggistico territoriale regionale (Pptr), affidandone il coordinamento scientifico ad Alberto Magnaghi dell’Università di Firenze. L’attività di redazione del piano è nella sua fase centrale, con lo svolgimento delle conferenze di pianificazione di dicembre 2008 ad Altamura, Acaja, Lucera. Qui si sono affermati alcuni cardini dell’azione di piano (la “certezza” del vincolo, la conoscenza e rappresentazione delle peculiarità dei paesaggi regionali, lo stop al consumo di suolo, l’integrazione paesaggistica delle politiche agricole in una prospettiva multifunzionale, la tensione verso la riqualificazione dei paesaggi degradati della periferia, della campagna e della costa, la partecipazione degli abitanti alla costruzione del piano ecc.) che cercherò di sintetizzare, non prima di aver collocato il Pptr in un quadro più generale. Esso sostituirà, una volta concluso l’iter di approvazione, il Piano urbanistico territoriale tematico, Putt., attualmente in vigore che, anche per un notevole deficit conoscitivo, rinvia essenzialmente ai comuni e ai singoli progetti le scelte di trasformazione. Una forte volontà politica di rilanciare la qualità del governo del territorio nella regione si è concretizzata tra l’altro nel Drag (Documento regionale di assetto generale, http://www.regione.puglia.it/drag/) un insieme di atti amministrativi e di indirizzi alla pianificazione provinciale e comunale che, previsto dalla legge regionale 20/2001, ne rilancia l’efficacia.

La conoscenza condivisa

La riorganizzazione degli strumenti di governo del territorio ha significato anche una forte spinta verso la creazione di “conoscenza condivisa”: la redazione della nuova carta tecnica alla scala 1:5.000 a cura di Tecnopolis, unita a specifici indirizzi del Drag, rende possibile in prospettiva l’omogeneità dell’organizzazione delle informazioni pur nel rispetto delle peculiarità locali. Alcuni esempi apprezzabili si hanno già con alcuni piani comunali in fase di redazione, come quello di Manfredonia.

Su queste basi si sono avviate altre operazioni di conoscenza. La redazione della carta Idrogeomorfologica regionale (affidata all’Autorità di bacino pugliese) definita con la collaborazione dei redattori del Pptr, si concluderà entro i primi mesi del 2009. La redazione della Carta dei beni (coordinatori prof. Giuliano Volpe rettore dell’Università di Foggia e l’arch. Ruggero Martines, Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Puglia) ha il compito di censire tutti i beni immobili e le aree di valore culturale e paesaggistico localizzati in aree extraurbane. La redazione della Carta può contare su di un costante confronto con l’azione di piano, affinché essa divenga non solo strumento di tutela, ma premessa alle azioni di “valorizzazione integrata” e di sviluppo sostenibile nell’ambito del più ampio quadro di azione del Pptr.

In una amministrazione ristrutturata per Aree dentro le quali si vuole avviare un maggiore coordinamento tra settori, si colloca la redazione del Pptr: occasione ulteriore per una azione di raccordo tra gli strumenti di conoscenza, programmazione, pianificazione, grazie anche al lavoro di un gruppo di Vas (Iuav Studi e Progetti) che indaga le ricadute delle azioni di piano sui vari settori interessati. È chiara la necessità che il Pptr, nel corso della sua redazione, dialoghi con gli altri strumenti (il Piano di sviluppo rurale, il Piano delle infrastrutture, il Piano delle coste, i piani di area vasta, i Ptcp ecc.) e orienti le “politiche” attive sul territorio e sul paesaggio regionale.

Tre sezioni

Il Pptr come strumento tecnico è articolato in tre sezioni: l’Atlante del Patrimonio Ambientale, Paesaggistico e Territoriale, lo Scenario Strategico, le Regole.

L’Atlante costituisce il quadro conoscitivo del Pptr, che organizza il corpus di informazioni derivante dalle varie operazioni conoscitive avviate e pregresse, arricchite da indagini originali svolte dalla Segreteria Tecnica del Pptr. Le sezioni dell’Atlante alle differenti scale sono articolate in livelli analitici, sintesi strutturali e descrizioni patrimoniali. Questa struttura conoscitiva è orientata (oltre che alla riorganizzazione delle informazioni, ad esempio alla sistematizzazione del quadro dei vincoli su basi cartografiche certe) alla descrizione delle peculiarità regionali e alla evidenziazione delle regole insediative che le hanno prodotte.

L’indagine storica tende a ricostruire, nel lungo periodo, le grandi fasi di territorializzazione [fig.1], ad indagare la formazione dei caratteri dei paesaggi rurali assegnando ad alcuni un carattere “tradizionale”; ad analizzare le forme dell’insediamento nelle sue evoluzioni, specie nella variazione del rapporto tra spazio costruito e spazio aperto; a definire le “figure territoriali e paesaggistiche”, unità di “minima scomposizione delle individualità territoriali con una specifica struttura morfotipologica”. Il Piano rivolge molta attenzione alle dinamiche contemporanee, per poter registrare la natura della loro incidenza sulle grandi strutture invarianti che connotano il territorio regionale. Individuate le componenti strutturali dei diversi paesaggi regionali (e compiuto il tentativo di “rappresentarle” in elaborati efficaci, come ad esempio la Carta del patrimonio territoriale dei paesaggi della

Puglia [fig.2], che sarà anche articolata al livello di ambito e figura territoriale), il piano và definendo degli “obiettivi di qualità“ e calibrando regole per realizzare le condizioni della loro riproduzione in coerenza con il cammino tracciato dal DRAG per gli strumenti provinciali e comunali, che dovranno trovare nel piano regionale una salda visione di insieme.

La volontà di evidenziare la “lunga durata” delle dinamiche che hanno strutturato nel tempo la formazione delle peculiarità dei paesaggi pugliesi è una attenzione al passato rivolta essenzialmente a radicare nel territorio le scelte dello Scenario Paesaggistico contenuto nella seconda parte del Pptr, prefigurazione del futuro di medio e lungo periodo del territorio della Puglia. Lo scenario serve da riferimento strategico per “avviare processi di consultazione pubblica, azioni, progetti e politiche, indirizzati alla realizzazione del futuro che descrive”.

La terza parte organizza l’insieme delle Norme, che è prematuro trattare: sono un elenco di indirizzi, direttive e prescrizioni che dopo l’approvazione del Pptr avranno un effetto immediato sull’uso delle risorse che costituiscono il paesaggio. Tuttavia, nella calibrazione degli indirizzi e delle direttive tese al raggiungimento degli “obiettivi di qualità”, il Pptr (tra i primi strumenti regionali a sperimentare nel corso della sua redazione forme attive di partecipazione in applicazione della Convenzione europea del paesaggio) ha avviato la produzione di “linee guida” e di “progetti integrati sperimentali” tesi al raggiungimento degli assetti prefigurati negli scenari. Linee guida e progetti sono rivolti soprattutto ai pianificatori e ai progettisti, ma in diversi modi coinvolgono i “produttori” di paesaggio (costruttori, imprenditori agricoli, amministratori, abitanti riuniti in associazioni ecc.).

Le linee guida, in parte operanti all’interno dei progetti integrati che tentano di tipizzare, vengono redatte in forma di schede-norma, abachi e regolamenti mirati a particolari aspetti gestionali o costruttivi la cui dimensione interessa gli aspetti paesaggistici. Ad esempio, rispetto alla qualificazione ambientale e paesaggistica delle infrastrutture lineari (strade, ferrovie, linee elettriche, acquedotti), verranno rilasciate apposite linee guida con il concorso del recente Piano Regionale delle infrastrutture. Per la rete di mobilità infraregionale su ferro, si sono attivati due progetti sperimentali di valorizzazione di ferrovie minori: la Ferrovia del Parco nazionale dell’Alta Murgia e la Ferrovia del Parco nazionale della Valle dell’Ofanto. Su altre infrastrutture di produzione energetica (impianti fotovoltaici ed eolici) linee guida ad hoc detteranno i criteri localizzativi, dimensionali e tipologici.

Un altro esempio di linee guida si svolge nel campo delle morfotipologie insediative delle urbanizzazioni contemporanee, delle periferie e degli insediamenti costieri degradati, assumendo la necessità di una loro riqualificazione paesaggistica: qui il Pptr si appoggia sul Programma 2007-2013 di “Riqualificazione dei paesaggi dell’abbandono e della marginalità”. Anche la qualificazione paesaggistica e ambientale di un regolamento edilizio interessa un progetto sperimentale e darà vita a specifiche linee guida: con il Comune di Giovinazzo si propone un regolamento-tipo regionale, con l’introduzione di regole qualitative sui materiali da costruzione, le tipologie, i colori, l’inserimento edilizio nel paesaggio urbano e rurale, ecc. Un altro protocollo riguarda il regolamento per il Parco Nazionale dell’Alta Murgia concordato con l’Ente parco, che prevede indicazioni morfotipologiche per gli interventi di recupero e di nuova edificazione. Sui temi della riprogettazione delle strutture balneari e sul recupero delle aree costiere abbandonate è allo studio la delocalizzazione di oltre 400 alloggi abusivi a Lesina, con la decisione dell’assessorato regionale all’Assetto del Territorio di dare operatività al progetto esecutivo (Pirt) di demolizione, in quanto tali edifici compromettono la fascia dunale.

Dal punto di vista del recupero paesaggistico e ambientale, sono stati avviati progetti di recupero di cave a Cursi, Apricena, Avetrana, con ipotesi di riuso per funzioni pubbliche. L’integrazione delle linee guida con i progetti sperimentali è particolarmente evidente sulla progettazione e gestione di aree produttive ecologicamente e paesisticamente attrezzate (Apea). Rispetto a questo tema, sono stati firmati protocolli con il comune di Cisternino, nell’ambito del PUG, e con il comune di Modugno: le linee guida che ne deriveranno ambiscono a declinare regole generali da applicare nelle aree Pip e nelle zone Asi.

Il Piano mette in campo altri progetti. Ad esempio, proposte per una guida turistica innovativa sulla base dell’Atlante, che aiuti alla comprensione ecologica e storico strutturale dei paesaggi; restauri e recuperi di tratturi ancora integri o riconoscibili (ad esempio presso Motta Montecorvino, nel Subappenino Dauno, o nel tratto terminale del Tratturo Pescasseroli-Candela); riapertura di un “corridoio ecologico” in provincia di Foggia, sul torrente Cervaro, come anticipazione della Rete ecologica regionale, ecc.

Coinvolgimento degli abitanti

Soprattutto, il piano esprime al fondo una tensione al coinvolgimento degli abitanti nei processi conoscitivi e decisionali riguardo al paesaggio regionale, che si esplica anche nella scelta e nella calibrazione dei progetti integrati: ad esempio, con la redazione di mappe di comunità a Botrugno, Acquatica, Neviano, dove il processo di costruzione delle mappe ha potuto contare su azioni già avviate sul territorio, mentre è stato firmato recentemente un protocollo per l’Ecomuseo della valle del Carapelle, che integra al suo interno le mappe di comunità. In questo senso va il protocollo firmato con il Comune di San Cassiano e il Laboratorio urbano aperto (Lua), attivato per sostenere la realizzazione di un progetto in forma partecipata, avviato da tempo, di un parco agricolo multifunzionale nel Salento.

In questo spirito, il Pptr sta sviluppando un sito (dove saranno pubblicati in progress gli elaborati del piano) che include l’Osservatorio del paesaggio: uno strumento calibrato sui principi della Convenzione Europea del Paesaggio nel tentativo di indagare le percezioni degli abitanti, singoli o associati, del loro ambiente di vita (www.paesaggiopuglia.it). Qui qualsiasi utente ha la possibilità di contribuire a costruire una mappa “dal basso” con le proprie segnalazioni relative ai beni del paesaggio e alle offese al paesaggio, alle buone e alle cattive pratiche riferite al paesaggio. Vuole essere un segno di attenzione alla voce e alla sensibilità degli abitanti, e un tentativo di fare emergere (mappando le buone pratiche) quelle energie progettuali che il piano paesaggistico intende esaltare includendole nel proprio scenario strategico.

Perché gli emendamenti alla legge

La nota dell’arch. Giglio, inviata a me per conoscenza, merita alcuni puntuali chiarimenti. Cominciamo dalla domanda iniziale “Perché un ‘nuovo’ piano casa in Puglia?”. Orbene, non si tratta di un nuovo piano casa ma di alcune precisazioni e modifiche (in totale 5 articoli), richieste a gran voce e da tempo, da forze politiche, amministrazioni e uffici comunali, professionisti, operatori economici e loro rappresentanze. La principale ragione risiede evidentemente nella delusione delle enormi aspettative suscitate dal grande spot lanciato due anni or sono da Berlusconi e dal flop che ne è seguito non solo in Puglia ma in gran parte dell’Italia, contrariamente a quanto affermato dagli operatori del settore edilizio e dalla gran parte della stampa locale. Merita ricordare che si trattò di un intervento di vero e proprio sciacallaggio politico, in un momento pre-elettorale e di drammatica crisi economica. Comprendo l’allarme di Giglio, perché l’idea alla base dell’accordo Stato-Regioni dell’aprile 2009 aveva destato apprensione in tutte le persone di buon senso e che hanno a cuore le sorti del paesaggio italiano. Nessuna corsa all’ampliamento e alla demolizione, tuttavia, si è registrato in Puglia e questo, ci deve dare atto, proprio perché abbiamo fatto prevalere la coerenza della visione che è alla base del programma di governo, orientata alla tutela del territorio, del paesaggio e dell’ambiente (e anche, nel caso di specie, dei diritti dei terzi) al canto delle sirene di chi pretende di affrontare la crisi del settore delle costruzioni con interventi derogatori che altro non fanno che aggrovigliare ulteriormente la giungla normativa.

Nessuna sconfessione dell’originaria impostazione

Passiamo quindi al titolo della nota: “Le molte criticità di un provvedimento che smentisce la precedente impostazione”. Le recenti proposte di modifica, se lette con attenzione, non smentiscono affatto l’impostazione originaria, finalizzata a cogliere l’opportunità dell’accordo per offrire sostegno al settore edilizio mediante interventi tesi a migliorare le condizioni di sicurezza e accessibilità del patrimonio esistente e la qualità architettonica, ambientale e paesaggistica delle città e del territorio. Non fu facile indurre il Consiglio Regionale ad approvare all’unanimità una simile impostazione, evitando così la strumentalizzazione politica che sarebbe sicuramente seguita all’inevitabile delusione della promessa di milioni di metri cubi e migliaia di posti di lavoro alla base della campagna pubblicitaria berlusconiana che accompagnò il lancio del cd piano casa. Tale impostazione è stata peraltro riconosciuta da una specifica indagine di Legambiente, che ha individuato la Puglia fra le pochissime regioni, assieme alla Toscana e alla provincia autonoma di Bolzano, che hanno applicato il Piano casa rispettando ambiente e sviluppo sostenibile.

Ora, mi preme dimostrare che le modifiche confermano e per alcuni versi rafforzano questa impostazione rigorosa e coerente con le politiche regionali della passata legislatura e di quella in corso.

Gli interventi previsti, infatti, continuano a riguardare esclusivamente la destinazione residenziale, escludendo qualsiasi destinazione produttiva o turistica e specificando cosa debba intendersi per residenza ai sensi del DIM 1444/1968, in considerazione delle incertezze emerse nella fase di applicazione delle norme e manifestate dai Comuni e dai tecnici in più occasioni. Peraltro, non solo non “salta anche la norma che impediva i cambi di destinazione d’uso”, come riportato nel commento di Giglio, ma il comma che specificava che “con la realizzazione degli interventi previsti non è ammesso il cambio di destinazione d’uso” è sostituito da una più chiara dicitura, secondo la quale gli interventi realizzati a norma della legge in questione non possono essere destinati ad usi diversi da quelli consentiti dallo strumento urbanistico generale vigente.

Inoltre, l’elevazione del limite dei 1000 mc a 1500 mc per gli immobili soggetti ad ampliamento non si accompagna al mutamento del limite di ampliamento consentito, che rimane pari a 200 mc, e dunque decresce in termini percentuali rispetto al 20% massimo della norma originaria, al variare della volumetria del fabbricato. 300 mc possono raggiungersi solo qualora l’intero fabbricato non solo sia adeguato alle norme antisismiche e reso efficiente dal punto di vista energetico, ma raggiunga il punteggio 2 di sostenibilità edilizia (a fronte del livello zero che corrisponde all’adeguamento alle vigenti normative) opportunamente certificato in base al sistema di valutazione approvato dalla Regione in attuazione della LR 13/2008 “Norme per l’abitare sostenibile”. A tale proposito, non si comprende perché Giglio consideri un paradosso che un intervento assentito con DIA debba raggiungere un punteggio 2 per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale ai sensi della LR 13/2008. A questo proposito, è forse utile un’informazione: nell’applicazione della legge pugliese, che consente che gli interventi siano subordinati sia a permessi di costruire che a DIA, i primi prevalgono sulle seconde. A Bari, ad esempio, città caratterizzata da una notevolissima diffusione di case uni-bifamiliari nelle frazioni costiere, su un totale di 1430 DIA presentate solo 8 hanno riguardato il cd piano casa mentre sono 10 le domande di permesso di costruire su un totale di 383.

Non è neppure corretto sostenere che gli edifici non debbano essere già accatastati, appunto perché dovranno esserlo, e ovviamente in data antecedente alla presentazione dell’istanza, mentre gli edifici dovranno essere stati ultimati alla data di entrata in vigore della legge, ossia nel settembre 2009 (data di pubblicazione della legge rettificata). Ancora, nel disegno di legge non è rintracciabile alcun mutamento di indirizzo in merito alla sanatoria edilizia straordinaria e, per quanto riguarda la valutazione antisismica, ferme restando le norme precedenti che richiedono la verifica strutturale dell’intero fabbricato, ci si limita a specificare che la valutazione della struttura può limitarsi all’intervento solo allorquando l’ampliamento si presenti, ancorché contiguo, dal punto di vista statico e strutturale indipendente dall’edificio esistente.

Fortunatamente Giglio rileva che non è stato modificato l’art. 6 che prevede l’esclusione di numerose parti di territorio: non solo centri storici o assimilabili, beni culturali e paesaggistici, aree protette e ambiti ad alta pericolosità idrogeologica, ma anche le aree per le quali gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la ristrutturazione edilizia o la subordinino a un piano esecutivo. Merita anche evidenziare che restano ferme altre garanzie quali il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime previste dagli strumenti urbanistici e, in mancanza, delle altezze massime e distanze minime previste dal DIM 1444/1968, nonché il rispetto delle norme sui parcheggi e sulla dotazione di standard pubblici. E assicuro che su questi punti la pressione per introdurre modifiche alla legge è stata davvero molto forte sia prima che dopo l’entrata in vigore.

Infine, mi risulta difficile comprendere l’ultima parte della nota, che lascia intendere qualche preoccupazione per gli effetti dell’articolo 9, riguardante la delocalizzazione di immobili legittimamente esistenti ubicati in aree vincolate e contrastanti, per dimensione e tipologia, con il contesto paesaggistico, urbanistico e architettonico circostante. La norma è stata ispirata dalla necessità di migliorare la qualità di ambienti compromessi da decenni di cementificazione selvaggia, abusiva e legale. Essa prevede premi volumetrici per interventi finalizzati alla delocalizzazione di opere incongrue da aree di pregio o a rischio, previa approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo e demolizione con ripristino delle aree di sedime, in aree omogenee degli strumenti generali. Il punto critico, piuttosto, sembra essere quello della scarsa convenienza economica alla delocalizzazione di opere legittimamente esistenti.

Perché una nota a eddyburg

piuttosto che la partecipazione nelle sedi istituzionali?

Ora sono io a porre una domanda all’arch. Giglio. Perché ha ritenuto di trasmettere una nota a eddyburg (inviata a me per conoscenza) e non ha partecipato in qualità di esponente di Italia Nostra, associazione della quale credo sia ancora rappresentante, alla riunione dedicata dalla commissione consigliare alle modifiche normative in questione, alla quale erano state invitate anche tutte le principali associazioni ambientaliste attive in Puglia?

Per la verità a quella riunione erano assenti non solo Italia Nostra ma tutte le associazioni ambientaliste e tutti gli ordini degli architetti. Erano invece presenti, oltre che i rappresentanti di Anci e Upi, i portatori di interessi diretti quali gli ordini degli ingegneri e i collegi dei geometri di varie province, l’ance, cna e confartigianato, confedilizia e associazione piccoli proprietari. E’ ovvio che, con un simile sbilanciamento di rappresentanze, le richieste di emendamento sono state esclusivamente orientate, secondo un leitmotiv che risuona dall’epoca della stesura del primo disegno di legge, all’estensione temporale, dimensionale e funzionale dei margini del cd piano casa e all’allentamento dei vincoli previsti.

Nel silenzio assordante di tutti gli altri, l’idea, già diffusa, che rischia di consolidarsi, è che la legge in vigore in Puglia rispecchi solo le convinzioni di un’assessora e di una giunta che, in nome della difesa dell’ambiente, del paesaggio e delle città storiche, la vogliono tenacemente mantenere restrittiva, in barba alla crisi economica, alle esigenze delle famiglie pugliesi e a differenza di quanto previsto dalla gran parte delle Regioni Italiane. Beninteso, quest’idea non mi dispiace affatto, anzi, e quelle convinzioni corrispondono esattamente alle mie. Il timore è che dal canto delle sirene di Berlusconi, amplificato dai partecipanti alla concertazione istituzionale, tutti portatori di interessi diretti, restino incantati i consiglieri regionali, mentre il controcanto dei portatori di interessi diffusi di natura ambientale tacciono o non fanno sentire la propria voce nelle sedi nelle quali si formano le decisioni.

Il 20 ottobre scorso, La Giunta Regionale della Puglia ha adottato lo “schema” di Piano territoriale paesaggistico regionale, di cui sono consultabili la relazione, le tavole e le norme nelle pagine del sito web del piano

L’adozione del nuovo piano paesaggistico è un evento molto importante per diverse ragioni. Innanzitutto perché "il contesto culturale in cui questo piano interviene è un contesto in cui la pianificazione non è la forma ordinaria di governo del territorio. Gli sforzi compiuti dall’attuale amministrazione regionale per mobilitare la società pugliese sono essenziali a compiere la trasformazione culturale necessaria a riconoscere l’utilità del pianificare le scelte relative alle trasformazioni del territorio, bene collettivo per eccellenza" (1).

Il nuovo piano può essere considerato l’esito conclusivo di un percorso, coerente e faticoso, compiuto durante il primo mandato dell’amministrazione di centro-sinistra (in particolare da parte dell’assessore Angela Barbanente) per far sì che la pianificazione torni ad essere lo strumento fondamentale per il governo del territorio, assicurando in questo modo che l’azione ammnistrativa sia fondata sul rispetto delle regole e la trasparenza delle scelte.

Quanto al mirabile mosaico di paesaggi pugliesi, straordinariamente ricco e diversificato, il piano si fonda sull’assunto che esso costituisce

"il principale bene patrimoniale (ambientale, territoriale, urbano, socio culturale) e la principale testimonianza identitaria per realizzare un futuro socioeconomico durevole e sostenibile della regione" (2). La conservazione del paesaggio assume perciò un significato specifico in relazione al modo in cui si interviene sul presente e, soprattutto, in cui si guarda al futuro. Non si tratta, semplicemente, di sottrarre alla trasformazione (rectius, alla devastazione) alcune porzioni isolate di territorio, ma di proporre un assetto complessivo del territorio nel quale assumono un ruolo portante le azioni di conservazione dei beni tuttora integri, di recupero delle parti degradate, di ampliamento delle possibilità di fruizione - compreso il godimento della bellezza - da parte dei cittadini pugliesi e dei visitatori. Si tratta quindi di immaginare un modo differente di abitare, produrre, consumare e muoversi che non si ponga in aperto conflitto con il territorio e che, viceversa, sia capace di riprodurre ed esaltare le qualità e i caratteri specifici che caratterizzano le identità dei luoghi (3). E, conseguentemente, si tratta di selezionare e indirizzare la spesa pubblica e l’azione amministrativa, per incentivare tutte e solo quelle attività che sono coerenti con questa visione del futuro, descritta nel piano, discussa con i cittadini, e deliberata nell’assemblea regionale.

(1) Relazione generale, p. 5.

(2) Relazione generale, p. 14.

(3) Su questo punto si rinvia agli scritti e alle ricerche condotte da Alberto Magnaghi, il coordinatore scientifico del piano paesaggistico. Su eddyburg, cfr. in particolare Il territorio come bene comune.

Inseriamo di seguito il primo paragrafo ("Il paesaggio come bene patrimoniale") del primo capitolo ("La filosofia del piano") del Documento programmatico del PPR della Puglia. Esso definisce, dal punto di vista metodologico e operativo, il programma di formazione del PPR della Puglia. E' stato elaborato dal coordinatore scientifico del piano, Alberto Magnaghi. In calce il link per scaricare il documento integrale, estratto dal Bollettino Ufficiale Regionale, n. 168 del 27.11.2007

I paesaggi delle Puglie, prodotti nel tempo lungo della storia dalle “genti vive” (Sereni) che li hanno abitati e che li abitano, costituiscono il principale bene patrimoniale (ambientale, territoriale, urbano, socio culturale) e la principale testimonianza identitaria per realizzare un futuro socioeconomico durevole e sostenibile della regione.

Questo futuro non risiede in una esasperata accelerazione degli scambi, della standardizzazione dei prodotti, della mobilità di merci e persone sul mercato mondiale, ma nella capacità di innovare, produrre e scambiare beni che solo in quel luogo del mondo possono venire alla luce in quanto espressione culturale di una identità di lunga durata che il paesaggio, a ben interpretarlo, racconta, Un’identità che si è costruita nell’azione umana di lunga durata, esito evolutivo di dinamiche relazionali nelle quali le dimensioni dello spazio e del tempo sono indissolubilmente legate. In questa visione è necessario superare la distinzione che faceva alternativamente prevalere l’uno sull’altro, con lo spazio il più delle volte percepito quale sfera della fissità (e dell’inerzia), in opposizione al tempo come dominio del movimento (e del progresso) [1].

In questo senso il paesaggio ha valore di patrimonio sociale e di bene comune che deve essere continuamente costruito e ri-costruito mediante azioni di conservazione, valorizzazione, riqualificazione.

Il paesaggio storico è ricco di idee, di invenzioni, di narrazioni. Certo un paesaggio inteso non solo come veduta, “bello sguardo”, ma indagato, decifrato, nella sua bellezza, come specchio dell'anima dei luoghi, come teatro in cui va in scena l’autorappresentazione identitaria di una regione, “come parte essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità” (art 5 della Convenzione europea del paesaggio). In questa accezione esso è un giacimento straordinario di saperi e di culture urbane e rurali, a volte sopite, dormienti, soffocate da visioni individualistiche, economicistiche e contingenti dell’uso del territorio; ma che possono tornare a riempirsi di significati collettivi per il futuro. Il paesaggio è il ponte fra conservazione e innovazione, consente alla cultura locale di “ripensare sé stessa”, di ancorare l’innovazione alla propria identità, ai propri miti, sviluppando “coscienza di luogo” per non perdersi inseguendo i miti omologanti della globalizzazione economica.

Miti questi ultimi che tendono a rappresentare il territorio come un insieme di “piattaforme” transnazionali, nazionali, interregionali, regionali: piattaforme logistiche, produt.tive, fasci infrastrutturali (corridoi); le città diventano “snodi”, “sistemi commutatori fra flussi”.

La Puglia è disegnata in queste rappresentazioni come un insieme di rettangoli che collegano cerchi e quadrati (corridoi che collegano piattaforme logistiche, porti, interporti, zone industriali e cosi via). Questa rappresentazione funzionale per nodi e flussi, se assunta come unico criterio interpretativo “sovraordinato” delle opportunità territoriali, rischia di obnubilare l’identità dei luoghi, trasformandoli in crocevia (snodi) omologati e omologanti di funzioni economiche dei mercati globali. La rappresentazione identitaria dei paesaggi, restituendo evidenza socioeconomica alle peculiarità del territorio, dovrebbe restituire alle relazioni fra luoghi il loro valore strutturale di sviluppo degli scambi fra società locali (regioni, microregioni) e della loro connessione a rete per la cooperazione oltre che per la competizione [2].

Uno sviluppo locale che si richiami al concetto di autosostenibilità deve innanzitutto, come argomenta Gianfranco Viesti, far riferimento alla “capacità delle istituzioni e delle società locali di valorizzare .le risorse disponibili”4. [3]. Ma quali risorse? Certo in primo luogo “conoscenza”, “saperi”, “cervelli”; ma, aggiungo, quando queste risorse riescono a trarre la loro ragione di scambio (con altre conoscenze e “cervelli”) dal profondo dei giacimenti identitari, che le proiettano sulla scena globale come attori originali di un processo dì cooperazione-competizione e non come oggetti di un percorso di omologazione e, infine, di subordinazione culturale ed economica; contribuendo in questo modo a ridefinire il concetto stesso di “sviluppo”.

Il Piano paesaggistico dunque si candida ad essere strumento per riconoscere, denotare e rappresentare i principali valori identitari del territorio; per definirne le regole d’uso e di trasformazione da parte degli attori socioeconomici; per porre le condizioni normative e progettuali per la costruzione di valore aggiunto territoriale[4]come base fondativa di uno sviluppo endogeno e autosostenibile [5].

[1]J. May e N. Thrift, a cura di, Timespace: Geographies of Temporality, Routledge. Florence, KY, USA, 2001.

[2] Massimo Quaini fa riferimento a questa speranza quando, descrivendo uno scenario oppositivo alle maglie larghe della globalizzazione nel modello di sviluppo della Liguria, scrive: “il secondo registro identitario punta ... alla centralità dei territorio locale e sulla diversità dei paesaggi ... è un registro fatto di molte identità locali non ancora sacrificate sull’altare della velocità dei flussi e delle reti; che fa proprio l’elogio della lentezza e si realizza nella costruzione di uno spazio più conviviale, che conflittuale. … Le identità e i paesaggi locali per sopravvivere hanno bisogno di circuiti economici ben radicati nelle qualità e nelle risorse del territorio e per funzionare devono saper mettere insieme propensioni, domande e consumi tipicamente post-industriali e post-moderni e dunque fare appello a u mercato più vasto. È il caso per esempio della riscoperta delle vocazioni agrarie e produzioni alimentari e artigianali di qualità, collegato a nuove forme di viaggio lento e di turismo culturale, come anche di scoperta della fascia collinare come luogo di residenza alternativo alle invivibili aree metropolitane.

[3] G. Viesti, Le tessere del mosaico. Rimettere insieme la Puglia, Laterza, Bari 2005.

[4] Per “Valore Aggiunto Territoriale” di un sistema locale intendo: una crescita durevole del patrimonio prodotta dalla messa in valore delle risorse ambientali e socio-territoriali, garantendone la riproduzione nel tempo e determinando empowerment della società locale; il conseguente sviluppo della capacità di autoriproduzione della società locale, anche attraverso la riduzione della sua impronta ecologica come aumento di autosufficicnza alimentare, energetica, tecnologica.

[5] Il concetto di autosostenibilità è riferito at superamento del concetto di ecocompatibililà ovvero di un modello di sviluppo che richiede correttivi e puntelli esterni per essere sostenibile; l’autosostenibilità la riferimento a un modello di sviluppo che trova nelle regole riproduttive delle sue risorse locali la capacità autogenerativa delladurevolezza. Vedasi in proposito il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

.

Per prima cosa cominciamo dal territorio e dalle sue “tensioni” principali. In Sardegna, la nuova giunta guidata da Soru ha messo al primo punto della propria azione la protezione delle coste da un dissennato sfruttamento edilizio, facendone l’emblema di un modo diverso di guardare alla regione e al suo sviluppo. In Friuli – Venezia Giulia l’impegno principale sembra nella realizzazione di grandi infrastrutture in una logica transfontaliera. In Puglia, esiste una questione specifica che l’amministrazione Vendola ha individuato come nodo prioritario da affrontare e come elemento distintivo della propria attività di governo del territorio?

La situazione pugliese è molto diversa da quella sarda. Diversamente dalla Sardegna, al momento dell’insediamento della nuova Giunta Regionale, in Puglia era vigente un piano paesistico , approvato in via definitiva nel 2001 sebbene presentasse rilevanti problemi di attuazione. Il piano paesistico era uno strumento che avevamo molto criticato quando eravamo all’opposizione, tuttavia va riconosciuto che in alcune situazioni si è rivelato importante per evitare trasformazioni del territorio dissennate, soprattutto nelle aree sensibili dal punto di vista paesaggistico. Per questa ragione abbiamo deciso di non ripartire da zero; sia nel caso del piano paesistico, sia nel caso della legge urbanistica regionale , la nostra scelta è stata quella di utilizzare gli strumenti esistenti, sebbene con un indirizzo politico diverso. Questa scelta è stata motivata da una ragione di economia del tempo: porre subito mano ad una nuova legge probabilmente avrebbe assorbito tutte le energie dell’amministrazione regionale per l’intero primo mandato. Siccome la legge approvata aveva un struttura “leggera”, rinviando ad atti di indirizzo e regolamentari, abbiamo ritenuto che questi ultimi potessero essere riempiti di contenuti e questo abbiamo fatto. Dovendo pertanto individuare una questione specifica che possa assumere un significato simbolico del cambiamento impresso dalla nuova amministrazione, possiamo dire che l’obiettivo prioritario è stato quello di rendere nuovamente la pianificazione centrale nei processi di governo del territorio. Questa è la sfida che noi abbiamo voluto lanciare a tutti, segnando una discontinuità con la precedente prassi derogatoria e sregolata.

La Puglia è una regione particolarmente vivace dal punto di vista economico, in particolare nelle aree centrali e, attualmente, anche nella parte Salentina, solo geograficamente periferica. A partire dalla metà degli anni 90 si erano sviluppate in Puglia numerose iniziative tese ad aggirare, forzare, o semplicemente derogare rispetto a una pianificazione che, col passare del tempo, stava diventando sempre più un simulacro incapace di rispondere ai bisogni alle domande sociali. Tra l’altro, si deve sottolineare che la pianificazione di area vasta era praticamente inesistente - fatta eccezione per il PUTT cui ho accennato in precedenza, peraltro fondato su un quadro conoscitivo datato e frutto di un lunghissimo periodo di gestazione che l’aveva slabbrato da tutte le parti - e la pianificazione comunale era fondata su strumenti altrettanto datati e su un modello di pianificazione così rigido che aveva finito con il giustificare la richiesta di deroghe. La legge regionale 56 del 1980, per esempio, vietava varianti agli strumenti urbanistici dei piani non adeguati alla legge stessa, fatta eccezione per i PIP, PEEP e opere di interesse pubblico. Un meccanismo che aveva portato la regione stessa ad approvare norme derogatorie. E’in questo contesto che noi ci siamo insediati, cercando di rendere competitiva la pianificazione.

La legge 20/2001, tutto sommato, da questo punto di vista ha giovato perché prevede tempi certi di approvazione degli strumenti urbanistici comunali. In precedenza, nella prassi, gli uffici regionali approvavano la strumentazione urbanistica in 6 o 7 anni, facendo così decadere le norme di salvaguardia e creando una situazione assolutamente folle. Paradossalmente, la procedura del silenzio assenso, che potrebbe apparire devastante, in realtà costringe a correre e a dare certezza ai tempi della pianificazione, obbligando a concludere il procedimento di verifica di compatibilità nei sei mesi sanciti dalla legge. Questo fa riflettere circa la necessità di giudicare i singoli istituti procedimentali alla luce delle specificità dei contesti. La prima richiesta che ho avuto da parte degli uffici, quando mi sono insediata, è stata quella di modificare questo punto della legge, ma io mi sono opposta, proprio per impedire il ritorno ai tempi infinitamente lunghi del passato, che tanto avevano determinato la delegittimazione sociale dei piani urbanistici quali primari strumenti di governo del territorio.

Il punto di forza della nostra azione amministrativa è, dunque, rendere la pianificazione del territorio nuovamente importante per costruire uno sviluppo sostenibile, renderla competitiva rispetto alle pratiche derogatorie, anche perché sono convinta che quell’accelerazione che dovrebbe caratterizzare queste pratiche, generalmente non si realizza, fatta eccezione negli interventi portati avanti da poteri forti con capacità di farsi ascoltare a livello regionale e di far modificare addirittura le norme, così come è avvenuto, in maniera incrementale, negli anni scorsi. Molti strumenti messi a punto con pratiche derogatorie hanno però trovato nella magistratura penale una ragione di blocco e, quindi, neppure dal punto di vista dell’efficienza si sono rivelati vantaggiosi per gli stessi operatori che li avevano promossi. Potendo argomentare, con dati alla mano, circa l’infondatezza dell’efficacia di una visione iperliberista, abbiamo puntato tutto sull’irrobustimento e sull’innovazione della sistema di pianificazione regionale ai vari livelli, incentivando i comuni a redigere i nuovi piani urbanistici generali e le province i piani territoriali di coordinamento, anziché attendere l’approvazione del nuovo documento regionale di assetto generale (DRAG) come prospettato dalla legge regionale 24/2004, che aveva modificato la legge regionale 20/2001 condizionando appunto al DRAG la conclusione degli iter degli strumenti di pianificazione previsti dalla legge stessa. Abbiamo voluto fornire uno stimolo agli enti locali, nella convinzione che un deficit di pianificazione in questa regione così vivace avrebbe avuto effetti nefasti, poiché le pressioni e spinte economiche avrebbero portato inesorabilmente le amministrazioni, a tutti i livelli, a trovare strade contorte per soddisfare le richieste.

Un grande rischio corso anche dalla stessa amministrazione regionale. Devo per esempio sottolineare che in Puglia lo strumento dello sportello unico per le attività produttive previsto dal Dpr 477/1998 è inteso come uno sportello “in variante”, cioè un modo per ottenere una modifica ai piani; piani molto vecchi che, non prevedendo aree destinate ad attività produttive, turistiche ecc. consentono di ricorrere all’articolo 5 del DPR 447, che prevede, in via “straordinaria-eccezionale”, l’uso dello sportello unico in variante. Nella nostra regione questa eccezione è invece diventata una prassi. Nel 2006 abbiamo avuto 360 domande di varianti allo sportello unico per le attività produttive e abbiamo registrato negli anni centinaia di accordi di programma in variante alla strumentazione urbanistica.

D. Avete quindi una regione che chiede industrie, turismo e offerta di spazi per attività produttive oppure dietro tale domanda si nasconde un’attività prevalentemente speculativa?

R. La pressione per costruire risente molto della componente speculativa legata alla valorizzazione dei suoli, però sarebbe rozzo interpretazione esclusivamente in questo modo la domanda. Ci sono molte attività produttive che hanno bisogno di ampliarsi e di rilocalizzarsi. La Puglia è una regione vivace, non siamo in presenza di una fase stagnante, almeno per alcune attività. Si consideri che negli anni ’90 c’è stato un vero e proprio boom del distretto del salotto imbottito, del calzaturiero. Il Salento ha avuto uno sviluppo turistico straordinario proprio negli ultimi 10 anni. Nella passata amministrazione si pretendeva di gestire tutto ciò attraverso singoli accordi di programma o varianti puntuali agli strumenti urbanistici. Ad un certo punto il sistema è saltato e gli operatori economici più illuminati, più corretti e più avveduti, hanno cominciato a chiedere regole chiare, certe e più trasparenti. Con qualche eccezione nel foggiano che rimane un contesto molto, molto difficile. Per questo abbiamo disciplinato le possibilità offerta dall’art. 2 del DPR 447/1998, prevedendo la possibilità delle varianti urbanistiche per dare risposte a queste domande localizzative così da spuntare le armi a questo uso assolutamente improprio dello sportello unico in deroga su singoli progetti.

D. Il sistema insediativo pugliese può essere accumunato ad altri parti d’Italia dove negli ultimi dieci anni la crescente divaricazione nella distribuzione del reddito ha prodotto un aumento delle disuguaglianze territoriali, tra centro e periferia, tra aree congestionate e territori in abbandono. Il cosiddetto sprawl e la crisi dei sistemi di trasporto pubblico hanno alimentato questo fenomeno. E’ così anche in Puglia?

R. Assolutamente si, ma con alcune peculiartà. Sarebbe sbagliato parlare in questo contesto di città diffusa secondo il modello veneto, pur in presenza di insediamenti diffusi; peraltro c’è un nesso di causa-effetto anche in relazione a quello di cui abbiamo parlato precedentemente: in numerosi casi, i singoli insediamenti nati nel territorio agricolo in deroga ai piani sia con destinazione produttiva che con destinazione residenziale, sono sorti senza urbanizzazioni.

Esiste una singolarità pugliese, purtroppo alimentata dalla pianificazione, Nella redazione dei PRG le analisi relative ai fabbisogni vengono elaborate secondo tabelle contenute in indirizzi regionali. Di fatto il criterio adottato dalla regione Puglia per esaminare gli strumenti urbanistici poggiava essenzialmente sul rispetto di queste tabelle e quindi su un riscontro esclusivamente di tipo quantitativo del dimensionamento del piano in rapporto a fabbisogni peraltro astrattamente valutati. In assenza di procedure di indirizzo che andassero oltre questa grezza quantificazione accadeva che i comuni presentassero piani sovradimensionati, perché la spinta all’espansione non è mai venuta meno. La Regione, ancorandosi al rispetto dei criteri quantitativi, chiedeva in fase di approvazione la riduzione della capacità insediativa di piano, cosa che, una volta che il piano è stato adottato e osservato, non era facile ottenere. A questo scopo, era la regione stessa a suggerire, inizialmente in modo informale e successivamente addirittura nel deliberato, di ridurre le densità, con tre gravi conseguenze dal punto di vista della sostenibilità:

- alimentazione dello sprawl, con tutte le conseguenze di insostenibilità ambientale che un simile modello insediativo comporta;

- insostenibilità sociale, derivante dal fatto che indici di edificabilità così bassi non consentono di realizzare edilizia sociale e, più in generale, a contenere i costi insediativi;

- insostenibilità economica, perché può non esserci convenienza alla trasformazione se viene imposto un indice di densità insediativa troppo basso, per gli elevati costi di urbanizzazione sopportati dai promotori delle iniziative e perché i costi di manutenzione e gestione delle infrastrutture e dei servizi posti a carico della collettività diventano insopportabili. In questo momento si sta provando a riflettere su una norma che incentivi la densificazione perché anche gli ultimi piani approvati presentano queste difficoltà.

Esiste poi un altro problema che è importante considerare: negli ultimi 30 anni c’è stata molta attenzione verso la tutela della fascia costiera: già la legge 56/1980 non consentiva l’edificazione entro 300 metri dalla costa; la successiva legge 30, contenente le norme transitorie di salvaguardia in attesa del piano paesistico, aveva riconfermato questa previsione per tutte le aree sulle quali non si fossero consolidati diritti di trasformazione, disposizione fatta propria dal piano paesistico.

La pressione per la trasformazione turistica e la realizzazione di insediamenti turistici – impedita lungo la costa – ha trovato sfogo nell’entroterra, privo di strumenti di tutela. Quindi la sfida che oggi abbiamo di fronte è di pianificare quelle parti del territorio ignorate dal vigente piano paesistico o rimaste lettera morta, cosa che è avvenuta per tutte quelle parti del PUTT contenenti direttive e indirizzi. Pensiamo di farlo agendo sulle parti del piano paesistico che rimandano a piani di secondo livello, chiamate “sotto-ambiti”, e facendo riferimento ai contenuti conoscitivi del piano riguardo alla tutela del territorio rurale, nell’espressione dei pareri paesaggistici.

D. E’ opinione corrente che in Italia vi sia un rilevante deficit infrastrutturale (basti pensare alle grandi opere, agli inceneritori, alle centrali....) da colmare in fretta per garantire un benessere futuro ai cittadini, in particolare al Sud. Nuove strade, impianti e centrali, nuovi spazi per la produzione, il commercio e il turismo di massa: tutte queste domande amplificano anziché attenuare i conflitti con il paesaggio e con l’ambiente, e solo una minoranza di amministratori e di politici percepisce i rischi di un’ulteriore compromissione del territorio e l’urgenza di un significativo cambiamento di strategia. Come intende affrontare questo problema la Giunta regionale?

Io sono convinta che non ci sia alcun deficit di infrastrutture. Semmai – in alcuni punti – è vero l’esatto contrario, siamo in presenza di un eccesso di offerta. Si pensi alla statale 100, parallela all’autostrada Bari-Taranto, pericolosa da percorrere in quanto praticamente deserta, oppure alla statale 16bis, ormai completata in direzione nord e in direzione sud a quattro corsie.

Certamente per ciò che riguarda la rete stradale, non si tratta di un problema di carenza in senso assoluto. Per quanto attiene alle infrastrutture ferroviarie i problemi principali sono legati all’ammodernamento. Si pensi alle linee Bari-Taranto, Bari-Matera, alla stessa Bari-Lecce che solo di recente ha il doppio binario elettrificato. Ci sono però interventi più modesti che sono assolutamente necessari per rendere pienamente funzionanti queste infrastrutture. Penso all’ultimo tratto del collegamento Bari-Taranto, alla mancanza di un collegamento veloce tra il punto dove termina l’autostrada, il porto e il grande complesso industriale. Una strada congestionatissima e assolutamente impraticabile allunga a dismisura i tempi di percorrenza: si impiega lo stesso termpo per percorrere l’intero tratto autostradale e i pochi chilometri di strada ordinaria che servono per arrivare al porto e alla città.

D. Anche in provincia di Foggia è particolarmente evidente l’assenza della politica “dell’ultimo miglio”: la dotazione infrastrutturale è elevata nel complesso ma incompleta in alcuni punti cardine, sono assenti le connessioni e carente l’integrazione tariffaria, la gestione e perfino la manutenzione.

La politica dell’ultimo miglio è tradizionalmente mancata. E’ mancata una politica di raccordo e di connessione tra infrastrutture diverse, cioé di intermodalità, così come di connessione tra infrastrutture dello stesso tipo. Per esempio abbiamo avuto tante ferrovie in concessione che non hanno mai dialogato, né tra loro e neppure con quelle statali, creando più disfunzioni che servizi.

Devo anche evidenziare un deficit di servizi alla produzione, da un lato, e alla persona, dall’altro. Lo possiamo facilmente constatare facendo riferimento ad alcuni semplici indicatori utilizzati nelle statistiche europee e nazionali (servizi alla produzione in relazione agli addetti all’industria, densità di servizi ricreativi, culturali o sportivi alla persona). Dobbiamo lavorare molto in questa direzione, un po’ per colmare le carenze del passato, un po’ perché l’attenzione si è concentrata sulla realizzazione dei contenitori più che sulla della gestione del servizio. Abbiamo quindi molte opere incompiute e altrettante completate, ma non gestite, e quindi in stato di degrado. E’ questo uno dei principali problemi che abbiamo di fronte per il prossimo futuro.

Tra gli aspetti da correggere c’è anche la politica degli insediamenti industriali. Ogni città ha realizzato un proprio piano per gli insediamenti produttivi, ma in molti casi risultano carenti o assenti le infrastrutture tecnologiche, le urbanizzazioni e – ovviamente – tutti i tipi di servizi, dall’elaborazione dei dati alle mense. Le aree industriali sono costituite da meri agglomerati di capannoni che spesso non hanno conservato nemmeno la destinazione produttiva, ma ospitano attività commerciali, perchè anche in Puglia abbiamo consumi che superano di molto la produzione, uno sbilanciamento storico tipico del mezzogiorno alimentato dai redditi per assistenzialismo. Dobbiamo intervenire in questo campo creando servizi intercomunali con dimensioni tali da servire bacini ampi e gestibili economicamente.

D. Esistono soggetti intermedi tra il pubblico e il privato, su cui puntare per ampliare l’offerta di servizi?

R. Il settore intermedio è debole perché non c’è un rapporto unidirezionale tra domanda e offerta. Dal mio punto di vista, la debolezza è dovuta anche al fatto che non c’è stata una politica di valorizzazione del settore intermedio.

Vi sono state amministrazioni locali che invece hanno sostenuto il settore intermedio, soprattutto nel Salento, dove ci sono amministrazioni comunali hanno dovuto rivolgersi all’esterno per le piccole dimensioni e per la fragilità di bilancio; bisogna dire che nel Salento, in questi piccoli centri, c’è maggiore coesione sociale, ci sono pochi interlocutori e pertanto non si generano quei conflitti che nascono nei grandi centri e che si scatenano quando si mettono in competizione rappresentanti di diversi interessi. A me sembra che le esperienze in atto facciano ben sperare, sia nel settore cooperativo, sia in quello dell’associazionismo sociale e soprattutto culturale. Tuttavia occorre estendere l’esempio del Salento alle altre parti della regione e la regione potrebbe sostenere queste iniziative attraverso la programmazione comunitaria, che finora si è rivolta unicamente agli enti locali con tutti i rischi che questo comporta anche di appesantimento gestionale.

D. Gli enti locali hanno colto l’importanza della gestione associata oppure prevalgono le spinte locali anche a scapito dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi erogati?

R. Su questo stiamo molto lavorando insieme agli aderenti all’ANCI che si sono dimostrati più sensibili all’esigenza fare sistema. Esistono spinte locali molto forti che possono essere contrastate solamente attraverso un uso sapiente degli incentivi che favoriscano forme di aggregazione stabile. Non mancano esperienze di aggregazione, anzi sono piuttosto numerose, ma sono ancora largamente opportunistiche. Laddove manca l’incentivo, prevale la spinta municipalistica, anche dove non c’è sostenibilità degli interventi, per mancanza di maturità politica e per incapacità di andare oltre la costruzione di un consenso di corto respiro.

D. Anche alla luce di questo fenomeno, non sarebbe preferibile puntare sulle province – innanzitutto – e poi, semmai, su associazioni ‘istituzionali’ come le comunità montane?

R. Dal mio punto di vista, innamorarsi di modelli astratti senza metterli alla prova è sempre sbagliato. Quando ci siamo insediati abbiamo certamente puntato sulle province dando loro quel ruolo e quell’importanza che non avevano avuto prima, anche per motivi di schieramento politico. La regione era di centro-destra e le province di centro-sinistra, pertanto il protagonismo di queste ultime non era visto di buon occhio; al contempo, alcuni capoluoghi provinciali erano di centro-destra, e quindi tenuti in grande considerazione dalla regione, ma per reazione tutto ciò aveva dato origine ad una aggregazione spontanea dei piccoli centri, allo scopo di contrastare la forza dei capoluoghi.

La nuova giunta ha rafforzato il ruolo delle province come enti intermedi, rimuovendo tutti gli ostacoli che si frapponevano, anche perché ritenevamo che le aggregazioni volontarie, legate alle opportunità che man mano si presentavano, stavano determinando una geografia così variabile e confusa da provocare disfunzioni di tipo programmatico e gestionale, come abbiamo poi dimostrato nelle Proiezioni territoriali per il documento strategico regionale che abbiamo di recente approvato.

Avevamo puntato sulle province, ma, per la verità, a due anni di distanza non tutte hanno raccolto la sfida: alcune amministrazioni provinciali hanno lavorato, sono andate avanti, hanno dimostrato di avere un livello di maturità e consapevolezza notevole, altre sono appena partite. E’ chiaro che nei territori nei quali le amministrazioni si rivelano incapaci di avviare dei processi di programmazione e pianificazione di area vasta e si dimostrano incapaci di essere concretamente il punto di snodo e coordinamento del livello comunale, una riflessione va aperta. Penso alle politiche abitative e alla costituzione dell’osservatorio sulla condizione abitativa, nel quale abbiamo coinvolto pienamente le province, svolgendo le riunioni nelle loro sedi e coinvolgendole nella tenuta dei contatti con i comuni. In alcuni casi non abbiamo nemmeno ottenuto risposta, in altri si sono limitati a mettere a disposizione una sala e ai saluti formali di rito.

Le province, qualora fossero dotate di piani territoriali di coordinamento, potrebbero partecipare già oggi attivamente al controllo di compatibilità dei piani urbanistici comunali, che la regione svolge con il piano paesistico, gli altri piani regionali e le norme regionali nella conferenza di co-pianificazione che è prevista dalla legge 20/2001: largamente non partecipano alle conferenze di servizi, e quando vi partecipano, per la verità, esse non hanno molto da dire.

D. In un quadro siffatto, chiamata a programmare un’ingente spesa pubblica sostenuta da consistenti incentivi comunitari, la Regione ha puntato le sue carte sulla pianificazione strategica. Come è intesa quest’ultima dall’amministrazione Vendola e a quali condizione si pensa che possa costituire un’opportunità da cogliere, e non l’ennesimo grimaldello per favorire le spinte locali, grandi e piccole, a dispetto di ogni coerenza complessiva?

R. Può costituire o una opportunità o un de profundis della pianificazione territoriale a seconda di come le provincie saranno in grado di muoversi. Io, per mia formazione disciplinare, fuggo da ogni riflessione incentrata sugli strumenti, incapace di guardare agli esiti concreti che tali strumenti producono. Noi lo diciamo sempre anche come urbanisti che lo strumento dipende da chi lo usa e da come viene usato, ma poi cadiamo spesso nella trappola di ragionare sui modelli astratti.

Un esempio efficace è costituito dal programma Urban, che è stato il fiore all’occhiello di tante amministrazioni e della unione europea, programma di lotta alla esclusione sociale, programma che nasce come sperimentazione della integrazione tra dimensione fisica e dimensione sociale della riqualificazione urbana. Di fatto, in molte realtà, da programma di lotta all’esclusione sociale è diventato programma di valorizzazione immobiliare e quindi di promozione dell’esclusione sociale.

Questo è un esempio che a me sta particolarmente a cuore, perché riguarda la città di Bari, interessata da Urban I, e forse anche di Taranto ove è in corso di attuazione Urban II, perché così sta funzionando in tanti altri comuni che ho visto. Faccio questo esempio non a caso ma perché è stato giudicato il programma più maturo che noi abbiamo fatto e che ci obbliga a confrontarci con obbiettivi ed esiti piuttosto che sugli strumenti.

Non vi è dubbio che un piano territoriale di coordinamento provinciale, ma anche un piano urbanistico comunale, oggi non può non avere un contenuto strategico, inteso come la capacità di costruire la visione futura del territorio, delle sue potenzialità di sviluppo basate sull’analisi rigorosa dei punti di forza e di debolezza, dei rischi e delle opportunità; inoltre, se si considera l’approccio strategico come un approccio che obbliga a coinvolgere attori pubblici e privati nella condivisione di una visione, con una forte spinta di partecipazione anche dal basso e un orientamento all’azione, dal mio punto di vista, oggi, anche un piano territoriale di coordinamento provinciale deve avere un approccio strategico, non potendo contare esclusivamente sulla parte regolativa che sappiamo essere di “secondo livello”, ovverosia mirata a dettare indirizzi e direttive ai comuni.

In questo senso il PTC può essere una risorsa per la pianificazione strategica, perché coltiva la dimensione dell’area vasta. In certi contesti ciò costituisce un punto di vantaggio, poiché significa che si è già discusso, ci sono stati momenti di partecipazione e condivisione, sono stati individuati progetti che riguardano l’area vasta. A ben vedere, il problema principale è proprio questo: i piani strategici dovrebbero concentrare l’attenzione su progetti rilevanti per l’area vasta, invece che proporre sommatorie di singoli progetti municipali, cui viene fornita una mera cornice, puntando in realtà alla sola suddivisione delle risorse da assegnare. In realtà dove questo non c’è, è difficile da costruire rapidamente perché sappiamo che i piani strategici dovranno orientare la programmazione 2007/2013 e sarà difficile bruciare i tempi. Sia nel caso della provincia di Lecce che in quella di Foggia c’è voluto molto tempo per mettere in piedi un sistema robusto di conoscenze e visioni condivise ancorato alla pianificazione di area vasta. Abbiamo situazioni di grande potenzialità. L’importante è che non domini un vizio consolidato: quello di guardare ciascuno al proprio assessorato, al proprio settore e di portare avanti il proprio piano, ignorando il lavoro degli altri. Come se il piano paesaggistico potesse prescindere dalle decisioni sulle coste dell’assessore al demanio, o se le previsioni del piano dei trasporti potessero non tener conto di quello che propone l’assessorato all’assetto del territorio, e viceversa.

Stiamo cercando di dare una diversa impostazione al nostro lavoro e direi anche di dare un buon esempio alle province e ai comuni. Però non è facile, nonostante la nostra profonda convinzione. Non è facile soprattutto perché gli uffici oppongono resistenza, anche più degli stessi assessori; nel caso della giunta Vendola, come suole affermare Piero Cavalcoli, attuale dirigente del settore assetto del territorio che viene dall’esperienza dell’Emilia-Romagna, si osserva un rapporto inverso rispetto alla sua precedente esperienza: mentre in Emilia ad una burocrazia forte dal punto di vista culturale si contrapponeva una politica che tendeva ad indebolirsi, qui siamo in presenza di una burocrazia molto debole, che tende a frenare la politica, anche laddove quest’ultima è proiettata in avanti.

Il settore assetto del territorio è stato creato proprio per innovare le pratiche di governo del territorio in Puglia. Esso ha la responsabilità, fra l’altro, della redazione del nuovo documento regionale di assetto generale (DRAG) e del nuovo Piano paesaggistico. Vi sono settori regionali dove non vi è stato mai aggiornamento professionale e la ‘contaminazione’ con altre esperienze è importantissima; per quanto riguarda il rinnovo generazionale, sono in atto concorsi miranti, fra l’altro, a colmare le carenze dell’organico dovute ad un esodo incentivato promosso dalla precedente amministrazione. Ma permangono funzionari che hanno lavorato per 30 anni come dirigenti nello stesso settore, che si considerano custodi della memoria storica, e quindi del potere, rendendosi indispensabili a chiunque passi da politico per questi uffici. In questi casi, le incrostazioni sono talmente forti e sedimentate che non è possibile rimuovere o cambiare queste abitudini. Si adeguano, perché sono abituati ad ”assecondare” i politici o perché capiscono che altrimenti rischiano il posto, ma occorre spingerli, spronarli, fornire loro proposte, indicazioni, e persino schemi di delibere, che dovendo firmare si riservano di esaminare spesso dilatando i tempi attuativi.

L’opportunità di fare entrare gente nuova con i concorsi è premessa indispensabile per l’innovazione. Purtroppo però, da quando è stata istituita la regione, questo è il primo concorso. Ci sono quindi drammatiche aspettative interne, “giovani” che hanno 50 anni, entrati ad un livello e rimasti sempre a quello, che mal vedono immissioni dall’esterno. Il problema è che anch’essi sono stati formati dentro questo “sistema”. Questa situazione rappresenta, probabilmente, il principale problema di questo governo regionale. Anche se riusciamo ad approvare piani buoni, rivolgendoci se occorre all’esterno, anche se approviamo leggi buone e innovative, se la macchina amministrativa rimane immutata, rischiamo di sortire esiti non corrispondenti ai propositi di quello che approviamo. Su questo sono pessimista: è vero che abbiamo indetto concorsi che porteranno 70 nuovi dirigenti - 35 interni e altrettanti esterni – ma, da un lato, rimane il ”peso” preponderante della vecchia struttura, dall’altro, se è indubbio che i nuovi arrivati porteranno rinnovamento, resta il rischio che possa trattarsi di rigenerazione solo anagrafica e che essi siano presto assorbiti dalle routine consolidate.

«Rendere le trasformazioni del territorio coerenti con il paesaggio ma in grado di creare valore aggiunto»: è questa la sfida lanciata dalla Regione Puglia. Ne ha parlato l’assessore all’Assetto del Territorio e all’Urbanistica della Regione Puglia, Angela Barbanente, che ha presentato in un incontro con i giornalisti la «nuova generazione di Piani urbanistici della Regione Puglia», una ‘manovra’ che in pochi anni potrebbe trasformare il territorio, un nuovo modello di sviluppo dove l’attività umana non sarà in contrapposizione con il paesaggio.

E’ con questo spirito che in giunta sono state approvate alcune delibere, tra cui le più importanti sono: la delibera di adozione degli indirizzi per la pianificazione comunale che rappresentano una parte importante del Documento regionale di assetto generale (Drag); un protocollo d’intesa con il Comune di Corigliano d’Otranto, il primo Comune che ha chiesto di essere accompagnato formalmente dalla Regione nel percorso di applicazione degli indirizzi ancor prima che questi siano vigenti; e l’avvio della redazione del nuovo piano paesaggistico della Regione Puglia, adeguato alla convenzione europea del paesaggio e al nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. «E’ quindi - ha detto Barbanente - una vera e propria generazione di piani, di nuovi piani comunali che noi indirizziamo e di pianificazione regionale». Il nuovo piano paesaggistico - ha annunciato Barbanente - sarà diverso dai piano paesistico oggi in vigore: «Intanto il piano in vigore - ha detto Barbanente - è un piano che è stato costruito senza una cartografia adeguata. Oggi noi costruiamo il nuovo piano sulla cartografia nuova che abbiamo redatto per l’intera regione Puglia e quindi partiamo sulla base di conoscenza robusta: conoscere per pianificare, questo è un motto vecchio della storia dell’urbanistica».

Per la redazione del nuovo piano paesaggistico sono stati costituiti un comitato scientifico guidato dal prof. Alberto Magnaghi, ordinario di pianificazione territoriale della facoltà di architettura dell’Università di Firenze, esponente del movimento dei Nuovi Municipi che fonda la prospettiva dello sviluppo locale sul concetto della cittadinanza attiva; un nucleo tecnico operativo fatto da esperti dell’assessorato e del ministero. E’ anche in programma l’organizzazione di un ‘Forum del paesaggio’, per coinvolgere nella redazione del piano associazioni, cittadini, Comuni, organizzazioni sindacali.

Proposta di Accordo tra Regione e Province per la collaborazione in materia di pianificazione territoriale ed urbanistica, Bari, 13 luglio 2005



Le ragioni del rilancio del ruolo delle autonomie locali nel sistema di governo del territorio regionale

La straordinaria domanda di innovazione e partecipazione democratica che ha segnato la nascita di questo governo regionale non può non investire anche il governo del territorio. Una domanda di forte discontinuità rispetto al passato nei rapporti fra Regione ed enti locali proviene dal sistema delle autonomie, che da tempo mostra forte insofferenza di fronte a tendenze regionali neocentralistiche. Essa è sostenuta dal mutato quadro istituzionale e normativo che, sia a livello europeo sia a livello nazionale, ha individuato nei principi della sussidiarietà, del decentramento dei poteri e della collaborazione interistituzionale i cardini dell’esercizio dell’amministrazione pubblica.

In nome di una sussidiarietà non solo di principio, ma intesa quale essenziale condizione di efficacia dell’azione amministrativa, città e territori pugliesi chiedono che siano loro attribuiti più ampi spazi e capacità di auto-governo, per stabilire assetti integrati di politica, società e cultura a livello locale. I processi alla base di tale richiesta sono complessi e largamente alimentati da iniziative di sviluppo locale i cui esiti non possono darsi per scontati. La questione importante, tuttavia, è che non è possibile ignorarli, facendosi sovrastare da eredità o resistenze del passato.

La domanda di decentramento si accompagna a un crescente protagonismo degli enti locali nella costruzione di strategie di sviluppo locale, che sollecita la pianificazione territoriale a diventare per queste un supporto piuttosto che un ostacolo. Ma essa è da mettere in relazione anche al crescente attivismo di cittadini e movimenti sociali, i quali fanno sentire sempre più forte la propria voce, talvolta esprimendo una domanda di qualità insediativa che le forme consolidate di governo del territorio sembrano non essere in grado di garantire.

La creazione di un rapporto di collaborazione fra Regione e autonomie locali è vitale, peraltro, per ristabilire un clima di fiducia fra detti enti, e fra questi e gli operatori economici, i gruppi sociali e i cittadini nel governo del territorio, dopo una lunga fase nella quale le lentezze esasperanti dei controlli regionali hanno fornito argomenti a supporto di una deregolazione selvaggia, la quale ha generato vaste aree di opacità e di iniquità e alimentato sospetti nei confronti dell’amministrazione regionale.

Il ruolo delle Province

Le Province possono divenire snodo fondamentale nei nuovi rapporti da stabilirsi fra Regione e livelli locali di governo territoriale, con riferimento non solo al sistema delle autonomie, ma a tutti i soggetti pubblici e privati operanti nel territorio. Questo ruolo non deriva soltanto dalle funzioni attribuite all’ente Provincia dalla legislazione nazionale e regionale, ma anche dall’esigenza di coordinare iniziative e modi d’uso del territorio che hanno quale scala di riferimento territori sempre più vasti. Si pensi alle tendenze di modificazione dell’offerta di attività ricreative, commerciali, direzionali, all’estensione delle aree di relativa domanda e alle forme di mobilità generate. Esso deriva, inoltre, dall’esigenza di non appiattire e banalizzare in quadri regionali aggregati, i caratteri di una Regione che presenta notevolissime differenze interne dal punto di vista ambientale, socio-economico e paesaggistico.

La mancanza, per oltre un ventennio dall’approvazione della legge urbanistica regionale 56/1980, di qualsiasi efficace quadro di riferimento pianificatorio sovracomunale è espressione evidente della difficoltà dell’Ente Regione di costruire scenari condivisi di organizzazione del territorio ad ampia scala. In mancanza di questi, l’attività di governo del territorio è stata dominata da un’interpretazione tutta procedurale e burocratica dei compiti a tale Ente attribuiti.

Le Province possono concorrere a modificare questa interpretazione delineando, mediante i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale, scenari futuri di sviluppo e tutela del territorio nell’area vasta. La pianificazione provinciale, poi, rappresenta occasione preziosa ai fini della costruzione di un sistema di conoscenze condiviso delle caratteristiche socio-economiche, ambientali, insediative e infrastrutturali, fornendo, da un lato, visioni più ricche, articolate e aggiornate di quelle oggi disponibili del territorio regionale, dall’altro, quadri di riferimento di area vasta per le diverse strategie d’azione di scala comunale.

Tale sistema di conoscenze dovrebbe essere integrato nel Sistema Informativo regionale in corso di realizzazione, e poi arricchito e migliorato con continuità affinché esso dia efficace supporto sia alla definizione delle linee di assetto del territorio regionale, sia all’elaborazione dei nuovi PUG comunali sia, infine, alle decisioni da assumersi nelle varie sedi della co-pianificazione e/o concertazione interistituzionale.

I vantaggi per l’intero sistema regionale derivanti dal decentramento alle Province di funzioni di governo del territorio consisterebbero anche nella possibilità di sollevare progressivamente la Regione da compiti gestionali che essa svolge con difficoltà, e consentirle di dedicarsi con maggiore intensità ed efficacia ai compiti che le sono propri, ossia all’esercizio della funzione legislativa e di raccordo fra potere centrale e locale.

Condizione essenziale affinché il livello provinciale non riproduca vizi e distorsioni di quello regionale, proprio come è accaduto per la Regione rispetto allo Stato, è la capacità di costruire visioni condivise intorno alla strategia complessiva, basata su un'attività di intenso ascolto della domanda sociale e sistematico coinvolgimento delle amministrazioni locali. Si tratta di impostare a tal fine una rete fitta e continua d’interazioni, perché quadri di conoscenze e opzioni pianificatorie da un lato traggano origine da saperi e istanze locali, e dall’altro si diffondano e radichino nei contesti locali, presso i comuni e la loro base sociale.

Il buon risultato dell’azione provinciale rispetto a quello regionale non può derivare soltanto da fattori di scala, magari appellandosi al principio di sussidiarietà, che presuppone che l’autonomia più grande si astenga dal trattare ogni problema che può essere affrontato da un’autonomia più piccola. Qualsiasi ordine stabilito una volta per tutte e privo della rete d’interazioni sopra accennata, tenderebbe a burocratizzarsi, come è accaduto per lo Stato prima e poi per la Regione. Solo un ordine flessibile e aperto alle sollecitazioni esterne può, con il suo continuo rinnovarsi, contrastare, con speranze di successo, la tendenza alla burocratizzazione e rispondere alle domande della società civile.

La realizzazione degli obiettivi programmatici: decentramento e semplificazione nelle procedure urbanistico/territoriali



Per le ragioni sopra accennate, obiettivo centrale della nuova Amministrazione regionale in materia urbanistico/territoriale consiste nella “rottura del modello gerarchico e centralistico che ha dominato, sin dall’inizio, il governo regionale del territorio in Puglia”.

Ci si propone dunque di “operare in discontinuità con questa tendenza all’accentramento delle competenze e delle decisioni”. Il ruolo che le Province potranno svolgere nell’ambito di questa politica è fondamentale.

L’idea è di assumere, con un orientamento di Giunta un corpo di indirizzi politico/amministrativi che guidino, nella prima parte del mandato, verso obiettivi di decentramento e semplificazione nelle procedure urbanistico/territoriali. Qualcosa di più, dunque, di quanto contenuto nel programma di mandato relativo alla materia: una vera e propria Dichiarazione di intenti, da strutturare e rendere operativa attraverso una serie di Accordi (ex art.30 del T.U. 267/2000), di cui di seguito si propone una bozza introdotta da una serie di osservazioni di merito (v. all. 1).

1. Perché è necessaria questa “discontinuità”?

Non si tratta di semplice galateo istituzionale.

La percezione dominante dell’urbanistica nella società pugliese, associata non certo alla prospettiva di nuovi futuri desiderabili ma a un coacervo spesso contraddittorio di procedure ed atti amministrativi di esasperante lentezza, è sostanzialmente da imputare proprio a questa persistente posizione tecnico-politica centralistica ed alla visione tutta procedurale e burocratica del governo del territorio che la caratterizza.

All’origine di questa visione risiede la mancanza di qualsiasi efficace quadro di assetto generale ad ampia scala, espressione evidente della difficoltà di costruire scenari coerenti e condivisi di tutela e sviluppo del territorio regionale che consentano di delineare strategie di qualificazione delle risorse sociali ed ambientali. L’assenza di una visione generale, coerente e condivisa, impedisce a sua volta, in un circolo vizioso, di superare la dominante interpretazione regolativi e vincolistica delle funzioni di governo del territorio.

Così, in assenza di efficaci indirizzi di assetto territoriale a scala regionale e provinciale, tutto il sistema di governo del territorio permane incentrato su una scala comunale di pianificazione fatta di piani sovradimensionati e sempre più spesso snaturati da centinaia di accordi in variante, i quali assecondano le iniziative imprenditoriali ritenendo valida ogni sorta di contropartita, in assenza di quadri di riferimento ambientali, economici e sociali, rispetto ai quali valutarne vantaggi e svantaggi collettivi e in assenza di regole di equità e di trasparenza sulle quali basare le negoziazioni pubblico-privato.

Analogamente, le Province che hanno avviato esperienze di pianificazione territoriale non hanno avuto alcun sostegno dalla Regione che, anzi, anche nei più recenti provvedimenti legislativi, ha confermato il proprio accentuato centralismo. Mancano poi esperienze di pianificazione specialistica nel campo delle aree protette e dei bacini idrografici, mentre i piani nel campo dell’assetto idrogeologico, dello smaltimento dei rifiuti o delle attività estrattive, sono stati costruiti senza disporre di quadri conoscitivi robusti e di riferimenti ad opzioni complessive di sviluppo del territorio.

Il risultato consiste nella frammentarietà e nella incoerenza dell’azione regionale, in un esercizio del potere che, per i caratteri di marcata discrezionalità e dipendenza da contingenze specifiche, non offre sufficienti certezze agli attori istituzionali ed agli operatori sociali ed economici.

Dunque il centralismo, al di là della scarsa correttezza istituzionale, comporta:

Ø l’assenza di una visione generale condivisa, e dunque la presenza di una certa competitività “interna”, che può generare conflitti (tra territori e tra competenze settoriali);

Ø il ritardo nella costituzione dei necessari apparati conoscitivi e di indirizzo, che non possono essere costruiti “al centro”, ma che richiedono uno stretto legame con la realtà e con il quotidiano (in una parola, richiedono una costante presenza “in periferia”);

Ø la tendenza della disciplina tecnica, in assenza di questi apparati di conoscenza e di indirizzo, a rifugiarsi in una visione burocratica e vincolistica, priva della necessaria serenità che esclusivamente deriva dalla conoscenza diretta e documentata della realtà;

Ø la progressiva opacità e confusione dell’azione amministrativa, sempre più costretta alla deroga e al rifiuto delle responsabilità, con i conosciuti effetti: tempi esasperanti, ambiguità procedurali, discrezionalità e mancanza di limpidità nelle decisioni.

Nella situazione descritta, l’obiettivo della discontinuità sembra fondato su due prospettive: il decentramento e la semplificazione, la seconda come effetto positivo del primo.

2. Quali ostacoli si interpongono al raggiungimento dell’obiettivo del decentramento?

Sull’argomento va innanzitutto rimossa ogni ambiguità normativa e legislativa. Sarà dunque necessario:

  1. contrastare la concezione “gerarchica” nella pianificazione per livelli: vale a dire la concezione per cui il Piano regionale decide tutto, definendo le scelte territoriali in modo puntuale, mentre al Piano provinciale è affidato esclusivamente il compito di articolare le scelte regionali, potendole tutt’al più specificare, e contemporaneamente al Piano comunale è affidato solo il compito di tradurle in destinazione d’uso delle aree e in specifiche funzioni di dettaglio.

E’ questa una concezione che evidentemente tende a negare agli Enti locali ogni autonomia e responsabilità: in fondo si sostiene che l’interesse generale é sempre meglio rappresentato nella misura in cui si sale nella scala gerarchica delle istituzioni di governo.

Nulla di più lontano dal principio della sussidiarietà e dal metodo della co-pianificazione, che ne è in fondo la traduzione operativa (art. 2 della L.R.20/2001).

Questa concezione è peraltro ancora presente nello stesso quadro legislativo regionale: ad esempio, nel 2° comma dell’art.1 della L.R.24/2004, che stabilisce che il DRAG sia “riferimento vincolante per la pianificazione provinciale e comunale”, o nell’art. 2, che definisce i contenuti del DRAG, attribuendogli la facoltà di decisione su ogni aspetto della pianificazione. Questi dispositivi sono entrambi tipicamente connotati da una concezione “gerarchica”, da cui discende, implicitamente, che non si tratta di stabilire “controlli di compatibilità” tra i Piani, come sarebbe corretto e come prevede il successivo art. 5 della medesima L.R.24/04, bensì di operare tradizionali verifiche di conformità al Piano di ordine superiore.

Ma, come è naturale, la co-pianificazione è impossibile se non si dialoga tra uguali.

b. contrastare la concezione “piramidale” nella pianificazione per livelli, che è conseguenza della visione precedente: vale a dire la concezione per cui, al vertice della piramide, le scelte del Piano regionale sono decise da pochi, con procedure rapide e semplificate e, man mano che le scelte sono compiute ai livelli inferiori, si allargano le basi della consultazione e si complicano le procedure, fino a giungere, dal Piano provinciale a quello comunale, all’estrema complicazione nelle decisioni, ai tempi interminabili e alla paralisi.

Le procedure di adozione e di approvazione dei diversi Piani, stabilite dal III°, dal IV° e dal V° Titolo della L.R.24/01 sono un esempio evidente di questa concezione: il Piano regionale è approvato solo dalla Giunta, sentita la Commissione consiliare (art. 9 della L.R.24/04), mentre il Piano provinciale è adottato ed approvato in Consiglio, dopo la verifica di compatibilità regionale (tempi complessivi probabili della procedura di formazione del Piano: dai 12 ai 24 mesi), e quello comunale, anch’esso adottato ed approvato in Consiglio, richiede addirittura una doppia verifica, quella regionale e quella provinciale (tempi complessivi probabili della procedura di formazione del Piano: dai 24 ai 36 mesi).

c. Contrastare la concezione “a cascata” nella pianificazione per livelli, che è conseguenza delle prime due: vale a dire la concezione per cui prima deve essere approvato il Piano regionale, poi quelli provinciali e infine quelli comunali. Questa concezione, sebbene non esplicita nel quadro normativo, ha comunque costituito sino ad ora la prassi dell’azione regionale ed ha inevitabilmente determinato una forte inerzia nell’azione provinciale e comunale (va peraltro detto che, per quanto riguarda la pianificazione comunale, il 7° comma dell’art.11 della L.R. 20/01 stabilisce che, qualora DRAG e PTCP non siano ancora stati approvati, il controllo di compatibilità può venire effettuato “rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale ove esistente”).

E’ in conclusione evidente che una prima manifestazione concreta di “discontinuità” dovrà consistere nella rimozione degli elementi di ambiguità e di contrasto con una corretta politica di semplificazione e di decentramento delle competenze che ancora sono contenuti nel corpo legislativo e normativo. Una rimozione che dovrà avvenire con circolari interpretative, quando possibile; con parziali ma significative correzioni, quando indispensabile.

I tempi e i modi del decentramento sono dettati dalla stessa capacità/volontà degli Enti destinatari delle funzioni, dalla loro convinzione a procedere, dalla disponibilità di uomini e di risorse, dalla comune capacità di definire Accordi interistituzionali che moltiplichino queste disponibilità, amplino le opportunità di sinergia, allarghino il fronte del consenso alla prospettiva del decentramento.

Questo è il senso della proposta di Accordo per il Decentramento e la Semplificazione che viene succintamente descritto al seguente punto 6 e proposto, in bozza, in allegato.

3. Come procedere? Tre grandi obiettivi

Non è facile in tempi brevi indirizzare il sistema di pianificazione regionale verso nuovi obiettivi e principi: occorre rimuovere routine burocratiche radicate e costruire una nuova cultura del governo del territorio.

Innanzi tutto, occorre sostituire alla logica del controllo quella della pianificazione, alla prassi degli accordi “caso per caso” quella della concertazione istituzionale per il perseguimento di obiettivi strategici, alla cultura dell’espansione e del consumo del suolo quella della salvaguardia e della riqualificazione del territorio.

In questa direzione sembrano centrali tre grandi obiettivi programmatici:

a. al documento regionale di assetto generale (DRAG) è affidato il compito di definire gli ambiti di tutela e conservazione dei valori ambientali e culturali, gli indirizzi per la formazione, il dimensionamento e i contenuti dei piani provinciali e comunali, gli schemi delle infrastrutture di interesse regionale. Ma l’attuale versione del DRAG, costruita senza la necessaria partecipazione e condivisione pubblica, ripropone un modello consolidato di governo del territorio la cui inefficacia è ben chiara ai più. Occorre quindi reimpostareil DRAG, perché questo diventi quadro condiviso delle grandi opzioni strategiche regionali, e quindi riferimento innanzitutto per l’azione della Regione nei diversi settori, perché valorizzi l’esperienza delle Province nel campo della pianificazione di area vasta, e perché sia in grado di fornire risposte alle difficoltà comunali di governo del territorio a scala locale;

  1. conseguentemente, così come da tempo è accaduto in pressoché tutte le regioni italiane, bisogna rafforzare il ruolo delle Province nella pianificazione territoriale, consentendo ad esse di svolgere efficacemente i compiti assegnati dalla legislazione nazionale e regionale, e valorizzando il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) anche attraverso l'assimilazione e lo sviluppo dei contenuti della pianificazione paesaggistica;
  1. occorre infine sostenere i Comuni nella faticosa attività di rinnovamento della pianificazione comunale, interpretando il principio della co-pianificazione come rapporto collaborativi che dovrebbe legare Regione ed Enti Locali durante l’intero percorso di costruzione/approvazione del Piano, e non solo, come sancito dalla L.R.20/2001,la fase terminale del processo in caso di deliberazione dell’incompatibilità del PUG con il DRAG o il PTCP.

Collocato in questo quadro programmatico, il compito di definizione dei possibili campi e modi di collaborazione tra la Regione e le Province impone di trascendere l’interpretazione ristretta e limitativa delle specifiche competenze istituzionali degli Enti, e di declinare le disposizioni dell’art. 2 della L.R.20/2001 nel modo più ampio possibile, moltiplicando ed articolando i processi partecipativi e di concertazione interistituzionale pur previsti dalla stessa L.R.20/2001 per il DRAG, per i PTCP e per i PUG.

Questa prospettiva va naturalmente strumentata ed organizzata, perché non si risolva in confusione e in demagogico richiamo formale alla partecipazione ed alla co-pianificazione. La proposta di Accordo che segue, è dunque una prima proposta di strumentazione, che andrà perfezionata ed articolata attraverso specifiche Convenzioni, da formulare assieme alle singole amministrazioni provinciali, al fine di tener conto delle diverse condizioni di operatività e di avanzamento dei lavori di redazione dei PTCP.

4. Problemi e opportunità del quadro normativo

Il quadro normativo pugliese presenta molteplici lacune e taluni orientamenti non condivisibili; in particolare con la Legge Regionale 13 dicembre 2004, n. 24, si è riproposto un modello gerarchico tra DRAG e PTCP e nei rapporti tra Regione e Province che va superato in favore della distinzione delle rispettive funzioni e dell’autonomia dell’esercizio delle potestà amministrative attribuite a ciascun Ente, pur nel coordinamento tra i diversi livelli istituzionali e nel perseguimento condiviso dei principi di tutela e di sviluppo sostenibile.

È pertanto intenzione di questo Assessorato presentare un’apposita proposta di legge per la modifica della Legge Regionale 13 dicembre 2004, n. 24 e della Legge Regionale 27 luglio 2001, n. 20, orientata a superare una concezione non più condivisibile e per liberare ed incentivare tutte le potenzialità insite nella pianificazione provinciale.

Nelle more della modifica legislativa alla normativa regionale, è tuttavia opportuno chiarire con adeguata nettezza che la mancata approvazione del DRAG non impedisce in alcun modo alle Province di avviare e portare avanti il processo di pianificazione, mediante adozione del PTCP (e successiva approvazione dello stesso dopo il controllo di compatibilità previsto dall’art. 7 della L.R.20/2001).

Difatti, per quanto l’art. 1 della L.R.24/2004 preveda che il DRAG costituisca “riferimento vincolante” per la pianificazione provinciale, e per quanto l’art. 6 della L.R.20/2001 preveda che il PTCP sia adottato dalla Provincia in “conformità ed attuazione del DRAG”, non può in alcun modo ritenersi che, in assenza del DRAG, le Province non possano esercitare la propria potestà pianificatoria e non possano pertanto adottare il PTCP.

Occorre difatti rammentare (ma ciò dovrebbe essere del tutto superfluo) che la competenza alla redazione del PTCP viene attribuita alla Provincia da norma statale (da ultimo art. 20 D.Lgs. n.267/2000) e che tale assetto di competenze trova oggi preciso ed univoco sostegno costituzionale (essendo stati recepiti nell’art. 118 della Carta i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, che impongono l’attribuzione di specifiche funzioni amministrative alle Province allorché sia necessario per assicurarne l’esercizio in forma unitaria).

Una norma di Legge Regionale che consentisse alla Regione di inibire attraverso un proprio atto amministrativo (la mancata adozione del DRAG) l’esercizio dei poteri di pianificazione della Provincia, precludendo sine die l’adozione del PTCP, risulterebbe dunque manifestamente incostituzionale, sia per contrasto con la norma statale (art. 20 del D.Lgs. n. 267/2000), sia per contrasto con l’art. 118 della Costituzione.

Ebbene, poiché nel nostro ordinamento vige il principio che impone di interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione, i citati articoli della normativa regionale (l’art. 1 della L.R.24/2004, l’art. 6 della L.R.20/2001) vanno interpretati nel senso che il DRAG acquisterà efficacia “vincolante” per la pianificazione provinciale solo allorquando verrà ad esistenza, ma che prima della sua approvazione le Province possono comunque procedere alla adozione del PTCP, conformandosi ai generali precetti normativi della legge statale e regionale, oltre che al PUTT.

Tale interpretazione, compatibile peraltro con il dato letterale delle norme che non escludono espressamente l’esercizio della potestà pianificatoria provinciale prima dell’approvazione del DRAG, consente di non far ricadere sulle Province i ritardi della Regione, e consente altresì di ricostruire i rapporti tra Regione e Province in conformità ai dettati costituzionali.

In mancanza della esplicitazione dei criteri e dei principi da parte del DRAG, la Regione si rende peraltro pienamente disponibile ad attivare immediatamente le opportune sedi istituzionali per la condivisione delle conoscenze e dei principi che dovranno informare le rispettive attività; ciò potrà avvenire sia mediante apposite conferenze di co-pianificazione preordinate alla adozione dei PTCP (conferenze che, sebbene non espressamente previste nella L.R.20/2001, non sono certamente precluse essendo anzi conformi ai generali principi statuiti dalla L.241/1990 sul procedimento amministrativo), sia mediante costituzione di un tavolo interistituzionale di regia del processo, proprio quale quello proposto dalla bozza di Accordo che segue.

5. Quale, in questo disegno, il ruolo della pianificazione provinciale? Di quale strumentazione operativa è necessario dotarsi?

Dei tre obiettivi precedentemente descritti, se il primo costituisce il generale quadro di riferimento per la nuova politica urbanistica regionale e l’ultimo costituisce il più impegnativo e complesso, per il numero dei soggetti coinvolti, per le azioni da promuovere e monitorare, per la significatività che la disciplina locale dell’uso del suolo rappresenta nell’opera di governo del territorio, il secondo, vale a dire il rafforzamento e lo sviluppo della pianificazione provinciale, è senza dubbio quello centrale, il naturale presupposto degli altri due, quello che li rende credibili e concretamente perseguibili.

Sarebbe del tutto improponibile, infatti, un’approfondita rivisitazione del DRAG senza un robusto contributo delle Province, così come risulterebbe al di sopra delle forze della sola Regione l’azione di servizio ai Comuni, impegnati nell’elaborazione dei loro PUG, azione che è invece indispensabile per il contributo innovativo che anche in campo urbanistico questa amministrazione vuole fornire alla politica regionale pugliese.

E’ dunque necessario fornire una prima valutazione comune del cammino che le Province devono compiere, per definire possibili strumenti di collaborazione, reciproci stimoli all’azione, sinergie finanziarie ed operative.

Allo scopo si allega una serie di riflessioni sulle esigenze organizzative e di strumentazione che l’esperienza consiglia sulla costruzione del processo di piano (v. all. 2).

6. Per un Accordo per il Decentramento e la SemplificazioneSembrano a questo punto chiarele finalità di un Accordo tra Regione e Province sul tema del decentramento delle funzioni urbanistiche e sulla conseguente semplificazione delle procedure.

Le finalità dell’Accordo possono così essere sintetizzate:

a. costituire un organismo interistituzionale di coordinamento delle politiche territoriali ed ambientali degli Enti sottoscrittori, con lo specifico obiettivo di accompagnare l’azione regionale di decentramento delle competenze e di semplificazione delle procedure, nell’ambito di una più generale volontà di coordinare le politiche territoriali ed ambientali degli Enti di governo di area vasta

b. dotare detto organismo di adeguate strutture tecniche interistituzionali di istruttoria e proposta

c. predisporre adeguati programmi di collaborazione tra gli Enti sottoscrittori nonché i criteri di individuazione e di attribuzione delle risorse necessarie

Gli impegni dell’Accordo, da sviluppare in un vero e proprio articolato convenzionale da adattare alle esigenze e alle condizioni operative e finanziarie di ciascun Ente sottoscrittore, ai sensi dell’art.30 del T.U. 267/2000, strumenteranno quanto previsto nella Dichiarazione di Intenti, vale a dire:

1. l’impegno delle Province a predisporre, entro un ragionevole periodo di tempo (e comunque entro il presente mandato), il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, costituendo anche le indispensabili strutture operative dedicate alla funzione della pianificazione territoriale: Ufficio di Piano, Comitato di Coordinamento, Ufficio Cartografico e SIT;

2. l’impegno della Regione a contribuire, in termini organizzativi all’opera di redazione del Piano e, nel caso di Province già sostanzialmente dotate dello strumento, al consolidamento degli apparati, allo sviluppo degli archivi di documentazione e di approntamento dei modelli di valutazione;

3. l’impegno delle Province a contribuire alla rielaborazione del DRAG, per quanto riguarda la parte relativa alla pianificazione provinciale e comunale, fornendo la disponibilità di propri tecnici alla composizione di un quadro di analisi e di indirizzo il più possibile documentato;

4. l’impegno della Regione a trasferire i poteri in materia urbanistica alle Province una volta approvato il PTCP e, in attesa dell’approvazione, a coinvolgere gli Uffici di Piano provinciali nelle istruttorie di approvazione degli strumenti urbanistici locali

5. l’impegno della Regione e delle Province a costituire appositi organismi interistituzionali di carattere tecnico ed organizzativo ai quali affidare l’istruttoria tecnica dei temi specifici progetti di approfondimento delle tematiche connesse alla semplificazione in materia urbanistica e al decentramento amministrativo, nonché dei temi connessi alle principali trasformazioni infrastrutturali e insediative regionali.

I descritti impegni verranno discussi e meglio puntualizzati nelle riunioni con le singole Province che l’Assessorato regionale si impegna ad organizzare nel periodo settembre/dicembre, con l’obiettivo di rendere l’intera proposta operativa all’avvio del 2006.

© 2024 Eddyburg