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Periodicamente le catastrofi del territorio ci ricordano che abbiamo abbandonato la cura della stessa sua struttura idro-geologica. Ecco i risultati dell'assenza di rispetto per l'ambiente in cui viviamo e dell'abbandono degli strumenti che erano stati inventati per controllarne e regolarne le trasformazioni: la pianificazione territoriale e urbanistica. Qui un elenco dei disastri di questi giorni (e.s.)

Sale a otto il bilancio delle vittime del maltempo che ha investito l'Italia. I soccorritori hanno recuperato il corpo di una donna morta a Dimaro, in Val di Sole, dove è esondato il torrente Meladrio. Nella notte un vigile del fuoco volontario è morto a San Martino in Badia, in provincia.

ll bilancio delle vittime è dunque a otto, anche se si cerca ancora un disperso, mentre decine sono stati i feriti tra i quali si contano anche diversi vigili del fuoco. Più di 5mila gli interventi compiuti dai pompieri chiamati da cittadini in difficoltà: per 3500 chiamate si è trattato di alberi caduti o pericolanti, la causa principale degli incidenti mortali. Vento record si è registrato in Liguria, con la punta massima a 180 chilometri orari rilevati dall'anemometro a Marina di Loano, nel savonese. Sempre sorvegliati speciali i fiumi, soprattutto in Veneto e Friuli, ma anche in Lombardia c'è allerta.

Ieri due persone in auto sono state schiacciate da un albero nel Frusinate, un altro a Terracina, un giovane di 21 anni morto nello stesso modo a Napoli, un'anziana di 88 anni colpita da parti del tetto di un condominio ad Albisola (Savona), e una persona morta travolta da un albero durante un temporale che si è abbattuto in serata a Feltre (Belluno).

A Terracina una fortissima tromba d'aria ha provocato diversi feriti.

Scuole chiuse e disagi da nord a sud
Molte le scuole sono rimaste chiuse, anche a Roma e in Toscana. Sono state riaperte questa mattina l'autostrada e la statale del Brennero.

Tragedia nel crotonese: 4 morti
Domenica 28 ottobre a Isola Capo Rizzuto, nel Crotonese, tre operai e un noto imprenditore della zona, sono morti inghiottiti dal terreno che è franato sotto i loro piedi mentre riparavano una fogna. Oggi i funerali.

Cade albero nel Frusinate: due morti
Due persone sono morte a Castrocielo, in provincia di Frosinone a causa della caduta di un albero su una Smart. Il tratto di strada tra il bivio per il casello autostradale di Castrocielo e Roccasecca è stato interdetto alla circolazione. Sul posto Vigili del Fuoco ed i Carabinieri della Compagnia di Pontecorvo

Veneto
L'alta marea sale velocissima a Venezia, e nel pomeriggio ha raggiunto i 160 centimetri sopra il medio mare. Il centro storico è allagato per il 70%. Intanto il premier Conte ha firmato la dichiarazione dello stato di mobilitazione del Servizio nazionale della protezione civile, accogliendo la richiesta arrivata nella serata di ieri dal presidente della regione Veneto Luca Zaia. "Siamo preoccupati per l'indicazione del pomeriggio e della sera, con 400 mm per metro quadro di pioggia", ha detto il governatore.

Sardegna
Ha raggiunto già i 160 chilometri orari il vento di libeccio che da ieri notte sta soffiando sulla Sardegna accompagnato da piogge e temporali. Il picco è stato registrato questa mattina a Capo Carbonara. Una tromba d'aria si è registrata tra Narcao e Villaperuccio, dove sono stati strappati i tetti di alcune abitazioni. Discorso analogo a Nuoro nelle prime ore di di questa mattina.

Liguria
Prorogata l'allerta meteo rossa in gran parte della Liguria, dove Val di Vara, Cinque Terre e Spezzino sono state le zone al momento più colpite dalle forti piogge, con un picco a Monterosso di 140 millimetri da mezzanotte. Si temono mareggiate con onde di 6-7 metri. Esondato, intanto, il torrente Gravegnola nei pressi di Rocchetta Vara nello Spezzino e sono state chiuse le strade provinciali, fuori dall'abitato, dove si sono verificati allagamenti ed erosioni delle sponde. Un pezzo della diga del porto turistico Carlo Riva di Rapallo è crollato.

Trentino Alto Adige
Domani chiuse tutte le scuole del Trentino, mentre saranno regolari le lezioni all'università. La Protezione civile ha invitato i cittadini a muoversi con i propri mezzi solo se strettamente necessario, dal pomeriggio di oggi a tutta la giornata di domani, "vista la possibilità che sulle strade si verifichino smottamenti che costringano ad interrompere la viabilità".

Calabria
Ha un nome e una nazionalità l'uomo, che risulta disperso, proprietario della barca a vela finita ieri contro uno dei moli del porto del quartiere Lido di Catanzaro. Si tratterebbe di un cittadino di nazionalità turca titolare anche di un sito web. Ancora senza esito le ricerche degli eventuali dispersi a bordo del natante che batteva bandiera canadese.

Toscana
A causa del forte vento e delle mareggiate sono fermi i traghetti per l'Isola del Giglio, per quella di Giannutri e da Piombino e Livorno verso l'Isola dell'Elba. Problemi sul lungomare di Porto Ercole all'Argentario dove la polizia municipale è stata costretta a chiudere la viabilità per una forte mareggiata. Il Comune di Castiglione della Pescaia ha diramato un avviso alla popolazione invitando a non uscire di casa per il forte vento. Due persone disabili sono state evacuate in maniera precauzionale nel Livornese.

Lazio
Un albero si è schiantato su un'auto a Terracina, morta la persona al suo interno. Oggi a Roma le scuole sono chiuse. Nella Capitale si registrano disagi a causa del maltempo e del vento forte. Problemi alla circolazione per i numerosi rami caduti a terra in quasi tutti i quartieri. La ferrovia locale Roma-Lido, che collega il centro con il litorale, è rimasta chiusa per 15 minuti per la presenza di un ramo sui binari a Tor di Valle. Chiusa la tratta della metro B tra Piramide e Laurentina. Predisposta la chiusura anche di cimiteri e ville. Problemi anche ai Castelli e a Ciampino. Chiuso il tratto dell'A24 Tivoli-Castelmadama per telonati a caravan.

Lombardia
Quattrocento persone, tra bambini e personale, sono state fatte evacuare da un asilo di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, per infiltrazioni d'acqua dal tetto.

Campania
Il forte vento di scirocco che sta soffiando su Napoli e su buona parte della sua provincia hanno provocato, in diversi punti della città, la caduta di rami dagli alberi. I vigili sono impegnati in numerosi interventi sia in città che in Comuni dell'area metropolitana. Ancora interrotti i collegamenti con le isole. Un ragazzo di 21 anni della provincia di Caserta è morto schiacciato da un albero che gli è crollato addosso mentre camminava in via Claudio, nel quartiere Fuorigrotta di Napoli.

Abruzzo
Chiuse le scuole in numerosi comuni della Marsica e dell'Alto Sangro a causa dell'allerta rossa. A Villetta Barrea la situazione è tornata sotto controllo dopo che ieri il fiume Sangro era esondato in alcuni punti.

Friuli Venezia Giulia
Le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Pordenone resteranno chiuse anche domani. Dalle autorità anche un appello alla prudenza e ad evitare gli spostamenti, se non strettamente necessari.

Valle D'Aosta
Il Centro funzionale regionale ha prorogato almeno sino alla mattinata di domani su tutto il territorio della Valle d'Aosta l'allerta 'gialla' (livello 1 su 3) per criticità idrogeologica e l'avviso meteo per precipitazioni forti, scattati ieri. Per il pomeriggio i tecnici valuteranno, in base alle condizioni, se decretare la fine dell'allerta.

La presidente del Senato Casellati: commissione d'inchiesta
"Quante frane, quante alluvioni, quanti morti ci dovranno ancora essere prima di mettere seriamente mano al problema del dissesto idrogeologico, di un territorio reso ancora più fragile dai cambiamenti climatici? Se non fossi il Presidente del Senato, domani stesso presenterei un disegno di legge per la costituzione di una Commissione d'inchiesta su tale drammatico specifico problema.
È ora di dire basta". Così in una nota la presidente del Senato Elisabetta Casellati. "Che ciascuno si assuma fino in fondo le proprie responsabilità di fronte a tali tragedie che toccano la vita delle persone e la identità stessa dei territori, mi auguro che la mia idea venga raccolta dai senatori in carica senza alcuna distinzione di appartenenza politica", aggiunge la presidente del Senato Casellati.

il manifesto, 11 maggio 2018. Cambia la tipologia dei veleni che iniettiamo nella nostra terra per aumentarne la produttività, e quindi il valore per chi la possiedi e usa, ma non diminuisce la tossicità (m.p.r.)

Sono sempre più «amare», nel senso di inquinate, le acque dolci italiane, sia superficiali che sotterranee. A certificarlo è l’ultimo rapporto Ispra sui residui di pesticidi nelle acque, relativo al biennio 2015-2016, il più completo sforzo di monitoraggio capillare su tutto il territorio italiano con riferimenti anche ai sedimenti storici e alla loro interferenza con i nuovi prodotti utilizzati .

Il rapporto si basa sui campioni prelevati, purtroppo ancora abbastanza a discrezione, dalle Regioni e dalle aziende locali per la protezione ambientale e si preoccupa di fornire linee guida, che sono: aumentare i dati, armonizzare le ricerche e investire su ricerca e innovazione per l’agroecologia. Cioè filiera sostenibile e a chilometro zero che riduca l’uso di prodotti chimici.

L’indagine è corposa anche se non è ancora esaustiva, basti pensare che su 400 sostanze chimiche potenzialmente tossiche in concentrazione ma autorizzate e reperibili sul mercato per essere impiegate in agricoltura soltanto 259 sono state cercate e rintracciate. Le analisi sono lacunose in particolare nelle regioni del Centro-Sud: su 35.353 «provette» analizzate nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche, il 50% dei punti di monitoraggio si concentra nel Nord mentre nel resto del Paese la campionatura è disomogenea e a maglie molto, troppo, larghe, con il «buco nero» della Calabria, dove campeggia un disastroso cartello «non pervenuta».

Delle pericolosità dei mix poi poco o niente si sa, considerando che si è osservato che la pericolosità è determinata al 90% dall’effetto tossico cumulativo, cioè da ciò che si sedimento in natura tra gli «antichi» inquinanti, alcuni dei quali oggi proibiti e non più in vendita, e i più recenti.

Il più famoso erbicida oggi si chiama glifosato, ad esempio, ma che dire dei livelli ancora alti del Ddt con cui durante i primi anni Cinquanta venivano irrorati a pioggia i campi dagli aerei militari americani o dell’ex celebre atrazina, altro erbicida bestia nera della campagna ambientalista che portò al referendum del 1990 – però senza quorum – per la sua messa al bando. Oggi il veleno peggiore, perché il più diffuso nelle acque, oltre al glifosato, si chiama Ampa ed è il metabolita che si ottiene dalla degradazione del glifosato stesso, immesso a man bassa nelle acque reflue da almeno quarant’anni perché oltretutto presente anche in moltissimi detersivi per la casa.

Il glifosato e i suoi derivati, anche se potenzialmente cancerogeni, non sono però i veleni peggiori trovati nei campioni analizzati dai laboratori Ispra. Nell’elenco dei veleni dai nomi che sembrano medicine ce ne sono di tossicità massima, con effetti sull’apparato respiratorio e sugli occhi, e poi i più comuni insetticidi come imidacloprid, e fungicidi come i tradimenol, oxadixil e metalaxil. Tutti questi sono nelle acque sotterranee di 260 punti di rilevamento (l’8,3% del totale) con concentrazioni superiori ai limiti.

La presenza dei pesticidi nel periodo 2003-2016 è cresciuta del 20% nelle acque superficiali e nel 10% di quelle sotterranee. La contaminazione riguarda il 67% dei punti di acque superficiali monitorate e il 33, 5 % di quelli delle acque profonde, dove evidentemente la saturazione è tale da non permettere una diluizione. Tanto che Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente, avverte come la situazione di fiumi, laghi e falde acquifere sia «sempre più preoccupante».

L’aumento dipende in realtà in parte da un campionatura più estesa e accurata, soprattutto nella pianura padana, ma è la persistenza di questi agenti chimici nell’ambiente che aumenta i livelli di rischio con l’accumulo nella catena alimentare che dispiega effetti a lungo andare soprattutto sul sistema endocrino umano e può, a livello di specie, ridurre la capacità riproduttiva.

C’è da dire, come nota di speranza, che la vendita dei prodotti fitosanitari più pericolosi dal 2001 al 2014 in base ai dati Istat è sensibilmente diminuita (-12% e -22% per principi attivi) ma si è diffusa quella dei diserbanti e insetticidi più comuni passando, dopo dieci anni di riduzione, a un rialzo fino a 136 mila tonnellate commercializzate nel 2015 (erano 130 mila soltanto l’anno prima).

Internazionale, 13 novembre 2017. Inaugurata a Bologna la "Disneyland del cibo": grazie all''alleanza fra pubblico e privato in cui, come eddyburg ha rupetutamente denunciato, il privato si arricchisce con i soldi del pubblico, ossia del contribuente, ossia di noi creduloni (m.c.g.) con riferimenti in calce

L’olandese Randstad è una delle principali agenzie al mondo di lavoro interinale. È finita nel mirino delle proteste studentesche del 13 ottobre 2017 per un progetto intitolato “Un giorno da Fico”. I ragazzi contestavano una delle novità più importanti della legge del governo Renzi sulla Buona scuola: il principio dell’alternanza scuola-lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti dell’ultimo triennio delle superiori di fare un’esperienza formativa - tra le 200 e le 400 ore a seconda che si tratti di un istituto tecnico o di un liceo - in un’azienda, un’istituzione, un’associazione sportiva o di volontariato, perfino in un ordine professionale.

Nell’elenco c’è pure Fico Eataly World, la Fabbrica italiana contadina di Oscar Farinetti - una società partecipata da Eataly World, Coop Alleanza 3.0 e Coop Reno - che aprirà il 15 novembre. La Randstad è finita sul banco degli imputati perché accusata di reclutarle manodopera gratuita.

Per capirne di più chiedo ai diretti interessati. Negli uffici dell’ex Mercato ortofrutticolo alla periferia di Bologna, negano accuse e sospetti. Spiegano che il progetto è della Randstad, si svolgerà nelle scuole e alla fine da loro arriverà solo un pugno di ragazzi, “non più di sette o otto”, e comunque “non verranno a fare i lavapiatti”.

A Bologna tutti i poteri cittadini, istituzionali e privati, sono in qualche misura coinvolti

L’amministratrice delegata Tiziana Primori dice che c’è un protocollo “sulla tutela dell’occupazione, la qualità del lavoro e la valorizzazione delle relazioni sindacali” firmato con i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil e il comune di Bologna, per “favorire la piena regolarità delle condizioni di lavoro, l’agibilità sindacale, il diritto d’assemblea e la trasparenza della filiera delle aziende presenti nel parco”. Fico, spiega, darà lavoro stabile a settecento persone, mentre altre tremila lavoreranno nell’indotto.

Ne parlo con Marta Fana, ricercatrice all’università Sciences Po di Parigi, autrice di Non è lavoro, è sfruttamento. “Bisognerà vedere quante saranno le assunzioni stabili e quanti i contratti di somministrazione, dunque precari”, dice. Fana contesta a Farinetti la “gestione politica” della nascita di Fico: “Perché la regione ha speso 400mila euro per la formazione di persone per le quali non c’è la certezza di assunzione?”. A suo parere, le istituzioni locali, guidate dal Partito democratico, non avrebbero dovuto mettersi al servizio di quello che definisce solo “l’ennesimo centro commerciale”.

Dalla Randstad rendono noti i contenuti dell’accordo con la nuova impresa di Farinetti: i dipendenti della multinazionale olandese gireranno le scuole di tutta Italia per “illustrare ai ragazzi i nuovi trend del mercato del lavoro, guidarli in un tour virtuale di Fico Eataly World e lanciare un project work” sul tema dell’innovazione nella filiera agroalimentare. Il progetto coinvolgerà 20mila studenti, appunto, e prevede 300mila ore di alternanza scuola-lavoro, ma a Fico i ragazzi ci passeranno appena una giornata, per assistere a un convegno sul tema della “Food innovation”, al termine del quale saranno premiate le scuole vincitrici.

Istituzioni, università, entusiasti


Gli studenti non sono andati molto per il sottile, accomunando Fico ad Autogrill e a McDonald’s. Ma alla Fabbrica contadina bolognese respingono anche questi paralleli. Nello staff di Fico molti hanno lavorato a Slow food o hanno studiato all’università di Scienze gastronomiche fondata da Carlo Petrini a Pollenzo, in Piemonte, molti hanno lavorato a Eataly. L’amministratrice delegata Tiziana Primori arriva invece da Coop adriatica ed è l’anello di congiunzione tra Eataly e il mondo cooperativo. Mi riceve nel suo ufficio, dove campeggia una frase di Italo Calvino: “Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori”. Su un grande tavolo di legno apre una mappa del progetto e spiega: “Questo non è un luogo dove si viene esclusivamente per comprare o per mangiare, ma per conoscere”.

I visitatori, dice, potranno seguire l’intera filiera del prodotto. Prima di sedersi a tavola per mangiare un piatto di pasta, per esempio, saranno condotti da un “ambasciatore del gusto” a vedere un campo di grano, la macinazione in uno dei due mulini a pietra e la nascita di una tagliatella di Campofilone in uno dei tre pastifici. A supervisionare il tutto saranno le facoltà di veterinaria e agraria dell’università di Bologna.

Fico sarà un esempio dell’Italia che riparte? O è un modo furbo per capitalizzare la tendenza a mangiar bene, pulito e sano?

A Bologna tutti i poteri cittadini, istituzionali e privati, sono in qualche misura coinvolti. Il comune ci ha messo la struttura, che varrebbe 55 milioni di euro. Per la ristrutturazione sono stati raccolti 75 milioni di euro di fondi privati: 15 milioni sono arrivati dal sistema cooperativo, dieci da imprenditori locali e altri 50 da casse previdenziali professionali. Al progetto partecipano centocinquanta imprenditori grandi e piccoli (da piccoli artigiani a grandi consorzi come quello del Parmigiano reggiano), i ministeri dell’ambiente e dell’agricoltura, l’associazione dei borghi più belli d’Italia e l’Ente nazionale italiano per il turismo (Enit), Slow food, le università di Bologna e quella di Napoli, la Suor Orsola Benincasa .

Nelle ambizioni dei fondatori, la “Disneyland del cibo”, com’è stata soprannominata, dovrebbe attirare quattro milioni di visitatori il primo anno e arrivare a sei milioni nel giro di tre. Il sindaco Virginio Merola è così entusiasta che è andato a Manhattan per presentarla alla stampa americana sulla terrazza del Flatiron building, il grattacielo all’incrocio tra Broadway e la Fifth avenue che oggi ospita Eataly New York. Per portare i turisti che immagina diretti a frotte verso la periferia bolognese, ha annunciato un servizio di bus elettrici.

Dentro il parco


Mi portano a visitare la struttura: centomila metri quadrati, di cui 80mila coperti, percorribile a piedi o su piste ciclabili con l’immancabile carrello della spesa. Ci sono due ettari di campi e stalle con più di duecento animali, dal maiale calabrese alla pecora di Altamura, e duemila cultivar. Solo un piccolo agrumeto è coperto, per ragioni climatiche. All’interno, 40 fabbriche contadine producono carni, pesce, pasta, formaggi e dolci. C’è anche una torrefazione del caffè. A ricordare che siamo a Bologna ci pensano una fabbrica di Grana Padano e un intero padiglione dedicato alla mortadella. Al centro ci sono un auditorium, un teatro e un cinema che sarà gestito dalla Cineteca di Bologna.

Qui, fino all’altro ieri, sorgeva il Centro agroalimentare di Bologna (Caab), nato negli anni novanta ma progettato nei settanta. Il presidente era Andrea Segré, ex professore di politica agraria all’università di Bologna e ideatore del Last minute market, un mercato nato per recuperare e riciclare i prodotti invenduti. A quattro mesi dalla nomina, capito che il Caab languiva e non avrebbe avuto futuro, Segré aveva contattato Farinetti “per sviluppare l’idea del parco agroalimentare che da anni mi frullava nella testa”.

Era il novembre del 2012 e, ora che tutto si è realizzato, sarà lui a presiedere la fondazione Fico, che dovrà promuovere programmi di “cultura della sostenibilità economica, sociale, ambientale ed alimentare”. Il comitato scientifico, presieduto dall’europarlamentare Paolo De Castro, ex ministro delle politiche agricole nei governi D’Alema e Prodi, ha già messo in cantiere le prime iniziative: una giornata sulla dieta mediterranea e la creazione di un frutteto della biodiversità.

L’architetto ferrarese Thomas Bartoli ha rimesso a nuovo la struttura, salvando pure un pezzo del vecchio mercato, che non chiuderà del tutto. Bartoli è un fedelissimo del fondatore di Eataly. Mi spiega di aver mantenuto la vecchia architettura industriale, ma con l’obiettivo di creare una “sensazione contadina”, creando un continuum tra l’interno e i campi, e che il suo progetto è a “cemento zero”, anzi ha recuperato due ettari “per aumentare la superficie verde”. Ma, si schernisce, “l’idea di Fico è talmente forte che la realizzazione architettonica è passata in secondo piano”.

Una Disneyland del cibo


Tutto bene, dunque? Fico sarà un esempio dell’Italia che riparte da cibo e turismo, cioè due dei suoi punti di forza? O, come sostengono i critici, è solo un modo furbo per capitalizzare la tendenza a mangiar bene, pulito e sano, come sostiene un fortunato slogan coniato dal fondatore di Slow food, Carlo Petrini?

In un libro intitolato La danza delle mozzarelle, lo scrittore Wolf Bukowski prende di mira il modello di narrazione del cibo che parte da Slow food, e prima ancora dal Gambero rosso, per finire a Coop, a Eataly e alla sua ultima evoluzione: la Fabbrica contadina di Bologna, appunto. “Fico non è solo un parco giochi per rudi cooperatori e costruttori edili, ma è proprio una Disneyland, un mondo dove fantasia e realtà del capitale si rispecchiano reciprocamente”, scrive Bukowski, che attacca frontalmente l’ideologia di Renzi e Farinetti, improntata al marketing e all’ottimismo, in politica come al supermercato, in cui il conflitto è visto come qualcosa di anormale.

Bukowski vede in Fico la saldatura tra il pensiero di Farinetti e il capitalismo emiliano di derivazione postcomunista: una sorta di socialdemocrazia economica in una regione dove il pubblico governa e le cooperative rosse prosperano. Definisce Bologna “la città coop”, portando come esempio il fatto che nel giro di poche centinaia di metri, in pieno centro cittadino, sono nati negli ultimi anni il Mercato di mezzo, che è stato voluto dall’amministratrice delegata di Fico, Primori, e può essere considerato un prototipo del Parco, e una libreria Coop con annesso punto vendita Eataly. Tutto attorno, una teoria di super e ipermercati Coop.

I due alleati


Oscar Farinetti ci scherza, ma si intuisce che non gli va di essere contestato sia da destra sia da sinistra, di essere dipinto come un compagno e allo stesso tempo come una specie di Berlusconi nei cui negozi il quarto stato marcia con i sacchetti della spesa, come mostrava qualche tempo fa una parodia del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo esposta all’interno di Eataly Roma. Al contrario, ci tiene a mostrare di conoscere i suoi dipendenti uno per uno. All’ingresso dell’ex Air terminal vicino alla stazione Ostiense, a Roma, si compiace dei clienti che lo avvicinano e della sua popolarità. Stringe mani e parla della qualità dei prodotti e di come diffonderli ancora di più.

Da quando quelli con il marchio Slow food sono finiti sugli scaffali di Eataly, la loro diffusione è decuplicata. La richiesta di collaborazione è arrivata pure per Fico, e dall’associazione di Petrini hanno risposto sì, pur mantenendo uno sguardo critico.

Ne parlo con Carlo Petrini, l’uomo incoronato da Time tra gli “eroi del nostro tempo”, in quanto guru di una filosofia e di un movimento nel frattempo divenuti globali. A suo avviso il problema, a questo punto, è di “governare il limite”. Spiega che qualsiasi produzione, se supera una certa soglia, diventa “invasiva”, pur se buona, pulita e giusta. Il fondatore di Slow food ritiene invece che si debba evitare il “rivendicazionismo sui prezzi”, altra critica frequente. A suo parere va bene che un alimento di qualità costi di più se tutti sono pagati meglio, dal contadino al trasportatore.

Farinetti concorda su quest’ultimo punto. Spiega che “il 15 per cento di quello che vendiamo lo produciamo noi, il resto arriva da piccoli, medi e grandi produttori”, selezionati da un gruppo di giovani provenienti dall’università di Pollenzo e spediti in giro per l’Italia. Accorciando la filiera, dice, “riusciamo a pagare la carne il 31 per cento in più e a venderla a un prezzo decente”.

Sulla questione della produzione ritiene invece che ci siano margini ulteriori di crescita. “In Italia ci sono 14 milioni di ettari di terreni coltivati, negli anni ottanta erano 19, anche se oggi si produce di più”, dice. Vuol dire che l’agricoltura di qualità (convenzionale a residuo zero, biologica, biodinamica, simbiotica) può svilupparsi ancora molto e puntare al mercato italiano (tuttora gastronomicamente poco educato a dispetto delle apparenze) e soprattutto a quello estero.

È su quest’ultimo punto che il patròn di Eataly ha trovato l’intesa con Coop Alleanza 3.0. Sebastiano Sardo, che ha selezionato i produttori del neonato Parco agroalimentare, dice che l’obiettivo è “creare una piattaforma dei prodotti italiani da esportare” per contrastare i cosiddetti italian sounding, il mercato dei prodotti venduti come italiani ma che non lo sono. Secondo i dati dell’Assocamerestero, l’associazione che raggruppa le 78 camere di commercio italiane all’estero, l’italian sounding ha un giro d’affari di 54 miliardi di euro, mentre l’ industria alimentare italiana si aggira sui 132.

L’accusa di monopolio


A opporsi a questo clima di consenso generale ed entusiasmo diffuso sono stati gli anarchici e gli antagonisti che il 12 dicembre 2016, mentre nell’aula magna dell’università di Bologna si presentava il progetto, hanno lanciato letame e caramelle a forma di vermi contro una coop e una pizzeria biologica di Alce Nero. Quel che contestavano era la grande illusione denunciata da Wolf Bukowski: pensare che si possa trasformare la società educandola a fare la spesa e a cucinare in maniera corretta. I contestatori ritengono che nei padiglioni dell’ex mercato ortofrutticolo il renzismo di Farinetti si saldi con gli affari delle coop, creando un monopolio di fatto nella distribuzione e nel consumo di cibo.

Gli anelli istituzionali di congiunzione sarebbero il sindaco di Bologna Virginio Merola, già nel mirino per gli sgomberi di spazi occupati e centri sociali, e il ministro del lavoro Giuliano Poletti, ex presidente di Legacoop e ideatore insieme al governo di Matteo Renzi del Jobs act. Questo contribuisce a spiegare le proteste studentesche e lo scetticismo di un pezzo di sinistra radicale.

Al fondatore di Eataly si imputa di essere diventato il “braccio imprenditoriale di Slow food” e non gli si perdona l’infatuazione per Matteo Renzi, culminata nella partecipazione alle manifestazioni organizzate dal segretario del Pd all’ex stazione ferroviaria fiorentina della Leopolda.

La prima volta è stata nel 2012, quando ha detto che “la politica è come la maionese impazzita e Renzi vuole rifarla da zero”. Nel 2013 l’allora sindaco di Firenze ha tagliato il nastro di Eataly Firenze e nel 2014 l’ha accolto come “l’amico Oscar”. Lui ha ricambiato dimostrando sintonia con lo spirito della Leopolda. “Questo è un posto dove ci si lamenta poco, mentre ciascuno esprime con sintesi le proprie idee di soluzione”, ha dichiarato a La Stampa.

Un anno fa, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre che è costato le dimissioni a Renzi, fiutando il clima sfavorevole ha affermato: “Dobbiamo tornare a essere simpatici”. Un anno dopo, appare più disincantato ma non ha cambiato opinione. “Renzi è stato tradito dal suo carattere, però è onesto”, dice. Nel frattempo, a inaugurare Fico è stato invitato il più mite Paolo Gentiloni.

riferimenti
su
eddyburg seguiamo da tempo le imprese di Oscar Farinetti, abile imprenditore, che all’insegna della modernità e della “cultura”, contribuisce al saccheggio dei beni comuni anche con il supporto della pianificazione urbanistica. A questo proposito si veda Fico, la Disneyland del cibo pronta al debutto di Mara Monti, Un tram chiamato Farinetti.“Gli fanno una linea ad hoc” di Ferruccio Sansa, Qui si mangia di Carlo Tecce. Sul fronte della cultura si veda di Tomaso Montanari Carta e bellezza non fanno rima, Santa Lucia Farinetti, incinta tra le mortadelle, Milano e Firenze, chiese a uso privato (m.p.r.)

la Repubblica on line, 17 novembre 2017. L'agenzia europea per l'ambiente ha messo a punto una mappa interattiva che riporta i valori della qualità dell'aria. L'Italia non solo non fa nulla per ridurre l'inquinamento, ma non comunica neppure i risultati delle rilevazioni. (p.s.)


Gli inquinanti dell'aria sono infidi e di solito invisibili, ma ora possono essere visualizzati in tempo reale su una mappa europea. L'ha messa a punto l'Agenzia per l'Ambiente (AEA), che l'ha presentata in occasione del "Clean Air Forum" della Commissione europea che si è aperto ieri a Parigi. La mappa "Air Quality Index" raccoglie i dati di oltre 2mila centraline, ogni tre ore si aggiorna e misura i diversi inquinanti che danneggiano salute e ambiente: le micropolveri PM10 e PM2.5, Ozono, diossido di zolfo (SO2) e diossido di azoto (NO2). Che vengono tradotti in pallini colorati dal verde al rosso, rilevando il valore peggiore per ogni inquinante, in un sistema interattivo che permette ai cittadini di zoomare e conoscere la situazione anche nei dintorni di casa propria. Grande assente, ed è una mancanza che salta agli occhi, l'Italia, costellata di pallini grigi, ovvero spenti: le nostre centraline ancora non risultano, come quelle di Romania, Bulgaria e Grecia.

a Repubblica, 9 settembre 2017, con postilla (m.c.g.)

Caro direttore, ho visto l’articolo dedicato da Repubblica al parcheggio che verrà realizzato a Bergamo in via Fara. Leggendolo si ha l’impressione che l’intervento sia frutto di una decisione avventata, in contrasto con il recente riconoscimento delle Mura venete come parte del patrimonio Unesco. Non è così. Il progetto del parcheggio risale al 2004 ed è accompagnato da un contratto impegnativo per il Comune. Uscirne, vista anche la colpevole inerzia dell’amministrazione precedente, avrebbe significato secondo la nostra avvocatura affrontare un contenzioso e, con ogni probabilità, dover risarcire la controparte per svariati milioni di euro.
Non si tratta affatto di un “ecomostro”, bensì di una struttura totalmente interrata, praticamente invisibile alla conclusione dei lavori, che l’Unesco - puntualmente informata sulla previsione - non ha giudicato in alcun modo in contraddizione col prestigioso riconoscimento che ha voluto attribuire alle nostre Mura. Anzi, siamo convinti che possa contribuire alla tutela e alla valorizzazione di Città Alta.
Il progetto che abbiamo varato - pur rispettando i vincoli del contratto iniziale - è infatti profondamente diverso dal punto di vista funzionale. Il parcheggio di via Fara, collocato alla base del colle di Città Alta, diventerà l’unico luogo dedicato alla sosta dei visitatori, ponendo fine all’assalto cui è sottoposto ogni angolo del borgo storico. Tutti i posti auto lungo le Mura saranno di conseguenza lasciati ai residenti e questo ci consentirà di liberare dalle macchine - esattamente come auspicava Le Corbusier - alcune meravigliose piazze del borgo storico, oggi tristemente adibite a parcheggio.
Questo è il progetto, correttamente raccontato. Lo abbiamo approvato in Consiglio comunale a larga maggioranza, senza mai sottrarci al confronto con le associazioni dei cittadini. Rispettiamo pertanto le seimila firme che ci sono state consegnate qualche giorno fa (pur sapendo che nessuna di queste è certificata e che oltre la metà dei firmatari non abita a Bergamo). Ma riteniamo che la nostra scelta sia quella giusta, per tutelare gli interessi dei cittadini (i soldi del Comune sono soldi loro) e per realizzare quella rivoluzione della mobilità che ci permetterà di proteggere e di valorizzare la bellezza di Bergamo Alta.

postilla
Stupisce la differenza di stile fra l’articolo di Paolo Berizzi pubblicato su la Repubblica e la risposta del sindaco: il primo aggressivo e partigiano, la seconda molto tecnica e garbata. Poiché non avevo seguito la vicenda, mi sono informata e ho trovato, sulla stampa locale, una lettera aperta molto dettagliata rivolta ai cittadini, firmata dal sindaco e dalla giunta, che spiega le ragioni della scelta, i cambiamenti apportati al progetto originario e i vantaggi che si otterranno nel governo della mobilità su gomma in Città Alta. Per inciso, nulla di simile si è mai verificato a Milano in merito ai progetti più controversi: in genere, si "mandano avanti" i consulenti prezzolati dell’accademia; in genere non si risponde nel merito ai cittadini organizzati in comitati; in genere, se si apportano modifiche, sono sempre a favore degli interessi immobiliari.

La voce dei comitati civici è indubbiamente rilevante (anche se nell’articolo sembra essere l’unica fonte utilizzata); ma anche il cambiamento di passo della attuale giunta e, in particolare, la natura intelligentemente riformista di alcuni recenti provvedimenti urbanistici meriterebbero l’attenzione di un grande quotidiano di diffusione nazionale che dovrebbe privilegiare il giornalismo d’inchiesta rispetto a quello dell’insulto. Invece la tecnica dell’insulto e dell’aggressione sembra aver fatto scuola, partendo dall’esempio "storico", davvero censurabile, delle celie indirizzate da Francesco Merlo all’allora sindaco Ignazio Marino, irriso per “le cene a sbafo, bottiglie di vino a scrocco, ma senza la simpatia del vero morto di fame, del Totò che dice: a proposito di politica… ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?”.

Nell’imminenza delle elezioni regionali, sarebbe sembrato più che opportuno che il giornalista di Repubblica autore dell’articolo riportasse anche il parere dell’amministrazione in carica, e in particolare del sindaco di Bergamo il quale, ad oggi, sembrerebbe essere il candidato più competitivo nei confronti della maggioranza che ormai da decenni governa, o meglio sgoverna, la Lombardia. Viene il sospetto che, come il quel caso, l’insulto sia strumentale all’avvio di una ennesima campagna elettorale condotta in modo irresponsabilmente divisivo. (m.c.g.)

la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)


Una frana è più di un macigno. E una figura di palta può generare un dissesto più rognoso di qualsiasi penale. Se poi in nome dello sviluppo urbanistico sfregi con uno scavo di 70mila metri cubi di terra un patrimonio dell’umanità, forse rischi il destino di Tafazzi. È la morale di quanto sta succedendo da sei giorni, ruspe al lavoro, a Bergamo alta: sulle Mura venete, fiore all’occhiello della città. Mura insignite dall’Unesco del titolo più prestigioso per un sito.

La storia, venuta al pettine dopo 13 anni, è complessa. Ma essenziale nel suo scheletro. Protagonista è un mega parcheggio interrato: nove piani per 496 posti auto. Auto di turisti e visitatori. Un bestione così, di norma, trova posto ovunque tranne che nei centri storici. Figurarsi in un gioiellino che vanta vestigia medievali, botteghe di età romana, opere della Serenissima tra cui, appunto, i baluardi e le porte veneziane. Dunque a Bergamo dove sorgerà l’autosilo? Qui, all’interno della cinta muraria tutelata. Al di sotto dell’ex parco faunistico della Rocca, polmone verde geologicamente delicato.

Nel 2008 è venuta giù una frana mentre si stava iniziando a scavare. Adesso gli operai si sono rimessi all’opera nonostante le vibranti proteste dei residenti e, più in generale, dei bergamaschi a cui l’idea di vedere violentate le Mura dell’Unesco fa venire l’ulcera. «Fermate questa vergogna» — tuona Giovanni Ginoulhiac, tra i promotori del comitato NoParking Fara che da mesi chiede al sindaco Giorgio Gori di fare marcia indietro. L’altro giorno hanno consegnato al primo cittadino 6.383 firme “contro”. Prima ci sono state manifestazioni di protesta, appelli, richiesta di carte e di cifre (quelle mai comunicate a cui ammonterebbero le penali per il mancato rispetto della convenzione stipulata dall’amministrazione con Bergamo Parcheggi). Le hanno tentate tutte, per contrastare il cantiere. Zero. Il sindaco ha azionato gli escavatori. «È la migliore soluzione per un’eredità difficile», ha scritto Gori a fine giugno in una lettera ai cittadini.

Torniamo alla frana del 2008: in pericolo non finirono solo le abitazioni adiacenti il cantiere, ma anche l’ex convento di San Francesco, la Rocca, la porzione di Mura venete sottostanti. Da allora il progetto fu congelato (e la frana tamponata in emergenza con tonnellate di materiale al centro di un processo per discarica abusiva di rifiuti speciali tossici a carico dell’imprenditore Pierluca Locatelli). Una frana, evidentemente, non è bastata. Accadesse di nuovo? «Lo scandalo è doppio — attaccano i NoParKing — La messa a rischio di un patrimonio storico e il non senso di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stanno facendo tutte le città europee: portare le auto fuori dai centri storici».

Con il nuovo parcheggio (costo 18 milioni: 70% privato e 30% pubblico), in Città alta le auto dei turisti entreranno 24h24. Alla faccia delle fasce Ztl introdotte proprio per decongestionarla. A ottobre 2016 la giunta ha approvato la nuova convenzione per il via all’autosilo. «Siamo obbligati, altrimenti pagheremmo penali stratosferiche», hanno ripetuto da Palazzo Frizzoni. Sull’eventuale salasso pecuniario, però, aleggia una nebulosa. Si rimanda al parere dell’avvocatura comunale. La quale tuttavia il 20 febbraio 2017 scrive: «Nessun parere è stato formulato dallo scrivente ufficio sull’opportunità di proseguire i lavori afferenti alla realizzazione del parcheggio».

«L’eredità scomoda», dunque. La patata bolle dal 2004. Tre giunte si scaricano la palla. Poi arriva Gori e decide di metterla in rete. «L’obiettivo è togliere le auto dalle piazze: per questo il parcheggio sarà riservato ai residenti e ai lavoratori del centro storico». Ma l’autosilo, sorpresa, sarà invece destinato ai turisti. I commercianti già sognano l’effetto Firenze o Venezia. Gioisce l’impresa assegnataria (Collini spa), coinvolta in un’indagine conclusasi nel 2010 con un patteggiamento per turbativa d’asta e corruzione.

E gli altri? Legambiente e Italia Nostra vedevano il parcheggio come il fumo negli occhi: la prima si è rassegnata, la seconda inabissata. E L’Unesco che dirà? Curiosità: Gori abita a 300 metri dal cantiere della discordia e è iscritto al circolo Pd di Città alta. Che resta assai contrario. «Abbiamo chiesto un dialogo, ma il sindaco non ha dato retta a nessuno», — dice il segretario dem Alessandro Tiraboschi. Qualcuno ricorda il commento di un ammirato Le Corbusier in visita a Bergamo nel 1949: «Le automobili dei visitatori devono essere lasciate fuori dalla città vecchia». Parole al vento.

il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)

Un jet-set, ma senza jet. Hanno vita grama oggi i vip di Cortina: niente aerei. Tocca arrancare su per la statale Alemagna come i comuni mortali. Ma la soluzione forse sta per arrivare: “L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) ha espresso parere favorevole alla ricostruzione dell ’aeroporto chiuso nel 1976”, annuncia la società Cortina Airport. E Luca Zaia, governatore veneto, preme: la pista deve essere pronta per i Mondiali di sci del 2021.
Un simbolo perfetto: l’aeroporto per far ridecollare la Regina delle Dolomiti che conosce l’onta delle stanze d’albergo in saldo a 39 euro! “Una pista per i ricchi a 500 metri dal parco naturale”, dicono gli oppositori. Jet dove ora incontri famiglie di cervi e bambini lanciati in folli corse con la bici. Se ne parla dal 31 maggio 1976 quando l’ultimo volo cadde e uccise sei persone. Per non dire del volo Aeralpi precipitato nel 1967. Una fama non buona. Ma la Regione vuole l’aeroporto. Una cordata di imprenditori scalpita: “Secondo l’Enac potrebbero atterrare aerei fino a 19 posti, a elica o jet”, spiega Fabrizio Carbonera di Cortina Airport. E snocciola dati: “L’investimento può arrivare a 20 milioni. Un’occasione, come è avvenuto in Costa Smeralda”. Ti pare già di vedere arabi e russi. Ma c’è un ostacolo: la pista. Che passerebbe da 1.280 a 1.520 metri. Più 75 metri per lato. Bazzecole a Malpensa, ma qui sei in uno dei posti più preziosi delle Dolomiti. E non sono solo i dubbi dei Cinque Stelle, come la parlamentare Arianna Spessotto, o di Luigi Casanova (MountainWilderness): “L’aeroporto no. Meglio il treno”. Il punto non è essere contrari alle opere, “ma il timore che con i Mondiali si facciano affari sulla pelle della valle e degli ampezzani”.

L’ultimo ostacolo saranno le Regole d’Ampezzo, cioè la gente del paese. Perché i boschi sono degli abitanti. Un caso unico di “comunismo”, proprio a Cortina. Senza il 75% di “sì” non basterebbe il presidente della Repubblica a far vendere il bosco. E gli ampezzani ci tengono alla loro terra. Carbonera ci va giù secco: “Mi sono rotto i coglioni di chi dice che l’aeroporto ha un impatto ambientale, gli studi dimostrano il contrario. Porterà soldi e lavoro: basta fare l’idraulico o il cameriere!”.

Cortina non sta bene. Lo vedi camminando tra i simboli della passata nobiltà: il trampolino di Zuel costruito per le Olimpiadi invernali del 1956 perde i pezzi. Chiusa anche la piscina. La vertiginosa pista di bob è abbandonata dal 2007. Sono passati gli anni che qui trovavi Ernest Hemingway, mentre le corti di Iran o di Giordania sbarcavano al Miramonti o al Cristallo. E incrociavi Brigitte Bardot. Cortina dei ricchi, sì, ma anche di Goffredo Parise che tra le creste trovava odore di roccia, non di mondanità.

La crisi la vedi anche nelle agenzie immobiliari: i prezzi che avevano sfiorato i 25-30mila euro al metro sono quasi dimezzati. Mentre in centro l’hotel Ampezzo attende il restauro e fioriscono bed&breakfast. Sacrilegio! Ora arrivano i mondiali: “Sono previsti 280 milioni di investimenti: 230 per le infrastrutture viarie e 40 per gli impianti”, spiega il sindaco Gianpietro Ghedina. Quanti progetti in vista dei Mondiali... Ma sull’aeroporto anche il sindaco ha dubbi: “Sappiamo poco del progetto e della sostenibilità finanziaria”. Ecco la la paura di uno dei giovani delle Regole: “Decidono tutto a Roma, a Venezia o a Treviso. Decidono politici o imprenditori mai visti. Progetti che non servono. Vogliono comprarci con la scusa della crisi. Ma noi non ci vendiamo i monti”.

del gruppo di ricerca "Emidio di Treviri", che riflette sulle modalità distorte attraverso cui si intende provvedere al bisogno abitativo nelle aree terremotate, compiacendo i costruttori e spostando le popolazioni. 10 luglio 2017 (p.d.)

“Lo spazio è diventato uno strumento politico di primaria importanza per lo Stato. Lo Stato usa lo spazio per garantire il controllo sui luoghi, la sua stretta gerarchia, l’omogeneità del tutto e la segregazione delle parti”
Henri Lefebvre, 1974

Sono passati ormai dieci mesi dalla prima scossa di terremotoche ha sconquassato l’Alta Valle del Velino, del Tronto e poi il resto. Diecimesi da quando la geografia di quello spazio che dalla catena dei Monti dellaLaga attraversa i Sibillini è scomparsa sotto la fredda, uniformante e genericadenominazione di “cratere”. Ma i luoghi conservano traccia anche del temposospeso. Mentre il futuro di chi è stato parcheggiato nelle strutturericettive della costa resta appeso al rimpallo di responsabilità traUnioncamping, Federalberghi, Protezione civile ed enti regionali, ad esserecerto è il fatto che delle decine di migliaia di casette SAE (Strutture Abitativedi Emergenza) ordinate per i terremotati se ne vedono davvero poche. Il 5giugno ne è stata assegnata la prima manciata sul lato Marche, visto che leuniche 97 ad oggi abitate sono state inaugurate tra Amatrice e Norcia. Ancheper le casette di Pescara del Tronto (le prime che saranno abitate nelleMarche) è toccato l’esito di essere estratte a sorte tra le molte famiglie inattesa: anche stavolta - come ad Amatrice e Norcia - l’esasperazione deiterremotati si è trasformata in tensione, lacrime e rabbia durante ilsorteggio.

Sulla base delle esperienze pregresse e grazie agli strumenti contrattuali messi in campo” [1] dalla Protezione Civile, l’attesa sarebbe dovuta durare appena sei mesi. Il dato certo è che ad oggi, nelle Marche, la regione che registra il numero più alto di sfollati e sfollate in attesa di una sistemazione nei SAE (5.040, secondo i dati ufficiali), nessuno ha ancora ricevuto le chiavi dei moduli abitativi e nella maggioranza dei comuni interessati non sono neanche partite le opere di urbanizzazione. Ora più che mai è evidente la condizione di affanno in cui versano le istituzioni circa la gestione della questione abitativa dei terremotati. In questo tempo immobile che perimetra l’emergenza, catturato e scandito dal succedersi di decreti ed ordinanze, il Governo mette in campo l’ennesima opzione per cercare di raddrizzare i dati.

L’articolo 14, titolato “Acquisizione d’immobili ad uso abitativo per l’assistenza della popolazione” ed inserito per la prima volta nel Decreto n.8 del 9.11.2017 (convertito in legge lo scorso 7 Aprile), autorizza infatti le Regioni a comprare unità immobiliari da destinare in maniera provvisoria ai terremotati e, in un secondo momento trasformarle in “case popolari”. Una notevole operazione di acquisizione al patrimonio pubblico residenziale, dunque, come non succedeva da decenni e compiuta attraverso il Fondo nazionale per le Emergenze (ai sensi dell'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225). Costituirebbe un importante passaggio di riflessione ragionare sul fatto che a) la “domanda di casa” costituisca un tema all’ordine del giorno solo in una situazione straordinaria come il post-terremoto, b) che lo Stato cerchi di tamponare parte della questione del disagio abitativo solo grazie all’emergenza, nonché c) che le istituzioni individuano, tra le molte categorie sociali in affanno, quella dei terremotati quale target-group meritevole di un intervento - al contrario di tutti gli altri -. Ma tralasciando per il momento questi interrogativi e stando a una superficiale lettura del fenomeno, l’operazione dell’art.14 sembrerebbe quasi rappresentare un’inversione di tendenza rispetto alla grande ritirata dello Stato dal sociale delle ultime decadi.

«4. Al termine della destinazione all'assistenza temporanea, la proprietà degli immobili acquisiti ai sensi del comma 1 può essere trasferita senza oneri al patrimonio di edilizia residenziale pubblica dei comuni nel cui territorio sono ubicati.
5. Agli oneri derivanti dall'attuazione delle misure previste dal presente articolo si provvede con le risorse finanziarie che sono rese disponibili con le ordinanze adottate ai sensi dell'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, per la gestione della situazione di emergenza.»
L’articolo 14 della legge avrebbe potuto rappresentare, oltre a una simbolica inversione di tendenza rispetto all’interesse pubblico per chi ha necessità reali, anche un argine alla bolla speculativa del mercato degli affitti nelle zone terremotate. Una situazione che colpisce soprattutto le aree periferiche del cratere e i territori ad esso immediatamente adiacenti, gonfiata nel corso dei mesi dal meccanismo del contributo di autonoma sistemazione (CAS). Il CAS, inizialmente pensato come una misura per sostenere chi aveva perso tutto, in alternativa alle altre forme assistenziali, si è trasformato infatti in un’ iniqua forma di sostegno al reddito [2] che - nelle sue distorsioni - ha anche contribuito a deformare il mercato degli affitti. Ma se rubrica legis non est lex ed il disastro rappresenta sempre più spesso un’occasione privilegiata per una diversa redistribuzione delle risorse, facilmente è possibile notare quanto l’aleatorietà e la poca specificità con cui la norma è stata redatta abbia lasciato ampi margini interpretativi alle quattro Regioni coinvolte, chiamate ad applicarla attraverso l’emissione di bandi pubblici. I bandi regionali, indipendenti l’uno dall’altro, hanno operato in maniera diversa, come se i confini amministrativi rappresentassero una reale spartizione dei luoghi. Come se i terremotati di Accumoli (Rieti, Lazio) abbiano caratteristiche così diverse rispetto a quelli di Arquata (Ascoli P., Marche) o di Ceppo (Teramo, Abruzzo) o di Norcia (Perugia, Umbria), tutti compresi nello stesso raggio di 20 chilometri.

Analizzando le specifiche degli avvisi di manifestazione di interesse pubblicati finora, salta subito all’occhio quanto l’implementazione della legge abbia assunto di regione in regione forme dissimili e, in alcuni casi, pericolose. La prima evidenza, conferma la straordinaria efficacia riscossa dai Tavoli tecnici permanenti di confronto coordinati dal Direttore dell’Ufficio speciale per la Ricostruzione, ed avviati, ad esempio nel caso della Regione Marche, con l’Associazione dei Costruttori (ANCE - Confindustria). Scorrendo le specifiche del bando emanato dalle regioni adriatiche, è facile ravvisare quanto le modalità di applicazione di una misura potenzialmente virtuosa in linea di principio, corrano il rischio di scadere nella possibilità di implementare i meccanismi di speculazione e di rendita del mercato immobiliare. In base alla regolamentazione stilata dalla Regione che è stata coinvolta in due terremoti e che annovera 27.046 terremotati, le abitazioni devono essere preferibilmente nuove, prioritariamente mai utilizzate e possono trovarsi anche fuori dai comuni del cratere (al contrario di Marche e Abruzzo, l’Umbria [3], ad esempio, non prevede quest’ultimo punto). Il pensiero corre immediatamente alle cementificazioni della costa:

«12. Non essere mai stati abitati
[...]
Le offerte potranno riguardare anche gli alloggi ubicati in immobili in corso di realizzazione, acondizione che l'offerta riguardi un gruppo di alloggi compresi nello stesso stabile e che questi vengano ultimati e resi disponibili entro 3 mesi dalla data di adozione dell'atto di formale di adesione all'acquisto da parte del COR, e comunque alla stipula dell'atto notarile di acquisto.»
A ribadire il concetto, le regioni adriatiche chiariscono che non sono interessate alle abitazioni di tipo rurale. Ma per il costruttore più esigente il regalo arriva negli ultimi passaggi del bando: l’offerta di acquisto delle istituzioni è valida anche per quelle case e quegli edifici ancora non ultimati, previa consegna entro i tre mesi dalla stipula dell’acquisto [4]. Vengono quindi compresi gli scheletri che gli speculatori hanno abbandonato sul territorio, a patto che siano ultimati a firma del contratto avvenuta. Una simile applicazione dell'art. 14 rappresenta un assist senza precedenti agli impresari edili che, favoriti nelle graduatorie rispetto ai singoli proprietari e alla logica delle ristrutturazioni, possono piazzare l’invenduto storico alle Regioni.

Il primo bando pubblicato dall’Erap [5], l’ente marchigiano per l’abitazione pubblica, che si è chiuso lo scorso 3 Aprile, ha ammesso 654 offerte di vendita (85 nella provincia di Ancona, 148 ad Ascoli Piceno, 109 a Fermo e 312 a Macerata) per un totale di 95.749.743,72 milioni di euro [6]. All’indomani della chiusura del bando, commentava così il presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli: “è un ulteriore tassello che, insieme con altri provvedimenti, ci consente di agevolare il processo di rientro delle persone le cui abitazioni hanno subito danni gravi dal sisma, in attesa della ricostruzione pesante”. Ma la prassi sembra essere direzionata proprio nel verso opposto, incentivando le urbanizzazioni incompiute, favorendo così lo spopolamento dei territori interni colpiti dal sisma. Infatti, come si nota dalla mappatura, la maggior parte degli immobili individuati dal bando è collocata nelle zone dove negli ultimi anni si sono verificati i maggiori incrementi di densità urbanistica, ben lontano dalle aree interne.

Mappatura delle proposte di acquisto valutate idonee all’acquisizione (in arancione) e dei comuni colpiti dai terremoti del 24/agosto, 26-30/ottobre 2016 e 18 gennaio 2017 (in blu). Dati pubblicati da graduatoria “Erap - Marche” a seguito del primo avviso pubblico di manifestazione di interesse scad. 03/04/2017.
L’articolo 14 non è che l’ennesimo tassello di una politica imposta dall’alto, senza il coinvolgimento delle popolazioni interessate. Pensare di trasferire i terremotati e le terremotate lontano da casa, ospiti di soluzioni che potenzialmente sono destinate a durare anni, non collima con una una ricostruzione immaginata insieme alla gente per ridare un futuro alle aree interne. Al tempo stesso rappresenta una delle più intense operazioni di trasferimento della popolazione dai tempi dello sfollamento sulla costa domiziana degli abitanti dei quartieri centrali di Napoli cacciati per far posto al Centro Direzionale. Solo che stavolta, in virtù della retorica progressista dello Stato che finalmente torna a fare edilizia pubblica per chi ha bisogno, bisognerà anche ringraziarli di questo favore fatto ai costruttori ai danni di terremotati e aree interne.

per “Emidio di Treviri”
Gruppo di Ricerca sul post-sisma del Centro Italia



EMIDIODI TREVIRI
Il gruppo di ricerca"Emidio di Treviri" è un progetto di inchiesta sul post-sisma delCentro Italia. Nasce nel Dicembre 2016 da una Call for Research lanciata graziealle Brigate di Solidarietà Attiva, un’associazione che interviene in contestid’emergenza promuovendo solidarietà dal basso e autogestione. Decine didottorandi, ricercatori e professori universitari hanno aderito all’appellodando vita a una significativa esperienza di ricerca collettiva e autogestita.Scienziati sociali, architetti, psicologi, urbanisti, antropologi, ingegneri, giuslavoristietc. si sono impegnati a coordinarsi in maniera orizzontale per costruireun’inchiesta sociale critica sul post-sisma dei Sibillini che ha colpitoquattro regioni durante tre momenti intensi (Agosto 2016; Ottobre 2016; Gennaio2017).
[1] http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_dossier.wp?contentId=DOS60583

[2] Dopo dieci mesi di mensilità, difatti, il contributo economico a fondo perduto e senza vincoli di spesa è diventato uno strumento molto simile a un reddito garantito, non calibrato però secondo lo status socio-economico di partenza con il risultato che situazioni familiari eterogenee ricevano contributi identici.

[3] http://www.regione.umbria.it/edilizia-casa/sisma-2016-acquisto-alloggi

[4] Avviso di manifestazione di interesse per l’acquisto di unità immobiliari da utilizzare per l’emergenza sisma, pubblicato dalla Regione Abruzzo, in data 28/ 04/2017 https://www.regione.abruzzo.it/content/acquisto-di-unità-immobiliari-da-utilizzare-lemergenza-sisma-pubblicato-lavviso

[5] http://www.regione.marche.it/Entra-in-Regione/Appalti?id_8340=432

[6] http://www.erap.marche.it/Portals/0/EM/ACQUISTO_UI/Graduatoria%20prov/Offerte%20ammesse.pdf?ver=2017-05-17-163249-887

il Fatto Quotidiano on line, 7 luglio 2017 (m.p.r.)

Il progetto dell’Anas per unire con una superstrada il polo siderurgico di Terni con il porto di Civitavecchia risale agli anni 60, mentre i lavori partirono dieci anni dopo. Attualmente è ancora incompiuto il tratto che va da Orte al porto laziale, circa un terzo del percorso. Di questo terzo, la tratta finale, la più problematica dal punto di vista ambientale, è quella che corre da Monte Romano a Tarquinia, tratta soggetta a Valutazione di impatto ambientale (Via), il cui iter è iniziato il 3 agosto 2015.

Il percorso individuato dall’Anas si snoda per 18 chilometri e prevede 9 viadotti, 1 galleria e 2 svincoli, ed è localizzato nella vallata del fiume Mignone, una delle aree più incontaminate e ricche di bellezza del Centro Italia, tutelata dalla direttiva Habitat, volta alla conservazione degli habitat naturali di particolare pregio nel territorio europeo. Nell’ambito dell’iter della Valutazione di impatto ambientale, in data 20 gennaio, la Commissione tecnica di verifica del ministero dell’Ambiente ha espresso parere negativo al progetto, mentre, in data 15 marzo, in sede di Conferenza dei servizi tutti gli altri soggetti chiamati ad esprimersi, tranne il comune di Tarquinia ed appunto il ministero, hanno dato parere favorevole, inclusa la regione Lazio.

Adesso, la decisione finale spetta al Consiglio dei ministri che pare la adotterà in data 20 luglio. Andiamo più nel dettaglio della vicenda: ne vale la pena. Nel progetto presentato dall’Anas, secondo i tecnici del ministero dell’Ambiente che hanno redatto una corposa relazione di oltre 120 pagine, non sono stati valutati adeguatamente né l’impatto paesaggistico, né quello ambientale, compresi i rischi connessi all’inquinamento atmosferico e acustico.

Ecco alcuni significativi passi delle conclusioni del parere rilasciato dalla Commissione: “L’intervento modificherà in modo sostanziale, permanente e irreversibile il paesaggio dell’area, distruggendone la naturalità attuale. Dai foto inserimenti, si evidenzia infatti un impatto visivo insostenibile per il contesto specifico della valle del Mignone, l’arteria andrà a tagliare in due una continuità naturale, territoriale e storico culturale che invece deve essere conservata come bene di alto valore ambientale […] Il rumore e le vibrazioni, date le caratteristiche di grande valore ambientale dell’area in oggetto, si ritengono troppo elevati per poter essere accettati all’interno dei siti di importanza comunitaria (Sic) e nelle Zone di protezione speciale (Zps)”.

La stessa opinione del ministero è stata espressa dalle associazioni ambientaliste e dai comitati locali con motivate osservazioni che evidenziano, tra l’altro, come l’Anas si sia sempre di fatto rifiutata di redigere una seria Valutazione di incidenza ambientale relativa sia all’area Zps sia al Sic della valle del Mignone, cioè non abbia voluto valutare i danni che sicuramente ci sarebbero sui siti qualora l’opera fosse realizzata. Vale la pena ricordare, infatti, che la direttiva Habitat prevede la Valutazione come “un passaggio che precede altri passaggi, cui fornisce una base. In particolare, l’autorizzazione o il rifiuto del piano o progetto”. Uno studio d’incidenza incompleto, le cui conclusioni ottimistiche sono state contestate nel parere Via, ha evitato ad Anas il rifiuto o quanto meno il rischio che un approfondimento avrebbe dato risultati diversi da quelli sperati, bloccando l’iter del progetto.

Ma perché l’Anas avrebbe scelto una soluzione così impattante? Non c’erano alternative? Nel 2004, l’azienda di Stato sviluppò un diverso progetto che aggirava l’abitato di Monte Romano a Nord per poi seguire l’attuale tracciato della Aurelia bis. Progetto che, adeguato alle prescrizioni Via che ne avevano richiesto il passaggio in galleria per quasi la metà del percorso, avrebbe lasciato maggiormente integro il paesaggio che invece il progetto attuale taglierebbe in due. Nel 2007 l’Anas inoltrò il progetto al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) per il finanziamento, ma il Cipe non lo finanziò perché lo ritenne troppo costoso. Singolare, perché per altre opere sommamente costose e perfettamente inutili come l’alta velocità e il Terzo valico, il Cipe ha chiuso non uno, ma ambedue gli occhi. Allora cosa fece l’Anas? Concepì questo nuovo progetto molto meno costoso, che infatti definì essa stessa low cost e andò avanti su di esso. Quindi, l’alternativa c’era ma costava. E allora ecco un progetto che costa di meno, che sarebbe finanziato e pazienza se è sommamente impattante.

Oggi le pressioni perché l’opera sia completata ed in breve termine sono molteplici: comunità locali, Confindustria, i soliti sindacati, Associazione dei costruttori edili (Ance) e altri, compresi organi di stampa autorevoli quali Il Corriere della Sera. La solita commedia che viene recitata ogni volta che c’è una grande opera da realizzare. Qualora il Consiglio dei ministri desse il via libera nonostante il parere negativo dello stesso ministero dell’Ambiente, questa sarebbe a tutta evidenza una decisione di carattere politico e non già di compatibilità ambientale. Sarebbe lo sviluppo purchessia. E la Valutazione di impatto ambientale una barzelletta, come del resto, diciamolo, è stata quasi sempre fino ad oggi.

la Repubblica, 24 giugno 2017 (m.p.r.)

Sempre meno acqua e sempre più sprechi. I ricercatori del Cnr-Isafom (Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo) prevedono che il caldo di quest’anno non sarà un caso sporadico e potrebbe durare, come accaduto ciclicamente 1000 e 2000 anni fa, per circa 150 anni. «Occorre quindi intervenire al più presto per contrastare gli effetti negativi sulla disponibilità delle risorse idriche», dice la ricercatrice Silvana Pagliuca. In pratica, bisogna migliorare i sistemi di raccolta e distribuzione, e invece in Italia l’acqua si spreca a più non posso.

Secondo i dati di Utilitalia, federazione di 500 imprese dell’acqua, dell’energia e dell’ambiente, la percentuale media di perdita nelle nostre condutture idriche è del 39 per cento, con i picchi del Centro e del Sud (46 e 45 per cento). Principali responsabili di questi sprechi sono i 425 mila chilometri della rete dei nostri acquedotti, strutture vecchie, che per il 60 per cento sono state posate oltre 30 anni fa e per il 25 per cento hanno addirittura oltre mezzo secolo. Vecchie e senza manutenzione, per di più, perché il tasso nazionale di rinnovo è pari a 3,8 metri di condotte per ogni chilometro di rete. Per sostituire, come sarebbe necessario, l’intera rete occorrerebbero oltre 250 anni.
L’Italia non sa trovare i soldi per ristrutturare la sua rete idrica, servirebbero 5 miliardi di investimenti per fare la manutenzione ordinaria e per renderla più moderna. Ma a fronte di una media europea di 80 euro di spesa per abitante, nel nostro Paese si destinano soltanto dai 32 ai 34 euro all’anno per garantire che i rubinetti non restino a secco. E comunque, non è soltanto questione di soldi. «Per gestire le acque manca un sistema integrato tra le varie regioni - sottolinea Pagliuca dell’Isafom - è un problema politico, di governance intelligente».
E c’entrano pure la mentalità e le responsabilità individuali, perché ciascuno di noi continua a pensare all’acqua come a una risorsa illimitata e invece, ammonisce il presidente di Utilitalia, Giovanni Valotti, «occorre pensare l’acqua in modo integrato. Il suo viaggio continua anche dopo l’uscita dai nostri rubinetti e non è un caso che le maggiori novità scientifiche e tecniche riguardino proprio i processi di depurazione e gli usi dell’acqua depurata. Con quello che nelle generazioni precedenti veniva buttato nei fiumi, oggi si producono prodotti per l’agricoltura, plastiche e anche combustibile per le auto». Molto potrebbe essere fatto negli usi quotidiani, suggerisce Utilitalia, usando miscelatori acqua/aria per risparmiare dai 6 agli 8 mila litri anno, riparando subito le perdite da water e rubinetti, usando gli elettrodomestici a pieno carico, o facendo attenzione a non buttare via l’acqua dopo l’uso, se si può ancora utilizzare».
Ma il problema, è il caso di dirlo, va risolto a monte: «Nel nostro Paese ci sono delle zone di primaria importanza per le risorse idriche - spiega Silvana Pagliuca - bisogna istituire dei “santuari” dell’acqua, da proteggere e nei quali sia interdetto qualsiasi tipo di attività che possa metterli in pericolo. E poi è inutile creare grandi invasi a valle per raccogliere le acque, con il problema di dover poi impiegare enormi risorse per riportare l’acqua in punti più elevati. Meglio disseminare i rilievi di piccoli laghetti artificiali, capaci di immagazzinare sia le piogge, sia le acque che scorrono. I piani idrici di alcune regioni conclude la ricercatrice li avevano già previsti, ma poi sono rimasti sulla carta».

la Repubblica, 19 aprile 2017

QUANDO ponti, cavalcavia e viadotti non vengono spazzati via dalle scosse di terremoto o dalle bombe d’acqua dei nostri torrenti impazziti ma semplicemente vengono giù da soli, per di più con una frequenza impressionante, c’è da domandarsi a quale punto di degrado sia arrivata in Italia la gestione della cosa pubblica. Sei crolli in meno di tre anni, due dei quali solo negli ultimi 4 mesi, con il loro corredo di morti e feriti. Insieme al calcestruzzo armato delle nostre opere pubbliche si sbriciolano anche la credibilità e il senso civico di un paese che non impara mai dal suo passato, che dopo lo sgomento momentaneo, invece di capire e correggere gli errori compiuti, torna a paralizzarsi nel consueto rimpallo di responsabilità. È la stessa Italia che realizza opere ardite e gigantesche all’estero, che crea il terzo ponte sul Bosforo, che allarga il canale di Panama. La stessa Italia che in soli otto anni, tra il ’56 e il ’64, costruisce l’Autostrada del Sole, assicurandole un alto livello di qualità. Oggi quell’Italia non è in grado di programmare neppure la manutenzione di quello che ha costruito negli ultimi anni. Il ponte crollato sulla A14 nei pressi di Ancona è di appena un mese fa. Preceduto da altri cinque incidenti ravvicinati. Casi sempre più frequenti, che avranno anche cause diverse e diverse responsabilità. Ma che hanno in comune il marchio dell’incuria, del disinteresse, dell’ignavia.

C’è innanzitutto una ragnatela di competenze e di veti in cui gli stessi attori di queste vicende si sono ormai persi. Il tratto crollato ieri è targato Anas, che tuttavia si occupa solo di 25 mila chilometri di strade italiane, mentre la maggior parte delle arterie fa capo ai Comuni, alle Regioni e alle Province. Ma nel caso di ponti e viadotti, i confini non sono più così chiari. Ricordiamo ancora, dopo l’incidente di Lecco, le infinite discussioni tra Provincia e Anas per stabilire chi avesse la competenza. E ci sono poi le lungaggini dei provvedimenti che dovrebbero finanziare la manutenzione. Come il contratto di programma con i 5 miliardi per l’Anas, rimasto fermo per mesi.
Ma non è solo un problema di cortocircuiti burocratici. Inaugurare una nuova opera, soprattutto se di un certo rilievo, assicura ai politici, governativi o locali che siano, un ritorno in termini di consenso (almeno nel breve periodo) sicuramente più ricco di quello che accompagna un’opera di manutenzione. Poco importa ricordare che il calcestruzzo di cui sono fatti ponti e viadotti non ha una vita eterna. Che senza interventi, quella miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia, armata con sbarre di ferro e acciaio, dopo una ventina di anni comincia a dare evidenti segnali di cedimento. Soprattutto poi se nel tentativo di risparmiare tempo e denaro, si riduce la sezione dei tondini di ferro oppure si usa sabbia di mare invece che quella di fiume. In quei casi, opere anche recenti rischiano di sgretolarsi in un attimo. E qui entriamo nei territori della corruzione e del malaffare, di cui è tristemente lastricata la storia delle opere pubbliche italiane.
Malaffare a parte, c’è una domanda, tra le tante, che bisognerebbe porre all’Anas e al governo. Da chi sono pagati i collaudatori di ponti e viadotti, dall’ente appaltante o dalla società che ottiene l’appalto? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma solo in teoria: nello scandalo del Mose di Venezia, con il suo corredo di corruttele, chi collaudava l’opera era ricompensato dalla società realizzatrice. E sappiamo a quali disastri può condurre il conflitto di interessi.

Corriere della Sera, 8 novembre 2016 (m.p.r.)

Vecchi che piangono. Che resistono. Che non si arrendono. Pazienti in transizione, li chiamano i medici. Hanno perso tutto, devono andarsene ma non se ne vorrebbero andare. La somma di quel che manca ai sopravvissuti del terremoto è enorme: case, odori, rumori, umori, la memoria del corpo e degli affetti, le pietre, l’erba calpestata, i rintocchi di una campana. «La distruzione è un dolore immenso, il sisma è come una guerra. Dopo bisogna ricostruire», dice la psicanalista Lella Ravasi. «Ma i traumi non sono una sconfitta, possono diventare storie, memorie, una spinta per andare oltre. In quelle case polverizzate c’è il senso della vita, l’impronta di chi ci è stato». L’anima dei luoghi.

«È questo amore, questo rispetto, questa dignità che evoca la gente anziana dei borghi. È per quest’anima che vogliono tornare. Dentro la sofferenza c’è uno straordinario messaggio di vita, contro la terra che sprofonda, contro ogni tipo di deportazione. È la speranza che risale dopo un lutto, la forza di gridare che non si può perdere il rapporto con il luogo che sentiamo nostro, è l’umanità che va difesa e salvata», spiega. Nel dramma si pesano le cose che contano. «Si torna ai gesti primitivi, al valore dei sentimenti veri. Nell’attaccamento che abbiamo visto, anche da parte dei giovani, c’è il tentativo umano di andare contro la morte, di recuperare frammenti di memoria che danno senso alla vita».

Amatrice, Arquata, Ussita, Preci, Visso, Castelluccio, Fiastra, Sarnano, Camerino. Quanto pesa il dolore per gli anziani che hanno questi luoghi dentro la pelle? «Un peso schiacciante», risponde il gerontologo Carlo Vergani. «Il borgo amico è l’ancora di salvezza dei vecchi, l’ambiente dove affondano le radici. È quel che resta di una vita soggetta a continue perdite, che configura la loro identità». Si può reagire, si deve reagire.

«L’anima dei luoghi evoca dentro di noi la forza dei primi tempi di vita, bisogna guardare avanti per non soccombere», dice Ravasi. Gli anziani sfollati devono aggrapparsi a qualcosa, aggiunge Vergani, studioso della nuova longevità: «Quando il borgo crolla e le radici vengono estirpate, anche la sfida adattativa viene meno. Se la difficoltà supera la forza residua subentra la desistenza. La resa». E ricorda uno studio dell’università di Boston sulle persone anziane sopravvissute al terremoto del 2011 in Giappone: «L’allontanamento dalle case e dai vicini non solo può provocare problemi di salute mentale come il disturbo da stress post traumatico, ma può anche accelerare il declino cognitivo in chi è vulnerabile».

La sfida adesso è la ricostruzione, tornare e recuperare quei sentimenti che creano comunità. Ma come e con chi? Basta mettere le case in sicurezza? «No, non basta», dice Carlo Ratti, docente al Mit di Boston, «in certi posti non c’è più nemmeno lo scheletro delle case. Accanto al vissuto bisogna ricostruire uno spirito, portare in questi luoghi segnati da abbandono, il lavoro, i giovani, internet, la modernità delle tecnologie intelligenti. Bisogna dare valore. Si può pensare al turismo, dare gli incentivi, restaurare i monumenti, ma la vera svolta viene dal lavoro, attività produttive legate alla terra, agricoltura bio, qualità delle filiere diffusa attraverso la Rete». Ratti, teorico della smart city, pensa alla robotica che ha fatto fare un salto di qualità ai trattori della New Holland («Si guidano da soli nelle zone impervie») e ricorda l’investimento di Google in Boston Dynamics, la società di ingegneria che ha creato il mulo meccanico per l’esercito Usa. «L’anima antica e l’anima del futuro in questi luoghi può essere saldata con la terra. È importante creare nuove opportunità con la tecnologia, rispettando la storia. Se muore la Civitas, scompare anche l’Urbs. Per questo, con gli anziani, devono tornare giovani e lavoro». Per salvare un patrimonio che fa parte di noi.

La Repubblica, 30 ottobre 2016

CLAUDIO Bertini è morto al volante della sua auto perché nel cuore della Brianza per tre ore nessuno ha voluto fermare il traffico mentre un cavalcavia si sbriciolava. Anas e Provincia di Lecco si sono palleggiate la decisione, senza nemmeno provvedere a bloccare un tir da 108 tonnellate in marcia su quel viadotto letale.

Non è stata una fatalità ed esiste un responsabile chiaro: una macchina burocratica che ha perso il senso della realtà, tanto inefficiente da non riuscire a impedire un disastro annunciato. Lo schianto del ponte brianzolo è il punto terminale di una serie di eventi che mettono sotto gli occhi di tutti una situazione inaccettabile. Come è possibile che nessuno curi la manutenzione di un viadotto sotto il quale ogni giorno passano più di 80 mila vetture? Come è possibile che la strage più grave del terremoto di agosto sia avvenuta nelle case popolari di Amatrice, dove 22 persone sono state travolte da edifici pubblici dichiarati sicuri da pubblici ufficiali? Come è possibile che le scosse dell’Italia Centrale abbiano sbriciolato decine di monumenti restaurati negli ultimi anni e certificati come antisismici? È la dimostrazione che il sistema di regole e controlli non funziona. Che la nostra vita è affidata a un apparato incapace non solo di rispondere alle richieste dei cittadini ma addirittura di tutelare la loro incolumità.

Di sicuro, la corruzione ha avuto un ruolo importante nel minare i pilastri su cui scorre la nostra esistenza. La retata di mercoledì scorso ha evidenziato come nei cantieri delle grandi opere si usino materiali scadenti, «cemento che sembra colla» e si falsifichino tutte le verifiche. Da sempre la corruzione prospera nella cattiva amministrazione, sono due facce dello stesso problema. Ma le indagini delle procure di Roma e Genova mostrano una degenerazione arrivata al paradosso: gli incarichi per sorvegliare sulla qualità dei manufatti si sono trasformati in una tangente, perché venivano assegnati alle società degli amici degli amici proprio come compenso per il silenzio sulle malefatte edilizie. E chi doveva vigilare metteva ogni verdetto in vendita: bastava pagare per rendere perfetti binari che invece andavano demoliti, per trasformare una massicciata marcia nella fondamenta di una galleria.

I protagonisti di questo scempio sono una classe di professionisti e imprenditori che ha imparato così bene a convivere con la mafia da copiarne i metodi: come i corleonesi e i casalesi, hanno sostituito le vecchie bustarelle cash con i subappalti del calcestruzzo di bassa lega e alto profitto. E — come loro stessi rivendicano nelle conversazioni registrate — hanno trasferito nella Pianura Padana gli accordi criminali messi a punto nei cantieri della Salerno-Reggio Calabria. Ai costruttori intercettati la legalità non importava: «Io voglio fare solo i miei 54 milioni di lavori e portare a casa la pagnotta». Tutti sanno, nessuno denuncia. Perché i colossi tirati su con piedi d’argilla garantiscono guadagni ricchi e condivisi, tanto paga “zio Paperone”, ossia la collettività.

Questo male si è diffuso in tutto il Paese. Dal profondo Sud all’estremo Nord, dai sedicenti restauri antisismici delle chiese marchigiane alle infiltrazioni dei clan nei padiglioni di Expo. Ogni scandalo provoca ondate di indignazione, che non si traducono quasi mai in riforme concrete o interventi risolutivi: i problemi restano al loro posto, delegando alla magistratura punizioni che sono tardive o inefficaci. Le immagini agghiaccianti del viadotto che precipita sull’auto di Claudio Bertini invece devono rimanere come un monito per cambiare: chiunque poteva essere al suo posto, ovunque.

“ Nessuno denuncia Icolossi conpiedi di argilla garantiscono guadagni

Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016

“7 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.074 Comuni (il 77% del totale) sono presenti abitazioni in aree a rischio. Nel 31% sono presenti addirittura interi quartieri e nel 51% dei casi sorgono impianti industriali. Nel 18% dei Comuni intervistati, nelle aree golenali o a rischio frana sono presenti strutture sensibili come scuole o ospedali e nel 25% strutture commerciali. … nel 10% dei Comuni intervistati sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio”.

Nella premessa a “Ecosistema a rischio 2015″ di Legambiente i risultati riportati, inequivocabili. Dopo il recente Rapporto di Ispra “Dissesto idrogeologico: pericolosità e indicatori di rischio”, arriva la presentazione dei dati sull’esposizione a rischio frane e al rischio idraulico nei Comuni italiani e sulle attività volte alla mitigazione del rischio da parte delle amministrazioni comunali. Il trend ancora negativo. Come confermano i risultati dell’indagine. A partire da quelli relativi ad “Interi quartieri in aree a rischio”. Non singole abitazioni, ma parti di agglomerati urbani. Insomma spazi estesi nelle quali si concentrano grandissime quantità di persone. Si va dai 68 del Piemonte e i 51 della Lombardia, ai 33 dellaToscana, i 30 della Sicilia, i 29 delle Marche e della Calabria, i 27 di Campania e Emilia Romagna, i 23 del Veneto e i 20 della Liguria, passando ai 16 del Lazio, i 13 della Puglia, i 12 dell’Abruzzo, gli 11 della Sardegna, i 9 della Valle d’Aosta, i 7 del Friuli Venezia Giulia e dell’Umbria, fino ai 5 dellaBasilicata.

Molti altri gli elementi che contribuiscono a definire l’estrema precarietà nella quale si trova una gran parte dei territori italiani. I pericoli che insidiano parti considerevoli delle diverse regioni. Tuttavia ad aggravare il quadro un elemento nodale. La parzialità dell’indagine. Già perché, come è sottolineato nel Rapporto di Legambiente, i dati presentati costituiscono il risultato del questionario inviato a 6.174 amministrazioni comunali “in cui sono state perimetrate aree a rischio idrogeologico“. Questionario al quale hanno risposto in 1.444, dei quali 45 in maniera incompleta e “quindi non assimilabili agli altri”.

Il dettaglio, per regione, più che un semplice elemento statistitico, sembra un illuminante indicatore delle politiche, certamente comunali ma anche regionali, in tema di urbanistica e di controllo del territorio, oltre che di trasparenza dei dati. Così in Abruzzo 40 quelli che hanno fornito risposte su 253 interpellati. InBasilicata 26 su 123. In Calabria 60 su 408. In Campania 64 su 474. In Emilia Romagna 70 su 265. In Friuli Venezia Giulia 39 su 146. Nel Lazio 55 su 364. In Liguria 35 su 187. In Lombardia241 su 889. Nelle Marche 82 su 235. In Molise 11 su 119. InPiemonte 306 su 1.045.

In Puglia 52 su 181. In Sardegna 29 su 243. In Sicilia 63 su 271. In Toscana 74 su 275. In Umbria 27 su 92. In Valle d’Aosta 33 su 74. In Veneto 84 su 278. Numeri che, a prescindere dalle percentuali differenti riscontrabili nelle diverse regioni, sanciscono l’assoluta volontà di una cospicua quantità di amministrazioni comunali di non voler dare conto delle proprie decisioni. Di non aprirsi al giudizio dei cittadini. Proprio come è accaduto con il “Censimento del cemento” lanciato nel 2012 dal Forum nazionale “Salviamo il paesaggio-Difendiamo i Territori” con l’intento di analizzare capillarmente il numero e lo stato degli edifici costruiti, agibili e in buone condizioni ma abbandonati e inutilizzati.

“Delle circa 1000 risposte che in quattro anni sono arrivate al forum, la metà sono risultate negative. In altri casi invece (circa 250) le risposte erano incomplete o incongruenti rispetto ai dati ufficiali. Gli unici questionari compilati in maniera rigorosa, completa e con un buon indice di affidabilità, si sono dunque limitati ad una manciata di decine” ha scritto la Redazione nel febbraio 2016. Le difficoltà incontrate da Salviamo il Paesaggio le medesime di Legambiente. Le amministrazioni continuano, ancora troppo spesso, a cannibalizzare i propri territori e a disinterissarsi della loro sicurezza. Scelleratamente continuano a non essere “trasparenti”. Ad impedire che sia possibile usufruire di dati completi. Così quanto le due questioni siano tra loro in relazione diventa sempre più chiaro. Più macroscopico il legame tra un utilizzo disinvolto del suolo e l’ostracismo a fornire informazioni sulle politiche adottate.

Il 16 maggio è diventato legge il Freedom information act, il decreto previsto dalla Riforma Madia sulla Pa per liberalizzare l’accesso agli atti della Pubblica amministrazione da parte dei cittadini. La situazione che ha impedito la completa realizzazione delle operazioni del Forum e di Legambiente dovrebbe mutare. Ma non è detto che sarà davvero così.

pagheranno chi ha inquinato e chi non ha controllato?. Ilfatto quotidiano.it, 21 aprile 2016 (m.p.r.)

L’ammissione, clamorosa, arriva direttamente dal direttore generale della sanità veneta Domenico Mantoan: «Io sono tra i super esposti - dichiara il dirigente regionale parlando dell’emergenza Pfas, le sostanze cancerogene nelle acque delVeneto - perché ho bevuto per trent’anni l’acqua di casa mia a Brendola, nel vicentino. Ora ho fino a 250 nanogrammi per grammo di Pfas nel sangue». La Regione Veneto cambia passo sull’emergenza sanitaria e ambientale per le sostanze perfluoroalchiliche, di cui fino a poco fa discuteva riservatamente nelle riunioni tecniche definendola “fuori controllo”, e decide di uscire allo scoperto rendendo nota tutta la gravità del problema, insieme agli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Oms. «Più di 60mila persone residenti nelle zone a maggior impatto sono contaminate – spiega l’assessore regionale alla Sanità,Lucio Coletto – Altre 250 mila sono interessate dal problema».

Insieme a Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore di Sanità, a Marco Marcuzzi dell’Oms e al dirigente della sanità veneta Mantoan, l’assessore Coletto ha presentato i primi risultati del biomonitoraggio che la Regione ha realizzato con l’Iss sulla popolazione esposta ai Pfas, “possibili cancerogeni” per lo Iarc. Il risultato è che nel sangue dei veneti - e dei vicentini in particolare - scorrono quantità rilevanti di Pfas, un gruppo di composti prodotti per decenni dalla fabbrica chimica Miteni di Trìssino, nel vicentino, usati per l’impermeabilizzazione di pentole e tessuti, che hanno contaminato le falde acquifere delle province di Vicenza, Verona e Padova. La zona più colpita, dove si trovano i cittadini “esposti” (14 ng/g) e “super esposti” (70 ng/g), è quella compresa tra i comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo,Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego, in provincia diVicenza. Mentre la zona di controllo, a impatto minore, interessa i comuni di Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva,Loreggia, Resana e Treviso. Nell’agosto del 2013 è stata effettuata la messa in sicurezza degli acquedotti, tramite l’applicazione di filtri a carboni attivi che costano 2 milioni di euro all’anno. Ma fino ad allora l’acqua ha intossicato la popolazione.

Un’emergenza rimasta a lungo sotto traccia, tanto che le indagini sull’origine della contaminazione, iniziate nel 2013 in seguito a un esposto dell’Arpa, sono rimaste ferme per tre anni inProcura a Vicenza. Secondo gli inquirenti, per contestare il reato di avvelenamento delle acque sarebbero stati necessari i risultati di uno studio epidemiologico. Ora la Regione, sotto il coordinamento dell’Iss, fa sapere di volerne avviare uno “della durata di 10 anni” partendo dalle 60mila persone più esposte della provincia di Vicenza. Le analisi, promette l’assessore Coletto, saranno effettuate a carico della sanità regionale e verranno estese a tutti i 250mila cittadini dei comuni del Veronese e del Padovano coinvolti. Chi risulterà positivo agli esami verrà seguito con un protocollo di follow-up semestrale a partire da gennaio 2017.

I composti Pfas, ha spiegato la dottoressa Musmeci dell’Iss, sono “idrosolubili e vengono assorbiti rapidamente per via orale. Una volta nell’organismo, si legano alle proteine del plasma e del fegato, e vengono eliminate dai reni solo molto lentamente”. Secondo gli studi epidemiologici, effettuati sulla popolazione della Mid-Ohio Valley, negli Usa, e su quella tedesca, i Pfas possono causare «colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, effetti sui reni, patologie della tiroide e, nei soggetti iper esposti, tumore del testicolo e del rene». Lo studio avviato in Veneto potrà essere determinante per modificare la classificazione di cancerogenicità dei Pfas fatta dello Iarc, che per ora si basa su una letteratura limitata. Mentre l’Unione Europea sta elaborando, sulla base del caso veneto, una direttiva che imponga minuziosi controlli sui Pfas nell’acqua.

«La magistratura è sempre stata informata fin dall’inizio - spiega a ilfattoquotidiano.it l’assessore alla Sanità della Regione Veneto, Lucio Coletto - e per quanto riguarda i danni sanitari e ambientali, nei primi mesi del 2014 ho scritto all’avvocatura regionale chiedendo di valutare la possibilità di rivalersi nei confronti della ditta che ha inquinato». Una decisione che dovrà essere presa dalla giunta regionale, ma che per l’assessore è ormai “una scelta obbligata”. Così come la richiesta al governo, che verrà discussa nella prossima riunione di giunta, dell’istituzione di un nuovo sito inquinato di interesse nazionale.

La Repubblica, 5 aprile 2015 (m.p.r.)

VIiggiano (PZ). Un documento rassicurante. Distribuito a sindacati, funzionari regionali, esponenti della politica, il 22 febbraio scorso, in occasione della riunione del Tavolo regionale della trasparenza sull’industria petrolifera della Basilicata e in particolare sull’inquinamento al centro oli di Viggiano. Un documento che stride con i dati che si leggono nell’ordinanza di 800 pagine alla base dell’indagine della procura di Potenza. «Tutti e cinque i dirigenti Eni che avevano partecipato a quella riunione - osserva il segretario della Fiom lucana, Emanuele De Nicola - oggi sono agli arresti».

Il documento presentato da Eni poco più di un mese fa riporta dati tranquillizzanti. Sintetizza così i «risultati del monitoraggio ambientale» effettuato dei tecnici della società. «La qualità dell’aria è buona - si legge - con dati da 5 a 10 volte inferiori ai limiti normativi » e addirittura «migliori che nella maggior parte delle città italiane». In particolare, sempre secondo l’Eni, i flussi delle emissioni in atmosfera «si attestano intorno al 25-30 per cento dei valori autorizzati dall’Aia», l’autorizzazione integrata ambientale valida nell’Unione Europea. Un dato certamente soddisfacente. Ma proprio su questo punto il documento della società petrolifera differisce in modo clamoroso da quanto è stato accertato dai pm di Potenza. A pagina 27 dell’ordinanza si legge che le emissioni in atmosfera, nel solo periodo tra dicembre 2013 e luglio 2014 «hanno superato per ben 208 volte i limiti di legge». In particolare la tabella allegata all’indagine sottolinea il caso delle emissioni di biossido di zolfo (So2) del termodistruttore contrassegnato con la sigla E 20. Secondo la perizia affidata dai pm e la tabella conseguente l’So2 nel punto E20 ha superato i limiti di legge per 29 volte nel periodo aprile2013-marzo 2014. Tanto da spingere il gip a commentare: «Tale elevata frequenza di superamenti indica in maniera chiara che l’assetto impiantistico e i sistemi di controllo per tale punto di emissione non sono in grado di assicurare in maniera stabile il rispetto dei limiti».

Eppure proprio sul termodistruttore E20 la narrazione del documento consegnato da Eni alla riunione del 22 febbraio è completamente diversa. A pagina 21 del dossier sulle migliori pratiche per la riduzione delle emissioni si legge che nell’impianto sono state adottate le procedure migliori «per evitare o, dove ciò si riveli impossibile, ridurre in modo generale le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso ». Dunque in uscita dal termodistruttore, di fronte a un limite Aia di 200 milligrammi per metro cubo di So2 la tabella indica quantità «inferiori a 180 milligrammi». Ampiamente al di sotto dei limiti, altro che «elevata frequenza dei superamenti». Siccome il termodistruttore è lo stesso e l’inquinante anche, le due ipotesi possibili sono comunque inquietanti. Sia che ad affermare il falso per nascondere i problemi sia stata una multinazionale come l’Eni sia che, al contrario, a forzare la situazione siano stato i periti che hanno redatto la consulenza per il tribunale.

Quella sulle emissioni del termodistruttore è solo una delle contraddizioni più stridenti tra quanto si legge nel documento Eni e quanto sta scritto nell’ordinanza del gip di Potenza. La stessa Eni dichiara che non esiste alcun problema relativo alle acque di reiniezione così come sulla salubrità della falda e dei fiumi. Per quanto riguarda le acque sotterranee ci sarebbe «il costante rispetto dei limiti normativi» mentre il lago artificiale del Pertosillo, al centro delle preoccupazioni delle popolazioni locali per le morie di pesci, «soddisfa tutti gli standard imposti dalla normativa». Toccherà ora al processo stabilire chi ha scritto la verità.

Il manifesto e Il Fatto quotidiano, 19 marzo 2016

Il Fatto Quotidiano
ASTENSIONE SULLE TRIVELLE:
LA CEI SCOMUNICA IL PD
di Tommaso Rodano

La scomunica che non ti aspetti ha per protagonisti i vescovi italiani, per oggetto il referendum sulle trivelle e per destinatario, nemmeno troppo implicito, il Partito democratico, che ha invitato i suoi elettori ad astenersi. La Conferenza episcopale non prende posizione per il sì o per il no, ma chiarisce un punto: la gente va coinvolta e informata sull’argomento, non può essere sollecitata ad ignorarlo.

Dopo l’entrata a gamba tesa nel dibattito sulle unioni civili, dunque, i vescovi dicono la loro anche sul voto del 17 aprile, quello che deciderà se cancellare o meno la norma che consente alle società petrolifere di estrarre gas e petrolio entro 12 miglia dalle coste italiane anche oltre la scadenza delle licenze, fino all’esaurimento dei giacimenti. La discesa in campo è stata annunciata dal Consiglio Episcopale Permanente. I vescovi fanno sapere di aver discusso «sulla questione ambientale e, in particolare, sulla tematica delle trivelle» e hanno sottolineato «l’importanza che essa sia dibattuta nelle comunità, per favorirne una soluzione appropriata alla luce dell’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco”.
Nel testo di Bergoglio, manifesto dell’ambientalismo cattolico, il Pontefice invita l’umanità a «prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere» il riscaldamento globale. «Perciò - scrive il Papa - è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente». Da qui riparte la Cei.
La posizione è stata ulteriormente specificata dal portavoce, il monsignor Nunzio Galantino: «Non c’è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum, ma il tema è interessante e che occorre porvi molta attenzione. Gli slogan non funzionano. Bisogna piuttosto coinvolgere la gente a interessarsi alla questione. Il punto non è esser pro o contro, ma creare spazi di confronto». Esattamente il contrario di quanto indicato dalla maggioranza del Pd, che punta a sabotare il referendum di aprile invitando gli elettori a disertare le urne per far mancare il quorum (il 50%+1 degli aventi diritto).
Anche il mondo laico ieri ha preso posizione sull’argomento. Le voci critiche nel partito di Matteo Renzi non sono esclusiva della minoranza di sinistra (Roberto Speranza ha definito «inaccettabile» la posizione del partito). Tra i più polemici c’è Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia (una delle 9 che hanno promosso il referendum). «Sono pronto ad autodenunciarmi agli organi di garanzia del Pd: se ci sarà un ordine di astensione, sarò costretto a non rispettarlo». Emiliano ha raccontato un retroscena: «Ad agosto io e il presidente della Basilicata Pittella abbiamo incontrato il sottosegretario Vicari, a nome delle regioni critiche sul tema delle trivellazioni. Dopo qualche tempo, lo stesso Vicari ci ha comunicato che il governo non aveva più alcun interesse ad affrontare la questione. È stato solo dopo questa porta sbattuta in faccia che diverse Regioni governate dal Pd, a malincuore, hanno chiesto il referendum».
Sulle trivelle è tornato a parlare anche Romano Prodi. L’ex premier, pur senza appoggiare l’astensione, si è augurato il fallimento del quesito referendario: «Se dovessi votare, voterei certamente per mantenere gli investimenti fatti. Su questo non ho alcun dubbio anche perché è un suicidio nazionale quello che stiamo facendo. Quindi se voto al referendum voto no”.
Intanto però i movimenti referendari sono in fermento. E uniscono le forze per tentare la spallata a Renzi: i No Triv, gli insegnanti contro la “Buona Scuola”, i sindacati contro il Jobs Act, i comitati contro l’Italicum e la Riforma Costituzionale. Giovedì si sono incontrati a Milano, ieri a Roma, in una grande assemblea pubblica a cui hanno partecipato circa 300 persone. C’erano i giuristi Alessandro Pace, Massimo Villone, Domenico Gallo, Stefano Rodotà, e poi Maurizio Landini, Stefano Fassina, Moni Ovadia, Pancho Pardi, Sandra Bonsanti e tante altre personalità della società civile e delle associazioni. “Sarà una vera e propria stagione referendaria sia su temi istituzionali, sia su temi sociali – ha spiegato Villone –. Renzi ha paura: vuole frammentare le forze sociali e restringere gli spazi democratici. Bisogna lavorare insieme, senza dividersi, tutti i referendum sono di ognuno di noi: difendere la Costituzione con il No è cruciale, ma da solo non è sufficiente”.

Il manifesto
I NO TRIV: «SI VUOLE IMPEDIRE AI CITTADINI
DI ESERCITARE UN DIRITTO»

di Serena Giannico

«È stato deciso che questo referendum deve fallire!». Il coordinamento No triv della Basilicata risponde alla decisione del Pd, guidato dal premier Matteo Renzi, di boicottare il referendum, puntando ufficialmente sull’astensionismo. Dicendo, chiaramente agli italiani che non devono andare alle urne, il prossimo 17 aprile, perché inutile. I No triv non lesinano accuse. «La strategia imposta dal Governo centrale a un mese soltanto dal voto, - viene detto in una nota - si caratterizza come una squallida scelta dominante, volta a imporre l’ignoranza e dunque l’indifferenza dei cittadini sui problemi posti dai quesiti referendari e dunque ad impedire l’esercizio dei propri diritti».
Indice puntato, quindi, contro la segreteria Pd e i due vice-Renzi, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Questi ultimi, snobbando la verità, hanno affermato che se il referendum passa, nel settore del petrolio ci sarà un’emorragia di posti di lavoro. «Roboanti falsità - ribattono gli ambientalisti - ai quali fa da contrappasso l’assoluta assenza di contraddittorio riguardo ai posti di lavoro che, con le perforazioni in mare, si perderebbero nei settori della pesca e del turismo». I comitati denunciano il tentativo di oscurare la consultazione: «L’unico modo per far fallire il referendum del 17 aprile, dopo averle tentate tutte per impedirlo e metterlo in ombra, è quello di nasconderlo all’opinione pubblica.
La parola d’ordine del partito della Nazione è... astensione. Astensione degli italiani dal voto e prima di questo astensione delle televisioni, delle radio, dei giornali, dalla discussione e dalla campagna referendaria. Astensione anche da ogni pratica democratica di discussione e consenso. A tanto si è ridotta la democrazia in Italia. Il tutto a discapito della salute, delle bellezze e della ricchezza dei nostri territori».
E tra le Regioni? Che succede? «La Puglia pare sia l’unica, al momento, - affermano i No triv - che con Emiliano ha iniziato, insieme alla campagna elettorale per il Sì, anche una campagna per stanare l’ipocrisia di un partito. Ma cosa sta facendo il “governatore” Pittella per questo referendum? Cosa stanno facendo i politici lucani?». I No Triv della Basilicata si rivolgono anche alla minoranza dem, in particolare a Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza: «Cosa stanno facendo di concreto per il Sì? In che modo si stanno distinguendo da quanti stanno lavorando per il silenzio, per l’ignoranza, per la rassegnazione, per l’astensione di milioni di elettori?».

il manifesto e Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 (m.p.r.)



Il manifesto
I GUARDIANI DELLE TRIVELLE

di Andrea Fabozzi

«La minoranza dem protesta: “Chi ha deciso per l’astensione sul referendum?”. Durissima replica dei vicesegretari Serracchiani e Guerini: «Noi. E vedremo in direzione chi ha i numeri per usare il simbolo del partito”».

«L’astensione è la scelta dei gruppi dirigenti, non dei cittadini, militanti ed elettori del Pd. Che non la rispetteranno». È arrabiato Pietro Lacorazza, presidente del Consiglio regionale della Basilicata e frontman del comitato promotore del referendum sulle trivellazioni in mare. Il quesito è stato voluto da nove regioni, sette delle quali a guida Pd. «In totale sono oltre cento i consiglieri regionali democratici che si sono espressi per il Sì, e sto parlando di gente votata da migliaia di elettori, io ho avuto 11mila preferenze. Chi ha deciso di schierare il Pd per l’astensione? Chi rappresenta?».

«Scontro nel Pd» è più un revival che una notizia, le liti sono magma bollente nel corpaccione del partito, ma questa volta trovano nel referendum del 17 aprile un cono di risalita velocissimo. Anche perché il segretario non fa nulla per limitare l’eruzione. La nota dei suoi due vice dopo le prime proteste della minoranza è durissima. Alla domanda che arriva un po’ da tutti – «chi ha preso questa decisione?» – la risposta è «noi due». Firmata Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini.

I due vice devono dare corpo alla finzione, persino per questo presidente del Consiglio, e segretario Pd, sarebbe un po’ troppo invitare ad andare al mare direttamente da palazzo Chigi. Bettino Craxi quando lo fece, e gli andò male, era solo segretario del Psi; nemmeno Berlusconi osò tanto, disse solo che il referendum sulla legge 40 era «demagogico». «È inutile» dicono adesso i due vice, non il titolare, contraddicendosi un attimo dopo spiegando che il referendum è pericoloso per l’economia nazionale. Dicono poi, loro, che farà sprecare 300 milioni, ma è stato il governo a non volere l’election day per sperare nell’astensionismo.

Le correzioni però sono solo il preludio: «Vedremo lunedì in direzione (ecco dove si deciderà, ndr) chi ha i numeri a norma di statuto per utilizzare il simbolo del Pd». Frase durissima, da frazionismo di maggioranza si sarebbbe detto un tempo. O più da Grillo e Casaleggio che da Serracchiani e Guerini, si potrebbe dire oggi.

Ma mentre la minoranza si sgola - «la segreteria non si riunisce da mesi», dice il senatore Miguel Gotor - Legambiente e Greenpeace condannano la scelta astensionista - «scandalosa», «incoerente» -, su tutto il partito scende una cappa di imbarazzo. Mercoledì sera, richiesto di confermare la notizia apparsa sul sito dell’Agcom, lo sventurato Lino Paganelli (il dirigente Pd già addetto alle feste del partito) al quale era toccata la comunicazione burocratica, rispondeva solo: «È corretto», rifiutando ogni commento. Ieri il presidente della Puglia Michele Emiliano preferiva esorcizzare la notizia, mentre il lucano leader dei bersaniani Roberto Speranza faceva domande che potrebbero essere rivolte anche alla stessa minoranza: «Fino a quando si può andare avanti così?». Già, ma chi ha votato prima lo Sblocca Italia e poi la legge di stabilità contro la quale tenterà di agire il referendum? Lacorazza ha una sua lettura: «I parlamentari del Pd hanno votato tutta la manovra con la fiducia, non un singolo provvedimento, devono sentirsi liberi di votare anche Sì al referendum. Del resto, può un partito che si dichiara democratico fare l’appello all’astensione?».

È giornata di domande senza risposta, ma quantomeno la polemica serve a far parlare del referendum – siamo ormai al sedicesimo giorno di una teorica campagna elettorale. E ieri il direttore per l’offerta informativa della Rai Carlo Verdelli ha risposto alle proteste del movimento 5 Stelle. Promettendo che la tv pubblica darà «sempre maggiore spazio al tema del referendum abrogativo con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale». Come prova di buona volontà le 9 tribune politiche previste diventano 13. E saranno trasmesse non più in orari morti ma a ridosso dei Tg.
Il Fatto Quotidiano
TRIVELLE, IL PD SI ASTIENE. È CONTRO LE SUE REGIONI
di Virginia Della Sala

Perché un partito che porta nel proprio nome il richiamo alla sovranità popolare svilisce così gravemente un istituto fondamentale di democrazia diretta come il referendum? Per una forza nata in risposta al crollo della prima Repubblica, riecheggiare il Craxi che invitava gli italiani ad andare al mare invece di votare non mi pare un bel traguardo”. Domanda e osservazioni sono legittime, poste da Andrea Boraschi, responsabile della campagna clima ed energia di Greenpeace, il primo ad accorgersi della presenza del Partito democratico tra i soggetti politici favorevoli all’astensione per il referendum del 17 aprile.

In effetti, nella giornata di ieri, dentro e fuori dal Pd di democratico c’è stato ben poco. Dentro, perché la decisione di schierarsi per l’astensione non è stata discussa in assemblea né tantomeno era prevista nell’ordine del giorno della direzione nazionale di lunedì prossimo («analisi della situazione economica, ratifica commissariamento Pd provinciale di Caserta, varie ed eventuali» i punti all’ordine del giorno). Fuori, perché per molti parlamentari dem istigare ad astenersi dal confronto elettorale, nato poi dalla legittima richiesta di nove consigli regionali come previsto dalla Costituzione (ne basterebbero cinque) è un atto “fortemente antidemocratico”.
Una cosa è certa: il referendum sulle trivelle sta spaccando il Pd più di quanto non lo sia già. Fratture tra maggioranza e minoranza, tra Roma e Regioni, tra elettori e rappresentanti. Ieri, per tutta la giornata, nelle stanze di governo un po’ tutti chiedevano spiegazioni su quella parola, “astensione”, segnata nell’area Par Condicio dell’Agcom: dai civatiani a Sinistra Italiana, da Roberto Speranza ai parlamentari dem - passando per Stumpo, Cuperlo e Gotor - da Legambiente ai Verdi e fino ai Cinque Stelle (che hanno anche scritto al direttore editoriale Rai Verdelli per segnalare la criticità dell’informazione sul referendum).
Finalmente, un segno di vita nel pomeriggio. A rispondere, i vicesegretari del partito Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini: quello sulle trivellazioni è un referendum “inutile”, la decisione l’hanno presa loro “come vicesegretari”, e lunedì “sarà ratificata durante la direzione”. Poi, il colpo basso della spesa, quei 300 milioni di euro che si spenderanno per la consultazione e che sarebbero potuti essere destinati ad “asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente”. Ma che, è stata la pronta risposta trasversale, si sarebbe potuto evitare di spendere con un election day (ci vorrebbe un decreto legge ad hoc, aveva detto Alfano durante un question time in Parlamento a febbraio) e che in tanti hanno chiesto per settimane ricordando come, nel 2009, fossero state uniti i ballottaggi delle amministrative al referendum in materia elettorale.
«Per evitare i costi del referendum, sarebbe bastato indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative», ha detto il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd), che nella sua replica ha sottolineato come le Regioni - sette su nove targate Pd – avessero in origine provato a mediare più volte con il governo sul tema trivellazioni, ricevendo come risposta una comunicazione del sottosegretario Vicari: il governo semplicemente non voleva incontrarle. «Se il governo avesse voluto discutere, avremmo potuto certamente evitare il referendum sin dall’inizio». Conferma del fatto che l’obiettivo è, prima di tutto, togliere potere decisionale alle Regioni in tema ambientale. Come per gli inceneritori.
Tra le motivazioni di Guerini e Serracchiani, quella dei presunti posti di lavoro che si perderebbero se il referendum dovesse abrogare la legge dello Sblocca Italia, che estende le concessioni fino all’esau - rimento del giacimento. Una prima risposta era già arrivata dai comitati No Triv: la prima concessione entro le 12 miglia scadrà tra almeno cinque anni e molte hanno ancora diverse proroghe di cui godere (il referendum chiede che non siano rinnovate alla loro scadenza). Emiliano è stato ancora più preciso. «Ho sentito questa affermazione erronea anche dal Segretario nazionale del partito durante una lezione alla scuola di formazione politica del Pd», ha detto prima di spiegare che, in caso di abrogazione, tornerebbe in vigore la norma precedente (legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti e che confermerebbe l’iter secondo cui il permesso di estrazione degli idrocarburi dura trent’anni, prorogabili per dieci anni e poi all'infinito di cinque anni in cinque anni senza alcuna interruzione della attività estrattiva. “Un sistema con processi di verifica e controllo migliori di quelli previsti nello Sblocca Italia. Stasera non sono contento del mio partito e del panico in cui cade troppo spesso nei casi in cui la coscienza si divide dalla verità”, spiega Emiliano. E sul fabbisogno? Secondo i comitati per il sì, le riserve di petrolio presenti nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico e quelle di gas appena 6 mesi.

Il manifesto
EMILIANO: «LA POSIZIONE DEL PD INGIUSTA E STRUMENTALE»
di Serena Giannico

«Referndum No triv. Il governatore della Puglia: “Il partito siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri”».

Ci sono tweet e post del governatore della Puglia, Michele Emiliano, a rendere più dura un’altra giornata nero petrolio del Pd. Perché le trivelle, pure le trivelle, spaccano il partito di Renzi. C’è la posizione ufficiale, quella che predica l’astensione al referendum del 17 aprile. Ma ci sono anche le Regioni, quelle che il referendum l’hanno chiesto e ottenuto. E 7 delle 9 regioni che hanno combattuto per il referendum (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) sono amministrate proprio dal Partito democratico.

E allora? Emiliano cinguetta: «Io e Barack Obama siamo contro le trivellazioni petrolifere marine. Il Pd italiano che fa? Il 17 aprile vota Sì». E infila il link di un articolo in cui si parla della decisione del presidente degli Stati Uniti di non approvare le piattaforme e perforazioni nell’Oceano. E poi aggiunge: «Obama vieta le trivellazioni petrolifere nell’Atlantico. E noi in Italia dobbiamo fare un referendum!!!». A chi sul social gli fa notare che la consultazione popolare nasce da precise scelte del Pd, Emiliano risponde: «Il Pd siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri». E invita a «non dimenticare che senza il Pd non ci sarebbe stato il referendum: l’opposizione impotente – sottolinea – si sarebbe divertita di più. Nel mio partito – aggiunge – siamo quasi tutti contro le trivellazioni e abbiamo chiesto e ottenuto il referendum». Poi, sul suo profilo Facebook, la faccenda viene trattata approfonditamente. Ed è una risposta al documento dei due vicesegretari del Pd che hanno bollato la consultazione popolare come «inutile» e costosa. «È sbagliata e ingiusta questa posizione – tuona Emiliano -.

Se il Governo avesse voluto discutere la materia con le Regioni avremmo potuto certamente evitare il referendum, sin dall’inizio. Non è certo colpa delle Regioni se il Governo non è tecnicamente riuscito a neutralizzare con il suo intervento legislativo anche il sesto quesito sopravvissuto. Per evitare i costi del referendum il sistema c’era e consisteva nell’indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative». Sarebbe bastato un decreto legge, come già accaduto in passato. Quindi Emiliano prosegue: «Addolora molto tutte le Regioni governate dal Pd che il nostro stesso partito sia così disinformato e facile a propagare luoghi comuni come fossero verità assiomatiche. Non ci pare uno stile degno di un grande partito leader della sinistra europea. Altrettanto falsa è la rappresentazione che l’eventuale accoglimento del quesito referendario superstite determinerebbe dei licenziamenti. Rattrista pensare – dice ancora Emiliano – che tutto questo che ho rappresentato possa diventare irrilevante o falso solo perché la maggioranza del Pd lunedì voterà a schiacciante maggioranza in direzione, senza nemmeno aver inserito il punto all’ordine del giorno».

Secondo il governatore pugliese si sarebbe potuto discutere in assemblea «solo pochi giorni fa, per sanare la posizione di astensione del Pd improvvidamente anticipata». Una posizione «anch’essa strumentale perché il vero scopo è impedire il raggiungimento del quorum e negare alla maggioranza del popolo italiano di esprimersi».

La Repubblica, 10 febbraio 2016

Bari. «Scateniamo il paradiso. Faremo qualunque cosa per salvarlo» aveva protestato il sindaco delle isole Tremiti, Antonio Fantini. Un mese più tardi, la società Petroceltic rinuncia ad andare a caccia di petrolio al largo delle isole tra la Puglia e il Molise. «Essendo trascorsi nove anni dalla presentazione dell’istanza, periodo durante il quale si è registrato un significativo cambiamento delle condizioni del mercato mondiale (oggi il prezzo del greggio è di 30 dollari al barile,ndr).

Petroceltic Italia ha visto venir meno l’interesse minerario al predetto permesso» spiega la controllata italiana della società irlandese. Era quello che il ministero dello Sviluppo economico aveva concesso alla vigilia dell’ultimo Natale. «Il giorno prima dell’approvazione della legge di stabilità, con le modifiche normative introdotte in materia di autorizzazioni alle attività di prospezione per la ricerca di idrocarburi» ricorda il deputato del Pd, Dario Ginefra.
Dal ministero dello Sviluppo economico accolgono «con rispetto» la bandiera bianca sventolata dalla srl di stanza in Italia dal 2005. Federica Guidi è come se tirasse un sospiro di sollievo, perché nel tacco del Belpaese montava la rabbia a proposito di quelle perforazioni oltre le dodici miglia dalle Diomedee. Non per questo la titolare del Mise rinuncia ad affondare la lama della polemica nei riguardi del governatore Michele Emiliano, peraltro mai citato, che aveva capeggiato una vera e propria rivolta. «Spero adesso che, anche grazie a questa scelta» dice la Guidi «sia scritta una volta per tutte la parola fine a strumentalizzazioni sulle attività di ricerca in mare. Erano infondate già prima e lo sono, a maggior ragione, dopo la decisione della Petroceltic». Rincara la dose il viceministro pugliese dello Sviluppo economico, Teresa Bellanova: «Il governo non ha in nessun caso avuto l’intenzione di svendere il nostro mare».
Emiliano non ritira la mano che aveva scagliato la pietra contro l’esecutivo Renzi, accusato dieci giorni fa di essere «in trance agonistica, sta prendendo diversi pali in fronte, uno dietro l’altro, e quello delle Tremiti è il più grosso». Si limita a fare sapere: «Sono soddisfatto. Dove non era arrivato il buon senso di alcuni, è invece arrivata la saggezza della Petroceltic, che non ritiene l’operazione economicamente conveniente. Come del resto avevamo sostenuto all’epoca in cui il permesso di ricerca era stato rilasciato». Né arretra sul referendum No triv che non piace al premier, ancorché sdoganato dalla Corte costituzionale: «Andiamo avanti, più forti di prima, verso la consultazione popolare. Mi auguro che coincida con le elezioni amministrative. Ci mancherebbe che qualcuno spenda 350 milioni di euro degli italiani per sabotare il quorum».

Unacittaincomune.it, 10 febbraio 2016

Il Parco Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli sta vivendo momenti delicati. Non è ancora uscito dal grave dissesto economico che due anni fa l’ha portato al commissariamento e in queste settimane si rinnovano il Consiglio e il Presidente; a fine anno anche il Direttore.Contemporaneamente la Regione, guidata da un PD sempre più renziano e neoliberista, assesta fendenti all’area protetta minando la tutela di ecosistemi preziosi e unici. Questo anche perché, a fronte di una crisi economica che mette ferocemente in luce i limiti del nostro sistema di sviluppo, in tanti pensano ai parchi solo come ad un ostacolo alla libera attività economica o come a belle zone da sfruttare per gli scopi più diversi: dalla costruzione di residenze esclusive alla realizzazione di grandi eventi.

In linea con questa ideologia sviluppista ormai drammaticamente fallimentare, il consigliere regionale PD Antonio Mazzeo si sgola per dire che il Parco non deve costituire un limite e si affanna a omaggiare gli attori economici che chiedono di ridimensionare i confini del parco o di snaturarne i luoghi (es. la riapertura delle strade bianche). Estremizza così la linea già adottata da Regione Toscana, secondo cui le aree protette debbono diventare economicamente autosufficienti: in base a questa visione San Rossore è già stato trasformato in accampamento per gli scout, fondale per passeggiate di sceicchi e ora potenziale scenario per il G7. Difficile sorprendersi quindi della pur incredibile candidatura alla presidenza di Giuseppe Barsotti, imprenditore edile e rappresentante di interessi industriali: un lupo a guardia del gregge!

Mazzeo e il PD mostrano di essere imperdonabilmente ignari del significato e della storia del Parco, nato dallo sforzo di intellettuali di grande prestigio come Antonio Cederna e da un’appassionata e ampia sollevazione di popolo che hanno sottratto questo magnifico lembo di ambiente mediterraneo alla speculazione edilizia. Con la creazione di quest’area protetta è stata scritta una delle pagine più belle della protezione della natura in Italia: una pagina che l’incuria, l’ignoranza e soprattutto gli appetiti economici e politici vogliono evidentemente cancellare.

Il futuro del Parco è scritto invece nelle sue funzioni statutarie, tanto più importanti in un’area di altissimo pregio naturalistico al centro di un territorio fortemente urbanizzato. Oggi vanno affrontate sfide di conservazione difficili e ambiziose (il controllo degli ungulati, l’erosione costiera, ecc…), ma è anche il tempo di raccoglierne di nuove e avvincenti, come la valorizzazione di una nuova agricoltura compatibile con l’ambiente e lo sviluppo di una economia locale realmente sostenibile, in tutte le sue manifestazioni, turismo compreso. Per vincere queste sfide è necessaria un’ottica completamente diversa da quella di uno sfruttamento scriteriato e incontrollato delle risorse. Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli è un’area protetta che può dare tantissimo al territorio, sul piano economico, sociale e ambientale, ma serve una mentalità aperta e coraggiosa, non tornare indietro di sessant’anni!

Invece di mortificare continuamente i parchi con tagli economici e lottizzazione delle cariche, la Regione Toscana deve impegnarsi in un forte investimento in idee e risorse, a partire dalla redazione di un nuovo Piano del Parco. Occorre progettare liberi dal condizionamento di interessi spiccioli e immediati, trovare persone autorevoli, con elevati profili di competenza, appassionate e capaci di visioni ambiziose e di lungo periodo, in grado di coinvolgere tutte le forze positive dei territori. E’ con questo spirito che vanno valutati i candidati alla presidenza, non col miserabile e pericoloso bilancino della rappresentanza dei meno nobili tra gli interessi locali.

«Alfano tradisceun timore molto forte rispetto alla possibilità che si celebriquesto referendum e che,con esso, venga spazzata via lafilosofia dello Sblocca Italia checancella il ruolo delle autonomielocali e prevede un modellodi sviluppo basato sul greggio». Articoli di Serena Giannico e Andrea Fabozzi, il manifesto, 4 febbraio 2016 (m.p.r.)
ELECTION DAY. ALFANO DICE «NO». MA NON FINISCE QUI

di Serena Giannico

Un «no» secco, quello di Angelino Alfano: non ci sarà alcun election day che metterà insieme amministrative e referendum anti trivelle. Perché? «Difficoltà tecniche non superabili in via amministrativa: ci vuole una legge apposita». Questo ha affermato il ministro dell'Interno, durante il Question time della Camera, rispondendo a un'interrogazione di Sinistra italiana-Sel, primo firmatario Arturo Scotto.
Ma il Governo non se la caverà così, con una manciata di parole. «Noi infatti chiediamo un decreto legge», ha subito ribattuto il movimento No Triv. E lo stesso Scotto: «Alfano tradisce un timore molto forte che attraversa le stanze di Palazzo Chigi rispetto alla possibilità che si celebri questo referendum e che, con esso, venga spazzata via la filosofia dello Sblocca Italia che cancella il ruolo delle autonomie locali e prevede un modello di sviluppo basato sul greggio, invece che sull’ambiente e le energie rinnovabili...». Quindi il monito: «Ricordo ad Alfano che nel 2011 il suo ex capo Silvio Berlusconi scelse di non unire i referendum sul nucleare e l’acqua pubblica e le elezioni amministrative. E non fu una tornata elettorale fortunata per il centrodestra e vinse il popolo dell’acqua pubblica. I cittadini lo sanno e faranno prevalere il valore della partecipazione democratica a qualsiasi altro interesse o calcolo politico».
È rovente la questione election day. «Il Governo ha il dovere di garantire la più ampia partecipazione dei cittadini al voto e, nell’ottica della razionalizzazione e della riduzione delle spese dettate dalla spending review, ha l'obbligo di risparmiare denaro pubblico. Questi due obiettivi possono essere contemporaneamente centrati abbinando il voto del referendum al primo turno delle amministrative 2016, con un taglio di spesa di oltre 300 milioni di euro che andrebbero invece in fumo nel caso tali consultazioni si svolgessero in giorni diversi». Sono oltre 50 i parlamentari che, sulla faccenda, hanno fatto propria una mozione depositata alla Camera - prima firmataria è la deputata di Sinistra Italiana, Serena Pellegrino, ma è anche presente il Pd con Angelo Capodicasa - e che oggi sarà motivata in un incontro promosso dalla Fondazione UniVerde (presieduta da Alfonso Pecoraro Scanio) e al quale sarà presente il costituzionalista abruzzese Enzo Di Salvatore, autore dei quesiti referendari.
Election day sollecitato anche da Greenpeace con una petizione on line: oltre 55 mila adesioni in due settimane. E mentre il fronte no triv porta avanti la battaglia per la consultazione - il 14 febbraio è prevista, in proposito, un'assemblea nazionale a Roma -, la Corte Costituzionale ha pubblicato le sentenze con le quali, lo scorso 19 gennaio, ha dichiarato ammissibile il referendum.
Con la sentenza 17/2016 la Consulta da l'ok al quesito numero 6 e permette ai cittadini di andare alle urne per evitare che i permessi già accordati ai petrolieri entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la «durata della vita utile del giacimento». Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile concedere permessi di ricerca o sfruttamento. «Il quesito referendario – spiega la Corte - non comporta l'introduzione di una nuova e diversa disciplina, proponendosi un effetto di mera abrogazione al fine di non consentire che vi siano deroghe ulteriori rispetto alla durata dei titoli abilitativi già rilasciati. E - aggiunge - qualora l'effetto del referendum fosse di abrogazione, la salvaguardia ambientale resterebbe comunque oggetto di una apposita disciplina normativa, anche di origine europea».
Con la sentenza 16/2016, invece, la Corte dichiara estinto il giudizio di ammissibilità dei primi cinque quesiti referendari, sulla scia del pronunciamento della Cassazione dello scorso 7 gennaio. Tuttavia, sottolineano i giudici «resta impregiudicata la possibilità» di un «ricorso per conflitto di attribuzione avverso l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum». Circostanza già ben chiara a 6 Consigli regionali (Puglia, Basilicata, Liguria, Marche, Sardegna, Veneto), che, infatti, nei giorni passati hanno depositato presso la Corte Costituzionale proprio due ricorsi per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. In caso di accoglimento, sarebbero ammessi a referendum altri due quesiti sugli idrocarburi, quelli relativi alla proroga dei titoli sulla terraferma e al Piano delle aree. Quest’ultimo obbligherebbe il Governo a rifarsi ad uno strumento di pianificazione delle attività estrattive condiviso con i territori. In caso contrario, l’opinione degli enti locali non avrà voce in capitolo quando toccherà individuare le zone da perforare.
Nelle sentenze della Consulta è finito anche il voltafaccia del presidente della Regione Abruzzo, Luciano D'Alfonso. L'Abruzzo, inizialmente è stata tra le 10 Regioni promotrici del referendum, poi, di fronte alla Consulta, si è schierata contro le altre (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) e con Renzi al fine di evitare, alle multinazionali del greggio di affrontare il giudizio popolare. Dopo aver chiarito che «la Giunta regionale», che ha bypassato e snobbato il Consiglio, «non ha potere rappresentativo in ordine alla proposizione del referendum abrogativo», la Consulta ha respinto tutte «le prospettazioni della difesa dello Stato e della Regione Abruzzo» e ha dichiarato che il quesito sulle trivellazioni in mare «si presenta come unitario ed univoco e possiede i necessari requisiti di chiarezza ed omogeneità». «È proprio quello che avevamo contestato a D'Alfonso e a Lucrezio Paolini, delegato della Regione Abruzzo – commenta Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista -: si sono mossi senza mandato del Consiglio in un'operazione spregiudicata che ha disonorato la regione verde d'Europa. C'è anche da riflettere sul grado di subalternità alla politica di dirigenti e avvocatura che avrebbero dovuto rifiutare la propria disponibilità a questa evidente castroneria. Quella che ha ricevuto D'alfonso è la più autorevole delle pernacchie».
CACCIA ALLA DATA PEGGIORE PUNTANDO SULL'ASTENSIONE

di Andrea Fabozzi
Per quale ragione non potrà esserci l’accorpamento tra il referendum No Triv e le prossime elezioni amministrative Alfano non lo ha davvero spiegato. Rispondendo ieri alla camera all’interrogazione di Sinistra italiana, il ministro dell’interno ha elencato una serie di ostacoli tecnici al cosiddetto «election day», ma ha poi dovuto concludere che questi ostacoli sono superabili e sono infatti già stati superati almeno una volta - nel 2009. In realtà c’è anche un altro precedente, per quanto di diversa natura: il referendum consultivo sull’Europa che si tenne congiuntamente alle elezioni europee del 1989. In quel caso però non era previsto un quorum minimo di partecipanti, anche se l’affluenza risultò molto alta. Mentre nel 2009 malgrado l’accoppiata con le amministrative i referendum - sulla legge elettorale - si fermarono al 24% di affluenza e risultarono non validi.

Alfano nella sua risposta ha ecceduto in cavilli. Ha detto che c’è un problema di costi: quelli delle operazioni referendarie ricadono interamente sullo stato mentre quelli delle elezioni amministrative in parte sui comuni e in caso di accoppiamento non si saprebbe come dividerli. Ha detto che le leggi prevedono quattro scrutatori per le amministrative e solo tre per i referendum. Ha detto anche che non si saprebbe in quale ordine cominciare lo scrutinio - se dai Sì e dai No oppure dai candidati sindaci. Non ha citato, il ministro, l’unico argomento di qualche spessore, e cioè il fatto che nel referendum dov’è previsto un quorum minimo la scelta dell’astensione è scelta politica degna di rispetto e dunque l’accoppiata alle urne può avere un effetto distorsivo.
L’argomento in effetti è complesso, anche se il dibattito tra i costituzionalisti può dirsi confinato all’orizzonte teorico visto il concreto calo di affluenza che accomuna da anni elezioni politiche e amministrative: l’accorpamento non è più garanzia di superamento del quorum. La risposta di Alfano conferma però che il governo ha talmente paura di questo referendum che non rinuncerà a creare ostacoli agli avversari delle trivelle. La preoccupazione è politica, visto che a ottobre Renzi ha deciso di giocarsi tutto su un altro referendum - quello confermativo della revisione costituzionale - e non vuole cominciare l’anno con una sconfitta referendaria.
Per l’«election day» - che secondo Sinistra italiana farebbe risparmiare 300mila euro - servirebbe una legge. E una legge fu fatta da Forza Italia (c’era anche Alfano) nel 2009, in non più di sei giorni netti tra camera e senato. Ma oggi non sono questi i piani del governo. Che magari farà svolgere il referendum nell’ultima domenica utile, il 12 giugno. A un passo dall’estate e tra altre due domeniche elettorali (primo e secondo turno delle amministrative).

Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)

Le trivelle mandano sututte le furie la Puglia, ein particolare il suo governatore,Michele Emiliano.Il ministero dello Sviluppoeconomico ha autorizzato,con decreto - numero 176 del22 dicembre 2015 - ricerchepetrolifere - le ennesime - allargo delle Isole Tremiti. El’acredine tra governo e Regionesi è inasprita.Il provvedimento è arrivatodopo la presentazione del referendumantipetrolio da partedi dieci Regioni (Basilicata,Marche, Puglia, Sardegna,Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise) epoche ore prima che Renzi ecompany provvedessero ademendare la Legge di stabilità,con l’articolo 239, ripristinando,per l’intero perimetronazionale, il limite di 12 migliadalla costa per nuovi permessidi ricerca, prospezionee coltivazione di idrocarburi liquidie gassosi off shore.

L’autorizzazione del Mise èstata rilasciata all’irlandese Petroceltic,pubblicata nel Bollettinodegli idrocarburi del 31dicembre scorso e «riguarda -dice Angelo Bonelli, della Federazionedei Verdi - una superficiedi 373,70 chilometriquadrati e un’area dalla riccabiodiversità dove verrannoutilizzate le tecniche più devastanti,come l’air gun, per le ricerche.La società - continuaBonelli - pagherà allo Stato italianola cifra di 5,16 euro perchilometro quadrato, per untotale di 1.928,292 euro l’anno».Secondo l’esponente deiVerdi altri permessi starebberoper avere il nulla osta: daPantelleria al golfo di Taranto.Ma quello rilasciato per le Tremiti,che interessa anchel’Abruzzo (la zona di Vasto,nel Chietino) e il Molise (territoriodi Termoli) basta ad arroventarelo scontro politico.«Quest’attacco al nostromare - afferma il presidentedella Puglia Michele Emiliano- è una vergogna e una follia.Bisogna bloccare il progetto:in caso contrario, scateneremol’inferno».

E poi la stessariflessione che, in questi giorni,hanno fatto in molti. «Governoirresponsabile: da un latomanda in Gazzetta ufficialelo stop alle perforazioni edall’altro approva nuove ricerche.Faccio appello al presidenteMatteo Renzi affinchérevochi immediatamente leautorizzazioni. Tra l’altro - evidenziaEmiliano - alle Regioniera stato assicurato che la questione,dopo la modifica dellaLegge di stabilità, sarebbe statachiusa. Non può essere chela volontà di ben dieci Regionidi proteggere il proprio maresia sbeffeggiata».Tra l’altro, dopo i cambiamentinormativi, con l’introduzionedell’articolo 239, laCassazione, il 7 gennaio scorso,ha riesaminato e bocciatocinque dei sei quesiti referendariproposti per salvare le costedello Stivale dall’assaltodel greggio. «Con la Legge distabilità 2016 - spiega Enzo DiSalvatore, costituzionalista -sono stati soddisfatti tre deiquesiti referendari: il Parlamentoha modificato le normesu strategicità, indifferibilitàed urgenza delle attività petrolifere.

La Cassazione, in secondabattuta, d’altro cantoha ammesso solo il quesitosul divieto di trivellare in mareentro le 12 miglia dal litorale.Ma non va: le Regioni proponentisono pronte ad elevareil conflitto di attribuzionenei confronti dello Stato davantialla Corte costituzionaleriguardo alla durata di permessie concessioni di titoliminerari in mare e terrafermae sul “Piano delle aree”, necessarioper pervenire ad una razionalizzazionedelle attivitàpetrolifere». Intanto, domani,il referendum sarà all’attenzionedella Corte costituzionale.E sulle Tremiti, paradiso naturalisticoe turistico? «Duemilaeuro all’anno dati dalla Petroceltic...- riflette il sindaco,Antonio Fentini -, che dire?Magari servono a risanare il bilanciodello Stato...».

La ministra dello sviluppoeconomico Federica Guidi definiscele polemiche sterili:«Non si prevede alcun tipo diperforazione e quei permessiriguardano una zona di mareben oltre le 12 miglia dalla costae anche dalle isole Tremiti.Si tratta solo di prospezionegeofisica e non di perforazioni».«Che se ne fanno di ricerchese poi non possono procederecon le trivellazioni?», fapresente Di Salvatore. E aggiunge:«Il ministero si sbaglia,perché da una verifica effettuata,con la misurazionedei vertici, salta fuori che ilpermesso rilasciato per le Tremitiè in più punti entro le 12miglia». E quindi pronti con iricorsi al Tar.«Tutto l’Adriatico in pastoai petrolieri, dal Po al Salento».

Il coordinamento No Ombrina,Trivelle Zero Molise eTrivelle Zero Marche chiedonoinvece una moratoria immediata:«Bisogna agire anchea livello comunitario,manca la Valutazione ambientalestrategica e mancano leValutazioni di impatto cumulativee transfrontaliere. Il permessodi ricerca rilasciato davantialle Tremiti e a Termoliè solo un assaggio amaro. Perchétra poco sarà un vero eproprio far west con un quadrodevastante che si aggiungeràalle decine di titoli minerarigià in itinere».

i si intende tagliare tutto per guadagnare di più. La Repubblica, 12 gennaio 2016

A Parigi si è discusso come scongiurare il soffocamento da anidride carbonica, ma a Bologna si tagliano gli alberi. Cinquantamila, secondo le stime del Wwf, sono spariti lungo dodici chilometri del torrente Savena alle porte della città, mentre altri 30mila, stando alla denuncia di Legambiente, sono minacciati dalla costruzione di un ramo della Complanare cittadina e dall’ampliamento a quattro corsie della A14 fino alla svincolo per Ravenna. Interi boschi, che i naturalisti definiscono «spugne assorbi-carbonio » spazzati via.

Sul taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa.

La vicenda inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di autorizzare e controllare operazioni di questo tipo.

L’ente concede il proprio assenso con precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi «secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e Bologna dice addio a cinquantamila alberi, vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di vegetazione (30mila secondo il Wwf).

A parte l’incidente, che provoca la denuncia della Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario — sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».

Nell’esposto, il Wwf, oltre a ricostruire la vicenda e rimarcare lo sconfinamento in un’area di interesse naturalistico per biodiversità senza una preventiva valutazione di incidenza, condanna la formula dell’appalto «a compensazione» che invoglia le ditte ad attuare tagli indiscriminati per incrementare i guadagni senza rispondere a quei criteri «selettivi» prescritti dalla Regione. La denuncia si sofferma anche sulla costruzione di un arginello di contenimento ai lati del torrente in cui sarebbero stati mescolati all’argilla anche scarti di lavorazioni edili. Sulla vicenda si incrociano due opposte idee di gestione dei corsi d’acqua. Una di tipo idraulico e l’altra in cui prevale una visione di ecosistema.
«È oggettivo che adesso il torrente è più sicuro e regge le piene» afferma il sindaco preoccupato per l’incolumità dei cittadini. «Gli alberi ostacolano la corrente e provocano esondazioni». Versione opposta a quella del Wwf: «Al contrario, rallentano la corrente e difendono le sponde» spiega Bonafede.
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