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comune-info.net, 19 luglio 2018. Un atto d'accusa di Zanotelli contro Salvini e l'atavico razzismo italiano contro i Rom e Sinti, i popoli più maltrattati d'Europa. Per non rassegnarci a diventare barbari. (a.d.)

Non possiamo accettare questo razzismo di Stato così ben incarnato dal ministro degli interni, Matteo Salvini, contro i migranti. Ma Salvini si è scagliato con altrettanta forza contro i rom, che diventano il capro espiatorio per eccellenza. Le affermazioni del ministro a questo riguardo fanno veramente paura: ”Facciamo una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono, ripetendo quello che fu definito il censimento”. E poi, come noto, ha aggiunto qualcosa di ancora più pesante: “Sto facendo preparare un dossier al Viminale sulla questione dei rom. Quelli che possiamo espellere, facendo degli accordi con gli Stati, li espelleremo. Gli altri purtroppo ce li dobbiamo tenere”.

Sono parole pesanti dette da un ministro degli interni, parole razziste che ci riportano ai tempi del nazi-fascismo. L’onda nera della xenofobia e del razzismo che sta dilagando in Europa ha invaso ora anche il nostro paese. È mai possibile che ci sentiamo minacciati dai rom che non hanno mai avuto né una patria, né un esercito, né hanno mai fatto una guerra? In Italia sono circa 180.000 i rom residenti, dei quali solo 26.000 potrebbero essere espulsi perché non italiani e neppure comunitari.

Eppure Salvini, come ha fatto con i migranti, passerà dalle parole ai fatti mandando, come ha promesso, i bulldozer contro i campi rom. Siamo davanti a una “pulizia etnica”? “Capro espiatorio da secoli fino allo sterminio razzista del secolo scorso – afferma monsignor Nosiglia, arcivescovo di Torino – i rom e i sinti rivelano la disumanità di una convivenza, la nostra, che vuol dirsi civile, ma lascia nella miseria più nera e nell’emarginazione più amara’, figli del popolo più giovane d’Europa”.

Ho potuto toccare con mano in questi anni a Napoli quanto questo popolo viva nella “miseria più nera” e nell’emarginazione più amara. Solo nelle baraccopoli d’Africa, dove sono vissuto a lungo, ho trovato un tale degrado come l’ho trovato nei campi rom della metropoli campana. Per questo appena arrivato a Napoli, ho sposato la loro causa, insieme a padre Domenico Pizzuti, con il comitato campano con i rom perché sono gli ‘ultimi’ della società. Ho fatto mia la loro sofferenza ed emarginazione. Ho toccato con mano il razzismo nei loro confronti soprattutto nell’incendio dei campi rom di Ponticelli (scene vergognose!) e poi nelle minacce e insulti contro il campo rom di Via del Riposo da dove un centinaio di loro sono dovuti fuggire.

Tanti gli incendi dolosi come nell’insediamento di Viale Maddalena e di Casoria. Sono rimasto scioccato dallo sgombero, ordinato dalla Procura di Napoli, del campo di Gianturco, nel cuore di Napoli, dove vivevano oltre 1.300 rom, senza offrire loro un’alternativa. Abbiamo seguito poi il calvario di un gruppo di 250 di loro che hanno trovato rifugio nell’ex-Manifattura Tabacchi. Sgomberati da lì hanno trovato uno spazio nell’ex-Mercato Ortofrutticolo da dove oggi sono nuovamente minacciati di essere cacciati.

Stessa tragedia con i rom di Cupa Perillo a Scampia il cui campo è stato distrutto da un incendio doloso . Dopo tante dimostrazioni e proteste, dopo tante promesse del Comune, i rom di Cupa Perillo non hanno ancora trovato una soluzione. E ancora più drammatica per me è stata l’odissea dei rom di Giugliano: si tratta di oltre un migliaio di persone fuggite dalla guerra di Jugoslavia. Sono stati sgomberati dal loro insediamento dalla Procura di Napoli senza un’alternativa. Per anni hanno soggiornato per le campagne in uno squallore unico. Alla fine il Comune li ha posti nella zona ex-Resit, piena di rifiuti tossici! (Tanti deputati e senatori che hanno visitato quel luogo sono rimasti inorriditi, ma nessuno ha dato una mano!). Alla fine, il Comune li ha ricollocati in una conca fangosa e maleodorante indegna perfino per gli animali. E sono ancora lì. La tragica storia dei rom di Giugliano merita di essere portata in tribunale. La risposta a questa drammatica storia dei rom non può essere quella di Salvini, quella delle ruspe, dell’espulsione, ma quella di un serio esame di coscienza di come abbiamo trattato questo popolo, ma poi di serie politiche di inclusione, per far uscire questo popolo dalla miseria e dall’emarginazione.

Dobbiamo prima di tutto rimettere in discussione un razzismo atavico contro i rom che abbiamo tutti interiorizzato da secoli ed ora è cavalcato così abilmente da Salvini. Eppure il ministro degli interni ha giurato sulla Costituzione che obbliga lo Stato repubblicano a riconoscere e a garantire i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2). Non dimentichiamo che le politiche contro i rom sono state uno dei pilastri del fascismo. Per questo la senatrice Liliana Segre, che ha visto tanti rom cremati ad Aushwitz, nel suo primo intervento in Senato, ha detto che sarà sua priorità la difesa della minoranza rom in quanto è compito di ogni persona far sentire la propria voce per fermare questa onda nera che minaccia di travolgerci tutti. È compito di tutti noi alzare la voce in difesa degli ultimi della nostra società in questo preciso momento in cui il razzismo della gente contro i rom è diventato razzismo di Stato.

Repubblica Ed. Roma, 24 luglio 2018. La deriva xenofoba della sindaca di Roma, che ben interpreta quello che sembra essere diventato un razzismo di stato. (a.b.)

Con un Ordinanza della sindaca Virginia Raggi del 13 luglio scorso l'amministrazione romana aveva predisposto lo sgombro di circa 350 persone rom, tra cui 150 bambini, residenti da 13 anni all’interno del Camping River di Roma. Questo è l'ultimo di una serie di provvedimenti presi dall'amministrazione che violano i diritti umani. Il 22 giugno scorso sono state distrutte 50 unità abitative, obbligando gli abitanti a sistemarsi alla belle e meglio all' aperto e senza l'accesso a servizi primari come acqua e servizi igienici. Erano state precedentemente offerte agli abitanti soluzioni alternative, ma economicamente impraticabili o imponendo tempi troppo ridotti.
L'associazione 21 luglio, ha lanciato il 18 luglio scorso un appello e sostenuto l'azione di ricorso di tre abitanti, che ha sortito l'intervento della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che ha sollecitato il Governo Italiano a sospendere lo sgombro sino al 27 luglio e nel frattempo a presentare misure alternative. (a.b.)


Roma, la Corte Europea sospende lo sgombero del Camping River
Sgombero nuovamente sospeso al camping River. A fermare le operazioni, previste per questa mattina presto, è stata la Corte europea dei diritti dell'uomo dopo il ricorso dell'associazione 21 luglio. Lo sgombero dell'insediamento era previsto oggi dopo la notifica dell'ordinanza 122 del 13 luglio firmata dalla sindaca Virginia Raggi.

La decisione della Corte è giunta in seguito al ricorso presentato da tre abitanti del campo supportati dall'associazione 21 luglio. La corte "ha deciso nell'interesse della parti e del corretto svolgimento del procedimento dinnanzi ad essa, di indicare al governo italiano, a norma dell'articolo 39 di sospendere lo sgombero previsto fino a venerdì 27 luglio 2018" e, nell'attesa, ha chiesto al governo italiano di indicare nelle prossime ore le misure alloggiative previste per i richiedenti, la data prevista per lo sgombero esecutivo e qualsiasi sviluppo significativo dello sgombero del Camping River.

Il Campidoglio ha offerto ai residenti del Camping River che si fossero presentati con un regolare contratto di locazione, un contributo mensile di 800 euro per l'affitto per la durata di due anni. Ma, sostanzialmente, nessun locatore si è rivelato disposto ad affittare a nuclei familiari ampi, spesso composti da disoccupati e nullatenenti. Altra soluzione proposta è stata il rimpatrio volontario nei Paesi di origine, dietro pagamento di una somma fino a 3 mila euro, formula accettata da appena 14 persone nel campo. Mentre nei casi di famiglie con minorenni sono state offerte soluzioni di accoglienza per le madri con i figli, a costo però di separare i nuclei familiari.

A prescindere dalle operazioni di sgombero di domani la questione rom nella Capitale sembra destinata a tenere banco per tutta l'estate, nonostante si tratti di un tema che riguarda 4500 persone, tante ne ha censite il Campidoglio all'inizio dello scorso anno, e che anche contando sacche di irregolari non sembra arrivare nemmeno al doppio delle persone. Proprio per parlare della situazione domani è atteso l'incontro tra la sindaca e il ministro dell'Interno Matteo Salvini, che ha confermato la sua intenzione di "arrivare a zero campi rom, con le buone maniere, educatamente, rispettosamente, ma arrivare a quota zero". Il vicepremier ha anche definito la situazione dei rom nella Capitale "un casino totale".

Quella di oggi "è una vittoria pratica ma soprattutto politica. Questa risposta della Corte Europea di Strasburgo dice che il piano rom della giunta Raggi e nello specifico il Camping River, sta violando i diritti umani. Inizia oggi un contenzioso e vedremo dove ci porterà" dichiara il presidente dell'associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, che oggi si recherà in Campidoglio per consegnare alla segreteria della sindaca Raggi la risposta della corte di Strasburgo e le centinaia di firme raccolte per chiedere la sospensione dello sgombero. "Ora Roma Capitale - ha aggiunto Stasolla - dovrà spiegare alla corte in poche ore, visto che la scadenza è domani alle 12, quale sarà la soluzione abitativa per queste persone".

Nell'attesa del vertice di domattina, intanto, oggi alle 15.30, una delegazione di Associazione 21 luglio si recherà in Campidoglio per consegnare, presso la segreteria della Raggi, la risposta della Corte e le centinaia di firme raccolte in questi giorni nella mobilitazione on line organizzata per chiedere la sospensione delle azioni di sgombero.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

il Manifesto, 8 luglio 2018. Chiunque vive a Kibera viene ancora considerato un abusivo. Molto conveniente in quanto permette di sfrattare gli abitanti per fare posto alle infrastrutture e case per una città di "prima classe". Con commento (i.b.)

La Costituzione del Kenya del 2010, una delle più avanzate costituzioni sinora redatte nel mondo, sancisce il diritto alla casa come uno strumento per l'implementazione dei diritti socio-economici. Si pensava che questo avrebbe facilitato il riconoscimento dei quartieri informali e finalmente e definitivamente fermato gli sfratti di migliaia di persone da quartieri come Kibera.

Ma il neoliberalismo e voglia di modernità non si fermano neanche davanti alla costituzione. Kibera è troppo vicina al centro della città per lasciarla abitare dai poveri, e allora si invoca l'abusivismo, l'occupazione illecita di suolo pubblico. A Nairobi gli abitanti abusivi rappresentano ancora la stragrande maggioranza della popolazione, ma occupano uno spazio assai risicato della superficie della città. Fintanto che si trovano ai margini e in terre che non interessano alla speculazione i loro diritti vengono rispettati, ma se si trovano su suolo appetibile anche la Costituzione viene ignorata.

Vi rimando ad alcune pagine di diario che ho tenuto nel 2010, quando sono stata a Nairobi per condurre il lavoro sul campo della mia tesi di dottorato: "La Nairobi che ricordavo" e "Nairobi città divisa".
Per coloro invece che preferisco un testo scientifico e in inglese vi rimando a un articolo scritto nel 2015: "Production of Hegemony and Production of Space in Nairobi". (i.b.)

A Nairobi lo slum di Kibera sotto sfratto. Un’altra volta
di Fabrizio Floris

Per gli abitanti della grande baraccopoli di Kibera a Nairobi si torna a parlare di sfratto. L’avviso è stato affisso mercoledì e dà ai residenti 12 giorni di tempo per liberare lo spazio per la costruzione della Kibera-Kungu-Lang’ata, una strada che dovrebbe alleggerire il traffico sull’affollatissima Ngong Road.

Secondo il responsabile del settore infrastrutture Nyakongora, «sono presenti strutture illegali che devono essere rimosse. Pertanto abbiamo dato il preavviso dopodiché procederemo con la rimozione coatta».

Già all’inizio di giugno centinaia di famiglie sempre di Kibera sono rimaste senza casa per la costruzione della ferrovia. Può sembrare una questione semplice e lineare: c’è da costruire un’infrastruttura utile una strada o una ferrovia, un bene pubblico, che deve avere la priorità su interessi «privati», quindi deve avere spazio; inoltre in tale spazio c’è chi ha edificato abusivamente quindi non può avere nulla da eccepire. Ma non è così semplice.

In primis si tratta di abitazioni, ma dove non c’è una divisione tra spazio domestico e luogo di lavoro, nelle case si cuce, si produce, si cucina, lo spazio adiacente è il luogo di vendita: con la demolizione non si priva solo la gente della casa, ma anche del lavoro.

Secondo, non è l’abusivismo «italiano»: qui le persone sono arrivate prima delle infrastrutture. Kibera deriva da kibra che in arabo significa foresta: il terreno su cui sorge venne consegnato dall’esercito inglese ai Nuba che avevano servito la corona britannica.

Gli African King’s Rifles ricevettero agli inizi del secolo scorso i 250 ettari di terra dove vivono oggi i circa 800mila abitanti di Kibera, ma tuttora i certificati di proprietà sono incerti: nell’Africa orientale e in generale in tutta l’Africa subsahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le popolazioni, la proprietà della terra si basava sul concetto di proprietà comune. Inoltre, nel periodo coloniale non era permesso agli africani di essere proprietari di terreni né di costruire case.

Nelle città gli africani non potevano essere proprietari dell’abitazione così che una volta terminato il periodo di lavoro si fosse sicuri che sarebbero ritornati al villaggio. I residenti in città potevano possedere un permesso di occupazione del suolo per un tempo definito, un permesso di abitazione revocabile in ogni momento non trasferibile o ereditabile con cui era possibile costruire con materiale non permanente.

Nacquero così gli speciali «insediamenti indigeni», diventati oggi gli slums. Con la fine dell’epoca coloniale c’è stata una fortissima pressione migratoria verso le città perché lì tutti gli investimenti pubblici si sono concentrati puntando sulla presunta vocazione industriale dell’Africa

Sono arrivate migliaia di persone, senza un posto di lavoro ad attenderle; sono nate città che nel loro perimetro hanno case di fango e grattacieli, campi da golf e interi quartieri senza una pianta, buchi per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori internazionali e nelle vene dei malati di Aids così come nella cultura: incapace di creare una sintesi tra istanze differenti.

Ma il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificarne cultura e tradizioni come un bambino che tira una pianta per farla crescere più in fretta. La terra, la sua distribuzione, la proprietà, la città di diritto e la città di fatto sono rimaste un nodo psicologico ed economico che impedisce alla vita di scorrere.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Nairobi, 20 ottobre 2010. Ri-pubblichiamo le pagine di un diario di viaggio che racconta città africana e i suoi problemi. Seconda parte.

Ho pianificato questo viaggio a Nairobi da tempo… le amiche che mi conoscono bene direbbero che non avevano dubbi al riguardo!

Per me pianificare un viaggio non significa solo “mettere le mani avanti”, organizzare spostamenti, soggiorni, vaccinazioni, contatti, e pensare a questo e a quello. Significa soprattutto cominciare a “viaggiare con la testa” con largo anticipo rispetto al viaggio materiale, assaporando le emozioni e paure della partenza, vivendo la frenesia, e le curiosità prima nella mente che nella realtà. E’ un modo di allungare il viaggio. Ho sempre desiderato viaggiare, ma non per tempi brevi. E raramente i tempi di permanenza fisica in un luogo mi risultano sufficienti. In questo modo il mio viaggio a Nairobi lo faccio durare un anno!

Il problema di questo approccio è che nella mia mente si sono configurati spazi e tempi “immaginari”, situazioni, aspettative che non sono legate alla realtà, ma sono dettate piuttosto dai ricordi (ero stata a Nairobi altre due volte), dalle letture e dai racconti di altri (articoli, saggi, film, fotografie) e dal mio percorso individuale.



Toi Market, Kibera: il World Social Forum, 2007 (dell'autore)

Devo dire, che sono partita molto entusiasta, ma anche timorosa, non solo nei confronti della tesi, ma anche dell’ambiente nel quale avrei vissuto. L’esperienza del 2007, in occasione del World Social Forum (http://www.eddyburg.it/article/archive/345/) era stata, seppur breve, molto positiva e condivisa.

L’esperienza in Nairobi del 2004, molto più lunga (5 mesi) era stata invece frammentata perché facevo la spola tra Nairobi e Lamu, l’allora oggetto della mia ricerca, e segnata da un episodio violento capitato alle mie compagne di viaggio e da tutta una serie di piccole difficoltà con le quali dovevamo confrontarci quotidianamente.

Nel momento in cui si usciva di casa occorreva dotarsi di tutta una serie di precauzioni che in qualche modo mi dimpedivano di vivere la città come luogo di vita pieno, seppur temporaneo. Faccio un esempio: non tirare mai fuori la piantina della città se no venivi subito individuato come turista e quindi circondato da venditori di Safari e pseudo guide turistiche. Il che mi ha aiutato tantissimo peraltro a disegnarmi mentalmente una mappa della città e a sviluppare un orientamento alternativo rispetto a quello configurato dai segni e simboli a due dimensioni tipici della mappa bidimensionale.

Non usare il cellulare in strada, perché può esserti portato via in un batter d’occhio.
Non girovagare dopo le 5.30 del pomeriggio, cioè l’orario di punta in cui tutti tornano a casa, a meno che sei in un “recinto”.
Avere monetine in tasca in modo da non tirare fuori il portafoglio.
Non guardare negli occhi le persone, perché questo è il mio “segnale” di incoraggiamento per attacar bottone, chiedere l’elemosina, etc.
Essere circospetti con le persone che cominciano a raccontarti storie… la maggior parte delle volte si concludono con una richiesta di soldi. E via così…

Veduta dei quartieri diNairobi, dall’aereo, 2004 (autore sconosciuto)

Sono atterrata all’aeroporto Jomo Kenyatta al mattino molto presto, stava albeggiando… ero seduta verso il corridoio (la fobia dell’aereo è stata superiore al desiderio di vedere Nairobi dall’alto… poi me ne sono pentita della scelta!) e così non ho visto niente. Ero davvero eccitata quando sono salita in macchina con l’autista inviato dai miei amici che mi è venuto a prendere.

La prima impressione che si è sovrapposta a meraviglia con i ricordi, è quella che tante persone in Kenya si spostano a piedi. Ma non tanto e solo in zone pedonali, ma ovunque, anche luogo le highway. Eppure nonostate la maggior parte delle persone cammina, non ci sono marciapiedi, che possono essere considerati tali. Ma solo carraie ai margini della strada o tra una carreggiata e l’altra che si sono formate con il tempo al continuo passaggio dei pedoni. A questo è associato un traffico esasperante, inquinamento visibile - i tubi di scappamento delle auto emanano fumi neri e puzzolenti, come da noi decenni orsono) – e polvere rossa, bellissima, ma fastidiosa.

WayiakiRoad, October 2010 (dell'autore)
ThikaRoad, October 2010 (dell'autore)

Dopo anche solo un paio di giorni mi sono resa conto che la città è meno pericolosa e meno aggressiva del previsto, almeno in centro città. Il cosiddetto CBD (Central Business District) corrisponde alla cuore amministrativo, politico e finanziario della città. E’ l’unica parte della città davvero pianificata, con una griglia ortogonale molto rigida, dove si trovano gli edifici storici (del regime coloniale) e quelli moderni costruiti all’indomani dell’indipendenza (1963) e via via aggiunti nei decenni seguenti. E’ un centro come tanti altri nel mondo.

Non c’è più problema a usare il cellulare, ad aprire la cartina della città (che non faccio, sfidando la mia memoria e il mio orientamento), a camminare a piedi anche fin verso le 7-8 di sera. E sorprendentemente non vedo hawkers (venditori ambulanti senza licenza, che vendono cose da poco e specializzatissimi: solo banane, o solo piselli sgusciati, acqua, noccioline, giornali, etc.), beggars e i safaristi sono davvero pochi…

La città è anche più pulita, anzi è davvero linda! Ci sono panchine, aiuole fiorite, lampioni, persone ben vestite, tanti bar e ristorantini. Ururu hayway il limite sud del centro città e Ururu Park sono veramente attraenti. Insomma, lo spazio pubblico è davvero accogliente, posso tranquillamente sedermi da qualche parte a leggere il giornale non solo nel centro storico, ma anche in questo parco cittadino, senza problemi di essere importunata o assalita. Certo, nel parco è meglio stare nelle areee più affollate e lungo i sentieri dove ci sono anche i rivenditori autorizzati di bibite. Do comunque nell’occhio; di bianchi in giro non ce ne sono molti e certamente non si siedono all’aperto (e non credo sia solo una questione di sole). Ma volendo si può fare, ed è piacevole vedere le persone passare, sostare di qua e di là.

Non nascondo una certo apprezzamento di questo cambiamento, ma ricordando alcune letture ( in particolare “reclaming the streets di Coleman, 2004) e del progetto di “beautification” lanciato dal City Council di Nairobi un paio di anni fa, cerco di informarmi meglio e di scoprire come hanno fatto. Molto semplice! Il major ha emanato una serie di ordinanze che vietano agli hawkers di vendere, agli accattoni di chiedere l'elemosina, agli intermediari di attirare turisti nei negozi di souvenir o nelle agenzie dei safari, ai bambini di strada di accamparsi o gironzolare nel centro. Attraverso un gesto autoritario hanno rigenerato la città, giustificando la scelta attraverso una retorica tutta neoliberista che promuove la “città sicura”, una città innanzitutto sicura per gli affari. Attraverso questo discorso “securitario” si impone divieto a tutto ciò che è “nuisance” che può infastidire il “frequentatore privilegiato” del centro, che è l’uomo d’affari, colui che fa shopping, e che lavoro in uno di questi smart office. C’è anche il discorso di fare di Nairobi una “world class city” e quindi, tutte queste attività informali non fanno parte della buona immagine della città che si vuol dare. Ma tornerò su questo “immaginario” nei prossimi appunti.

Ma chissà che fine hanno fatto però i bambini. Mi dicono che sono stati messi in un orfanatrofio, dove stanno bene, sono sfamati, istruiti… alcuni scappano, ma la maggior parte rimane… immagino sia con le buone che con le cattive…

Gli ambulanti si accalcano nelle strade laterali, nella down town o si avventurano lanciandosi tra le macchine sulle strade. Al di fuori del recinto della business city, è sostanzialmente tutto immutato, anzi forse la povertà è aumentata alla faccia del comune che ambisce a trasformare Nairobi in "una world class city".

Nel dibattito circa questa rigenerazione del centro, la controversia è tutta dedicata all’aspetto “ambientale” e non a quello sociale. Cioè si contesta la validità di dotare Nairobi di così tante aree verdi e di limitare allo stesso tempo la cura all’Ururu Park.

Ecco un paio di video su You Tube che riguardano Nairobi:

http://www.youtube.com/watch?v=VQ5ajfveM7U
http://www.youtube.com/watch?v=RSsFTSB2G5A

Nairobi, 14 Novembre 2010. Ri-pubblichiamo le pagine di un diario di viaggio che racconta città africana e i suoi problemi. Quarta parte.

1. Il CBD/parte dellacittà formale e
Kibera/parte della città informale

E' arrivato il momento di descrivervi, per sommi capi e senza pretese di completezza o sintesi, come Nairobi sia sorta, ed evidenziare alcune dinamiche che hanno influito più di altre nel processo di trasformazione.
Senza questo quadro di riferimento diventa difficile comprendere alcuni meccanismi che regolano la vita urbana della città, apprezzare lo sforzo e la capacità di migliaia di persone nel affrontare una vita quotidiana in cui anche l’acqua potabile è praticamente un bene di lusso,
e cogliere appieno la profonda inequità nell’allocazione e nella gestione delle risorse che da sempre, anche dopo l’indipendenza, si perpetua e ha sancito il benessere e il malessere dei Kenioti.

La città coloniale

Fin dall’inizio, da quando la città fu fondata dagli Inglesi nel 1899 come deposito degli approvvigionamenti per la ferrovia (l’Uganda Railway che doveva collegare Mombasa al lago Vittoria) ci sono state più Nairobi. Da una parte, la città pianificata (secondo le regole europee) e debitamente servita da infrastrutture che teneva conto solo delle esigenze della popolazione europea (impiegati della ferrovia e amministratori della colonia) e dei commercianti, sia Europei che Asiatici. Parallelamente, cominciava a crescere un altra città, né pianificata nè dotata di servizi, abbandonata a se stessa, occupata dai lavoratori Africani, impiegati nei lavori più umili o in economie informali di pura sussistenza.

2. Nairobi 1909:
la suddivisione in quartieri peretnie

La divisione era allo stesso tempo spaziale e razziale, divideva la città in quattro settori distinti: a nord e a est il settore asiatico (quartieri di Parklands, Pangani and Eastleigh); a est e sud-est il settore africano (quartieri di Pumwani, Kariokor, Donholm); tra sud-est e sud c’era un’altra piccola enclave asiatica; nel settore a nord e a ovest c’erano le aree europee. (Vedi Fig.2).

Vorrei qui mettere in evidenza un primo elemento di questa particolare suddivisione, e questo richiede una precisazione di carattere geografico.
Il Kenya si estende a cavallo dell’equatore sulla costa orientale dell’Africa e Nairobi si trova nella parte meridionale, ai margini del cuore agricolo del paese. L’altitudine di Nairobi varia notevolmente: tra i 1460 mt e i 1920 mt sul livello del mare, e quindi con notevoli differenze climatiche e ambientali. L’altitudine minore si registra nei pressi dell’Athi River lungo il confine sud-orientale della città, quella maggiore sul confine occidentale.

Percorrendo la città circolarmente, si incontrano paesaggi tra loro molto diversi. Ad occidente, laddove gli Europei si erano insediati, il clima è fresco, ventilato e la zona è ricca di vegetazione, addirittura ci sono parchi e foreste. Ad oriente, la temperatura si alza, stare al sole può diventare insopportabile, la terra è arida o semi-arida, ci sono pochi alberi e la coltivazione è pressochè impossibile, se non sussidiata dall’irrigazione meccanica. E qui che agli Africani fu in un qualche modo consentito di accamparsi.

Ma torniamo alle regole coloniali vigenti nella città di Nairobi nella prima metà del XX secolo.
Attraverso l’emanazione di decreti reali, gli Africani furono spostati nelle aree meno appetibili - sia da un punto di vista di vivibilità ambientale che di produzione agricola - mentre il Vagrancy Act - una legge che limitava i movimenti degli indigeni al di fuori delle riserve – e altri decreti, ivi compresi quelli relativi alla demolizione di strutture non autorizzate e alla segregazione residenziale, consentivano invece di regolare e controllare il centro urbano.

Siccome nella città coloniale non vi erano stati inseriti quartieri residenziali per gli Africani, se non in pochissime quantità e generalmente riservati a coloro che lavoravano nelle case degli europei e più tardi ai civil servant, gli altri dovettero a loro modo farsi posto nella città, andando a formare quelli che verranno poi definiti quartieri informali o slum.

Molti Africani approdavano in città dopo essere stati depradati delle loro terre dagli Europei che volevano fare del Kenya una nuova Australia: “a white man land”. La costruzione della ferrovia, che serviva per trasportare materie prime dall’interno dell’Africa orientale alla costa, si era rivelata più costosa del previsto e occorreva compensare la spesa con altri servizi: il trasporto di merci kenyote. Ma quali merci, visto che il Kenya non era provvisto di ricche materie prime come metalli o petrolio? Il Kenya era stato colonizzato per poter accedere e collegare l’entroterra ugandese al mare, più che per sfruttare le sue risorse, ma poi si rivelò una terra molto fertile, sfruttabile per colture da esportazione (te e caffe), e così fu incentivata da parte dei colonizzatori britannici l’insediamento degli europei nelle “White Highlands” the terre più fertili del Kenya, che originariamente appartenavano soprattutto alla nazionalità dei Kikuio. Migliaia di persone che vivevano nelle aree della Rift Valley, e nelle aree appena fuori Nairobi, per esempio in Kiambu, Limuru, Ruiru, Kikuyo si trovarono senza terra e quindi senza alcun mezzo di sussistenza.

3. Distribuzione delle etnie
nel Kenyapre-coloniale

Alcuni migrano a nord, per poi essere nuovamente cacciati all’indomani delle due guerre mondiali, quando agli ex militari britannici vennero regalate delle terre, mentre altri raggiunsero la città di Nairobi. Alla fine della Prima Guerra mondiale, i primi otto quartieri informali, tra cui Kibera, Kangemi, e Kileleshwa, si andavano consolidando, e quella che diventerà una caratteristica saliente di Nairobi - una divisione socio-spaziale della città - prendeva forma.

Al settore europeo di Nairobi era assegnata una gran quantità di terra, l’ottanta per cento del suolo residenziale urbano a cui corrispondeva il 10% della popolazione, e quindi aveva la più bassa densità abitativa per ettaro; alle aree degli indigeni africani, corrispondeva invece un’ altissima densità abitativa. Alla fine del 1926 gli Europei possedevano 2,700 acri di terra, gli asiatici, prevalentemente originari dell’India, circa 300 acri, mentre gli Africani ufficialmente nulla se non le case che gli erano state assegnate.

4. Nairobi nel 1926.
Immagine tratta dalla storia diNairobi a fumetti,
“The struggle for Nairobi” (1994)

Nel mentre, il centro della città si arricchiva di nuovi edifici pubblici, compresa la Town Hall e il tribunale. Un nuovo piano “The Plan for a settler capital” veniva elaborato nel 1927: si basava sugli esempi delle città coloniali sudafricane rinforzando la suddivisione spaziale per etnie e mirava a normare gli usi, controllare l’accesso alla città, la demolizione di insediamenti considerati insani.

Ma la produzione di spazio, nonostante i decreti e la forza impiegata dal regime coloniale, rimaneva alquanto contestata. La concezione Africana dello spazio e la sua utilizzazione riusciva in un qualche modo ad affermarsi in aree come quella di Pumwani.

All’indomani della seconda Guerra mondiale a Nairobi c’erano circa 77,000 persone, un notevole aumento rispetto alle 40,000 che c’erano nel 1938. Di nuovo, l’aumento di popolazione era dovuto in gran parte al fatto che un’ ulteriore massa di africani si ritrovava espropriata della terra e in condizioni di indigenza.

5. L’espansione di Nairobi: - rosso: nucleooriginario (circa 1900);

- azzurro: piano del 1927; - marrone: all’indipendenza 1963


Nel 1948 veniva elaborato un nuovo piano per Nairobi, il “Masteplan for a Colonial Capital” che mirava a consolidare i confini della città, piuttosto che ad allargarli, ad arricchire il centro per trasformarlo, anche simbolicamente, in una capitale coloniale, a individuare aree industriali e attraverso le “Neighbourhood Unit Planning” a creare aree residenziali, distinguendole di nuovo in base all’etnia.

Nel periodo coloniale, il nuovo ordine imposto dagli Europei – in termini di concezioni e modelli spazio-temporali e di ordine politico e sociale, - aveva creato nuove identità (l’Europeo-ricco da una parte e l’Africano-povero all’altra estremità, con gli Asiatici nel mezzo) e si affermava come dominante. Il modello di urbanità imposto dal regime coloniale diventava la norma ed espressione della città formale, ovvero della città “autentica”. L’altra parte, la città costruita dagli Africani in maniera spontanea senza piani, si affermava come la città informale, cioè al di fuori della norma. A questo modello eurocentrico corrispondenva non solo una discriminazione su base etnica, che certamente era alla base della separazione, ma anche una discriminazione su base economica: i bianchi erano ricchi e i neri poveri.

All’indomani dell’indipendenza

Non erano mancati momenti di opposizione al regime coloniale: il movimento dei Nandi (1905-1907) e poi quello dei Mau Mau (1952-1960) furono quelli più importanti e violenti, ma nel 1963, repentinamente e pacificamente, fu raggiunta l’indipendenza grazie alla forza combinata dei nazionalisti, che raggruppava partiti politici, sindacati e associazioni etniche.

Nel frattempo la struttura della società era cambiata e un’altra classe di Africani, tra quella dei si stava formando. Il regime coloniale aveva avuto bisogno dei vari leader delle comunità per governare il paese, così come era stata necessaria la formazione di un esercito di civil servant Africani (dai maestri agli impiegati dell’amminitrazione coloniale) per la gestione quotidiana e capillare del paese. Questa “piccola borghesia”, andava pian pianino acquisendo una sua posizione economica e politica e sarà questa che formerà il governo della Republica del Kenya.

Con l’indipendenza gli Europei se ne ritornano in Europa e le loro terre venivano acquisite dalla “piccola borghesia” o dallo stesso governo. Attraverso il cosidetto “Million Acre Scheme”, finanziato con l’aiuto del governo Britannico e della Banca Mondiale, 1200 milioni di acri furono distribuiti a 35,000 famiglie. Altri programmi simili avrebbero dovuto redistribuire il resto delle ex terre agricole europee; invece oltre metà delle terre furono comprate direttamente dagli Africani più abbienti.

E così la stratificazione della ricchezza su base etnica si trasforma in una stratificazione su base puramente economica. Il Kenya diventò una classica “società neopatrimoniale” in cui i gruppi etnici o nazionalità –entità abbastanza flessibili nell’epoca pre-coloniale - si rafforzavano e si trasformavano i vere e proprie “tribù politiche” in competizione tra loro per l’accaparramento delle risorse disponili.

Il rapporto tra gruppi etnici e politica è assai complesso e molto legato a questioni di “identità”, “essere” e “appartenenza” come Patrick Chabal fa notare (consiglio l’interessante libro “Africa: The politics of suffering and smiling”, 2009). Il regime d’ordine che si instaura all’indipendenza e che previlegia di volta in volta il gruppo etnico a cui appartiene il capo dello stato e si tradurrà in una conduzione della stato volta a promuovere il benessere individuale e del clan dell’elite al potere, non può essere descritto solo attraverso il significato moderno di “corruzione”.

Mi riprometto di ritornare su questo aspetto e di spiegare meglio quello che Chabal intende, in un altra pagina di questo diario, riprendendo anche la questione della terra e quello che essa rappresenta nell’immaginario dei kenioti e di come questa sia il contenzioso più importante anche nelle trasformazioni urbane di Nairobi.

Quello che mi preme ora mettere in evidenza è che la nuova elite Africana, per una lunga serie di ragioni – tra cui l’eredità coloniale, la smania per la modernità e la difficoltà di conciliare l’interesse locale della propria comunità di origine e l’interesse generale della nazione - optò per la continuità delle strutture governative coloniali e per una accentuata stratificazione di classe. Nel Kenya indipendente, così come nel Kenya di oggi, l’esclusione sociale su base etnica, perpetuata dal regime coloniale, si trasforma in un esclusione sociale su base socio-economica. La smania dell’elite di arricchirsi e di previligiare la propria comunità di origine, piuttosto che dell’equità sociale e dell’interesse generale a scala nazionale, diventerà il motore del modello segregativo della città.

Volendo riassumere in cosa consiste l’eredità coloniale nel processo delle trasformazione urbane nominerei subito il modello segregativo, di cui ho già parlato. Ma si eredita anche l’incapacità di gestire la crescita urbana e gli slum, delle politiche territoriali volte ad evitare il coinvolgimento/partecipazione della popolazione povera della vita urbana; insediamenti a bassa densità e destinati ad una minoranza; e la mercificazione della casa e dei suoi componenti.

L’enorme disparità in densità e utilizzo del suolo di oggi è una manifestazione di questa segmentazione sociale: i nuclei ad alto reddito, che rappresentano il 10% della popolazione di Nairobi occupano oggi il 64% della superficie residenziale mentre i nuclei a basso reddito, che rappresentano il 55% della popolazione occupano solo il 6% della superficie.

Alla città regolare, pianificata, infrastrutturata e in un qualche modo controllata, luogo del potere, delle classi agiate e dei cosiddetti espatriati, delle banche internazionali, degli alberghi di lusso, dei mall e degli uffici, si contrappone “la città degli slum” costituita da agglomerazioni spontanee e per natura dei materiali “temporanee”, dove vivono migliaia di persone che di fatto sono esclusi dai beni e i servizi urbani di base come l’acqua, le fognature, i trasporti, le strutture sanitarie, le scuole e gli asili. E’ un spesso anche l’esclusione da un lavoro regolare e adeguatamente retribuito, dalla rappresentanza politica e dai processi decisionali.

Nel mezzo, c’è una middle class che certamente cresce e che lascia una traccia sempre più marcata nella città. Occupa quartieri di palazzine in cemento armato construite in varie epoche, ma che negli ultimi dieci anni si sono diffusi a macchia d’olio, occupa le case costruite dal governo e poi vendute o affittate ai suoi civil servants, occupa quartieri che dovevano essere di edilizia popolare ma che per i prezzi troppo alti non sono accessibili alla lower class. Assomigliano a quelle palazzine che vi ho decritto nel diario 3, dove io stessa ho vissuto per un paio di settimane.

Ma ora voglio parlarvi degli slum i quartieri dove metà della popolazione urbana del Kenya vive, facendo una premessa. Possiamo identificare una serie di caratteristiche comuni agli slum di tutto il mondo: possesso della terra molto incerto e non sancito da leggi; abitazioni precarie, costruite con materiali di fortuna e non rispondenti a standard abitativi minimi; altissima densità; una distribuzione sul territorio complessa, ma spesso in aree marginali e non ancora richieste dal mercato; assenza o scarsità di servizi (luce, acqua potabile, fognature, raccolta rifiuti); tassi di mortalità più alti che in altre zone. Ma ogni città, ogni slum ha delle caratteristiche peculiari, che dipendono dal processo di formazione dello slum stesso (qual’era il nucleo originario, le motivazioni dell’insediamento, le trasformazioni successive), i gruppi etnici prevalenti (ogni gruppo etnico ha una sua cultura, concezioni peculiari dello spazio e della vita sociale); l’età media degli abitanti; la permanenza media degli abitanti nello slum; il rapporto tra proprietari e affittuari, ecc.

Quello che io mi accingo a descrivere è la realtà di Nairobi, e in particolare faccio riferimento a due slum: Mathare (Fig. 6) e Kibera (Fig.7)

6. Vista dello slum di Mathare (foto di ValeriaPolizzi)

6. Vista dello slum di Kibera (autore sconosciuto)

Gli slum di Nairobi

Cosa sono gli slum
Slums, favelas, barrios, baraccopoli, insediamenti informali, sono parole che indicano dei quartieri costituti perlopiù da baracche addossate le une alle altre, costruite con vari materiali di fortuna (generalmente di scarto o di scarsa qualità) in assenza di un piano di lottizazione o simile, senza allacciamenti alla rete fognaria, elettrica e dell’acqua potabile. A Nairobi la densità abitativa negli slum varia da 15.000 a 85.000 persone per Km quadrato (vedi Fig. 7 e 8).

7. Gli slum di Nairobi, evidenziati sono quelli più popolosi

9. Nairobi: superfici, popolazione

e densitàabitativa di alcuni quartieri

Questi quartieri crescono per aggiunte progressive di unità, non comprendono scuole, servizi pubblici, strade o quant’altro ci si aspetterebbe da un quartiere ben pianificato e costruito. Può succedere che con il tempo, una serie di attività collettive e di servizio – dispensari farmaceutici, scuole, cliniche, servizi igienici, vengano costruiti. Spesso con l’aiuto di associazioni e la collaborazione degli abitanti, più raramente, con l’aiuto del governo o dell’amministrazione locale.

Questi quartieri si insediano su terre “libere”, generalmente alla periferia delle città, dove esiste meno “pressione” e dove il mercato immobiliare non si è ancora organizzato, ma possono anche svilupparsi in zone centralissime (un esempio è Kibera), vicino a fabbriche, in aree alluvionabili o a rischio, dove la pianificazione non prevede l’insediamento umano.

Le terre occupate possono essere pubbliche o private, e l’occupazione può essere illegale (squattering) oppure legale, nel senso che il proprietario ha concesso il permesso a queste persone di insediarsi (dietro pagamento di un affitto). Si può anche essere in presenza di una lottizzazione regolare, ma poi i lotti possono essere a loro volta frazionati e affittati o venduti, e poi edificati in assenza di un permesso a costruire.

Insomma la casistica è assai ampia e le condizione di occupazione del suolo, delle baracche e delle relazioni economico-sociali tra abitanti e possessori della terra e delle strutture dipende molto dalle condizioni socio-politiche locali. Questo fattore incide moltissimo sulla composizione sociale dello slum, e rappresenta un elemento chiave per capire le dinamiche di sviluppo del quartiere e delle variabili da considerare qualora si volesse intervenire per migliorare le condizioni abitative.

Vivere negli slum non è gratisVorrei specificare, che praticamente nessuno degli abitanti vive in queste baracche gratis. E’ da non credere, ma anche vivere in una baracca costa! Non solo ma alcuni servizi, l’acqua potabile in particolare, costa di più che in un quartire formale o addirittura in un quartire della high class dove i servizi pubblici sono arrivati. Negli slum infatti la fornitura d’acqua è lasciata completamente al servizio privato, che se ne approfitta.

La stragrande maggioranza degli slum dweller è in affitto, e paga la pigione al “proprietario della baracca”, che spesso è un “absentee landlord” cioè qualcuno che vive altrove (in una casa vera e propria) e che possiede ben più di una baracca. Spesso questo absentee landlord ha ottenuto la terra – originariamente pubblica o common land - come “dono” da un politico, che spesso gli ha anche rilasciato un certificato che ne attesta la proprietà. Ovviamente questa allocazione di terra ad un privato e per usi privati è illegale, la Costituzione non permetterebbe l’uso di terra pubblica per fini privati, ma è successo. Questa pratica, di dispensare terre pubbliche ai propri parenti, e agli appartnenti al proprio gruppo etnico, si chiama land grabbing ed è stata praticata fin dai primi anni dell’indipendenza e non è per niente scomparsa. E’ una delle forme più diffuse di corruzione insieme a quella dell’appropriazione indebita di fondi pubblici attraverso contratti fraudolenti.

Praticamente questi absentee landlord si fanno un sacco di soldi: la terra non l’hanno pagata, ma percepiscono settimanalmente una rendita, su cui ovviamente non pagano le tasse. Non c’è quindi da stupirsi che ci siano persone che hanno interesse a mantenere gli slum così come sono!

Chi sono le persone che vivono in questi quartieri
Per lo più persone normali che non hanno trovato altrove un alloggio adeguato alle loro possibilità di spesa. Sono persone che non hanno un impiego stabile e retribuito adeguatamente, oppure famiglie numerose che devono sopravvivere con un solo stipendio, donne con prole che non hanno altro aiuto al di fuori di se stesse. Tanti giovani provenienti dalle zone rurali in cerca di lavoro, di un opportunità nella vita che sia qualcosa di più della mera sussistanza che ti offre la campagna (sempre che non si siano ondate di siccità o altre calamità naturali). Talvolta, come mi è capitato di conoscere, persone con uno stipendio che potrebbe consentirli una sistemazione migliore, ma che per risparmiare (in genere per l’educazione dei figli) vive qui.

La città in Kenya, come in tutta l’Africa più generalmente, costrituisce ancora una forte attrattiva. Non sempre per le reali possibilità che questa offre, ma più per le potenziali opportunità che possono rappresentare. Le condizioni abitative nella casa di origine nei villaggi sono spesse migliori, o sembrano meno degradanti, di quelle che si ottengano trasferendosi in città e soprattutto a Nairobi. Ma qui, in città, ci sono tutta una serie di servizi, soprattutto la possibilità di studiare, di incontrare persone, di trovare un lavoro – per quanto precario sia – che in campagna.

Raramente i migranti rispondono allo stereotipo dell’abitante povero, analfabeta, e mal adattato. Essi provengono da tutte le classi sociali, e tendenzialmente con lo stesso livello di formazione scolastica, reddito e lavoro di quelli che da sempre hanno vissuto in città, anzi sono spesso quelli ad avere un educazione superiore alla media a lasciare il villaggio per andare in città, quelli meno ‘educati’ tendono a muoversi, in altri villaggi.

Il fatto di vivere in uno slum è uno step accettabile, il primo gradino della scala sociale, l’accesso alla città, in attesa di trovare un posto migliore, magari di studiare, farsi una posizione e quindi poi muoversi in un quartiere appena meglio.

La baracca: non più capanna e non ancora appartamento
La diversità degli slum di manifesta nelle risposte diverse alle necessità (dormire, mangiare, guadagnare, etc.) in una società in trasformazione. Il risultato è spesso di una contaminazione tra ancestrali tradizioni locali e modernità che passa attraverso l’uso generalizzato di beni di consumo e di tecnologie d’importazione (il cellulare primo fra tutti). Il legame con il mondo rurale di origine, è molto forte, e solo a livello di relazioni sociali, ma persiste nell’organizzazione spaziale città degli slum. La dimensione del villaggio e della casa rurale non scompare del tutto come riferimento culturale, comunitario e spaziale. Questo legame a livello di organizzazione spaziale e ambientale non è così evidente a prima vista perchè l’esportazione e l’adattamento della casa rurale nel contesto denso della città trasfigura i connotati e le qualità del modello originario.

La casa nello slum, come quella del villaggio, è fatta di materiali poveri reperibili sul luogo terra prima di tutto; nel caso della città sono soprattutto materiali di scarto come terra, cartone, lamiera, stoffa, pezzi di plastica, e quant’altro di recuperabile si trova nelle discariche. Non è certamente dotata di tutti i comfort di una casa “adeguata”, come d’altronde non lo è una casa rurale. Nello slum ogni nucleo familiare ha generalmente una sola stanza che serve un pò a tutto: l’ambiente è flessibile e c’è spesso commistione tra esseri umani e animali, la vista si svolge soprattutto all’esterno. Dove si trova il focolare. In campagna, il focolare trova spesso riparo in un altra capanna, per riparasi dalle piogge.

Il problema di questo modello abitativo “rurale” è che nella sua trasportazione e adattamento all’ambiente urbano si densifica, aumentando il carico antropico che diventa insostenibile per la terra e l’ambiente.

10. Abitazioni a Mathare (foto di ValeriaPolizzi)

11. Negozia Kibera (foto di Georgia Cardosi)

Ma cosa si è fatto per gli slum?
Con l’indipendenza il progetto era quello di eliminare tutti gli slum e di sostituirli con case adeguate, immaginate nella forma di palazzine moderne in cemento. Il governo aveva piani ambiziosi: assicurare ad ogni famiglia un’ unità abitativa accettabile che corrispondeva a due stanze, una cucina separata e un bagno.

Le strutture che non corrispondevano a questi standard erano da demolire, con il risultato che molti abitanti furono espulsi dal centro urbano per andare ad ingrossare le periferie informali

La Banca Mondiale aveva cominciato a promuovere i primi progetti di site and services e di upgrading. Alla base c’era l’applicazione del principio del self-help, ovvero “aiutare i poveri ad aiutare se stessi”.

Site and service significa che agli abitanti viene concesso un appezzamento attrezzato con I servizi minimi: allacciamento alle fognature, all’acqua corrente e all’eletricità, mentre è lasciato a ciscun individuo la responsabilità di costruirsi l’abitazione. Questa concessione non era gratuita, ma prevede un cifra da pagare a rate per andare a “recuperare i costi” e rendere il processo replicabile.

Lo slum upgrading è invece quel processo di recupero degli slum mediante la graduale sostituzione delle baracche con insediamenti umani più vivibili, dove i residenti abbiano possesso sicuro della terra, infrastrutture e servizi primari, e abitazioni adeguate.

Si andava affermando una nuova ortodossia: dall’edilizia pubblica popolare ( e sussidiata) si passava ad un edilizia popolare nelle mani del mercato, sollevando l’impegno ‘storico’ degli stati a provvedere per la popolazione più disagiata. Si preparava così la strada al ritiro massiccio del governo statale e locale nella fornitura di servizi che sarebbe avvenuta negli anni seguenti.

Il governo kenyota, nell’impossibilità di provvedere alle abitazioni necessarie e diventando il problema dei quartieri informali sempre più pressante, tenta strade alternative. Sulla scia del nuovo approccio promosso dalla Banca Mondiale, passa anch’esso all’ approccio più ‘pragmatico’ dell’upgrading e del site&service. Il primo progetto di questa generazione fu quello di Dandora che si prefiggeva di creare 6,000 lotti dotati di infrastrutture destinati a famiglie a basso reddito. Dati i costi, queste unità, andarono però a beneficiare le classi medie e alte e non i poveri per cui erano state inizialmente costruite.

A metà anni ’80 avviene un altro cambiamento, nell’approccio ai problemi degli insediamenti da parte della Banca Mondiale e di conseguenza alle altre agenzie e giù sino ai governi. Il mancato recupero dei costi dei progetti precedenti di upgrading (ritenuti quindi degli insuccessi prima di tutto finanziari), i programmi di aggiustamento strutturale - che spingevano alla privatizzazione dei servizi pubblici, delle risorse naturali, decentramento amministrativo e deregolazione del mercato (spesso in cambio della rinegoziazione del debito che i paesi via via accumulavano nei confronti dell’IMF) – e il ruolo strategico riconosciuto alla città come motore della crescita economica, fanno si che si individua un modello di intervento orientato ad un impegno minore dello stato verso il fare, e un impegno maggiore verso il far fare, ovvero verso le enabling strategies che significa “mobilitare risorse e capacità imprenditoriali per incrementare la produzione di abitazioni e infrastrutture”.

Negli anni ’90, di nuovo, il governo Keniota, sulla nuovo sulla scia delle raccomandazioni della Banca Mondiale, cambia approccio: anzichè assumersi il ruolo di fornitore principale di alloggi, crea incentivi che possano facilitare il recupero dei quartieri informali da parte sia di privati che di ONG. Il Mathare 4A Development a Nairobi, che è anch’esso un progetto di slum upgrading, rappresenta l’applicazione di questo approccio.

Seppur una qualche infrastruttura fu fornita e qualche miglioramento ottenuto, che questo metodo di intervento fu fallimentare; soprattutto perchè non compresero nè i bisogni primari degli abitanti, né il fatto che la maggior parte degli abitanti erano affittuari e non proprietari delle baracche esistenti.

Le cose da allora non sono cambiate molto, ci sono certamente più progetti, ma gli slum continuano ad esistere e la maggior parte dei progetti, seppur riuscendo a migliorae le condizioni di un certo numero di abitanti, rimangono una goccia in mezzo al mare.

Sia i programmi del passato che anche i più recenti progetti, pur nella diversità delle soluzioni proposte, sono simili nella rappresentazione del problema. Il modo in cui il problema è posto riflette una lettura univoca della realtà, che assume la città come un fenomeno sociale ed economico sostanzialmente omogeneo, e paragonabile a quello dei paesi occidentali. Il modello implicito di riferimento, perchè è sulla base del distanziamento della realtà dal modello, che un fenomeno viene considerato un problema, è una città in cui tutti si muovono con lo stesso tipo di razionalità, in cui le regole del mercato valgono per tutti e sono condivise, e che vi sia uno stato in grado di applicare le norme del diritto moderno, e che le esigenze e le aspirazioni individuali non possono che passare attraverso un’abitazione adeguata che consiste in una struttura di cemento (o simile) dotata di acqua corrente (possibilmente potabile), bagno collegato alle fognature, ed elettricità

Perchè, nell’era dell’abbondanza esistono ancora gli slum?

Ad oggi i dati quantitative sugli slum di Nairobi rimangono incerti, non solo perchè la popolazione negli slum cambia velocemente (una percentuale di abitatante è certamente transitoria) ma anche perchè la stessa quantificazione ha una sua “ragione politica” a seconda degli interessi dei diversi attori. Rivelare numeri alti permette di presentare il problema dello slum come “drammatico”, un caso eccezionale, degno di attenzione e quindi di fondi. Viceversa, ridurre la quantità al ribasso permette di considerare il problema sia “trascurabile” che affrontabile, non impossibile da risolvere.

Quindi da una parte abbiamo i numeri che le varie agenzie di sviluppo e ONG fanno circolare, strumentali per il reperimento dei fondi e il finanziamento dei progetti, che sono tantissimi, soprattutto nello slum di kibera, dove pare che ci sia una associazione attiva per ogni 50 abitanti. Dall’altra abbiamo i numeri presentati dal governo, che hanno convenienza a ridurre il problema.

Certamente l’aspetto “quantitativo” ha il suo peso, ma credo che occorra riflettere sull’aspetto qualitativo del problema, e ancora prima ragionare non tanto nè solo su quale sia il problema, ma su quail basi definiamo che un fenomeno sociale un problema.

I dati del Nairobi Urban Sector Profile (Un-Habitat, 2006) riferiscono che a Nairobi

oltre il 60% della popolazione vive negli slum, quindi a fronte di una popolazione urbana stimata intorno ai 3 milioni di abitanti, oltre il milione e mezzo vive in uno dei tanti quartieri informali che costellano la città e ne riempono gli interstizi. Secondo lo stesso documento è inoltre previsto che la popolazione che vivrà negli slum raddoppierà nei prossimi 15 anni.

Pensare che nei prossimi 15 anni non saremo capaci di trovare una risposta a questo problema è assai deprimente!

Quello che è preoccupante invece, dal mio punto di vista, è rappresentare il dilagare degli slum come se fosse un problema “naturale”, una calamità, qualcosa al di fuori del sistema, sul quale non possiamo interagire. Non solo e tanto perchè ci rende inermi, ma soprattutto perchè riflette uno schema mentale e una posizione ideologica per cui i fenomeni non sono considerati i prodotti di quello stessa sistema socio-politico ed economico nel quale viviamo.

Come possiamo essere arrendevoli e semplicemente anche solo pensare che il numero di persone che vivranno in queste condizioni duplicherà nel giro di 15 anni. Solo i barbari accetterebbero questo sistema!

Certamente il problema, non è semplice, soprattutto se questo assume valori quantitativi come quelli di Nairobi, e se calato all’interno di una realtà di paese non ricco, e di uno stato che denuncia carenze di risorse.

Quello che mi chiedo ogni volta che leggo un articolo, un libro su questo argomento e ogni volta che entro in uno di questi quartieri è: perchè oggi nell’età dell’abbondanza, della democrazia, dei diritti, della tecnologia, ci sono ancora persone che vivono nell’indigenza e sono soggette a uno stile di vita che da un punto di vista della lunghezza della vita e della salute, certamente è di una categoria infinitamente inferiore.

Ma credo che, per quanto banale possa essere, il problema principale sia quello di una volontà politica capace di fare accettare al popolo Keniota (e a tutte le agenzie e associazioni che intendono adoperarsi per dare una mano) che occorre individuare un modo per redistribuire più equamente le ricchezze e i benefici, che non si può accettare di far vivere migliaia e migliaia di persone senza un minimo di servizi, quando dall’altra parte si investono risorse per costruire una “world class city” fatta di superstrade, aeroporti, centri commerciali ricchissimi e via di seguito. Perchè è questo che sta succedendo a Nairobi. Nelle prossime pagine del mio diario vi racconterò di alcune opere in corso, dei progetti del governo, ma anche delle micro-imprese che si stanno portando avanti in tanti slum per migliorare le condizioni degli abitanti.

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