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Premessa del 31 marzo 2018
È con amaro stupore che, cercando in internet tre fondamentaliarticoli di Enrico Berlinguer, non siamo stati capaci di trovarli in nessunadelle raccolte di testi storicamente e politicamente rilevanti comparsi nelsecolo scorso. Si tratta del saggio, articolato in tre parti, nel quale EnricoBerlinguer, segretario nazionale del Partito comunista italiano, commentava igravi avvenimenti del Cile e proponeva un’alternativa storica e politica all’avanzatadel capitalismo nella sua fase più aggressiva. L’assassinio del leadersocialista e capo del governo cileno Salvador Allende venne organizzato alculmine di una feroce guerra civile programmata, organizzata, dagli Usa diRichard Nixon ed Henry Kissinger ed eseguita dal loro sicario cileno generale AugustoPinochet, aveva provocato una profonda riflessione, a conclusione della qualeil leader del Pci aveva argomentatamene avanzato la sua proposta di un nuovo“compromesso storico”.
Quando adoperava questa espressione Enrico Berlinguer nonsi riferiva certamente a un accordo politico tra la sinistra e la Dc, come la sciatta pubblicistica dei nostri giorni lascia credere. I suoi riferimenti storici più vicini erano l’accordo sostanziale (il “compromesso”) tra classe operaia eborghesia per sconfiggere l’alleanza tra Vaticano e latifondisti delMezzogiorno e realizzare l’unità d’Italia nel XIX secolo, e quello tra borghesia e popolo che aveva sconfitto l'assolutismo dell'aristocrazia feudale nella Francia del XVIII secolo.
Ripubblichiamo oggi (marzo 2018) sullanuova edizione di eddyburgqueste pagine smarrite, per consentire a chi frequenta la rete digitale diritrovarle, e di divenir consapevole di due fatti storicamente rilevanti: il fortunato e micidiale colpo di stato del neoliberismo in Cile e la meno fortunata riflessione di Enrico Berlinguer (e.s.)
Premessa del 27 marzo 2004
Il 28 settembre 1973, all’indomani del feroce colpo distato col quale il generale Pinochet abbatté il legittimo governo democraticodi Salvador Allende, Rinascita (larivista settimanale del Pci) iniziò la pubblicazione di un saggio di EnricoBerlinguer, che proseguì nei successivi numeri del 5 e del 12 ottobre. Lariflessione aperta da quel saggio provocò modifiche profonde nell’assetto dellapolitica italiana. Nel tempo, la comprensione dei suoi contenuti si annebbiò.Abbastanza rapidamente, bisogna dire, anche a causa dell’applicazione meramentetatticistica e di breve respiro che parte consistente del gruppo dirigente delPci diede della ricca intuizione di Berlinguer e della strategia d’ampiorespiro con cui la sua analisi si concludeva. «Il nuovo grande “compromessostorico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza delpopolo italiano», che nella visione del leader comunista postulava una profondarigenerazione delle forze politiche esistenti, venne spesso ridotto a miopiaccordi di potere con i partiti così com’erano.
L’11 settembre 2003 l’Unità ha riproposto integralmente le tre parti del saggiodi Enrico Berlinguer. Rileggerlo aiuta anche a comprendere come la politica nonsia necessariamente quella cosa cui Berlusconi e i suoi simili e successori l’hannooggi ridotta.
La tragedia cilena e il golpeche rovesciò Allende aprirono un serrato dibattito in Italia. Un paese chestava guardando con molta attenzione a quel che avveniva nella nazionelatinoamericana. L’Italia - conclusasi di fatto l'esperienza del primocentrosinsitra - aveva attraversato un momento molto difficile, con la svolta adestra del governo Andreotti che aveva escluso i socialisti e imbarcato iliberali. Il movimento operaio, dopo l'autunno caldo, era attraversato da undurissimo confronto di posizioni. Molte di queste posizioni partivano proprioda una «lettura» dell’esperienza cilena per riproporre, anche nel nostro paese,il governo di unità delle sinistre. Forti erano anche i riferimenti alleposizioni del Mir, la sinistra radicale cilena che pur sostenendo Allende, loincalzava. In questa situazione, all’indomani del golpe, il segretario del Pci,Enrico Berlinguer – con una procedura piuttosto insolita – pubblicò sullarivista teorica del partito, «Rinascita», tre saggi, che ripubblichiamo.Rifletteva sulla difficoltà di un processo riformatore in un mondo bipolare,affermava il principio che «non basta il 51 per cento» dei consensi pergovernare. Era l’avvio della strategia del compromesso storico, che avrebbesegnato l’atteggiamento del più forte partito comunista europeo per tutti glianni ’80. (e.s.)
28.09.1973
IMPERIALISMO E COESISTENZA
ALLA LUCE DEI FATTI CILENI
di Enrico Berlinguer


Gli avvenimenti cileni sono statie sono vissuti come un dramma da milioni di uomini sparsi in tutti icontinenti. Si è avvertito e si avverte che si tratta di un fatto di portatamondiale, che non solo suscita sentimenti di esecrazione verso i responsabilidel golpe reazionario e dei massacri di massa, e di solidarietà per chi ne èvittima e vi resiste, ma che propone interrogativi i quali appassionano icombattenti della democrazia in ogni paese e muovono alla riflessione. Non giova nascondersi che il colpogravissimo inferto alla democrazia cilena, alle conquiste sociali e alleprospettive di avanzata dei lavoratori di quel paese è anche un colpo che siripercuote sul movimento di liberazione e di emancipazione dei popoli latino-americanie sull’intero movimento operaio e democratico mondiale; e come tale è sentitoanche in Italia dai comunisti, dai socialisti, dalle masse lavoratrici, datutti i democratici e antifascisti.

Ma come sempre è avvenuto difronte ad altri eventi di tale drammaticità e gravità, i combattenti per lacausa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento o solocon la deprecazione e la collera, ma cercano di trarre un ammaestramento. Inquesto caso l’ammaestramento tocca direttamente masse sterminate dellapopolazione mondiale, chiamando vasti strati sociali, non ancora conquistatialla nostra visione dello scontro sociale e politico che è in atto nel mondo dioggi, a scorgere e intendere alcuni dati fondamentali della realtà. Ciò costituisceuna delle premesse indispensabili per un’ampia e vigorosa partecipazione allalotta volta a cambiare tali dati.

Anzitutto, gli eventi cileniestendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteridell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano lasopraffazione e la jugulazione economica e politica, lo spirito di aggressionee di conquista, la tendenza a opprimere i popoli e a privarli della loroindipendenza, libertà e unità ogni qualvolta le circostanze concrete e i rapportidi forza lo consentano. In secondo luogo, gli avvenimenti in Cile mettono in piena evidenza chi sono edove stanno nei paesi del cosiddetto «mondo libero», i nemici della democrazia. L’opinione pubblica di questi paesi, bombardata da anni e da decenni da unapropaganda che addita nel movimento operaio, nei socialisti e nei comunisti inemici della democrazia, ha oggi davanti a sé una nuova lampante prova che leclassi dominanti borghesi e i partiti che le rappresentano o se ne lascianoasservire, sono pronti a distruggere ogni libertà e a calpestare ogni dirittocivile e ogni principio umano quando sono colpiti o minacciati i propriprivilegi e il proprio potere.

Compito dei comunisti e di tutti icombattenti per la causa del progresso democratico e della liberazione deipopoli è di far leva sulla più diffusa consapevolezza di queste verità perrichiamare la vigile attenzione di tutti sui percoli che l'imperialismo e leclassi dominanti borghesi fanno correre alla libertà dei popoli eall’indipendenza delle nazioni, e per sviluppare in masse sempre più estesel’impegno democratico e rivoluzionario per modificare ulteriormente, nel mondoe in ogni paese, i rapporti di forza a vantaggio delle classi lavoratrici, deimovimenti di liberazione nazionale e di tutto lo schieramento democratico eantimperialistico. Gli avvenimenti del Cile possono e devono suscitare, insiemea un possente e duraturo movimento di solidarietà con quel popolo, un piùgenerale risveglio delle coscienze democratiche, e soprattutto un’azione perl’entrata in campo di nuove forze disposte a lottare concretamente control’imperialismo e contro la reazione.

A questo fine è indispensabileassolvere anche al compito di una attenta riflessione per trarre dalla tragediapolitica del Cile utili insegnamenti relativi a un più ampio e approfonditogiudizio sia sul quadro internazionale, sia sulla strategia e tattica delmovimento operaio e democratico in vari paesi, tra i quali il nostro.

Il peso decisivo dell’interventoUsa
Nessuna persona seria puòcontestare che sugli avvenimenti cileni ha pesato in modo decisivo la presenzae l’intervento dell’imperialismo nord-americano. La coscienza popolare l’ha avvertitoimmediatamente. Al di là di pur illuminanti episodi della cronaca politica ediplomatica relativa ai giorni del golpe e a quelli immediatamente precedenti,sta il fatto che, fin dall’avvento del governo di Unità popolare i gruppimonopolistici nord-americani presenti con posizioni dominanti nell’economiacilena (rame, Itt) e i circoli dirigenti dell’amministrazione degli Usa hannointrapreso una sistematica azione su tutti i terreni - dalla guerra economicaalla sovversione - per provocare il fallimento del governo Allende e perrovesciarlo.

Del resto, questo e altri modi diintervento degli Usa ai danni dei popoli e delle nazioni che aspiranoall’indipendenza non sono certo un’eccezione, ma, specialmente nell’AmericaLatina, la regola. Chi non ha presenti i brutali interventi in Guatemala, nellaRepubblica dominicana e in tanti altri Stati? E chi non sa che Cuba socialista,con la sua fermezza e con la sua unità, e grazie anche alla solidarietà e alsostegno dell’Unione Sovietica e degli altri paesi socialisti, ha dovutorespingere per anni manovre, provocazioni, boicottaggio economico, attacchidiretti al suo territorio e deve essere sempre vigilante per salvaguardareancor oggi la propria indipendenza?
Anche in altre zone del mondo, sitratti delle aree sottosviluppate dell’Asia e dell’Africa o si tratti deglistessi paesi di capitalismo avanzato (dal Giappone all’Europa occidentale) noncessano di manifestarsi la penetrazione dell’imperialismo americano e la suainiziativa, in tutte le forme possibili, per mantenere o estendere le sueposizioni economiche, politiche e strategiche.
Una situazione in movimento e di scontro
Che cosa può contrastare, limitaree far arretrare questa tendenza dell’imperialismo? La risposta più semplice èanche quella più vera: la modificazione progressiva dei rapporti di forza a suosvantaggio e a favore dei popoli che aspirano alla propria liberazione e ditutti i paesi che lottano per un nuovo assetto del mondo e per un nuovo sistemadi rapporti tra gli Stati. È proprio in questa direzione che va il processostorico mondiale da quasi sessanta anni, da quando la rivoluzione russa del1917 ha spezzato per la prima volta la dominazione esclusiva dell’imperialismoe del capitalismo. Da allora, e soprattutto dopo la vittoria sul nazismo, dopola vittoria della rivoluzione cinese e con il crollo del vecchio sistemacoloniale inglese e francese, l’area sottoposta al controllo dell’imperialismosi è andata restringendo. Sconfitta la politica folle e avventurosa chepretendeva poi rovesciare i regimi socialisti sorti dopo la seconda guerramondiale in Europa e in Asia (la politica del roll-back) le potenzecapitalistiche e gli stessi Usa sono ormai costretti a riconoscere che i regimisocialisti, ovunque esistenti, non possono essere toccati e che con essibisogna fare i conti e trattare.

Altri Stati, sorti dallo sfacelodel sistema coloniale, hanno potuto costruire e difendono con sempre maggiorevigore la propria indipendenza; e alcuni di tali Stati manifestano la tendenzaa orientare l’edificazione dei loro ordinamenti economici e sociali indirezione del socialismo. In questo quadro ha avuto e ha enorme portata lavittoria dell’eroico popolo del Vietnam, sostenuto dai paesi socialisti e da unpossente movimento internazionale di solidarietà, contro l’aggressioneamericana. Tale vittoria ha inflitto un nuovo duro colpo alle preteseimperialistiche, e rappresenta un nuovo determinante contributo al mutamentodei rapporti di forza nel mondo e al progredire di una politica di distensionee di pacifici negoziati nei rapporti fra gli Stati. Ma inoltre gli Usa sono oggicostretti a fare i conti con una crescente volontà di autonomia che si vienemanifestando, soprattutto negli ultimi anni, nei paesi dell’Occidenteeuropeo.

Infine, per grave che sia il colpoche viene dal rovesciamento del governo di Unità popolare in Cile, il moto diriscossa e di liberazione, che resta una realtà non cancellabile nei paesidell’America latina, non cesserà certo di esprimersi nelle forme più diverse edi trovare la strada per opporsi con successi anche parziali al dominionord-americano e alle cricche locali ad esso asservite. Non sta a dire proprioquesto il fatto che il colpo di Stato militare incontra nel popolo cileno esolleva in altri paesi latino-americani e ovunque una resistenza, una condannae una risposta quali non si erano verificate in occasione di altri colpi diStato reazionari?

Il riconoscimento della tendenzadi fondo che si va affermando nel processo storico mondiale - e che dà luogo, inultima analisi, a una progressiva riduzione dell’area del dominio delle forzeimperialistiche - non ci impedisce certo di constatare (e proprio dal Cile civiene in questi giorni un nuovo severo monito) che l’imperialismointernazionale e le forze reazionarie in molti paesi sono in grado di contenerela lotta emancipatrice dei popoli e in certi casi di infliggere duri scacchialle forze animatrici di tale lotta. Solo tenendo presente questo dato difatto, e cogliendo in ogni regione del mondo, in ogni paese e in ogni momentole forme concrete in cui si esprime o si può prevedere che si esprima, èpossibile evitare di essere colti di sorpresa, di cadere in errori e mettersiinvece in grado di organizzare e condurre un’azione rivoluzionaria edemocratica pronta e adeguata.
I due piani della lotta per la pace
Qualcuno si è domandato come siapossibile che interventi così brutali come quello effettuato in Cile dalleforze dell’imperialismo e della reazione continuino a verificarsi in una fasedella vita internazionale nella quale si vanno compiendo passi sempre piùspediti sulla via della distensione e della coesistenza pacifica nei rapportitra Stati con diverso regime sociale. Ma chi ha mai sostenuto che ladistensione internazionale e la coesistenza significano l’avvento di un’era ditranquillità, la fine della lotta delle classi sul piano interno einternazionale, delle controrivoluzioni e delle rivoluzioni?
La politica della distensione,nella prospettiva della pacifica coesistenza, è prima di tutto la via obbligataper garantire un obiettivo primario, di interesse vitale per tutta l’umanità eper ciascun popolo: evitare la catastrofe della guerra atomica e termonucleare,assicurare la pace mondiale, affermare il principio del negoziato come unicomezzo per risolvere le controversie tra gli Stati. Inoltre, la distensione e lacoesistenza, in quanto implicano la riduzione progressiva di tutti gliarmamenti e forme molteplici e crescenti di cooperazione economica, scientificae culturale, sia sul piano bilaterale che su quello multilaterale, sono unadelle vie per affrontare con sforzi congiunti i grandi problemi del mondocontemporaneo, quali quelli del sollevamento delle aree depresse,dell’inquinamento, della lotta contro l’indigenza e le malattie sociali,ecc.

La distensione e la coesistenzanon comportano di per sé, automaticamente e in un periodo breve, il superamentodella divisione del mondo in blocchi e zone di influenza, e quindi nonprecludono agli Usa la possibilità di interferire nei più vari modi, compresiquelli più sfacciati, nelle zone e nei paesi che essi vorrebbero acquisiti persempre dentro la sfera del loro dominio diretto o indiretto.
La divisione del mondo in blocchied aree diverse è un fatto che preesiste alla politica della distensione edella coesistenza in quanto è il risultato di tutto lo svolgimento del processostorico mondiale, dalla Rivoluzione d’Ottobre alla seconda guerra mondiale finoagli eventi, di diverso segno, di questi ultimi decenni che hanno determinatol’attuale dislocamento degli equilibri internazionali e interni. Né vadimenticato il peso negativo che esercitano sulla vita internazionale quelledivisioni fra i paesi socialisti che hanno il loro punto di massima serietà neicontrasti tra la Cina popolare e l’Unione Sovietica.

L’ulteriore mutamento dei presentiequilibri a favore delle forze del progresso dipende, in primo luogo, dallacapacità di lotta e di iniziativa del proletariato, dei lavoratori, delle massepopolari e delle loro organizzazioni in ogni singolo paese. Ma è anche evidenteche il progredire della distensione e della coesistenza costituisce unacondizione indispensabile per favorire il superamento della divisione del mondoin blocchi o zone d’influenza, per facilitare l’affermazione del diritto diogni nazione alla propria indipendenza e quindi, in ultima analisi, per ridurrele possibilità dell’interferenza imperialistica nella vita di altri paesi. Inpari tempo camminare decisamente sulla strada della distensione e dellacoesistenza significa sollecitare i processi di sviluppo della democrazia e dellalibertà in tutti i paesi del mondo, quale che sia il loro regime sociale.

Questa è la concezione che abbiamonoi della distinzione e coesistenza: una concezione dinamica e aperta, che simisura e si confronta con un’altra concezione, propria dell’imperialismo, ilquale, anche quando è costretto al negoziato con i paesi socialisti, pretendedi fissare il quadro mondiale allo status quo dei rapporti diforza in atto nel mondo e nei vari paesi. Da tutto ciò si conferma lanecessità di continuare a lottare tenacemente, sul piano internazionale, perfar avanzare il processo della distensione e della coesistenza e persvilupparne tutte le potenzialità positive e, al tempo stesso, di proseguire inogni paese le battaglie per l'indipendenza nazionale e per la trasformazione insenso democratico e socialista dell’assetto economico e sociale e degliordinamenti politici e statali.
Il nostro partito ha sempre tenutoconto del rapporto imprescindibile tra questi due piani. Da una parte, come ciha abituato a fare Togliatti, abbiamo cercato di valutare freddamente lecondizioni complessive dei rapporti mondiali e il contesto internazionale incui è collocata l’Italia. Dall’altra parte ci siamo sforzati di individuareesattamente lo stato dei rapporti di forza all’interno del nostro paese.
In particolare abbiamo sempre datoil dovuto peso in tutta la nostra condotta al dato fondamentale costituitodall’appartenenza dell’Italia al blocco politico-militare dominato dagli Usa eagli inevitabili condizionamenti che ne conseguono. Ma la consapevolezza diquesto dato oggettivo non ci ha certo portato all’inerzia e alla paralisi.Abbiamo reagito e reagiamo con la nostra iniziativa e con la nostra lotta.Tutti i tentativi di schiacciarci o di isolarci li abbiamo respinti. La nostraforza e la nostra influenza fra le masse popolari e nella vita nazionale sonoanzi cresciuti. Su questa strada si può e si deve andare avanti. Dunque,anzitutto, si tratta di modificare gli interni rapporti di forza in misura taleda scoraggiare e rendere vano ogni tentativo dei gruppi reazionari interni einternazionali di sovvertire il quadro democratico e costituzionale, di colpirele conquiste raggiunte dal nostro popolo, di spezzarne l’unità e di arrestarela sua avanzata verso la trasformazione della società.
In pari tempo, la nostra lotta ela nostra iniziativa vanno sviluppate anche sul terreno dei rapportiinternazionali, sia dando un nostro contributo a tutte le battaglie che inEuropa e in ogni parte del mondo possono condurre a indebolire le forzedell’imperialismo, della reazione e del fascismo, sia sollecitando una politicaestera italiana che affermi, insieme alla volontà del nostro paese di vivere inpace e in amicizia con tutti gli altri paesi, il diritto del popolo italiano dicostruirsi in piena libertà il proprio avvenire.

Decisi passi avanti possonocompiersi oggi in questa direzione perché le esigenze e le proposte che noiavanziamo si collocano in un quadro europeo caratterizzato da sensibiliprogressi della distensione e perché esse si incontrano con analogheaspirazioni e iniziative che si manifestano in altri paesi dell’Europaoccidentale. Da ciò abbiamo ricavato una linea che s’incentra nella proposta dilavorare per un assetto di pace nel Mediterraneo e per un’Europa occidentaleautonoma, pacifica, democratica. Lavorare per questo obiettivo non vuol direporre una tale Europa, e in essa l’Italia, in una posizione di ostilità o versol’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti o verso gli Stati Uniti. Chiciò volesse si proporrebbe qualcosa di assurdo, di velleitario e, in ultimaanalisi, di antitetico alla logica di una politica di distensione e di sviluppodemocratico per il nostro paese e per tutti gli altri paesi dell’Europa. Lalotta conseguente per questa linea di politica internazionale è partefondamentale della prospettiva che chiamiamo via italiana al socialismo.
Prime considerazioni sull’Italia
Gli avvenimenti cileni cisollecitano a una riflessione attenta che non riguarda solo il quadrointernazionale e i problemi della politica estera, ma anche quelli relativialla lotta e alla prospettiva della trasformazione democratica e socialista delnostro paese. Non devono sfuggire ai comunisti e ai democratici le profonde differenze tra lasituazione del Cile e quella italiana. Il Cile e l’Italia sono situati in dueregioni del mondo assai diverse, quali l’America latina e l’Europa occidentale.

Differenti sono anche il rispettivo assetto sociale, la struttura economica eil grado di sviluppo delle forze produttive, così come sono diversi il sistemaistituzionale (Repubblica presidenziale in Cile, Repubblica parlamentare inItalia) e gli ordinamenti statali. Altre differenze esistono nelle tradizioni enegli orientamenti delle forze politiche, nel loro peso rispettivo e nei lororapporti. Ma insieme alle differenze vi sono anche delle analogie, e inparticolare quella che i comunisti e i socialisti cileni si erano propostianch’essi di perseguire una via democratica al socialismo. Dal complesso delle differenze edelle analogie occorre dunque trarre motivo per approfondire e precisare meglioin che cosa consiste e come può avanzare la via italiana al socialismo.


05.10.1973
VIA DEMOCRATICA
E VIOLENZA REAZIONARIA
di Enrico Berlinguer


È necessario ricordare sempre leragioni di fondo che ci hanno portato a elaborare e a seguire quella strategiapolitica che Togliatti chiamò di «avanzata dell’Italia verso il socialismonella democrazia e nella pace». È noto che le origini di questa elaborazionestanno nel pensiero e nell’azione di Antonio Gramsci e del gruppo dirigente chesi raccolse attorno a lui e lavorò nel solco del suo insegnamento. Il Congressodi Lione del 1926 sancì la vittoria della lotta contro l’estremismo e ilsettarismo che avevano caratterizzato l’azione del partito nel primissimoperiodo della sua esistenza e che Lenin aveva aspramente criticato e invitatoenergicamente a superare. Il Congresso di Lione segnò l’avvio di quella analisicomunista della storia e delle strutture della società italiana che fu poi sviluppatae approfondita da Gramsci negli scritti dal carcere e negli orientamenti enell’attività del gruppo dirigente, guidato da Togliatti, che fu alla testa delpartito durante gli anni del fascismo e che lo rese capace di svolgere azionepolitica.
Ma il momento decisivo, per lavita del partito e per la vita del paese, dell’affermarsi e del pienodispiegarsi della scelta storica e politica che informa tutta la nostra azione,fu costituito dalla linea unitaria che indicammo e seguimmo nella guerra di liberazioneantifascista e dalla svolta di Salerno.
Dopo la liberazione, riconquistatele libertà democratiche, l’Italia si trovò nelle condizioni di paese occupatodagli eserciti delle potenze capitalistiche (Stati Uniti, Gran Bretagna).Questo dato di fatto non poteva davvero essere sottovalutato, così comesuccessivamente e ancor oggi non può essere sottovalutato il dato - che abbiamogià ricordato - costituito dalla collocazione dell’Italia in un determinatoblocco politico-militare. Dove, come nella Grecia del 1945, questa condizioneinternazionale non fu considerata in tutte le sue implicazioni, il movimentooperaio e comunista andò incontro alla avventura, subì una tragica sconfitta evenne ricacciato indietro, in quella situazione di clandestinità dalla qualeera appena uscito.

Ma non fu questo il solo fattoreche determinò le nostre scelte di strategia e di tattica. Il senso più profondodella svolta stava nella necessità e nella volontà del partito comunista difare i conti con tutta la storia italiana, e quindi anche con tutte le forzestoriche (d’ispirazione socialista, cattolica e di altre ispirazionidemocratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si battevanoinsieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la suaunità. La novità stava nel fatto che nel corso della guerra di liberazione siera creata una unità che comprendeva tutte queste forze. Si trattava di unaunità che si estendeva dal proletario, dai contadini, da vasti strati dellapiccola borghesia fino a gruppi della media borghesia progressiva, a gran partedel movimento cattolico di massa e anche a formazioni e quadri delle forzearmate.

«Noi eravamo stati in prima filatra i promotori, organizzatori e dirigenti di questa unità, che possedeva unsuo programma di rinnovamento di tutta la vita del paese, un programma che nonvenne formulato in tavole scritte se non parzialmente, ma era orientato versola instaurazione di un regime di democrazia politica avanzata, riforme profondedi tutto l’ordinamento economico e sociale e l’avvento alla direzione dellasocietà di un nuovo blocco di forze progressive. La nostra politica consistettenel lottare in modo aperto e coerente per questa soluzione, la quale comportavauno sviluppo democratico e un rinnovamento sociale orientati nella direzionedel socialismo. Non è, dunque, che noi dovessimo fare una scelta tra la via diuna insurrezione legata alla prospettiva di una sconfitta, e una via dievoluzione tranquilla, priva di asprezze e di rischi. La via aperta davanti anoi era una sola, dettata dalle circostanze oggettive, dalle vittorie riportatecombattendo e dalla unità e dai programmi sorti nella lotta. Si trattava diguidare e spingere avanti, sforzandosi di superare e spezzare tutti gliostacoli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittoriosodalle prove di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario cheallora si ponesse, e per adempierlo, concentrammo le forze». Così Togliatti si esprimeva in quella magistrale sintesi della nostra politicacon la quale aprì il rapporto presentato al X Congresso del partito.

Sappiamo bene che la politica dirottura dell’unità delle forze popolari e antifasciste perseguita dai gruppiconservatori e reazionari interni e internazionali e dalla Democrazia cristiana- una politica che il paese ha pagato duramente - ha interrotto il processo dirinnovamento avviato dalla Resistenza. Essa non è però riuscita a chiuderlo. Unesteso e robusto tessuto unitario ha resistito nel paese e nelle coscienze atutti i tentativi di lacerazione; e questo tessuto, negli ultimi anni, haripreso a svilupparsi, sul piano sociale e su quello politico, in forme nuove,certo, ma che hanno per protagoniste le stesse forze storiche che si eranounite nella Resistenza.

Il compito nostro essenziale - edè un compito che può essere assolto - è dunque quello di estendere il tessutounitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta per il risanamento erinnovamento democratico dell’intera società e dello Stato la grandemaggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a questamaggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo. Soloquesta linea e nessun’altra può isolare e sconfiggere i gruppi conservatori ereazionari, può dare alla democrazia solidità e forza invincibile, può faravanzare la trasformazione della società. In pari tempo, solo percorrendoquesta strada si possono creare fin d’ora le condizioni per costruire unasocietà e uno Stato socialista che garantiscano il pieno esercizio e losviluppo di tutte le libertà.

Abbiamo sempre saputo e sappiamoche l’avanzata delle classi lavoratrici e della democrazia sarà contrastata contutti i mezzi possibili dai gruppi sociali dominanti e dai loro apparati dipotere. E sappiamo, come mostra ancora una volta la tragica esperienza cilena,che questa reazione antidemocratica tende a farsi più violenta e feroce quandole forze popolari cominciano a conquistare le leve fondamentali del poterenello Stato e nella società. Ma quale conclusione dobbiamo trarre da questaconsapevolezza? Forse quella, proposta da certi sciagurati, di abbandonare ilterreno democratico e unitario per scegliere un’altra strategia fatta difumisteria, ma della quale è comunque chiarissimo l’esito rapido e inevitabiledi un isolamento dell’avanguardia e della sua sconfitta? Noi pensiamo, alcontrario, che, se i gruppi sociali dominanti puntano a rompere il quadrodemocratico, a spaccare in due il paese e a scatenare la violenza reazionaria,questo deve spingerci ancora più a tenere saldamente nelle nostre mani la causadella difesa delle libertà e del progresso democratico, a evitare la divisioneverticale del paese e a impegnarci con ancora maggiore decisione, intelligenzae pazienza a isolare i gruppi reazionari e a ricercare ogni possibile intesa econvergenza fra tutte le forze popolari.

È vero che neppure l’attuazionecoerente di questa linea da parte dell’avanguardia rivoluzionaria escludel’attacco reazionario aperto. Ma chi può contestare che essa lo rende piùdifficile e crea comunque le condizioni più favorevoli per respingerlo estroncarlo sul nascere?
L’eventualità del ricorso allaviolenza reazionaria «non deve dunque portare - come ha affermato il compagnoLongo - ad avere una dualità di prospettive e di preparazione pratica». A chisi chiede, anche alla luce dell’esperienza cilena, come si raccolgono e siaccumulano le forze in grado di sconfiggere gli attacchi reazionari, noicontinuiamo a rispondere con le parole del compagno Longo: «Spingendo a fondol’organizzazione, la mobilitazione e la combattività del popolo, consolidandoed estendendo ogni giorno le alleanze di combattimento della classe operaia conle masse popolari, realizzando in questo modo, nella lotta, la sua funzione diclasse dirigente». L’essenziale è dunque «il grado raggiunto da questamobilitazione e da questa combattività» nella classe operaia e nellamaggioranza del popolo.

Proprio la fermezza e la coerenzanell’attuazione di questi princìpi e di questi metodi di lotta politica hannoconsentito di abbattere la tirannide fascista, di ristabilire un regimedemocratico e di far fallire i tentativi compiuti dalle forze conservatrici ereazionarie - da Scelba fino ad Andreotti - di colpire le libere istituzioni ocomunque di ricacciare indietro il movimento operaio e popolare. Così èavvenuto, a partire dal 1947-’48, nella lotta contro la politica didiscriminazione, le persecuzioni e gli attentati liberticidi dei governicentristi. Così è avvenuto nel 1953 quando fu battuto il tentativo didistorcere in senso antidemocratico, con la legge-truffa, il meccanismoelettorale e la rappresentatività del Parlamento. Così è avvenuto nel 1960,quando fu stroncata sul nascere l’avventura autoritaria iniziata dal governoTambroni. Così è avvenuto nel 1964, quando furono sventate le manovreantidemocratiche e i propositi di colpi reazionari che videro anche iltentativo di coinvolgere e di utilizzare contro la Repubblica una parte delleforze armate e dei corpi di pubblica sicurezza. Così è avvenuto dal 1969, nellalotta contro la catena di atti di provocazione e di sedizione reazionaria efascista, ispirati e sostenuti anche da circoli imperialistici e fascisti dialtri paesi, con i quali si cercò di alimentare un clima di esasperata tensionee di determinare una situazione di marasma politico ed economico per aprire lavia a soluzioni autoritarie, anticostituzionali o comunque a una duraturasvolta verso destra.
In tutti questi casi noi abbiamosempre risposto facendo nostra la bandiera della difesa della libertà e delmetodo della democrazia, chiamando a lotte che sono state anche assai aspre, legrandi masse lavoratrici e popolari, e promuovendo la più ampia intesa econvergenza tra tutte le forze interessate alla salvaguardia dei princìpi dellaCostituzione antifascista. Queste esperienze vissute dallaclasse operaia, dal popolo italiano e dal nostro partito, confermano ilcarattere un po’ astratto di quelle tesi che tendono a ridurre schematicamenteal dilemma tra via pacifica e via non pacifica la scelta della strategia dilotta per l’avanzata verso il socialismo. Le vicende sociali e politiche che sisvolgono da tanti anni in Italia sono state pacifiche nel senso che non hannoportato alla guerra civile. Ma tali vicende non sono state certo tranquille eincruente: esse sono state segnate da lotte durissime, da crisi e scontriacuti, da rotture o rischi di rotture più o meno profonde. Scegliere una viademocratica non vuol dire, dunque, cullarsi nell’illusione di un’evoluzionepiana e senza scosse della società dal capitalismo al socialismo.

Sbagliato ci è sembrato sempreanche definire la via democratica semplicemente come una via parlamentare. Noinon siamo affetti da cretinismo parlamentare, mentre qualcuno è affetto dacretinismo antiparlamentare. Noi consideriamo il Parlamento un istitutoessenziale della vita politica e non soltanto oggi ma anche nella fase delpassaggio al socialismo e nel corso della sua costruzione. Ciò tanto più è veroin quanto la rinascita e il rinnovamento dell’istituto parlamentare è, inItalia, una conquista dovuta in primo luogo alla lotta della classe operaia edelle masse lavoratrici. Il Parlamento non può dunque essere concepito eadoperato come avveniva all’epoca di Lenin e come può accadere in altri paesi solocome tribuna per la denuncia dei mali del capitalismo e dei governi borghesi eper la propaganda del socialismo. Esso, in Italia, è anche e soprattutto unasede nella quale i rappresentanti del movimento operaio sviluppano e concretanouna loro iniziativa, sul terreno politico e legislativo, cercando di influiresugli indirizzi della politica nazionale e di affermare la loro funzionedirigente. Ma il Parlamento può adempiere il suo compito se, come disseTogliatti, esso diviene sempre più «specchio del paese» e se l’iniziativaparlamentare dei partiti del movimento operaio è collegata alle lotte dellemasse, alla crescita di un potere democratico nella società e all’affermarsidei princìpi democratici e costituzionali in tutti i settori e gli organi dellavita dello Stato.

A questo preciso orientamento sisono ispirate le molteplici battaglie che abbiamo condotto per la Repubblica eper la Costituzione; per realizzare con il voto alle donne la pienezza delsuffragio universale; per difendere il principio della rappresentanzaproporzionale contro il tentativo di liquidarlo; per assicurare giorno pergiorno alle Camere le loro prerogative contro ogni tendenza dell’esecutivo e dialtri centri del potere economico, politico e amministrativo di limitarle e svuotarle;e per affermare il principio e la prassi di una libera dialettica, senzapreclusioni e discriminazioni, fra tutte le forze democratiche rappresentatenel Parlamento. A questo stesso orientamento hanno obbedito e obbediscono lenostre battaglie per l’istituzione delle Regioni e per il rispettodell’autonomia e dei poteri degli enti locali.

Ma vi è anche un altro aspettoassai importante della nostra strategia democratica. La decisione del movimentooperaio di mantenere la propria lotta sul terreno della legalità democraticanon significa cadere in una sorta di illusione legalitaristica rinunciandoall’impegno essenziale di promuovere, sia da posizioni di governo che standoall’opposizione, una costante iniziativa per rinnovare profondamente in sensodemocratico le leggi, gli ordinamenti, le strutture e gli apparati dello Stato.La stessa nostra esperienza, prima ancora di quella di altri paesi, ci richiamaa tenere sempre presente la necessità di unire alla battaglia per letrasformazioni economiche e sociali quella per il rinnovamento di tutti gliorgani e i poteri dello Stato.

L’impegno in questa direzione deve tradursi inuna duplice attività: quella diretta a far sì che in tutti i corpi dello Statoe in coloro che vi lavorano penetrino e si affermino sempre più estesamenteorientamenti ispirati a una cosciente fedeltà e lealtà alla Costituzione esentimenti di intimo legame con il popolo lavoratore; e quella diretta apromuovere misure e provvedimenti concreti di democratizzazionenell’organizzazione e nella vita della magistratura, dei corpi armati e ditutti gli apparati dello Stato. Quest’azione può contribuire in misura assairilevante a far sì che il processo di trasformazione democratica della societànon prenda indirizzi unilaterali e non determini uno squilibrio tra settori chevengono investiti da questi processi e altri che ne vengono lasciati fuori oche vengono respinti in posizioni di ostilità: rischio, questo, gravissimo eche può divenire fatale.

In definitiva, le prospettive disuccesso di una via democratica al socialismo sono affidate alla capacità delmovimento operaio di compiere le proprie scelte e di misurare le proprieiniziative in relazione, oltre che al quadro internazionale, ai concretirapporti di forza esistenti in ogni situazione e in ogni momento, e alla suacapacità di badare, costantemente, alle reazioni e contro-reazioni chel’iniziativa trasformatrice determina in tutta la società: nell’economia, nellestrutture e negli apparati dello Stato, nella dislocazione e negli orientamentidelle varie forze sociali e politiche e nei loro reciproci rapporti. Si ripropongono così i problemidei criteri di valutazione dei rapporti di forza, della politica dellealleanze, del rapporto tra trasformazioni sociali e sviluppo economico e iproblemi degli schieramenti politici.


12.10.1973
RIFLESSIONI SULL’ITALIA DOPO I FATTI DEL CILE.
ALLEANZE SOCIALI E SCHIERAMENTI POLITICI
di Enrico Berlinguer


Abbiamo constatato che la viademocratica non è né rettilinea né indolore. Più in generale il cammino delmovimento operaio quali che siano le forme di lotta, non è stato mai né può essereuna ascesa ininterrotta. Ci sono sempre alti e bassi, fasi di avanzata cuiseguono fasi in cui il compito è di consolidare le conquiste raggiunte, e anchefasi in cui bisogna saper compiere una ritirata per evitare la disfatta, perraccogliere le forze e per preparare le condizioni di una ripresa del camminoin avanti. Questo vale sia quando il movimento operaio combatte standoall’opposizione sia quando esso conquista il potere o va al governo.

Ha scritto Lenin: «Bisognacomprendere - e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propriaamara esperienza - che non si può vincere senza aver appreso la scienzadell’offensiva e la scienza della ritirata». Lenin stesso, che è statocertamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, èstato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti delconsolidamento e della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prenderetempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata. Due esempirivelatori di queste geniali capacità di lenin furono il compromesso conl’imperialismo tedesco sancito con la pace di Brest Litovsk, e il compromessocon forze capitalistiche interne che caratterizzò quell’indirizzo che va sottoil nome di Nep (Nuova Politica Economica). Né va dimenticato che Lenin nonesitò a compiere tali scelte andando contro corrente. Queste due grandioperazioni rivoluzionarie, che contribuirono in modo decisivo a salvare ilpotere sovietico e a garantirgli l’avvenire, vennero attuate in condizioni storicheirripetibili, ma il loro insegnamento di lungimiranza e sapienza tattica rimaneintegro.

L’obiettivo di una forzarivoluzionaria, che è quello di trasformare concretamente i dati di unadeterminata realtà storica e sociale, non è raggiungibile fondandosi sul purovolontarismo e sulle spinte spontanee di classe dei settori più combattividelle masse lavoratrici, ma muovendo sempre dalla visione del possibile, unendola combattività e la risolutezza alla prudenza e alla capacità di manovra. Ilpunto di partenza della strategia e della tattica del movimento rivoluzionarioè la esatta individuazione dello stato dei rapporti di forza esistenti in ognimomento e, più in generale, la comprensione del quadro complessivo dellasituazione internazionale e interna in tutti i suoi aspetti, non isolando maiunilateralmente questo o quello elemento.

La via democratica al socialismo èuna trasformazione progressiva - che in Italia si può realizzare nell’ambitodella Costituzione antifascista - dell’intera struttura economica e sociale,dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del bloccodi forze sociali in cui esso si esprime. Quello che è certo è che la generaletrasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia, ha bisogno,in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso.

La forza si deve esprimere nellaincessante vigilanza, nella combattività delle masse lavoratrici, nelladeterminazione a rintuzzare tempestivamente - ci si trovi al governo oall’opposizione - le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, aidiritti democratici e alla legalità costituzionale. Consapevoli di questanecessità imprescindibile, noi abbiamo messo sempre in guardia le masselavoratrici e popolari, e continueremo a farlo, contro ogni forma di illusioneo di ingenuità, contro ogni sottovalutazione di propositi aggressivi delleforze di destra. In pari tempo, noi mettiamo in guardia da ogni illusione gliavversari della democrazia. Come ha ribadito il compagno Longo al XIII Congresso,chiunque coltivasse propositi di avventura sappia che il nostro partitosaprebbe combattere e vincere su qualunque terreno, chiamando all'unità e allalotta tutte le forze popolari e democratiche, come abbiamo saputo fare neimomenti più ardui e difficili. Del “consenso” la profondatrasformazione della società per via democratica ha bisogno in un significatoassai preciso: in Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione dellagrande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, “consenso eforza” si integrano e possono divenire una realtà invincibile.

Tale rapporto tra forza e consenso è del resto necessario quali che siano leforme di lotta adottate, anche se si tratta di quelle più avanzate fino aquelle cruente. Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu unmovimento armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unitàdi tutte le forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi ilsostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione. Del resto,anche sulla sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lostesso fascismo non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso allaviolenza reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno estesa,soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa edarticolata. Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio dellaborghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a quelli piùraffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una basedi consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali epolitiche. È il problema delle alleanze,dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politicarivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per l’affermazione dellavia democratica.

In paesi come l’Italia si devemuovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una stratificazionesociale e una articolazione politica assai complesse. Lo sviluppo capitalistico italiano ha dato luogo alla formazione di unproletariato consistente. Questa classe che una lunga esperienza di lotte -siamo quasi a un secolo di battaglie proletarie - che l’opera educatrice delmovimento socialista che l’influenza decisiva che su di essa esercita dacinquant’anni il partito comunista, hanno reso particolarmente combattiva ematura; questa classe, che è la forza motrice di ogni processo ditrasformazione della società, tuttavia rimane pur sempre una minoranza dellapopolazione del nostro paese e della stessa popolazione lavoratrice. Così èanche, in misura maggiore o minore, in quasi tutti gli altri paesicapitalistici. Tra il proletariato e la grande borghesia - le due classiantagoniste fondamentali nel regime capitalistico - si è infatti creata, nellecittà e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spessosi sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «cetomedio», ma di ognuno dei quali in realtà occorre individuare e definire concretamentela precisa collocazione e funzione nella vita sociale, economica e politica egli orientamenti ideali.

Accanto e spesso intrecciati aquesti ceti e categorie intermedie e al proletariato esistono poi nella nostrasocietà strati di popolazione e forze sociali (si tratta, per esempio, di largaparte delle popolazioni del Mezzogiorno e delle isole, delle masse femminili egiovanili, delle forze della scienza, della tecnica, della cultura e dell’arte)che non sono assimilabili, come tali, nella dimensione di «categorie», e chetuttavia hanno una condizione nella società che le accomuna e in una certamisura le unisce, al di là della propria posizione professionale e persinodella propria appartenenza a un determinato ceto sociale.

Appare chiarissimo che per l’esitodella battaglia democratica che conduciamo per la trasformazione e ilrinnovamento della nostra società è determinante dove si situano, in che sensosono orientate e come si muovono queste masse, questi ceti intermedi, questistrati di popolazione. È del tutto evidente, cioè, come sia decisivo per lesorti dello sviluppo democratico e dell’avanzata al socialismo che il peso ditali forze sociali venga a spostarsi o a fianco della classe operaia oppurecontro di essa.
Da questa struttura economica estratificazione sociale dell’Italia noi non abbiamo ricavato soltantoconseguenze che riguardano la nostra politica nella fase attuale, ma abbiamofissato dei punti fermi che riguardano il posto che hanno nella rivoluzioneitaliana questioni come quella meridionale, femminile, giovanile, della scuolae della cultura, e la funzione dei ceti intermedi.

A proposito di questi ultimi, neldocumento, più impegnativo del nostro partito, che è la Dichiarazioneprogrammatica approvata dall’VIII Congresso (1956) si afferma: «Si stabilisce,oggettivamente, una concordanza di fini fra la classe operaia, che lotta controi monopoli e per abbattere il capitalismo, non più solo con le masse proletariee semiproletarie, ma con la massa dei coltivatori diretti nelle campagne e conuna parte importante dei ceti medi produttivi nelle città, ciò che consentenuove possibilità per l’allargamento del sistema di alleanze della classeoperaia e delle basi di massa per un rinnovamento democratico esocialista.
«La massa del ceto medio ècostituita da stratificazioni e gruppi sociali diversi, in relazione allediverse caratteristiche economiche e sociali e al diverso grado di sviluppodelle diverse zone. Pur essendo quindi necessario un approfondimentodifferenziato da zona a zona, la possibilità di una alleanza permanente dellaclasse operaia con strati del ceto medio della città e della campagna èdeterminata da una convergenza di interessi economici e sociali che traeorigine dallo sviluppo storico e dalla attuale struttura delcapitalismo...
«D’altra parte deve essere chiaroche per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tiposocialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economicoe del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi versoil socialismo sarà garantita la loro attività economica».

La strategia delle riforme puòdunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia dellealleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme ealleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono lealleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppidominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno e tuttala situazione politica va indietro, fino anche a rovesciarsi. Naturalmente, la politica dellealleanze ha il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gliinteressi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli dialtri gruppi e forze sociali. Ma tale ricerca non va concepita e attuata inmodo schematico o statico. Occorre, cioè, indicare rivendicazioni e perseguireobiettivi che offrano concretamente a questi strati di popolazione e a questeforze e gruppi sociali una certezza di prospettive che garantiscano in formenuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolonella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e piùmoderno assetto sociale.

A questo scopo diviene necessariolavorare anche per determinare una evoluzione nella stessa mentalità di questiceti e forze sociali, nel senso di allargare in tutta la popolazione unavisione sempre meno individualistica o corporativa e sempre più sociale delladifesa degli interessi dei singoli e di quelli della collettività.

Noi non ci limitiamo, dunque, aricercare e a stabilire convergenze con figure sociali e categorie economichegià definite, ma tendiamo a conquistare e a comprendere in un articolatoschieramento di alleanze interi gruppi di popolazione, forze sociali nonclassificabili come ceti, quali sono, appunto, le donne, i giovani e leragazze, le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimentidi opinione, e proponiamo obiettivi non soltanto economici e sociali, ma disviluppo civile, di progresso democratico, di affermazione della dignità dellapersona, d’espansione delle molteplici libertà dell’uomo. Ecco il modo con cuinoi intendiamo e compiamo il lavoro concreto per costruire e preparare le basi,le condizioni e le garanzie di quello che si vuole chiamare un «modello» nuovodi socialismo.

Un grosso problema che ci impegnain sede politica e che deve impegnare di più, in sede teorica, i marxisti e glistudiosi avanzati dell’Italia e dei paesi dell’Occidente, è come far sì che unprogramma di profonde trasformazioni sociali - che determina necessariamentereazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi - non venga effettuato inmodo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati dei ceti intermedi, mariceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza dellapopolazione. Ciò, evidentemente, comporta una attenta scelta delle priorità edei tempi delle trasformazioni sociali e comporta, di conseguenza, l’adoperarsinon solo per evitare un collasso dell’economia ma per garantire anzi, anchenelle fasi critiche di passaggio a nuovi assetti sociali sociali, l’efficienzadel processo economico.
Questo è certamente uno deiproblemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici epopolari; ma è un problema altrettanto fondamentale in un paese come l’Italia,ove una forza grande come la nostra uscita da tempo dal terreno della purapropaganda, cerca, fin da ora, dall’opposizione, con l’arma della pressione dimassa e dell’iniziativa politica unitaria, di imporre l’avvio di un programmadi trasformazioni sociali. Se è vero che una politica dirinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grandemaggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di unapolitica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema dirapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tratutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse diuna alleanza politica. D’altronde, la contrapposizione el’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masseimportanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a unaspaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbeesiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenzadello Stato democratico.

Di ciò consapevoli noi abbiamosempre pensato - e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione -che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non ècondizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democraziaove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dalcentro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia èstato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a unasaldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte ditipo clerico-fascista e di riuscire invece a spostare le forze sociali epolitiche che si situano al centro su posizioni coerentementedemocratiche.

Ovviamente, l’unità, la forzapolitica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le lorodiverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per mantenerenel paese una crescente pressione per il cambiamento e per determinarlo. Masarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze disinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e dellarappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passoavanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbela sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 percento.

Ecco perché noi parliamo non diuna «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè dellaprospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolaridi ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazionecattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico. La nostra ostinazione nel proporrequesta prospettiva è oggetto di polemiche e di critiche di varia provenienza.Ma la verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e saindicare un’altra prospettiva valida, capace di far uscire l’Italia dalla crisiin cui è stata gettata dalla politica di divisione delle forze democratiche epopolari, di avviare a soluzione gli immani e laceranti problemi economici,sociali e civili che sono aperti e di garantire l’avvenire democratico dellanostra Repubblica.

E del resto, a veder bene, lepolemiche e i tentativi di rendere impossibile la prospettiva che noiproponiamo non hanno impedito che essa, invece, si sia affermata e si afferminella coscienza di sempre più larghe masse popolari e nei loro movimenti reali,come anche, in una certa misura e in vari modi, nella stessa vita politica enei partiti. Sta qui la comprova che il problema da noi posto diventa ognigiorno più maturo e urgente. E se nessuno è in grado di prospettare una diversaalternativa democratica altrettanto valida e credibile rispetto a quella da noiproposta, ciò è perché tale diversa alternativa, in Italia, non c’è.

La nostra politica di dialogo e diconfronto con il mondo cattolico si sviluppa necessariamente su diversi piani econ diversi interlocutori. Vi è innanzitutto il problema, sulquale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note,posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti conlo Stato e con la società civile. Vi è poi il problema della ricerca di una piùampia comprensione reciproca e di una intesa operante con quei movimenti etendenze di cattolici che, in numero crescente, si collocano nell’ambito delmovimento dei lavoratori e si orientano in senso nettamente anticapitalistico eantiimperialistico.

Ma non si può certo pensare disfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza diun partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazionedi «cristiana» che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto lasua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari diorientamento cattolico.
Rinascita” ha pubblicato alcunimesi or sono una serie di articoli e di saggi nei quali sono stati esaminati evagliati i vari aspetti della questione della Dc. Rimandiamo a essi il lettore,limitandoci noi, in questa sede, a riproporre il tema nei suoi termini difondo. L’errore principale da cui bisognaguardarsi è quello di giudicare la Democrazia cristiana italiana, e anzi tuttii partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasimetafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a diveniresempre o ovunque un partito schierato con la reazione. Ed è davvero risibileche a ciò si riduca, nella sostanza, tutta l’analisi sulla Dc che ci viene datada gente che, con tanta spocchia, cerca di salire in cattedra per impartire atutti lezione di marxismo.

Naturalmente il nostro giudiziosulla Dc è ugualmente lontano da quello che di essa danno quei suoi dirigenti iquali, rovesciando il contenuto ma mantenendo il medesimo metodo astorico cheora abbiamo criticato, presentano la Dc come un partito che, «per sua natura»,sarebbe il garante delle libertà e l’alfiere del progresso democratico. Inrealtà, entrambi i giudizi che abbiamo ricordato sono privi di effettivaserietà e hanno entrambi un carattere puramente strumentale. Il solo criteriomarxista, o che voglia essere anche solo fondato sulla serietà politica,consiste nel considerare la Dc sia nel contesto storico politico in cui ècollocata e opera che nella composita realtà sociale e politica che in essa siesprime. Solo in questo modo è possibile mettersi in grado di intervenire e diinfluire realmente sugli orientamenti e sulla condotta pratica di talepartito.

Noi abbiamo sempre avuto benpresente il legame tra la Democrazia cristiana e i gruppi dominanti dellaborghesia e il loro peso rilevante, e in certi momenti determinante, sullapolitica della Dc. Ma nella Dc e attorno ad essa si raccolgono anche altreforze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del cetomedio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone delpaese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche dioperai. Anche il peso e le sollecitazioni provenienti dagli interessi e dalleaspirazioni di queste forze sociali si sono fatti sentire in misura più o menoavvertibile nel corso della vita e della politica della Dc e possono essere portatia contare sempre di più.

Oltre a questa varia econtraddittoria composizione sociale della Dc vanno prese in considerazione lesue origini, la sua storia, le sue tradizioni e le differenti tendenzepolitiche e ideali che si sono agitate e si agitano nel suo interno, da quellereazionarie a quelle conservatrici e moderate fino a quelle democratiche eanche progressiste. Tutto ciò contribuisce a spiegare come le vicende storichedi questo partito siano state assai tortuose e spesso contrassegnate da atteggiamentitra loro antitetici. Nato come partito popolare, democratico e laico esso sioppose all’inizio al movimento fascista, passando poi all’appoggio e allapartecipazione al primo governo Mussolini, staccandosene successivamente pergiungere, attraverso un faticoso travaglio, alla partecipazione alla lottaclandestina e all’impegno pieno e diretto nella Resistenza, al fianco e inunità con le forze proletarie e popolari.

Dopo la liberazione, dopol’avvento della Repubblica e dopo l’elaborazione della Costituzione, frutto diun accordo tra i tre grandi partiti di massa (comunista, socialista edemocristiano) fu proprio il partito democristiano - nel clima di divisione inEuropa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda - il principaleartefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti e con isocialisti, dell’unità sindacale e più in generale dell’intesa fra le forzeantifasciste. E fu proprio la Dc a condurre da quel momento una politica dicontrapposizione e di scontro frontale con il movimento operaio e popolare diispirazione comunista e socialista.

La sconfitta di questa politica,dovuta alle capacità di combattimento della classe operaia, dei braccianti, deicontadini, dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, edovuta anche alla tenacia con cui il nostro partito non ha mai deflettuto dallasua linea unitaria, ha riaperto una prospettiva di avanzata al movimentodemocratico e al paese e ha creato una situazione nuova anche nella Dc. Essa,infatti, pur mantenendo l’ispirazione conservatrice e moderata della sua linea,è stata messa nella impossibilità di riportare il paese alla condizione dellaspaccatura verticale e della contrapposizione frontale. Quando un suo uomo,Tambroni, si avventurò nel tentativo estremo di ripristinare tale condizione,fu travolto rapidamente da un grande moto popolare e unitario e liquidato dalsuo stesso partito. Ma c’è di più: quando la Dc, sconfitta in questa sua linea,dette inizio a una manovra di nuovo tipo, con l’esperimento di centro-sinistraper giungere all’isolamento del Pci, essa fallì anche su questo terreno.

Dalla crisi di prospettivedeterminata dal fallimento di questi diversi tentativi per affermare una lineadi divisione nel popolo e nel paese la Dc non è ancora uscita. Essa avverte cheè assai difficile e che può essere gravido di avventure fatali per tutti e perse stessa giocare la carta della contrapposizione e dello scontro, ma non ègiunta ancora a intraprendere con coerenza una strada opposta. E sta proprio inciò una delle cause determinanti della crisi che attanaglia il paese.

Che fare? In quale direzionedobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione cheabbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della Dcrisulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; erisulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia,e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali einterni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dalpeso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il Pci, dalla loroforza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicendapiù recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle massepopolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista,la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalitàdella stessa Dc hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destrae hanno creato una situazione in cui la stessa maggioranza di forze internaalla Dc che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, èvenuta meno. La Dc ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva delcentro-destra.

Tali essendo la realtà della Dc eil punto in cui essa si trova oggi, è chiaro che il compito di un partito comeil nostro non può essere che quello di isolare e sconfiggere drasticamente letendenze che puntano o che possono essere tentate di puntare sullacontrapposizione e sulla spaccatura verticale del paese, o che comunque siostinano in una posizione di pregiudiziale preclusione ideologicaanti-comunista, la quale rappresenta di per sé, in Italia, un incombentepericolo di scissione della nazione. Si tratta, al contrario, di agire perchépersino sempre di più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storicoe politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo edi un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò significhi confusioni orinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche checontraddistinguono ciascuna di tali forze.

Certo, noi per primi comprendiamoche il cammino verso questa prospettiva non è facile né può essere frettoloso.Sappiamo anche bene quali e quante battaglie serrate e incalzanti sarànecessario condurre sui più vari piani, e non solo da parte del nostro partito,con determinazione e con pazienza, per affermare questa prospettiva. Ma nonbisogna neppure credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravitàdei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie ela necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppoeconomico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono semprepiù urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovogrande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano lagrande maggioranza del popolo italiano.

Una testimonianza utile, poiché conoscere ciò che è stato aiuta sperare che un altro mondo, così come è stato possibile nel passato, può esistere anche nel futuro (certo diverso da quello che fu) .

Il Fatto quotidiano, 31 dicembre 2016

Il mio giudizio su Enrico Berlinguer è un po’ più tridimensionale di quello in voga. Perché non ha una sola faccia, una sola superficie, non è piatto. Già il fatto che ci sia stato un film-documentario di successo su Berlinguer, quello realizzato da Walter Veltroni, in cui c’è un tratto insincero, ti dice come Berlinguer sia disponibile a essere ‘utilizzato’. In questo film c’è uno spezzone del servizio girato dalla Rai ai suoi funerali. Si vede la grande folla riunita in piazza San Giovanni, ma il regista ha tolto l’audio. Se lo avesse lasciato che cosa si sarebbe sentito? L’Internazionale. Perché Berlinguer è l’ultimo dirigente comunista che faceva suonare l’Internazionale. È importante che ci sia questa colonna sonora. E lì non c’è.

C’è un’altra cosa molto interessante in quel documentario. Mentre parla Nilde Iotti e ringrazia il presidente della Repubblica, si vede Sandro Pertini che non riesce a trattenere le lacrime. Al suo fianco c’è il primo ministro di allora, Bettino Craxi, che non riesce a trattenersi dal ridere. Sono proprio a fianco, le due cariche principali della Repubblica. Uno piange e l’altro ride. E questo dice tutto.

Perché la mia opinione è tridimensionale? Perché io sono un anarchico, non un comunista. Sono un anarchico che, per non mi ricordo più quanti anni, è stato iscritto al Pci ed è andato a prendersi la tessera il giorno dopo aver ascoltato il famoso discorso di Berlinguer in cui diceva che non sarebbe bastato arrivare al 51%. E lo diceva perché Salvador Allende c’era arrivato al 51%, ma non gli era bastato. Pensa un po’: un anarchico che si iscrive al Pci perché è d’accordo sul Compromesso Storico. Una roba grossa! Ma bisogna capire. (…) Immagino abbiate presente che cosa sono stati il 1974, il 1975, il 1976: in quegli anni la democrazia in questo Paese è stata veramente in serio e imminente pericolo. E lo dice un anarchico, ancora una volta. Essendo un anarchico, forse non me ne importava nulla della democrazia? No, me ne importava eccome. (…)

Nel 1974 è arrivata la paura, con il tentativo di colpo di Stato, gli attentati. E poi una cosa terribile: il Movimento che si sfascia. Ero abituato all’idea che tutto fosse precario, ma non che tutto fosse perduto. Mai. (…) In quegli anni la mia compagna e io non vedevamo una contraddizione tra Berlinguer e le nostre idee, che pure erano diverse dalle sue. Quando sono andato a iscrivermi al Pci non sono andato alla Sezione Centro, sono andato alla Sezione Nord di La Spezia, che era quella del quartiere operaio, dove se c’era una cosa che proprio non sopportavano erano quelli come me. Però non mi sopportavano come non si sopporta un figlio. E infatti, appena mi sono iscritto, la prima cosa che mi hanno fatto fare è stata quella di scaricare la roba alla Festa dell’Unità, non mi hanno chiesto di elaborare un pensiero.

La mia iscrizione al Pci era veramente un atto di riconoscimento di una necessità, del bisogno di protezione. Che veniva da Berlinguer. (…) Sapevo e so che diceva la verità, soprattutto che diceva una verità che parlava alla mia fragilità, e che il suo Partito Comunista poteva sembrarmi un posto dove potevo stare. (…) Mi dicevo: devo pagare qualcosa alla realtà, altrimenti la realtà mi sommergerà. Mi dicevo: o mi iscrivo al Pci o mi sposo. Mi sono iscritto al Pci. Berlinguer era la realtà più consona a quella che era stata la mia educazione. Quando ho sentito il discorso del 51%, così poco anarchico, così poco sognatore, ho sentito che era il discorso della verità. (…)
Eppure nell’atto stesso della mia adesione c’era il seme della mia dis-adesione. Nel 1974 a La Spezia ci fu una grande assemblea sul Compromesso Storico. Mille persone, mille compagni del Pci in sala, e io sono in piedi nel corridoio, accanto a Paolino Ranieri, comandante partigiano. Mentre qualcuno parla dal palco sento che Ranieri dice: “Sì, però non l’ha mica discusso nel Comitato Centrale”. Nel momento stesso in cui mi affido a Berlinguer, mi rendo conto che mi affido anche, nella sua stessa logica, a uno che non si affida alla democrazia centralizzata, nemmeno a quella. Per inciso, fece benissimo. (…)

Berlinguer è stato sconfitto dal suo partito, perché forse l’unica possibilità che ancora poteva avere la democrazia incompiuta di questo Paese per compiersi era quella del passaggio generazionale, del raccogliere intorno a sé i figli, che non solo avevi messo al mondo ma che avevi fatto studiare e a cui avevi dato la possibilità di scapicollarsi e di essere questa enorme massa viva in totale abbandono. E invece questo salto il partito non glielo fece fare. (…)

Mi ricordo la fine degli anni Ottanta. Per un breve periodo ho lavorato al Comune di La Spezia e vedevo gli assessori che entravano in ufficio con L’Unità nella tasca della giacca, bella in vista. All’improvviso un giorno non c’è più L’Unita ma Il Sole 24 Ore. Quindi i comunisti si mettono a leggere Il Sole senza capirci nulla, perché non erano preparati, non avevano gli strumenti. (…) E poi ovviamente Craxi. Tra Compromesso Storico e giunte con sindaci socialisti il passo nel baratro è stato spettacolare. Craxi ha distrutto, cancellato quel poco di Berlinguer che ancora c’era. Berlinguer era amato dal suo popolo e non solo. Per me era una questione di sensazione, non di conoscenza. Berlinguer era così: le sue parole erano sempre la sua faccia e il suo esempio.

Garibaldi, dopo che con sessantaquattromila fucili puntati contro ha consegnato al re, a Teano, la più grande conquista militare del XIX secolo, viene immediatamente messo, di fatto, agli arresti domiciliari. Scappa, senza dare nell’occhio, va a Londra. Quando arriva a Londra la città si ferma, il porto si ferma, una folla immensa lo festeggia. La regina Vittoria scrive al suo primo ministro Benjamin Disraeli per chiedergli la ragione di questo trionfo. E lui risponde testuale: “Maestà, Giuseppe Garibaldi è oggi l’individuo più potente del mondo. Perché è ciò che dice, dice ciò che fa, fa ciò che è”. Puoi dirlo anche di Berlinguer. (…)

Mi sono iscritto anche al Pd. Sono andato nella sezione di casa mia, a Genova e l’ho trovata chiusa. Fisso un appuntamento, la segretaria si presenta con un’ora di ritardo. Prendo la tessera, ma non mi arriva mai la comunicazione della convocazione dell’assemblea congressuale, la ragione per cui mi ero iscritto. Chiedo informazioni e mi rispondono che me l’hanno mandata in busta anonima (un tipo di busta che normalmente butto via) “per non mettere in imbarazzo chi la riceve”. La sede è ancora chiusa.

Nel 1982 entrai nell’Arci e per me è stata una nuova possibilità. Conobbi Tom Benetollo, cacciato dal Pci. Anni prima, Berlinguer segretario lo aveva mandato al Congresso Mondiale della Gioventù Comunista a Pechino. Tom andò e lesse in un’aula immensa, attonita e silenziosa il testo di Blowin’ in the Wind, di Bob Dylan. Fu l’unico non applaudito in tutti quei giorni. Di nuovo, Tom assomiglia a Berlinguer e assomiglia a Garibaldi. L’idea è ciò che rende un uomo veramente potente. E noi ci crediamo e non smettiamo mai di crederci.

(Dalla postfazione a “Berlinguer. Vita trascorsa, vita vivente”, di Simone Siliani e Susanna Cressati, Maschietto editore, Firenze 2016)

La
Alberto Menichelli, che farà 88 anni a dicembre, s’interrompe e si rivolge alla figlia Laura: “La fiaschetta l’ho conservata da qualche parte”. Non aspetta la risposta. Si alza, si dirige verso un mobile del soggiorno e lo apre. “Eccola qua”. Una fiaschetta per liquori, rivestita di unUn'itervivita all'autista colore argento e dal collo nero, consumato. “Pensa un po’, è ancora piena”. Whisky. Una fiaschetta che è una reliquia. Ci beveva Enrico Berlinguer. Un sorso prima di ogni comizio. “Quando vedeva quelle folle sterminate, Berlinguer aveva una stretta allo stomaco. Fu il suo medico, Ciccio Ingrao, a consigliargli questo rimedio. Io la riempivo, ma allungavo il whisky con l’acqua. Pensa un po’, è ancora piena. Senti che odore”.

La nostalgia per Enrico Berlinguer è come l’odore che proviene da questa antica fiaschetta dal collo morsicato. È un profumo forte, che si sente ancora. Menichelli ha vissuto tre lustri con Berlinguer. Molto più di un autista. Fu il suo angelo custode dal 1969 al 1984, l’anno della morte del compagno segretario del grande Partito comunista italiano. Menichelli faceva parte della Vigilanza del Partito, tutto con la maiuscola e fu assegnato a Berlinguer quando questi era stato da poco scelto come vicesegretario e successore di Luigi Longo, al posto del favorito Giorgio Napolitano. Era il 1969. Romano di borgata, Menichelli era arrivato alla Direzione, nel mitico Bottegone, nel 1964. La sua sezione Pci, quella di Villaggio Breda, fece una lettera di presentazione. In una riunione del comitato direttivo era stata esaminata “la biografia del compagno Menichelli Alberto” e l’esito fu positivo: “Il comitato direttivo dà parere favorevole, considerandolo un compagno serio, onesto (identico giudizio si dà sulla famiglia)”. Più di mezzo secolo dopo, Menichelli presiede l’associazione culturale intitolata a Berlinguer nel suo quartiere romano, a Cinecittà.

Quanti iscritti avete?
Trecento. L’altro giorno abbiamo chiuso la mostra.

Ovviamente dedicata a Berlinguer.
È un’iniziativa partita nel 1990 a Pescara, adesso va a Latina. Tantissimi sono venuti a vederla in sezione.

Sezione?
Circolo, mi scusi, sono abituato a chiamarla sezione. Sono anche presidente del comitato del No e leggo il Fatto perché siete rimasti voi a difendere la sinistra e i lavoratori.

La passione per Berlinguer è senza partito, ormai.
Alla mostra, mi ha colpito la presenza di molti giovani. È un dato incredibile se pensa che Berlinguer è morto 34 anni fa, quando loro non erano ancora nati.

Il suo impatto con lui come fu?
Ero teso, Berlinguer non voleva l’autista, fu costretto dal Partito, nel ’69 c’era stata la strage di piazza Fontana, cominciava un periodo di grandi paure. A lui piaceva guidare. Aveva una Fiat 1100. Era pignolo, quando arrivava a Botteghe Oscure parcheggiava da solo e saliva su.

Allora lei gli portò via un piacere quotidiano.
La prima settimana fu di silenzio totale. Solo “buongiorno” e “buonasera”. Ero timido, lui riservato.

La giornata tipo?
Al mattino ritiravo la mazzetta dei giornali e alle 7 e 30 ero da lui. Lo trovavo in pigiama, preparava la colazione per la famiglia. All’epoca abitavano ancora in viale Tiziano.

Una volta, Forattini fece una perfida vignetta con Berlinguer in pigiama.
Sì, la ricordo. Con questa storia del pigiama c’era un fotografo che mi perseguitava.

Immagino.
Voleva rifilarmi una macchinetta speciale per fotografare Berlinguer in pigiama. Diceva: “Famo un sacco di soldi”.

Prima dei soldi, c’era la lealtà verso il Partito.
Quello che diceva il Partito non si discuteva. Per me era un onore accompagnare Berlinguer, era l’uomo che rappresentava noi comunisti italiani.

Il rito dei quotidiani come si svolgeva?
A questo punto, Menichelli declama l’ordine di lettura dei quotidiani come se fosse una formazione di calcio). Leggeva Unità e Paese Sera. Poi Messaggero, Popolo e Tempo; Avanti!, Avvenire e Secolo d’Italia; Corriere della Sera, Stampa, Giorno e Umanità. Aveva anche due giornali francesi: Le Monde e L’Humanité. Nel frattempo accompagnavo Marco e Maria a scuola (due dei quattro figli di Letizia ed Enrico Berlinguer, ndr) e quando tornavo alle nove lo accompagnavo alla Direzione.

I vostri discorsi in auto fecero progressi?
Dopo due mesi avevamo preso confidenza. Berlinguer era una persona schiva ma non triste come è stato detto. Era essenziale e di un’onestà esemplare. Una mattina cominciammo a cercare i cartelli con su scritto “Affittasi”. Doveva lasciare la casa di viale Tiziano e cercava un nuovo appartamento.

Berlinguer cerca casa.
Andai da Cossutta, che all’epoca guidava l’Organizzazione. Era il 1974. Gli posi il problema così: “Vi sembra normale che il segretario del Partito (Berlinguer divenne segretario nel 1972, ndr) debba cercare casa da solo?”

E Cossutta?
Mi rispose: “Mica lo sapevo”. “Ecco adesso lo sai”, gli ribattei. Attivò il compagno dell’Economato. Prima gli proposero una villetta alla Camilluccia, ma lui rifiutò: voleva un appartamento più modesto. E così venne fuori la casa di via Ronciglione 12. A una condizione però.

Quale?

Doveva pagare lui l’affitto, non il Partito, altrimenti avremmo continuato a cercare noi i cartelli “Affittasi”. Così ogni mese io portavo una busta coi soldi a Botteghe Oscure.

In tempi di Casta, lei ha descritto una scena lunare.
Berlinguer era questo. Se non eravamo fuori Roma, cenava sempre a casa. Ogni sera, prima di ritirarci, comprava un litro di latte. Un giorno glielo chiesi: “Perché prendi il latte?”.

Cosa rispose?

Mi disse: “Mi premunisco, a quest’ora il frigo è quasi sempre vuoto”.

Il frigo vuoto!
Pagava il latte coi soldi sempre ciancicati, perciò gli regalai un portamonete. Una volta lo trovai seduto per terra nel salone. Attorno a lui tanti libri. Gli dissi: “Ma che stai combinando?”. Lui brusco: “Stai zitto che non mi ricordo più in quale libro ho nascosto 50 mila lire”.

Un materialista poco attento alle cose materiali.
Completamente disinteressato. Un giorno dovevamo andare a Torino. C’era uno sciopero aereo e fummo costretti a prendere il treno. Peraltro io avevo paura di volare. Berlinguer mi prendeva in giro: “Hai messo il paracadute?”. Quel giorno avevamo preso uno scompartimento, eravamo alla stazione Termini di Roma e io aspettavo sul binario il resto della scorta. All’improvviso vedo un poliziotto venire verso di me. “Che c’è?”, gli faccio. Lui mi risponde: “Il segretario ha due scarpe diverse”. Così salgo sul treno e vado da lui. Mi guarda e io: “Le scarpe sono spaiate”. Lui portava sempre i mocassini.

Partiste?

Crto. Chiuse la questione a modo suo: “Non sono tanto diverse, nessuno se ne accorgerà”. Un’altra volta perse il cappotto. Era un paltò verde talmente consumato che le asole erano diventate buchi. Lo dimenticò alla Camera per la fretta di tornare a Botteghe Oscure. Pensai: “Meno male, così ne prende uno nuovo”.

Invece lo ritrovò.
Esatto. Per dirle che persona era. Non gliene importava nulla. Anna (Azzolini, la storica segretaria di Berlinguer, ndr) mi raccontò che un famoso stilista dell’epoca, Litrico, aveva mandato una lettera. Voleva vestire gratis il segretario. Berlinguer rifiutò senza pensarci.

Nonostante tutto, piaceva molto. Anche alle donne.
Reichlin lo invidiava: “Le donne vengono sempre da te”. Ma lui era timidissimo. Ricordo che ad Avezzano fece una conferenza stampa in piazza. In prima fila c’era una signora matura, molto piacente. La rividi a Roma, a un comizio. Lo dissi a Tatò: “Quella signora era anche ad Avezzano”. Decisi di avvicinarla. Era un’americana, affascinata dal personaggio di Berlinguer.

Riferì al segretario?
Sì e gli dissi: “La prossima volta te la presento”.

Accettò?
Per niente. Mi fulminò: “Aho che porti!?!”.

Un monaco.
Per nulla triste, ripeto. Scherzava spesso e si preoccupava sempre per noi della Vigilanza. Abbiamo festeggiato tante volte Natale e Capodanno insieme, con le nostre famiglie, alle Frattocchie (la zona dei Castelli Romani dove il Pci aveva la sua “scuola”, ndr). Poi c’è l’episodio di Parigi.

Racconti.
Eravamo all’aeroporto De Gaulle, per tornare in Italia, e mi fa: “Vogliamo portare un regalino alle nostre mogli?”. Così entriamo in un negozio di profumi. La commessa ci indica una boccetta e ci spiega che è molto richiesta dalle signore italiane. Diciamo che va bene e andiamo alla cassa. Ci prese un colpo: costava 18 mila lire, un quarto del mio stipendio di allora, ma nessuno dei due disse nulla, per il timore di apparire provinciali. Pagammo e zitti.

I viaggi lunghi in auto come si svolgevano?
Lui si sedeva avanti. Gli avevo predisposto un tavolinetto per lavorare. Non staccava mai, si preparava tutto e scriveva a mano. Non parlava a braccio, non improvvisava come oggi Renzi. Quando poi doveva fare relazioni o discorsi di una certa importanza si rifugiava dalla zia Ines a Grottaferrata. Gli articoli per Rinascita sul compromesso storico li scrisse lì, dalla zia Ines, che per lui era come una mamma.

Il 1976 è l’anno decisivo.
Fu l’anno in cui aumentò la scorta a Berlinguer. Per le Br era un obiettivo e cominciammo a girare con due auto qui a Roma. Io ero sempre con lui, insieme con Lauro Righi. Davanti, nell’altra auto, c’erano Dante Franceschini e Pietro Alessandrelli. Ogni volta un percorso diverso. A causa dei terroristi cambiammo anche il lattaio. I terroristi avevano studiato la zona vicino a casa sua e così iniziò a prendere il latte da Vezio (leggendario bar comunista, a Botteghe Oscure, ndr).

Che auto era?
Un’Alfa 2000 blindatissima. La scorta di Moro ce la invidiava.

Già.
Berlinguer e Moro fecero due incontri segreti, sempre a casa del segretario del leader democristiano. Il secondo finì alle quattro di mattina. Vedemmo la lucina accendersi sopra il portone e ci preparammo. Era Moro che scendeva. Uscì e s’infilò per sbaglio nella nostra auto.

Un tragico lapsus preveggente.
Nelle lunghe ore di attesa, conobbi il maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Volle vedere le nostre auto dall’interno e mi confidò che gli rinviavano sempre la richiesta di un’auto blindata. Io e i miei colleghi maturammo una convinzione.

Quale?
Se lo portavamo noi, Moro, non succedeva nulla. Con le nostre due auto, le Br non avrebbero mai potuto fare l’azione di via Fani.

Invece finì con la Renault rossa in via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sede della Dc.
Il giorno del ritrovamento, Berlinguer mi chiama e mi dice: “Dall’Unità dicono che bisogna cercare un’auto rossa qui vicino”. Io vado da Vezio al bar e lui mi manda da un suo amico al primo piano. Saliamo e mi affaccio. Ero al telefono con Berlinguer per descrivergli tutto. E quando vedo la polizia aprire lo sportellone della Renault, lui attacca senza dire più nulla. Aveva già capito. Da quel momento cambiò per sempre. Nemmeno nel 1970, quando dormivo spesso a casa sua per la paura di un colpo di Stato, l’avevo visto così.

Inizia il cosiddetto “ultimo Berlinguer”.
Gli sentii pure dire che era assurdo che il segretario del Pci fosse a vita, che bisognasse aspettare la sua morte.

Una profezia su se stesso.
Quel giorno a Padova mi fece anche uno scherzo.

Stava bene.
Benissimo. Eravamo pronti per andare al comizio ma lui non scendeva dalla camera d’albergo. Vado su e non lo trovo. Ritorno giù, trafelato, e lo vedo spuntare nella hall, che rientra da una passeggiata. Mi dice: “Stavolta t’ho buggerato”.

Dopo l’interruzione del comizio, rientraste persino in albergo.
Sul palco, gli misi l’impermeabile sulle spalle e lui mi sussurrò di prendere i suoi appunti. In albergo era già in coma.

Trentaquattro anni fa.

Il mio Partito morì allora.

. Il manifesto,

Nell’ambito delle pub­bli­ca­zioni legate all’anniversario della morte di Ber­lin­guer, il libro curato da Clau­dio Sardo (L’anima della sini­stra, Edi­tori riu­niti inter­na­zio­nali, pp. 111, euro 11) si segnala per la scelta di assu­mere quale suo asse un tema cru­ciale del comu­ni­smo ita­liano. Cioè la que­stione del rap­porto con la tra­di­zione cattolica.

È un cro­ce­via clas­sico che appas­sionò Togliatti, che in que­sto si pose in netta discon­ti­nuità con l’anticoncordatario e «illu­mi­ni­sta» Gram­sci, come ricorda Giu­seppe Vacca. E che tornò con forza in Ber­lin­guer.

Il libro ripro­pone un momento signi­fi­ca­tivo del con­fronto: il car­teg­gio che nel 1977 vide impe­gnate le penne del vescovo di Ivrea Bet­tazzi e il segre­ta­rio del Pci. Accanto alla con­ver­genza indi­vi­duata attorno ai con­di­visi «con­te­nuti uma­ni­stici» o al rico­no­sci­mento del valore della per­sona, il dibat­tito mise in luce anche una con­trad­di­zione. Quella tra l’autodefinizione del Pci come par­tito laico e plu­ra­li­sta, con l’articolo 5 dello sta­tuto che invece pre­ve­deva il canone del marxismo-leninismo.

Era la cele­bre que­stione del «trat­tino» che per alcuni mesi vide incro­ciare le spade alcuni filo­sofi comu­ni­sti e che fu archi­viato, pre­cisa Vacca, nella revi­sione sta­tu­ta­ria del 1979. Il nodo più rile­vante comun­que ver­teva sulla con­ci­lia­bi­lità tra l’identità comu­ni­sta, pro­tesa alla cri­tica del capi­ta­li­smo in nome di istanze gene­rali di libe­ra­zione umana, e le ana­lo­ghe ten­sioni per il tra­scen­di­mento del pre­sente che si affac­cia­vano nel mondo della fede, dal «labu­ri­smo cri­stiano» di Dos­setti, al fer­mento dei movi­menti di base sino alla pro­po­sta espli­cita delle Acli di una nuova società socia­li­sta.

Su que­sto pos­si­bile momento di con­fluenza, all’interno dei grandi valori costi­tu­zio­nali della soli­da­rietà e della per­sona come valore, aveva insi­stito già Togliatti, in assem­blea costi­tuente. E ancor prima, nel discorso al tea­tro Bran­cac­cio di Roma nel 1944, si era spinto a pro­porre alla Dc «un patto comune di azione, per un pro­gramma comune».

A Ber­gamo nel 1963 il lea­der del Pci annun­ciò una cri­tica della società del con­sumo, fonte della inco­mu­ni­ca­bi­lità sostan­ziale dell’uomo moderno, che anti­ci­pava il richiamo di Ber­lin­guer all’austerità quale occa­sione per ripen­sare radi­cal­mente il modello di svi­luppo, gli stili e i valori di vita.

Dome­nico Rosati scorge una affi­nità tra la pro­po­sta ber­lin­gue­riana di auste­rità come con­te­sta­zione dei pila­stri della società bor­ghese e l’annuncio di Moro della sta­gione dei doveri. Su que­sti lidi di cen­sura dell’edonismo, in nome di una emer­genza antro­po­lo­gica, c’è il rischio di smar­rire il senso anche posi­tivo del con­sumo ai fini della costru­zione della sog­get­ti­vità (il con­sumo con il suo nichi­li­smo mer­can­tile è ciò che salva il capi­ta­li­smo, lo intuì già Toc­que­ville; e non è anche per l’incapacità di garan­tire il con­sumo di massa che invece crolla il comu­ni­smo?). Ma lo scopo della rifles­sione sull’austerità come «occa­sione» non era quello di imporre una povertà gene­rale ma di defi­nire il pro­getto di un nuovo ordine sociale con altre com­pa­ti­bi­lità, con altre qua­lità rico­no­sciute del vivere collettivo.

La spe­ci­fi­cità del con­tri­buto di Sardo è che la ripro­po­si­zione del tema della fede (la sua domanda ini­ziale è: per­ché solo in Ita­lia esi­ste una robu­sta com­po­nente cat­to­lica che non si rico­no­sce con la destra, come accade in tutti gli altri paesi?) serve per inter­ro­garsi sul senso della ere­dità del comu­ni­smo ita­liano dopo la fine del Pci.

Per­ché quello che è scom­parso è la trac­cia di un mondo, i segnali di un pen­siero, i luo­ghi di una comu­nità, tra­volti da quello che Sardo chiama «il rifor­mi­smo subal­terno» che sfida iden­tità, memo­rie, cul­tura poli­tica, modello di par­tito, radi­ca­mento sociale, idea di società.

«Quando c’era Ber­lin­guer la poli­tica sapeva ragio­nare», osserva Rosati. Oggi, con il divor­zio tra poli­tica e ragione, avanza un nichi­li­smo sor­ri­dente che costringe gli avanzi impo­tenti di una grande tra­di­zione cri­tica ad obbe­dire a un tweet, a scor­gere cari­sma in una cami­cia bianca, a rive­rire gli impren­di­tori, che si sa sono «gli eroi del nostro tempo», a rom­pere con il movi­mento ope­raio come terra insi­gni­fi­cante, che nep­pure merita rappresentanza.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg abbiamo un'ampia raccolta di scritti di e su Enrico Berlinguer.

«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».

Il manifesto, 11 giugno 2014Nei giorni scorsi ho scritto anche io sul sup­ple­mento che l’Unità ha dedi­cato a Enrico Ber­lin­guer nel tren­ten­nale della morte. Do atto al quo­ti­diano un tempo “comu­ni­sta” di aver ope­rato un’apertura con­si­de­re­vole per­ché, come è ovvio, era impli­cito che avrei par­lato anche dello scon­tro che, come gruppo de il mani­fe­sto, avemmo con l’allora segre­ta­rio del Pci quando fu decre­tata la nostra radia­zione dal par­tito. Tempi oggi cam­biati rispetto a quelli in cui lo stesso gior­nale era arri­vato a pub­bli­care un arti­colo, a noi rivolto, inti­to­lato «Chi vi paga?», in cui si espri­meva il sospetto che si trat­tasse della Con­fa­gri­col­tori. (Chissà per­ché pro­prio la Confagricoltori).

E tut­ta­via, come mi è capi­tato in que­sti ultimi tempi di ripe­tere, quasi quasi rim­piango quelli pur duris­simi della nostra radia­zione: per­ché lo scon­tro aspris­simo pro­dusse un trauma in tutto il par­tito, se ne discusse a tutti i livelli, si aprì una rifles­sione in tutta l’opinione pub­blica della sinistra.

Oggi si può dire qual­siasi cosa che, vista la povertà del dibat­tito poli­tico, non suscita, non dico pas­sioni, ma nem­meno inte­resse. (Stento a defi­nirla “libertà d’espressione”).

Que­sto sta infatti acca­dendo con l’amplissimo fio­ri­le­gio di pub­bli­ca­zioni dedi­cate alla memo­ria di Enrico Ber­lin­guer: che susci­tano, come è giu­sto e natu­rale, grandi emo­zioni e nostal­gie — soprat­tutto quando si rive­dono le imma­gini strug­genti del dolore pro­fondo e sin­cero di un intero popolo al suo fune­rale — ma non con­tri­bui­scono affatto a chia­rire il pro­filo poli­tico di Ber­lin­guer. Un gio­vane nato negli ultimi decenni potrà desu­merne che si trat­tava solo di un uomo one­sto capace di susci­tare affetto e con­senso. Certo non è poco di que­sti tempi, ma pochis­simo per far capire dav­vero chi era.

Per­ché Ber­lin­guer è stato un diri­gente per nulla privo di spi­goli, che non ha con­cesso nulla alla ricerca di un con­senso faci­lone, non par­liamo delle sue capa­cità comu­ni­ca­tive: era il con­tra­rio dello sho­w­man. E che ha ope­rato scelte spesso con­tra­state e non solo dall’esterno del Pci.

Bana­liz­zarlo è la peg­gior sorte che gli si potesse riser­vare. (Avvenne del resto anche subito dopo la sua morte, con la pub­bli­ca­zione di un numero spe­ciale a lui dedi­cato di “Cri­tica Mar­xi­sta”, dove, se non sba­glio, fu solo Ser­gio Gara­vini a ricor­dare espli­ci­ta­mente que­sti contrasti.)

Non un’operazione inno­cente: serve a far cre­dere che anche quanto si fa oggi sia in defi­ni­tiva in con­ti­nuità con il suo pen­siero. Salvo il fatto che era un po’ troppo bac­chet­tone, un po’ troppo anco­rato al pas­sato, lento nel per­ce­pire quanto aveva invece colto Bet­tino Craxi: che il mondo era cam­biato e per essere con­tem­po­ra­nei biso­gnava spo­sare la moder­nità senza agget­tivi che il sistema proponeva.

(Per­sino il più quo­tato can­di­dato al pre­mio Strega, Fran­ce­sco Pic­colo con il suo “Tutti”, per­corre la stessa strada: ama Ber­lin­guer fino ad iden­ti­fi­carsi con lui, ma lo rende una figura pate­tica, un vec­chio buon nonno).

Luigi Pintor scrisse «E’ morto un buon comunista»

Il nostro giu­di­zio su Ber­lin­guer, per noi che siamo stati radiati, è molto più severo, e insieme molto più posi­tivo. Al momento della radia­zione i punti del con­tra­sto furono impor­tanti. In breve:la sua sor­dità rispetto ai movi­menti emer­genti, peg­gio: il suo sospetto verso il ’68, che privò il Pci della forza che veniva da una nuova gene­ra­zione che aveva cap­tato la valenza delle nuove con­trad­di­zioni del capi­ta­li­smo; l’insufficienza di un sistema tutto fon­dato sulla demo­cra­zia dele­gata e la neces­sità di intrec­ciarla con nuovi orga­ni­smi di rap­pre­sen­tanza diretta; la cri­tica al comu­ni­smo sovie­tico e alla coe­si­stenza fra le due grandi potenze mon­diali intesa come stru­mento dello statu quo.(Fu Luigi Longo, com­pa­gno lar­ga­mente e così ingiu­sta­mente dimen­ti­cato, a capire assai di più, e lo ripetè, ina­scol­tato, fin quando non fu defi­ni­ti­va­mente zit­tito dalla malat­tia. In un arti­colo su “Rina­scita” era per­sino arri­vato ad invo­care mag­giore plu­ra­li­smo, in con­tro­ten­denza con la rigida difesa dell’unanimismo invo­cato in nome di un’unità del par­tito già lar­ga­mente fittizia).

Poi venne il com­pro­messo sto­rico, obiet­tivo di lungo periodo, e il governo di unità nazio­nale come pas­sag­gio verso quella meta. Un’ipotesi che ridu­ceva il ben più com­plesso pro­blema del rap­porto col mondo cat­to­lico a quello con la Demo­cra­zia Cri­stiana. Per Gram­sci si era trat­tato della que­stione con­ta­dina, per Togliatti della que­stione demo­cra­tica per arri­vare più tardi alla com­pren­sione che una reli­gio­sità dav­vero sen­tita poteva con­tri­buire a supe­rare l’identificazione bor­ghese di libertà con indi­vi­dua­li­smo (vedi le tesi del 9° Con­gresso del Pci). Stra­na­mente pro­prio Ber­lin­guer, che cercò più di ogni altro un avvi­ci­na­mento alla Dc, aveva sem­pre mani­fe­stato incom­pren­sione per il ben diverso tra­va­glio di un mondo cat­to­lico che non si iden­ti­fi­cava affatto con il par­tito e che, dopo aver emar­gi­nato Dos­setti, aveva assunto il ruolo di pila­stro del neo­ca­pi­ta­li­smo ita­liano. Fu un rim­pro­vero che avan­zammo già ai tempi della Fgci, quando egli mancò di capire, e a trarne con­se­guenze in ter­mini di ini­zia­tiva poli­tica, la crisi pro­fonda della gio­ventù cat­to­lica per effetto di quella scelta e che portò alle dimis­sioni di ben due pre­si­denti della Giac e molti ade­renti alla Fuci a con­fluire via via nel Pci.

Non sono pochi né di poco conto, dun­que, i dis­sensi che ci hanno oppo­sto. E però c’è poi quanto accadde a par­tire dalla fine dei ’70. Su que­sto non fummo tutti con­cordi e il dibat­tito pro­se­guì a lungo ancora negli anni 2000 sulle colonne de “La Rivi­sta del Mani­fe­sto”, quella che ripren­demmo a pub­bli­care gra­zie all’incontro con gli ex ingra­iani che nel 1969 non ave­vano seguito la nostra scelta e al rein­con­tro fra tutti noi mani­fe­stini, fra cui il rap­porto si era incri­nato nel 1978, col distacco fra il Pdup e la reda­zione del giornale.

Per noi del Pdup si trattò di una vera svolta, la “seconda svolta di Salerno” fu defi­nita, per­ché prese corpo con un discorso di Enrico Ber­lin­guer ad un Comi­tato cen­trale d’emergenza che si tenne in quella città subito dopo il ter­re­moto dell’Irpinia; e dopo che nelle ele­zioni del ’79 il Pci aveva perso il 4% dei voti. In realtà il prezzo pagato alla poli­tica dell’unità nazio­nale era stato ben più pesante di quel pugno di voti: il par­tito stesso ne era uscito fatal­mente dete­rio­rato per effetto della pro­gres­siva iden­ti­fi­ca­zione con il sistema dei poteri locali.

La svolta, di nuovo molto sche­ma­ti­ca­mente, con­si­stette soprattutto:
- nell’abbandono del com­pro­messo sto­rico e nella pro­po­sta di alternativa;
la aperta pole­mica con la linea adot­tata dalla Cgil di Lama (e una buona parte della dire­zione del Pci che l’appoggiava), che lo indusse a recarsi ai can­celli della Fiat a riaf­fer­mare il dovere di rap­pre­sen­tanza della classe ope­raia del Pci, e dun­que la pro­po­sta di refe­ren­dum sulla scala mobile azzop­pata dall’accordo detto di San Valen­tino fra sin­da­cato e governo Craxi;
- la rot­tura con l’Urss brez­ne­viana, certo fatal­mente tar­diva ma che con quella frase «è ces­sata la spinta pro­pul­siva della rivo­lu­zione di otto­bre» voleva dire una cosa suc­ces­si­va­mente negata: che era comun­que bene che quella rivo­lu­zione ci fosse stata, anche se era andata a finire male;
- il suo soste­gno al movi­mento paci­fi­sta, che si accom­pa­gnò al suo discorso sulla pos­si­bi­lità per l’Europa di una terza via, dun­que di un auto­no­mia dai due modelli, così come pur fra molte incer­tezze emer­geva anche nel dibat­tito della sini­stra social­de­mo­cra­tica europea;
- il suo discorso sull’austerità, che non voleva dire mona­cale rinun­cia ai pia­ceri della vita (come fu inter­pre­tata), né cedi­mento alle richie­ste padro­nali di “auste­rity”, ma assun­zione del moder­nis­simo pro­blema di un nuovo modello di sviluppo;
e, infine, l’intervista sulla cor­ru­zione, che fu in realtà la denun­cia di una ormai gra­vis­sima crisi della democrazia.

Molti, anche fra le nostre fila, Ros­sana per esem­pio, di que­sto pas­sag­gio det­tero un giu­di­zio più severo, quelli del Pdup vi fon­da­rono invece il rein­con­tro con Ber­lin­guer, nella fase della più pro­fonda aggres­sione dell’anticomunismo cra­xiano. Fu lui stesso a pro­porci di entrare nel Pci, venendo pochi mesi prima di morire al nostro con­gresso a Milano, forse anche per­ché pur essendo noi un pic­colo par­tito ave­vamo qual­che migliaio di qua­dri capaci che pote­vano aiu­tarlo a rom­pere l’isolamento in cui si era tro­vato nel suo stesso par­tito. Noi accet­tammo: non si tratta di un rien­tro – disse Magri al Con­gresso in cui venne presa la deci­sine — ma un rein­con­tro, una tappa del pro­cesso che ave­vamo ipo­tiz­zato fin dalla nascita de “Il Mani­fe­sto”: aprire una dia­let­tica fra movi­mento ope­raio tra­di­zio­nale e nuovi movimenti.

Credo sia stato giu­sto farlo, anche se la improv­visa scom­parsa del segre­ta­rio del Pci tagliò le ali a quella pro­spet­tiva. Altri com­pa­gni, la mag­gio­ranza della reda­zione del gior­nale, non seguì quella scelta e ebbero ragione sul fatto che il Pci che ritro­vammo non era forse più riformabile.

“E’ morto un buon comu­ni­sta” – inti­tolò il giorno dopo la morte di Ber­lin­guer il mani­fe­sto. E Luigi scrisse, affranto, nel suo edi­to­riale del 12 giu­gno che la sua morte «era una tra­ge­dia poli­tica», per via «dei grandi rischi che la demo­cra­zia ita­liana sta cor­rendo». Il titolo diceva: «Caduto in bat­ta­glia», il rico­no­sci­mento della durezza dello scon­tro in cui in quei suoi ultimi anni di vita era impe­gnato, uno scon­tro in cui, «lui che, per sua natura così pru­dente, ha tro­vato accenti estremi per espri­mere i suoi con­vin­ci­menti e susci­tare ener­gie capaci di rove­sciare l’andamento delle cose». Fino a riven­di­care orgo­glio­sa­mente “la diver­sità” dei comu­ni­sti: non per super­bia o arro­ganza, ma per sot­to­li­neare che quel che li distin­gueva era un di più di impe­gno, di mora­lità, di dispo­si­zione al sacri­fi­cio, in nome della lotta per una società non sem­pli­ce­mente “aggiu­stata”, ma radi­cal­mente diversa.

Delle frasi pro­nun­ciate in que­gli ultimi anni da Enrico vor­rei ricor­darne soprat­tutto una, che oggi mi pare essen­ziale: «Non c’è fan­ta­sia, inven­zione o rin­no­va­mento, se si sman­tella quello che vi è alle spalle».

Per finire, la memo­ria di una bat­tuta di Lucio: «Pen­sate la sfiga dei comu­ni­sti, muo­iono tutti – Gram­sci, Togliatti, Ber­lin­guer, Andro­pov – pro­prio quando diven­tano più intelligenti».

C’è stato un tempo in cui la poli­tica non si faceva nei talk show. I pro­ta­go­ni­sti di quella sta­gione non erano miliar­dari (né si appre­sta­vano a diven­tarlo) che incen­tra­vano la pro­pria azione sul cari­sma per­so­nale e su misu­ra­zioni del con­senso che ricor­dano i mec­ca­ni­smi dell’audience mediatico. Di que­sta epoca che si sta­glia alle nostre spalle, pro­ta­go­ni­sta indi­scusso è stato Enrico Ber­lin­guer, per quasi quin­dici anni lea­der indi­scusso del par­tito comu­ni­sta ita­liano, di cui il pros­simo sette giu­gno si cele­bra il tren­ten­nale della morte, avve­nuta a Padova durante un comi­zio in vista delle immi­nenti ele­zioni europee.

Fra i molti libri che le più pre­sti­giose case edi­trici ita­liane si appre­stano a stam­pare, emerge con un valore tutto pro­prio il lavoro ine­dito di Guido Liguori, stu­dioso del pen­siero poli­tico e di Gram­sci, di cui esce in que­sti giorni per Carocci il suo Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio. Il pen­siero poli­tico di un comu­ni­sta demo­cra­tico (pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Ber­lin­guer. Un’altra idea del mondo. Anto­lo­gia 1969-1984, Edi­tori Riu­niti Uni­ver­sity Press).

Il rischio del volume è di idea­liz­zare quell’epoca e, con essa, Enrico Ber­lin­guer che ne è stato un pro­ta­go­ni­sta indi­scusso. Un rischio che si pre­senta con tutta evi­denza quando Liguori ce lo descrive come il diri­gente per il quale la poli­tica è «pas­sione e dovere», un modello di uomo poli­tico impen­sa­bile ai giorni nostri, che «sem­pre immerso nei libri e nei gior­nali, pas­sava le not­tate a leg­gere, a pre­pa­rarsi». Un rischio desti­nato a essere supe­rato gra­zie al rigore ana­li­tico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chia­ri­sce del con­te­sto in cui Ber­lin­guer si tro­vava ad operare.

La fine di un'epoca

In que­sto senso è cen­trale un epi­so­dio ripor­tato nel volume: il 27 giu­gno del 1976, al sum­mit di Puerto Rico dei paesi più indu­stria­liz­zati, i pre­si­denti di Stati Uniti e Fran­cia, con­giun­ta­mente ai primi mini­stri di Regno Unito e Ger­ma­nia Ovest, si riu­ni­rono in tutta segre­tezza e all’insaputa di Aldo Moro (allora capo del Governo ita­liano e anche lui pre­sente al sum­mit in rap­pre­sen­tanza del pro­prio paese), per con­ve­nire sulle misure puni­tive che sareb­bero state prese nei con­fronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo. A nulla erano ser­vite le dichia­ra­zioni con­ci­lianti di Ber­lin­guer sulla Nato: il par­tito comu­ni­sta ita­liano, il più grande e forte dei paesi occi­den­tali, con­ser­vava il ruolo di nemico da com­bat­tere, Un epi­so­dio elo­quente sve­lato al pub­blico dal lea­der social­de­mo­cra­tico tede­sco Hel­mut Sch­midt, il quale parlò di un vero e pro­prio «avver­ti­mento», vei­colo di un «ter­ro­ri­smo economico».

L’apertura di Ber­lin­guer verso il blocco gover­nato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichia­ra­zione della «nostra appar­te­nenza» ai paesi Nato (la cosid­detta «via ita­liana al socia­li­smo» non pre­ve­deva osta­coli o con­di­zio­na­menti da parte dell’Urss, secondo le parole del segre­ta­rio), ma evi­den­te­mente que­sto non era stato suf­fi­ciente a tran­quil­liz­zare i pro­fes­sio­ni­sti dell’anticomunismo, memori di un capo del par­tito comu­ni­sta ita­liano che, sem­pre in que­gli anni, si lasciava andare a una dichia­ra­zione tanto forte quanto discu­ti­bile: «È un fatto: nel mondo capi­ta­li­stico c’è la crisi, nel mondo socia­li­sta no».

Liguori è oppor­tuno ed effi­cace nel richia­mare un dato cen­trale: quella, a cavallo fra gli anni Set­tanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comun­que cam­biando. È in quella fase che ha ini­zio il feno­meno poli­tico sociale che oggi­giorno si è affer­mato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costi­tui­sce un ele­mento nodale di com­pren­sione di quel tempo: la fine del modello key­ne­siano, carat­te­riz­zato da una felice com­mi­stione di libero mer­cato e inter­vento gover­na­tivo (wel­fare state) e il ritorno pre­po­tente dell’ideologia e della poli­tica libe­ri­sta, basata sull’esaltazione della ricerca del pro­fitto indi­vi­duale e sulla mor­ti­fi­ca­zione di ogni inter­vento sta­tale che fosse volto alla tutela della giu­sti­zia sociale.

Il peccato originale

Con­tro que­sto pre­pon­de­rante ritorno di un’economia a cui veniva affi­dato il governo incon­tra­stato sulla poli­tica e sulle fac­cende umane, nell’ambito del mondo che si stava glo­ba­liz­zando, Enrico Ber­lin­guer oppo­neva una solu­zione che ha forti eco con quella por­tata avanti da Joseph Sti­glitz (pre­mio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei libe­ri­sti): un «governo mon­diale» che, sulle basi poli­ti­che della cen­tra­lità dell’uomo e dei suoi biso­gni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mer­ca­ti­ste di un capi­ta­li­smo che «aveva gene­rato la deca­denza della vita eco­no­mica e della vita sociale, da cui nasce­vano non solo cre­scenti disagi mate­riali per le grandi masse della popo­la­zione lavo­ra­trice, ma anche il males­sere, le ansie, le ango­sce, le fru­stra­zioni, le spinte alla dispe­ra­zione, le chiu­sure indi­vi­dua­li­sti­che, le illu­so­rie evasioni».

In tale con­te­sto quella di Ber­lin­guer è anche la sto­ria di una grande scon­fitta, e que­sto emerge in maniera timida dalle con­si­de­ra­zioni di Liguori. Il suo essere stato anzi­tutto un uomo dell’apparato, la sua mio­pia ideo­lo­gica e poli­tica rispetto alle spinte pro­ve­nienti dai movi­menti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il con­ser­va­to­ri­smo ideo­lo­gico misto al defi­cit di lai­cità (pec­cato ori­gi­nale del comu­ni­smo ita­liano) che lo situa­rono su posi­zioni scet­ti­che riguardo agli impor­tanti refe­ren­dum indetti dai radi­cali negli anni Set­tanta, rap­pre­sen­tano alcuni degli ele­menti alla base della scon­fitta di Ber­lin­guer (e del Pci), soprat­tutto di fronte alle spinte post­mo­der­ni­ste pro­ve­nienti dal Psi del ram­pante Craxi.

Inopportune mitologie

Allora come oggi, pro­ba­bil­mente, in cui l’apparato più orto­dosso del Pd (pro­ve­niente dall’ex Pci), col pro­prio immo­bi­li­smo ha lasciato campo libero all’emersione esplo­siva di figure spre­giu­di­cate e senza un fon­da­mento teo­rico e pro­gram­ma­tico di fondo, ci si è tro­vati a pagare un prezzo sala­tis­simo e dram­ma­tico, pro­prio nel momento in cui mag­gior­mente sarebbe stato neces­sa­rio avere un forte con­tral­tare alle spinte nuo­va­mente disu­ma­niz­zanti e tota­li­ta­rie del neo-liberismo.

Certo, la denun­cia ber­lin­gue­riana della «que­stione morale» fu quanto mai pro­fe­tica, come quel suo monito affin­ché i «par­titi ces­sino di occu­pare lo Stato», ma è indub­bio che troppi ritardi all’interno del Pci con­tri­bui­rono in maniera sostan­ziale a che l’ideologia libe­ri­sta riu­scisse nella sua impresa di distrug­gere pro­prio lo Stato, ren­dendo con­se­guen­te­mente obso­leti e depo­ten­ziati que­gli stessi par­titi (e idee) politici.

Ormai è il tempo in cui la poli­tica si fa nei talk show. Una «pic­cola poli­tica» (Gram­sci) a cui Ber­lin­guer ha poco o nulla da dire. Alla «grande poli­tica», ammesso che essa possa final­mente tor­nare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia con­sa­pe­voli anche dei suoi limiti. Tenen­dosi ben lon­tani da inop­por­tune mito­lo­gie. Ben lon­tani, a pen­sarci bene, dalla logica spet­ta­co­lare dei talk show.

A 22 anni Enrico Berlinguer fu ristretto in carcere per 100 giorni, per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro il governo Badoglio (quello che, l'8 settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia con gli Alleati, aveva proclamato "la guerra continua", a fianco dei nazisti). La Repubblica, 5 maggio 2014

Lettere dal carcere del prigioniero Enrico Berlinguer
di Simonetta Fiori

A VENTIDUE anni Enrico Berlinguer viene arrestato a Sassari per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro Badoglio. È il 17 gennaio del 1944, un inverno di fame nera.
Nell’Italia divisa in due – il centro Nord occupato dai tedeschi e il Mezzogiorno liberato dagli angloamericani – la Sardegna resta come separata, priva di alcun approvvigionamento. A pagarne il prezzo sono le classi più povere, guidate nella sommossa dal segretario della sezione giovanile comunista. Prossimo alla laurea in Legge, Enrico proviene da una famiglia di solida borghesia professionale, con una radice di piccola nobiltà agraria: il padre Mario era stato deputato antifascista nel 1924 e ora è uno dei leader del partito d’azione. Il più moderato genitore non approva la “rivolta del pane”, liquidata come manifestazione di “estremismo infantile”. Ma questo non gli impedisce di stare al fianco di quel suo figlio molto amato, affannandosi perché il caso venga chiuso al più presto.

Enrico trascorrerà nel carcere di San Sebastiano cento giorni, per ciascun giorno un piccolo segno sul muro della cella. Cento giorni di letture intense, documentati da un corpus di 32 lettere che Walter Veltroni ha avuto dalla famiglia e che rende pubbliche per la prima volta nel suo nuovo libro Quando c’era Berlinguer . Le missive, che qui in parte riproduciamo, lumeggiano una formazione intellettuale molto varia – non solo Marx ed Engels ma anche Tocqueville, Croce, Voltaire, Locke, Liszt, Poe tradotto da Baudelaire – e un carattere naturalmente sobrio. «Non mandate troppo da mangiare», «non drammatizzate la mia situazione»: l’intento, con i famigliari, è sempre quello di spegnere ogni enfasi. Se c’è freddo, Enrico non lo sente. Patisce le privazioni ma è «sereno d’animo». Soprattutto vuole ottenere la libertà «senza umiliazioni e conservando la dignità», «né ridicolo né vile» («non voglio farmi passare per vittima»). Su tutte le passioni prevale la vocazione politica, per la quale ricorre alla inusuale formula di “comunista-anarchico”. Nella primavera del 1944, in un modificato clima politico, arriva il proscioglimento in istruttoria per non aver commesso il fatto. Dopo cento giorni, finalmente la libertà. E il definitivo passaggio alla vita adulta.

Stralci dalle lettere dal carcere
di Enrico Berlinguer

CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.

*** Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia pie- na approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. [...] *** Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmen- te ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.

*** Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc...) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.

*** Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico

dal libro: Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer (Rizzoli)

Riflessioni su un “docufilm” (“Quando c’era Berlinguer”) che certamente farà sognare, rimpiangere, discutere, e forse anche sperare quanti credono che, se un altro futuro è possibile, le sue radici sono nella nostra storia.

La Repubblica, 19 marzo 2014

Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare. La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto la Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.

Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.

Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?

Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la strada, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.

Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.

Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).

La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nel-l’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.

La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori.

Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.

Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vita e della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?

Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».

Ricordando il passato, e un grande uomo che aveva conosciuto bene, il fondatore di Enrico Scalfari ridiviene leggibile.

La Repubblica, 16 marzo 2014. Riferimenti in calce

Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.

Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.

La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.

Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.

La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.

Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. (Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.Oltre alle interviste su Repubblicaaccettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.

In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.

Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.

Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.

Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».

Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninistastalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.

Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.

***

Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».

Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».

Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La

questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».

Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). «Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».

Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.

Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.

Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».

Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.

C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

Riferimenti

Numerosi scritti di Berlinguer e su Berlinguer sono inqueste cartelle del vecchio archivio di eddyburg

(...) Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.

Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.

Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.

Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.

Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere - dobbiamo ammettere, anzi - che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese. (...)

L'austerità è un imperativo a cui oggi non si può sfuggire. Certe obiezioni di qualche accademico ignorano dati elementari del mondo di oggi e dell'Italia di oggi. In sintesi, questi dati sono: innanzi tutto, il moto e l'avanzata dei popoli e paesi del Terzo mondo, che rifiutano e via via eliminano quelle condizioni di sudditanza e d'inferiorità, cui sono stati costretti, che sono state una delle basi fondamentali della prosperità dei paesi capitalistici sviluppati; in secondo luogo l'acuita concorrenza, la lotta senza esclusione di colpi fra questi stessi paesi capitalistici, della quale fanno sempre più le spese i paesi meno forti e sviluppati, fra i quali l'Italia; infine, la manifesta e ogni giorno più evidente insostenibilità economica e insopportabilità sociale, in questo mutato quadro mondiale, delle distorsioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della società italiana negli ultimi venti-venticinque anni.

Da tempo noi comunisti cerchiamo di richiamare l'importanza e di far prendere coscienza di questi dati oggettivi della situazione del mondo e dell'Italia. Tuttavia, ancora oggi molti non si sono resi conto che adesso l'Italia si trova oramai - ma io credo, prima o poi, anche altri paesi economicamente più forti del nostro si troveranno - davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose così come stanno andando, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell'imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli e di minacce in una occasione di cambiamento, in un 'iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà, che sia dunque non una sconfitta ma una vittoria dell'uomo sulla storia e sulla natura.

Ecco perché diciamo che l'austerità è, si, una necessità, ma può essere anche un'occasione per rinnovare, per trasformare l'Italia: un'occasione, certo, come ha detto qui un compagno operaio, tutta da conquistare, ma quindi da non lasciarci sfuggire.

L'austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. (...)

La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. "Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari.

Fonte:

http://www.pdcipadova.it/RICORDO%20DI%20BERLINGUER.htm.html

L’Unità

mi ha chiesto ciò che ricordo del giorno in cui il giornale, che allora dirigevo, diede, con tanti italiani, L’«Addio» a Enrico Berlinguer. Era mercoledì 13 giugno del 1984. Ma la giornata lunga era iniziata la notte tra il 7 e l’8 giugno, nel momento in cui Ugo Baduel mi telefonava da Padova per dirmi che Enrico era in condizioni disperate.

Ero a casa e tornai a Via dei Taurini, sede storica dell’Unità, che avevo lasciato da qualche ora, dopo aver informato e convocato i compagni che con me lavoravano al giornale, Romano Ledda, Carlo Ricchini, Giancarlo Bosetti, Renzo Foa e altri: avevo deciso di fare un’edizione straordinaria che fu distribuita la mattina di venerdì 8 giugno. Lucio Tonelli, Presciutti e i compagni dell’amministrazione erano al giornale. Il titolo diceva: «Sgomento, ansia, speranza per la vita di Berlinguer». Nel sommario: «Il presidente Pertini è accorso a Padova accanto ai familiari».

Le condizioni di Berlinguer erano tali da non dare molte speranze a chi non crede nei miracoli. E con i compagni della redazione capimmo subito, cosa era Berlinguer nell’animo di milioni di militanti e di elettori e cosa rappresentava nella coscienza nazionale. Dovevamo metterci su quella lunghezza d’onda, capire che il dramma di Berlinguer, che si svolgeva in un ospedale di Padova, non coinvolgeva solo il Pci. E avemmo subito un riscontro nel gesto di Pertini. Ma via via, le dichiarazioni di Cossiga, Saragat, Craxi, De Mita, di uomini del mondo della cultura e dell’economia, dei leader della sinistra europea e le parole del Papa, ci diedero la conferma di ciò che si sarebbe verificato. Infatti, ora dopo ora, la commozione e la partecipazione del popolo fu tale da configurarsi come uno dei momenti in cui la scomparsa di un leader mette in evidenza valori che sono nel profondo della coscienza nazionale. Il fatto che quella commozione e partecipazione si manifestassero nel momento in cui era in corso un’aspra lotta politica, in parlamento e nel paese - si discuteva il decreto di Craxi sulla scala mobile, si era svolta la grande manifestazione a Piazza S.Giovanni, e quel leader era il segretario del Pci - ci dice come quei valori a cui facevo riferimento - rapporto tra politica ed etica e la politica vissuta come grande passione civile sino all’ultimo respiro - hanno una valenza che va oltre ogni schieramento. Ma, in quelle manifestazioni di partecipazione e di cordoglio, c’era anche l’omaggio a un leader comunista che in una libera competizione elettorale, in una grande nazione europea, sede del Vaticano, aveva fatto guadagnare al suo partito il 34,4 dei suffragi collocandolo nell’area di governo.

So bene che i titoli che facemmo in quei giorni vennero anche criticati per una personalizzazione che varcava la soglia della politica. Per esempio il titolo dell’11 giugno in cui nell’occhiello c’è la notizia: «La situazione precipita, il compagno Berlinguer ormai si spegne» e il titolo a tutta pagina dice: «Ti vogliamo bene Enrico». Questi, però, erano a mio avviso i sentimenti più elementari e angoscianti del momento che attraversavano tante persone. E, questi, erano i miei sentimenti dato che con Enrico ebbi, come dirò, un serio e forte contrasto politico nel 1980-81, ma anche un rapporto forte dovuto non solo al fatto che lavorammo insieme per quattro anni, nella sezione di organizzazione (nel 1962-63), nell’ufficio di segreteria tra il 1963 e 1966, sino al famoso XI congresso. Quattro anni in cui ci vedevamo tutti i giorni e quando qualche mattina lui non poteva venire a Botteghe Oscure, perchè Letizia non c’era, e accudiva i figli, andavo a casa sua per vedere insieme le cose da fare. E non c’è dubbio che nei giorni dell'agonia e in quello in cui dovetti dargli l’«Addio», come in un film rivissi tanti momenti del nostro rapporto politico e della nostra amicizia. Rapporto politico e amicizia nel Pci avevano un significato particolare e relativo. Il «Partito sopratutto» si diceva. Ma l’amicizia se era fondata sulla fiducia, la disponibilità e la verità resisteva al contrasto politico. Dal punto di vista politico ho conosciuto Enrico solo dopo il 1956 quando lasciai la Cgil per la segreteria regionale del Pci e fui eletto nel comitato centrale. Negli anni in cui maturava la politica di centrosinisra e nel partito si sviluppò una lotta politica, Enrico, come Amendola, Bufalini, Alicata, Napolitano contrastò le posizioni di Ingrao, Natoli, Rossanda, Reichlin, i quali ritenevano che il rapporto Dc-Psi si collocasse in un disegno del neocapitalismo che bisognava combattere frontalmente e non, come sosteneva Togliatti, raccogliendo la sfida sul terreno del confronto e della lotta per le riforme. Una disputa politica che, dopo la morte di Togliatti, si concluse, con Longo segretario, all’XI congresso del Pci. Enrico - che aveva condotto una lotta politica come responsabile dell’ufficio di segreteria (nei fatti era un vice-segretario) fu criticato da Amendola e altri autorevoli compagni per aver «mediato» e fu destinato alla segreteria regionale del Lazio. Una storia di cui ho parlato nel mio libro 50 anni nel PCI. Le cose poi andarono come era giusto che andassero: Berlinguer fu eletto vice-segretario (1969) e poi segretario (1972). La scelta fu fatta con il convinto concorso dei compagni che all’XI congresso si erano trovati su sponde opposte, da Amendola a Ingrao. E in seguito Berlinguer seppe tenere insieme il gruppo dirigente, anche quando espresse politiche diverse. Nella prima fase, che sommariamente viene indicata come quella del «compromesso storico» fu molto innovativo sul piano internazionale, dall’Eurocomunismo sino all’adesione al Patto Atlantico. E sul piano interno: la lotta al terrorismo, la politica di risanamento economico e il superamento in positivo del centrosinistra sino al governo di solidarietà nazionale. In quella fase i suoi più stretti collaboratori furono Bufalini, Chiaromonte, Napolitano, Natta, Di Giulio e nella gestione interna Cossutta e Pecchioli. Ma coinvolse la «sinistra»: Ingrao fu presidente della Camera. Quando Berlinguer fece la «svolta di Salerno» proponendo «l’alternativa democratica» senza un riferimento ai partiti (il governo degli onesti), la sua fu considerata una sterzata a sinistra e i coordinatori furono Tortorella, Reichlin, con loro Minucci e Occhetto in punti chiave. Per la gestione interna Pecchioli. Cossutta era ormai fuori e in polemica con Enrico. Natta volle andare a presiedere la Commissione di Controllo, ma restò un suo riferimento essenziale. La «destra» però non fu emarginata: Napolitano era presidente del gruppo parlamentare alla Camera e Chiaromonte al Senato. Con Pajetta e altri autorevoli compagni, Berlinguer guerreggiava, ma li coinvolgeva. Con Longo invece i rapporti si raffreddarono. Tonino Tatò non fu suo consigliere, ma una persona di cui si fidava. Dei suoi giudizi, anche quelli scritti e ora raccolti in un libro, Enrico prendeva quelli che coincidevano con i suoi. Pensare che Berlinguer seguisse la politica suggerita da Rodano o Tatò è un abbaglio: seguì la sua e solo la sua, spesso con testardaggine sarda. Semmai un consiglio lo accettava da Giglia Tedesco, moglie di Tatò e da Marisa Rodano, moglie di Franco. Con Nilde Jotti i rapporti sempre buoni divennero burrascosi quando alla Camera si discusse il decreto sulla scala mobile. Enrico, sbagliando, contestava le decisioni di Nilde su interpretazioni controverse del regolamento che considerava favorevole al governo Craxi. La Jotti rifiutò sempre di discutere le sue decisioni in sedi diverse da quelle istituzionali. Quel conflitto però aveva anche un fondo politico: la Nilde considerava sbagliata la svolta berlingueriana, ma non ammetteva che si pensasse che le sue decisioni fossero influenzate da quel giudizio.

Scrivo da un borgo di montagna e ricostruisco a memoria, forse ho dimenticato qualcosa. Quel che però voglio dire è che Berlinguer fece una lotta politica aperta e anche dura, ma seppe tenere insieme il gruppo dirigente senza mediare. Penso che il suo carisma derivasse soprattutto dall’affidabilità di una persona che non mentiva, non giuocava d’astuzia e non mistificava. Ed era un messaggio che trasmetteva col suo volto, il suo comportamento, il suo parlare non solo al partito ma alla gente.

Gli esperti della politica sapevano e capivano le «svolte» berlingueriane, e quella dell’81 fu drastica e, a mio avviso, sbagliata, ma la grande maggioranza del partito e della pubblica opinione percepiva un messaggio comunque affidabile, condivisibile o meno, ma vero. Solo così si spiega il concorso di personalità e di popolo che si vide al funerale.

Io non sono stato, come altri compagni, fra i «consiglieri» di Berlinguer. Il quale riteneva spesso le mie posizioni e i miei giudizi «azzardati». Nel 1976 gli dissi di non votare al primo scrutinio Andreotti presidente del Consiglio e di aprire un «conflitto guidato» con la Dc per avere Moro presidente. Mi rispose - e lo ripetè in direzione - che era un azzardo perchè era Moro che voleva Andreotti, senza il quale non si faceva il governo. Ma fu a me e ai suoi familiari che nel 1973, rientrando dalla Bulgaria, mi disse che l’incidente d’auto, da cui uscì vivo per miracolo laico, era a suo avviso un attentato. La vicenda è stata ricostruita da Fasanella e Incerti in un libro. Mi chiese di tacere per sempre e lo feci fino al 1991. Quel racconto drammatico non fu solo un atto di fiducia nel mio riserbo, ma anche un giudizio su cosa erano ormai i gruppi dirigenti dei paesi dell'Est. E non fu questo il solo caso.

Enrico sembrava introverso ma il suo era solo un modo di esprimere grande rispetto per se stesso e gli altri. Ma un fatto fu per me decisivo per capire i nostri rapporti. Come ho già ricordato, negli anni ‘80-81 Berlinguer fece una svolta rispetto alla politica di solidarietà nazionale, che io, con Napolitano, Chiaromonte, Bufalini, Perna, Lama e altri compagni, contrastai. E nel 1980 in un’intervista al Mondo dissi che la politica di solidarietà poteva essere ripresa con una direzione politica affidata non più alla Dc, ma alla sinistra, nella situazione di allora al Psi, quindi a Craxi. Apriti cielo. Non ero a Roma, Berlinguer non mi cercò e la segreteria fece un comunicato in cui si diceva che le mie erano posizioni personali e non impegnavano il partito. Un azzardo il mio e una sconfessione la sua.

Eppure - ecco il punto - nel 1982, quando all’Unità si aprì una crisi grave, fu Berlinguer a proporre e a insistere che fossi io a dirigere il quotidiano del Partito. Sapeva che poteva contare sulla mia lealtà. E così fu anche nei momenti difficili.

Lo so, l’ho fatta lunga, ma nella vecchiaia le cose che si ricordano meglio sono quelle lontane. E i giorni dell’agonia e della morte di Berlinguer sono rimasti vivi nella mia mente e nel mio cuore e ripensandoci riprovo un emozione forte. Ricordo i volti dei redattori, dei compagni che in quei giorni sostavano all’Unità. Nel giorno in cui facemmo il numero dell’«Addio», Carlo Ricchini rintracciò presso la zia di Enrico la bellissima foto che collocammo in tutta la prima pagina: un Berlinguer di tutti, così mi sembrò quella foto. Chiesi a Renato Guttuso se voleva fare un disegno e dopo qualche ora arrivò in redazione il Berlinguer comunista col popolo comunista. Chiesi a Romano Ledda di scrivere l’addio del giornale per poi definirlo insieme - ed è quello che oggi tanti giovani possono leggere - pensando di comunicare con le nostre parole i sentimenti di milioni di persone.

Il fatto che dopo ventitré anni Berlinguer è ancora nei pensieri di tanti, anche di chi lo avversò e di chi non era ancora nato, ci dice che non fu un errore o una esagerazione l’edizione che oggi avete tra le mani. È vero, da allora la politica è molto cambiata e si è tanto scolorita. Certe passioni personali e collettive sembrano quelle di un’Italia antica, che non c’è più , di partiti che non ci sono più. Con la morte di Berlinguer e l’assassinio di Moro, in effetti, si chiuse un’epoca politica. Su quella che stiamo vivendo non dico nulla, perchè mi sembra di parlare del nulla.

Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell'epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano problemi non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell'umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili.

Dobbiamo innanzitutto al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano.

La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica

La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica è sotto i nostri occhi, fa già parte delle nostre esistenze e per i giovani di oggi costituisce, ormai, quasi una condizione naturale e scontata. Ma proprio perciò occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrirne il significato e la portata, per cogliere bene quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche. Mai come oggi la conoscenza della costituzione della materia inanimata e vivente è giunta sino ad individuare molti dei meccanismi più remoti del mondo fisico, dei processi chimici, degli svolgimenti biologici. La ricerca pura ha aperto il campo a progressi e a veri e propri salti di qualità nelle applicazioni tecnico-pratiche. Emergono sopra ogni altra, in questi anni, le possibilità offerte dalla elettronica - e poi dalla microelettronica - nel campo delle comunicazioni, delle informazioni, dell'organizzazione del lavoro nella fabbrica e nell'ufficio e nel campo stesso della vita individuale e della vita associata.

Nuove risorse d'energia sono state scoperte ed esse sono tali da poter annullare nel futuro l'incubo della fine delle risorse non riproducibili. Sono stati inventati modi nuovi di trarre energia da risorse riprodotte, a cominciare dall'energia solare.

Anche la disponibilità di altre materie prime e di alimenti può trovare nuove possibilità in ricerche in atto e in altre che potrebbero essere avviate per utilizzare pienamente e razionalmente le risorse del suolo, del sottosuolo, dei mari e degli spazi.

E' pienamente vero quello che è stato detto nella relazione di Fumagalli, e cioè che, vi sarebbero le condizioni, dal punto di vista delle conoscenze scientifiche e tecniche, per iniziare a passare dal regno della necessità a quello della libertà. Se volessimo davvero fare una gara sui temi di chi abbia avuto storicamente ragione, dovremmo dire che la storia ha dato proprio ragione a chi ha tenuto fede alla speranza indicata dal Manifesto dei comunisti, alla speranza - cioè - che avrebbe potuto venire un tempo in cui sarebbe stato possibile all'uomo di dominare la natura e «l'azione propria dell'uomo» invece di essere da questa sovrastato e soggiogato (Marx).

Ma non vi è soltanto il progresso tecnico-scientifico.

La storia di questo secolo

Se noi volgiamo lo sguardo alla storia di questo secolo - che conclude il secondo millennio della forma di incivilimento cui apparteniamo - scorgiamo straordinari progressi nella coscienza dei popoli e delle persone umane che li compongono. Vi è stato, innanzitutto, un risveglio da forme di soggezione secolare, di esclusione, di avvilimento della parte più grande del genere umano. Pensiamo a quello che era all'inizio del secolo la condizione dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina ma anche di tanta parte del proletariato e dei lavoratori nell'Europa e nell'America settentrionale, per avere l'idea del rivolgimento radicale che si è venuto attuando. Un rivolgimento peraltro, che non è stato il portato meccanico delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche. Queste trasformazioni hanno generato condizioni nuove, ma vi sono state guerre, ci sono volute rivoluzioni, lotte, sofferenze e sacrifici inauditi per arrivare là dove siamo arrivati.

Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sopra il risveglio delle coscienze individuali di centinaia di milioni, di miliardi di uomini. La partecipazione alla lotta non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di mutazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo, è innanzitutto quella di tenere, o di rendere, passivi e conformisti le donne e gli uomini, ma innanzitutto le giovani generazioni.

Insieme alle conoscenze generate dalla presenza nel generale moto di innovazione e di lotta, a determinare una modificazione delle coscienze, non mai così estesa e così rapida, è venuto uno straordinario aumento della informazione che, pur dando vita anche a forme nuove e più sofisticate di manipolazione delle coscienze, ha spezzato isolamenti e chiusure talora antichissime e ha determinato per la prima volta nella storia del mondo un autentica contemporaneità degli eventi.

Ridiscussi i ruoli dell'uomo e della donna

Da tutto questo è derivata anche la possibilità di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne.

Siamo oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministici, all'inizio - un inizio certo contrastato e pieno anche di intime contraddizioni - di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente fatta alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice - che consisteva nel proporre alle donne l'imitazione del modello maschile - tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società, dei modi stessi della sua trasformazione, e della politica.

Siamo dunque di fronte ad un balzo in avanti straordinariamente grande nella storia umana e al dischiudersi di potenzialità sin qui sconosciute o solo vagamente immaginate. Ma guai a non vedere che, nello stesso tempo, si aprono dinnanzi all'umanità potenzialità negative anch'esse mai prima esistite.

Il sorgere della questione ecologica

Il primo e più drammatico pericolo è costituito dalla possibilità di giungere ad una guerra di distruzione totale. Per quanto rovinose e sterminatrici siano state le guerre del passato, in particolare quelle di questo secolo, mai si era profilata la possibilità di un evento bellico tale da porre fine a ogni forma di sopravvivenza dell'uomo su questa terra.

Contemporaneamente, l'uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L'allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull'esistenza di danni crescenti per le acque - i fiumi, i laghi, i mari - e per l'aria che respiriamo, per l'atmosfera e per la troposfera che circonda la Terra. E' già vi sono, purtroppo, i segni concreti e pratici di potenzialità distruttive inaudite in processi apparentemente innocui o protetti: qui, a pochi chilometri da Milano vi fu il caso di Seveso, dove la diossina fece deserto; altrove sono stati i difetti di centrali elettro-atomiche e in ogni parte si avvertono le conseguenze sulla natura e sugli uomini dell'inquinamento crescente.

Grava poi sulla umanità l'incubo della insufficienza delle risorse alimentari dinnanzi ad una espansione demografica senza precedenti, mentre immense risorse vengono dissennatamente dilapidate e mentre lo spreco dilaga nei Paesi ricchi. Cresce così il divario tra il Sud e il Nord del mondo: un divario intollerabile per ragioni di giustizia e foriero, se non avviato a essere superato, di esplosioni di imprevedibile portata.

La disoccupazione dato strutturale

E tuttavia anche nei paesi ricchi, anche negli Stati Uniti, la povertà, quella vecchia e quella nuova, non è stata vinta e la disoccupazione o la inoccupazione, e l'emarginazione, colpiscono una quota crescente di popolazione, innanzitutto di popolazione giovanile. Nei paesi della Comunità europea occidentale e negli Stati Uniti si sfioreranno questo anno i venti milioni di disoccupati. La inoccupazione giovanile è divenuta un fatto endemico e strutturale, con conseguenze umane gravissime: un frutto dovuto cioè non all'andamento del ciclo economico, che può solo ridurlo o aumentarlo di poco, ma alle caratteristiche di processi produttivi e di innovazioni tecnologiche guidati dalla legge del massimo profitto.

Si esercitano sulle nuove generazioni fino dalla prima adolescenza, sollecitazioni crescenti per il consumo, e in particolare per nuovi consumi individuali. Si aumenta costantemente il loro patrimonio di informazione, ma contemporaneamente non si riesce ad assicurare ai giovani un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Di qui nasce una condizione che non è certo più quella, almeno nella maggior parte dei casi, dell'estrema indigenza, (com'era ancora nell'Italia che usciva dal fascismo), ma è sicuramente una condizione di frustrazione profonda, causa non certo unica, ma non ultima di tante forme di sbandamento.

Dinnanzi a minacce e pericoli non mancano e anzi sono ampie e forti le risposte positive tra le vecchie e le nuove generazioni. E tuttavia non si può mancar di vedere le forme molteplici di incattivimento di modelli di violenza, di sopraffazione, di arbitrio, sino alle forme degenerative estreme del terrorismo, della mafia, della camorra e dei regimi repressivi di massa in tanti paesi del mondo.

In difesa della democrazia

Vi è anche chi teorizza che fenomeni come quelli del dilagare crescente nel consumo della droga pesante oppure dell'estendersi della criminalità organizzata, sarebbero uno scotto inevitabile per sistemi democratici, dove sono garantite le libertà dei cittadini. Noi non lo crediamo. Noi pensiamo piuttosto che nel presentarsi di questi mali si manifesti non una inevitabile conseguenza dei sistemi democratici, ma piuttosto una loro degenerazione profonda: una degenerazione dovuta alla contraddizione sempre maggiore tra il carattere sociale della produzione e le forme della conduzione economica, tra le motivazioni egoistiche sostenute come molla della società capitalistica e il bisogno crescente di solidarietà e di reciproca comprensione umana, tra il permanere di zone vastissime di vecchia e nuova emarginazione e la sfacciata opulenza, tra le prediche moraleggianti e i pessimi esempi pratici dati proprio da molti di coloro che dovrebbero fornire il buon esempio.

Non è dunque il sistema delle libertà democratiche che determina i guasti e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma la incapacità di saldare libertà, giustizia ed efficienza.

Per il futuro dell'umanità

Di fronte a questi problemi che caratterizzano la nostra epoca, sorgono dei quesiti urgenti. Quanti nel mondo - e come - pensano davvero a problemi di questa natura, muovendo da un'analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell'umanità?

E che cosa si può e si deve fare perché prevalgano le alternative positive, quelle che vanno in direzione della difesa della vita e della pace e della affermazione della giustizia nei rapporti tra i popoli e all'interno delle nazioni?

Dobbiamo innanzitutto alla parte più umanamente sensibile del mondo scientifico italiano e internazionale non solo l'avvertenza dei pericoli gravi che l'umanità attraversa, ma anche i primi rilevanti tentativi di indicare ai popoli e agli Stati le possibili risposte.

Ma non sono molti nel mondo i dirigenti politici, dei Governi, dei partiti e di altri organismi sociali e politici che si sono dimostrati capaci di pensare a questi problemi in modo non troppo vincolato da puri e ristretti calcoli di Stato, di partito, di gruppo, di difesa o affermazione di ristretti interessi.

Ciò mi sembra vero particolarmente in Italia. Non c'è bisogno di ripetere per la ennesima volta che noi siamo rispettosi di tutte le forze politiche democratiche e che non vogliamo dare lezioni a nessuno: però non è possibile non avvertire in molti episodi della lotta politica interna alle forze del Governo una ristrettezza di orizzonte e, talora, un precipitare attorno a non nobili contese di interessa di parte, per le quali si infiammano gli animi e si misurano i muscoli e le cosiddette «grinte» (sulle quali ha scritto un bell'articolo il compagno De Martino).

Vi è insomma una preoccupante diminuzione del tasso di saggezza nei reggitori del nostro Paese e, per quanto si vede, nel mondo intero. Conforta, va però detto, che sta crescendo il numero di esponenti politici che cominciano a porsi e a porre alcuni dei problemi che ho ricordato in tutta la loro drammaticità. Basta pensare, per quanto riguarda il problema Nord-Sud, alle analisi e alle denuncie di Fidel Castro e di Willy Brandt.

Vi sono inoltre organismi internazionali, istituzioni e associazioni religiose (la Chiesa cattolica, le altre chiese cristiane) che hanno lanciato allarmi, rivolto moniti e in molti casi promosso iniziative.

Fra le forze che pensano ai massimi problemi cui ho accennato c'è il Partito comunista italiano. Abbiamo molti difetti, ma non quello di sfuggire all'analisi e al confronto con la realtà del mondo di oggi, di non sforzarci di comprenderla in tutta la sua portata e di non cercare di elaborare nostre proposte, di sviluppare iniziative, di stabilire contatti e intese con tutte le forze che possono e devono essere interessate a far marciare le cose nella direzione giusta.

Per un nuovo socialismo

Tutto ciò ha gettato i comunisti italiani in una impresa e in una lotta quanto mai ardua e tale da esporli a incomprensioni e polemiche, tanto da parte di correnti dogmatiche e conservatrici quanto da parte di correnti opportunistiche e di adagiamento. Impresa e lotta ardue, ma piene di fascino.

Non è cosa diversa o separabile da questa nostra ricerca la nostra iniziativa per una concezione e realtà del socialismo, quello che voi giovani comunisti avete chiamato giustamente un "socialismo nuovo".

L'esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficiente e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall'età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dalla esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute.

Noi riscopriamo proprio così l'esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei procesi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Qunado iniziarono le prime rivoluzioni liberali le Costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come Democrazia e Costituzione erano parole vuote.

Socialismo e democrazia

Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. E' del resto del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nella idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli od erronee non elimina il valore di queste esigenze. Non elimina cioè il fatto - già segnalato politicamente da Togliatti nel memoriale di Yalta - che la necessità di forme programmate di intervento pubblico nella economia non può più essere in nessuna parte del mondo negata, neppure nei sistemi capitalistici, così come non si può disconoscere il bisogno di una più ampia giustizia sociale. La discussione sarà ed è sul rapporto tra programmazione e mercato, tra spinta alla eguaglianza e bisogno di differenze: ma questa è già una discussione che implica l'idea della trasformazione sociale. Ecco perché noi non pensiamo che possa essere definito moderno chi mette in parentesi la parola socialismo oppure dichiara la santa crociata contro di essa. E' vero perfettamente il contrario: è vero cioè che l'idea socialista e comunista continua ad essere la giovinezza del mondo.

Ciò che si è venuto logorando sono molte delle esperienze concrete che dimostrano i limiti, non solo pratici, di concezioni, di posizioni maturate molto tempo fa, all'inizio del secolo. Per questo il nostro partito si sforza di ammonire contro un uso dogmatico dei maestri del pensiero, e dunque anche dei maestri del pensiero socialista.

Ciò non significa affatto sottovalutare i risultati straordinari che hanno avuto la prima predicazione socialista, e poi il passaggio dal desiderio e dal sogno di una società nuova sino allo studio scientifico, con Marx, della struttura capitalistica della società del suo tempo. E' da tutto questo che è emersa la prima rivoluzione socialista, quella dell'Ottobre russo, le cui idealità e il cui valore stanno scritti nella storia del nostro tempo. Quella prima rottura innescò un processo storico nuovo, un processo che per grande tempo fu portatore di grandi conquiste e di straordinarie conseguenze nell'aprire una fase nuova di lotte per l'emancipazione nazionale e sociale.

Una fase nuova

Oggi siamo in una fase nuova e diversa dello sviluppo della lotta per il socialismo. Non da ora, certo, i comunisti italiani hanno considerato superato il mito dei paesi di tipo sovietico, mito che pure si costruì non a caso e che aiutò altre generazioni comuniste a far fronte con onore ai propri doveri, mentre molti altri (anche se non tutti) crollavano. Tuttavia questo processo si è ora completato.

Quei modelli di società e di Stato non solo - e da tempo - li giudichiamo non trasferibili in paesi come il nostro. Si viene rivelando la necessità che anche in quei paesi siano attuate riforme economiche e politiche che invertano i processi di stagnazione e di involuzione in atto in diversi di essi, processi che non possono certo essere arrestati, con misure repressive gravi, come quelle adottate dai militari in Polonia. Noi non pensiamo che si possa giungere a realizzare e a difendere trasformazioni di tipo socialistico nelle società e negli stati senza difficoltà, senza fatiche, senza contrasti e lotte. Ma vi è solo una strada giusta per affrontare e superare ogni ostacolo: appoggiarsi sul consenso e sulla partecipazione della classe operaia, dei lavoratori e del popolo. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l'uomo di oggi chiede siano soddisfatti.

Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica.

Scegliere contro l'ingiustizia

Se non si vuole che la giustizia prevalga sull'ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all'ingiustizia, o l'accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte.

Questo non vuol dire, ovviamente, che solo chi sceglie l'obiettivo del socialismo può operare per la giustizia, per la pace, per la salvezza e il progresso dell'umanità. Non è così. Vi è anzi un'altra grande necessità che oggi riprende vigore: quella di un incontro e di una collaborazione tra tutte le forze che, muovendo dalle ispirazioni più diverse, sanno, vogliono, possono farsi interpreti di questi bisogni nuovi degli uomini di oggi, di un incontro e di una collaborazione che riconoscano, rispettino ed esaltino il contributo e i valori di cui ognuno è portatore, in uno sforzo incessante di reciproca comprensione e di comune arricchimento. Vi è qui l'altro dato di fondo, peculiare e insostenibile, della nostra concezione e della nostra politica.

Il problema che dobbiamo porre a noi stessi e a tutti è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l'assurdità - tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica senza porsi l'obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale.

Quale lotta

Che cosa possiamo fare, come partito e come Fgci, per soddisfare queste esigenza ormai vitali per gli uomini e le donne che abitano il nostro Paese, il nostro continente e il nostro pianeta, sventando i pericoli di eventi catastrofici e di intollerabili dominazioni reazionarie? Per prima cosa bisogna avere delle idee-forza: la difesa della pace e il disarmo sono una di esse, così come lo è il "nuovo socialismo", così come lo è il nuovo ordine economico internazionale.

In secondo luogo dovremmo lavorare per prendere e dare consapevolezza piena delle contraddizioni nuove del tempo nostro. Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni.

Si è cominciato, praticamente, a parlarne all'inizio degli anni '70: prima, e acnora per tutti gli anni '60, imperava il vacuo ottimiso del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse.

A questo proposito avanzo una proposta concreta da realizzare in un tempo ragionevolmente breve: organizzare, come partito e come Fgci, un Congresso di fururologia, che si svolga sulla base di relazioni e comunicazioni di scienziati e di esponenti delle più varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche, ecc.); e portare poi i risultati delle informazioni, valutazioni e proposte, che saranno fatte in tale Congresso alla conoscenza e alla discussione tra i giovani.

La terza cosa da fare, la più importante, è quella di proseguire nello sforzo già in atto per sviluppare tutti quei movimenti che si fondino sulle contraddizioni aperte, indichino soluzioni possibili, suggeriscano risultati concreti lungo una via di trasformazione e contribuiscano nel tempo stesso a migliorare e arricchire noi stessi nel nostro rapporto con gli altri.

Quando il movimento operaio muoveva i primi passi oltre un secolo fa, erano le minute rivendicazioni economiche che dovevano avere il primo posto. La grande battaglia unificante, che divenne internazionale, fu per le otto ore. Se non si fosse partiti di lì non si sarebbero certo potute costruire le leghe, i sindacati, il partito politico.

Oggi quel problema si ripresenta. E torna prepotentemente di attualità, se si vuole affrontare il tema della disoccupazione nei suoi aspetti strutturali, la esigenza di una grande battaglia internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro. E' stato giusto che questo congresso abbia levato su questo tema una richiesta anche nei confronti dei sindacati.

La qualità dello sviluppo

La piaga della disoccupazione giovanile richiede grandi iniziative anche a livello europeo e una nuova politica nazionale che tenda a modificare la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Ma - dunque - la battaglia per il lavoro chiede anch'essa specificazioni di qualità: riguardanti il tipo di sviluppo che è necessario e utile perseguire. Quanto sarà possibile sostenere una espansione fondata essenzialmente su produzioni, come dicono gli economisti, "mature" e cioè all'avanguardia, sul lavoro sommerso, sul permanere di una dipendenza fortissima nella ricerca e nei brevetti?

Ecco il bisogno economico di misurarsi con la qualità dello sviluppo. Contemporaneamente, si tratta di un bisogno non soltanto economico. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita culturale più ricca e piena, di andare ad una scuola il cui insegnamento sia qualificato; tutto questo viene diventando necessità primaria, come erano una volta, le necessità di sussistenza.

Ecco perché il movimento ecologico, nei suoi differenziati aspetti, la volontà di impegno culturale, lo stesso desiderio di partecipazione attiva al miglioramento della scuola hanno acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo.

Ed ecco perché noi non possiamo pensare di chiamare i giovani alla politica secondo vecchi contenuti e vecchie forme. Come portare la grande maggioranza dei giovani alla consapevoleza piena della realtà e alla possibilità di affrontarla alla luce della ragione. La ideologia della fine delle ideologie è essa stessa una forma di falsa coscienza e cioè una ideologia nel senso marxianamente peggiore della parola. Vi è una pressione forte per un allontanamento di giovani dalla politica.

Giovani generazioni e politica

La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appanaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, i quali hanno l'interesse fondamentale a costruire il proprio futuro e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia.

Non è mai stato facile essere comunisti. L'assassinio di compagni Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono la prova più recente che non è neppure mai finito il tempo in cui bisogna testimoniare persino con il sacrificio estremo la propria fedeltà alle grandi idee per cui tanti dei nostri compagni sono caduti. Ma vi sono oggi difficoltà anche meno aspre e più impalpabili, date dal fatto che i problemi si presentano in forma diversa e più complessa che per il passato, perché le contraddizioni medesime della società tendono ad essere non più solo quantitative ma a riguardare la qualità dello sviluppo, della vita, del modo di esser donne e uomini, del rapporto tra individuo e individuo, tra individuo e società.

Alla crisi delle vecchie forme della politica già corrisponde, se sappiamo vederlo, il nascere di forme nuove di impegno. E queste nuove forme non derivano soltanto dal fatto che molti partiti siano in crisi e altri, compreso il nostro, sentano difficoltà, ma derica dal fatto che avanzano, assieme a questioni nuove, nuove sensibilità.

Vi è, per esempio, un bisogno più grande che per il passato di veder pienamente utilizzato il proprio tempo e il proprio contributo. Non possiamo perciò rammaricarci se tanta attività dei partiti, effettivamente ripetitiva, non viene seguita. Ma vi è anche più informazione, più spirito critico, più avvertita vigilanza contro i luoghi comuni, e le frasi fatte. Ecco perché certo vecchio modo di fare politica oramai respinge nel mentre si sviluppa una spinta grande all'associazionismo, a forme nuove di aggregazione, a nuovi interessi. Nella ripresa di tante forme di associazionismo cattolico non vi è soltanto, il bisogno di certezze che una fede può dare, vi è anche un grande e attivo impegno operativo intorno a tante cause positive. Le Chiese sospingono all'impegno nella società e da ciò deriva una religiosità che non è fuga dal mondo, ma opere e fatti.

Di qui sono venuti e possono venire contributi di notevole rilievo: innanzitutto al movimento per la pace. Talora, ciò si accompagna a spinte integraliste ma, quali che ne siano le motivazioni, bisogna essere attenti alle finalità concrete che vengono perseguite e vedere quali sono i possibili obiettivi consumi. Occorre non confondere mai la necessaria lotta contro il sistema di potere democristiano - sistema di potere che, con buona pace dell'attuale segretario della Dc, continua ad essere una pesante realtà e non una invenzione dei comunisti - e la necessità di intendere la complessità delle spinte presenti nell'area cattolica.

Noi non ci lasceremo impressionare dalla campagna pretestuosa in base alla quale ogni attenzione nostra verso la realtà cattolica viene presentata come ricerca di una intesa tra Dc e Pci. Si tratta di propaganda. Al tempo della solidarietà nazionale noi fummo sempre con i compagni socialisti dapprima nell'astensionismo, poi nel breve periodo della maggioranza. Non siamo certamente noi che abiamo praticato la linea della divisione a sinistra e della intesa separata con la Dc.

Abbiamo dichiarato e ripetiamo, comunque, che quell'esperienza politica è per noi conclusa.

La nostra prospettiva è quella di un'alternativa democratica al sistema di potere dominato dalla Dc. E' ed è in questo quadro che si colloca la nostra ricerca di uno sviluppo del rapporto unitario prima di tutto con il Psi.

Ma guai se, per timore di una propaganda malevola, noi dismettessimo la nostra attenzione verso il mondo cattolico. Proprio la piena conquista di una laicità storicamente costruita ci consente questa capacità continua di distinzione: volta a cercare di interpretare, nel campo che è proprio del partito politico, i bisogni del tempo, da chiunque essi vengono espressi. Non ci sfugge, quindi, che viene anche dal campo cattolico un bisogno di fare, di agire che corrisponde alla necessità effettiva di vedere almeno alleviati molti dei problemi assillanti di tanta parte della popolazione. E' ciò che si chiama il «volontariato». Il volontariato non è soltanto cattolico. Alle radici stesse del movimento operaio c'è il moto della solidarietà reciproca; l'originario costituirsi (prima delle leghe, prima del partito) di associazioni di mutuo aiuto, di reciproco sostegno.

In molte organizzazioni del volontariato, in ogni campo, credenti e non credenti lavorano insieme e anche quando le organizzazioni sono distinte e le aspirazioni ideali diverse, sovente le finalità di solidarietà umana comuni. E abbiamo visto proprio nei giorni scorsi, in una riunione nazionale, quante e quanto valide siano le forze nostre impegnate nelle associazioni volontarie.

Lo sviluppo nuovo e impetuoso di queste antiche e nuove forme di aggregazione ci insegna tante cose: non certo che si può fare a meno delle lotte (fra le quali oggi hanno portata decisiva quella per respingere l'offensiva della Confindustria). Né si può fare a meno dello Stato o della mano pubblica - come qualche teorico, anche di parte cattolica, suggerisce - ma certo che bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, che bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società.

Lo sviluppo dell'associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. «Democrazia» deve congiungersi con efficienza e «libertà», deve divenire responsabilità e liberazione...

Fonte:

http://utenti.lycos.it/nostalgici/berlinguer.htm

Si capisce perché non c´è posto per Enrico Berlinguer nell´imminente Partito democratico. E tanto vale cacciarsi subito il dente: non c´è posto per Berlinguer, perché nessuno più di lui ne rappresenta la cattiva coscienza.

Con qualche ragionevole ribalderia si può anche dire che Berlinguer resta fuori dal Pd per la semplice, ma indicibile ragione che mette in luce la lunga e folta coda di paglia di tanti dirigenti diessini. Ma se l´immagine disturba, o suona azzardata, o immotivata, si potrebbe pure cercare di dimostrare che la figura di Berlinguer non entra nel «nuovo» partito perché è ancora oggi egli incarna delle virtù che non solo nel campo della sinistra post-comunista si sono ormai quasi definitivamente estinte.

La questione va ben al di là di quella gettonatissima entità ectoplasmica che nel discorso pubblico comincia a essere questo «Pantheon». Di sicuro non sarebbe andato a genio a Berlinguer. «Non amo le semplificazioni» ripeteva spesso; e anche: «Non faccio profezie». Non per caso lo chiamavano «il Sardomuto». Berlinguer non faceva battute in televisione, tantomeno le commentava. Era difficilissimo farlo sedere sui trespoli degli studi televisivi, figurarsi se si sarebbe permesso di affrontare una questione politica solleticando la suspence del pubblico con una frasetta tipo: «Guardi cosa arrivo a dire»; né sarebbe mai scivolato nell´intimismo con quell´inciso un po´ teatrale: «E mi costa molto!». Berlinguer non salutava a pugno chiuso, riteneva quel gesto «un segno di ostilità». E´ lecito quindi ipotizzare che mai avrebbe concluso, come il risoluto Bersani: «Punto e basta».

Oggi invece ci si può tranquillamente esprimere in quel modo, anzi forse si deve. Infatti «funziona». O nessuno ci fa più caso. E comunque pazienza. Ma se la battuta di Bersani fa un po´ di notizia; se si parla ancora una volta di Berlinguer è proprio perché il personaggio non si adattava per niente a «funzionare». Era quasi impossibile «fargli dire» questo o quel giudizio, magari schiacciandolo sulle modalità espressive del presente; le rare volte che qualche giornalista ci riusciva, per quanto dotato di fascino mediatico, quell´uomo dai capelli un po´ dritti e dalle giacche lente restava comunque immerso in un presente tutto suo. «Non ha nemmeno la televisione a colori» disse una volta Craxi. Ora, sarebbe di cattivo gusto evocare campionati di popolarità e rispetto post-mortem. Ma certo quella vecchia televisione in bianco e nero nel tinello di casa Berlinguer, più che una metafora di grigio modernariato politico sembra oggi la «prova regina» - come diceva lui con spiccato accento sassarese - di una mutazione genetica che certo non fa onore all´attuale ceto politico, o politicistico, o politicante, o peggio.

Il punto è che questa trasformazione antropologica, che riguarda l´intera classe politica italiana, rischia di apparire ancora più evidente nel campo che fu suo. Lo si vorrebbe qui dire nel modo meno animoso, come pura e piatta constatazione. Ma di nuovo: Berlinguer è divenuto scomodo perché è tutto quello che i dirigenti diessini hanno smarrito: il silenzio, la compostezza, la sobrietà, la serietà, lo spirito di servizio, il senso della propria dignitosa e decorosa funzione, il disdegno dell´omaggio e della «comunella» con gli avversari, la concezione alta non solo della politica, ma anche del potere. In un´intervista a Giovanni Minoli, che gli chiese cosa pensava del potere, se gli piaceva, Berlinguer, senza muovere un muscolo del volto, ma con un´intensità niente affatto minacciosa, rispose che il potere gli poteva anche piacere, «ma come possibilità di far avanzare gli ideali in cui crediamo io e i miei compagni».

Si noti la formulazione. In questo senso, pare addirittura di scorgere una qualche proporzione matematica. Ai suoi tempi Berlinguer era il «noi» nella misura in cui i dirigenti post-comunisti sono oggi un´accolita di «ego» per lo più arroventati e quindi sempre disposti a farsi del male l´uno con l´altro. E tutto questo non significa che egli sia da considerare il Padre Pio del comunismo italiano, ma certo conosceva e praticava doti che oggi non sembrano molto in voga dalle parti di via Nazionale, o nelle fondazioni limitrofe. La prima delle quali doti potrebbe essere, ad esempio, l´umiltà. E la seconda, sempre almanaccando, la tenuta psicologica. E la terza, se è consentito divagare dai massimi sistemi, la gentilezza, il garbo, il tratto umano.

Poi sì, certo, si capisce, c´è la politica, c´è la morale, c´è la guerra fredda. Su sulla «storia», sulle scelte di Berlinguer, sui suoi ritardi, sui suoi errori, sulla rigidità, la doppiezza, gli attuali oligarchi del Botteghino potrebbero utilmente intrattenere quel resta di un antico partito. Il compromesso, l´austerità, lo strappo, la musata sulla scala mobile, la diversità. Ma lui era diverso davvero, anche come stile, anche come dirigente, anche come uomo. E su questo i capi diessini non dicono molto. Anzi, a metterla giù dura, l´impressione è che oggi Enrico Berlinguer è diventato ingombrante perché sta lì a ricordargli, e nel modo meno simpatico, le ragioni originarie del loro stesso impegno politico. Ragioni che - via, lo ammettano! - si sono, come dire, un po´ indebolite. Ragioni che si sono attenuate, «modernizzate», «laicizzate». E anche vero rientra nel novere delle cose che possono e a volte devono accadere. Ma al tempo stesso, modernizzandosi e laicizzandosi, quell´impulso primigenio, quella voglia tutta giovanile di battersi per la povera gente - il Berlinguer partecipò giovanissimo ai «moti del pane», guidando la mobilitazione di gente che aveva fame - ecco, morto lui, in tanti e tanti ex giovani quadri del Pci quelle ragioni si sono aperte a tante e tante altre cose non proprio berlingueriane.

Berlinguer è morto nel 1984, e nel corso di questi 23 anni è stato tirato da una parte e dall´altra, tagliato a fettine, esposto sulle bancarelle congressuali; e poi pubblicato postumo, soggetto di libri scritti da futuri ministri, sindaci e presidenti a loro immagine e somiglianza, ma a loro uso e consumo. Troppo commemorato e insieme dimenticato a forza, difeso dai parenti, lodato dagli avversari (Andreotti, Romiti, Montanelli). Ma in fondo per comprendere Berlinguer - e quel che un tempo si chiamava popolo c´è riuscito meglio di tanti esponenti del suo ex gruppo dirigente - bastano quelle ultime immagine sul palco di Padova. Le parole smozzicate, il fazzoletto sul volto, e lui che voleva continuare. Un ricordo che non si riesce proprio a scartare. Anzi, forse stai a vedere che è proprio in questa memoria stralunata, ma piena di poesia che non c´è posto per il Partito democratico.

A Enrico Berlinguer è dedicata in eddyburg una cartella di scritti suoi e su di lui

«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

Fonte

http://www.ilbolerodiravel.org/kattivi_maestri/q_morale.htm

Sta per terminare l'anno di celebrazioni del ventesimo anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer, nel corso delle quali ha rifatto capolino l'ambigua categoria della modernità. Nello stesso tempo è apparso che quanto più sono grandi il rispetto e la venerazione dei cittadini italiani per la figura del grande leader scomparso, tanto più una ristretta storiografia memorialista, a partire curiosamente, ma non tanto, da quella dei massimi dirigenti dei Ds, si è dilettata in una revisione negativa comparata ad una rivalutazione di Craxi. I termini del paragone sono ancora una volta la contrapposizione tra modernità e conservazione.

In ogni uomo politico si possono mettere in evidenza le ombre e le luci. Tuttavia dinnanzi a quella sorta di revisionismo grossolano al quale abbiamo assistito negli ultimi tempi sento l'esigenza di mettere in discussione due capisaldi della critica nei confronti di Berlinguer: la scarsa modernità e il moralismo.

Una analisi attenta del pensiero politico del Nostro ci permette di ritornare sulla distinzione tra modernità e innovazione.

Non c'è dubbio che in Berlinguer ci fosse e si facesse sentire una visione critica dei processi di modernizzazione, mossa dalla consapevolezza che nel cammino stesso del progresso umano ci possono essere delle perdite secche, in termini di valori e acquisizioni del passato, che occorre recuperare. E non c'è nemmeno dubbio che, sotto questo profilo, fosse molto attento ai rischi che determinate forme di modernizzazione potessero travolgere tutto e tutti. Anche l'applicazione della più sofisticata tecnologia alla guerra è una forma di modernizzazione, alla quale non si deve necessariamente applaudire.

Un'altra prova di modernità é lo yuppismo, la spregiudicatezza negli affari e nella politica misurata con i valori del mercato, il cinismo che ha come unico metro di giudizio il risultato immediato, la competizione per la competizione, l'esaltazione acritica della potenza del danaro, in una parola la modernità del rampantismo.

Berlinguer aborriva quel tipo di rampantismo che all'epoca contraddistingueva, persino nei modi e negli atteggiamenti, Craxi e il gruppo di giovani leoni che ruotavano attorno a lui. E fu proprio questo tipo di avversione ad essere erroneamente scambiata, o meglio, contrabbandata, per antisocialismo viscerale. Naturalmente lui si contrapponeva a tutto quel brulicare di una modernità vacua e insieme prevaricatrice, prepotente, chiassosa e travolgente. Cercava di combatterla, a volte con strumenti inadeguati.

Tutto ciò, tuttavia, non gli precludeva la via della ricerca, l'interesse per l'inedito, una indubbia curiosità per le nuove domande che sorgevano dal mondo femminile e da quello giovanile. In sostanza era decisamente aperto all'innovazione.

Come negare che fu un innovatore?

Nella politica internazionale fu un europeista convinto, lanciò l'idea di un' Europa né antiamericana né antisovietica; si fece paladino dell'eurocomunismo, ponendo al centro di questa idea il tema della priorità assoluta della libertà come valore universale che doveva essere rispettato al di sopra delle decisioni a maggioranza della democrazia; arrivò ad invocare l'ombrello della Nato contro le tendenze aggressive dell'Urss; chiese la fine dei blocchi contrapposti e dichiarò, con il famoso strappo, la fine della spinta propulsiva della rivoluzione sovietica.

In sostanza, come ho altre volte detto, portò la cultura comunista fino al suo limite possibile, arrivò a lambire il confine più avanzato che sia mai stato avvicinato da un partito comunista, pur rimanendo all'interno della tradizione comunista, nella speranza, che si rivelerà sbagliata, della riformabilità dei cosiddetti paesi socialisti.

Certo, non andò oltre quel confine, che comportava una certa, per quanto critica, solidarietà di campo.

Ciò avverrà in seguito con la svolta: ma chi di noi avrebbe in quel periodo fatto la svolta?

Berlinguer tuttavia pose molte premesse importanti, che proprio grazie al loro carattere innovativo, richiedevano un successivo salto qualitativo. Lo reclamavano, pena la mortificazione di tutta l'innovazione precedente. E ciò indipendentemente dalle polemiche, a volte legittime a volte capziose, sui tempi e sui modi.

Voglio però ricordare che Berlinguer pensava, sia pure in astratto, alla necessità di cambiare nome. Ne parlammo, mi ricordo, quando - allora io ero segretario regionale del Pci siciliano - venne in Sicilia durante la campagna elettorale del referendum su divorzio. Mi disse chiaramente: quello che abbiamo fatto in Italia, i mutamenti che abbiamo introdotto nella nostra cultura politica, sono tali per cui dovremmo cambiare nome al partito. E ricordo anche la sua risposta a De Martino, il quale chiese a Berlinguer di fare con lui un nuovo grande partito unificato e Berlinguer non balzò sulla sedia scandalizzato. Rispose semplicemente: non posso farlo ora perché in Urss c'è Breznev e avremmo una frattura enorme in Italia; i sovietici organizzerebbero una fortissima scissione.

Questi miei ricordi, che risalgono al lontano 1975, dimostrano che le spie della Cia in casa Tato non hanno tanto rivelato l'autonomia critica di Berlinguer nei confronti di Mosca, cosa a noi nota da tempo, ma piuttosto, ed è grave che nessun commentatore l'abbia sottolineato con sufficiente forza, il fatto che l'Italia si trovasse in una situazione di sovranità limitata, al punto che una grande potenza straniera poteva permettersi di organizzare sul nostro territorio dei veri e propri crimini contro la privacy.

L'altro elemento di modernità nel senso dell'innovazione furono le posizioni di Berlinguer sull'austerità. Apriti cielo: quelle posizioni suscitarono un vero e proprio marasma in gran parte della intellettualità italiana che incominciò a gridare al moralismo in sintonia con il dileggio dei craxiani.

In realtà tutto quello starnazzare fu dettato, in parte, da un malinteso e, in parte, da una risibile e sconcertante miopia culturale.

A parte la considerazione che saranno poi necessari ben dieci anni per risanare le casse dello Stato dilapidate dai dileggiatori dell'austerità, se facciamo le somme dei risultati raggiunti da Craxi e le esigenze attuali delle nostre economie, chiediamoci: chi è stato più al passo con i tempi?

Sicuramente ci fu una visione dell'austerità che io stesso non condivisi. Ma se è vero che l'austerità fu presentata anche con alcune esemplificazioni di sapore moralistico ed accentuazioni, soprattutto per opera di alcuni zelanti interpreti, che potevano assomigliare alle politiche di risanamento che finivano per fare pagare i costi maggiori ai più poveri facendoli ricadere principalmente sulle spalle dei lavoratori, l'ispirazione generale dell'intuizione berlingueriana era ben altra cosa.

Berlinguer capì molti anni prima che sorgessero i movimenti no-global che il mondo si trovava sull'orlo di un abisso. Che se si credeva di esportare nel resto del mondo il modo di produrre - e di saccheggiare le risorse energetiche - dei paesi capitalisticamente sviluppati il pianeta poteva saltare in aria, e che nel rapporto sempre più problematico tra uomo e natura si annidava il rischio di una vera e propria catastrofe.

Di lì nacque la sua proposta di cambiare il modo di produrre e di consumare.

Adesso tutti parliamo di sviluppo sostenibile, anche se siamo ancora molto lontani dall'aver assunto il tema del rapporto uomo-natura e della qualità dello sviluppo come il fulcro di tutte le politiche sociali ed economiche.

Allora il “passatista” Berlinguer era, molto più di Craxi, in sintonia con alcuni grandi della socialdemocrazia europea quali la signora Brutdland, Otto Palme e Willy Brandt.

Il rampantismo dominante non solo irrideva a tutto questo, ma si scagliava con veemenza contro il preteso moralismo del segretario generale del Pci.

Non escludo che ci siano state in lui cadute moraliste che riguardavano fondamentalmente i suoi gusti e comportamenti personali. Ma tali atteggiamenti non possono, in alcun modo, fare aggio sulle posizioni politiche assunte a proposito della corruzione politica dilagante. Èstato un suo merito innegabile quello di aver anticipato di almeno quindici anni la stagione di “mani pulite”. Si può solo dire che se le forze politiche dell'epoca gli avessero dato retta avrebbe fatto strada, anziché la soluzione giudiziaria, quella politica.

Considero da un punto di vista strettamente storiografico molto stravagante associare la questione morale, sollevata da Berlinguer, alla mera esigenza della difesa della identità del proprio partito attraverso la diversità. Ci dovrebbe soccorrere il metodo delle analisi differenziate per cogliere insieme il rapporto e la differenza tra i due temi. Che l'affermazione del Pci come partito dalle mani pulite abbia rappresentato uno dei connotati fondamentali della non sempre felice proclamazione della propria diversità, è un dato indubbio, tuttavia non esaustivo dell'assoluta autonomia della questione morale dai problemi del partito. Si dimentica che la tematica relativa alla crisi fiscale degli Stati incominciava ad assumere una valenza internazionale strettamente legata alla corruzione della politica. E anche in questo Berlinguer era al passo con i tempi.

Sollevare la questione morale è stato e continua ad essere un merito che non ha nulla a che vedere con il moralismo e con il cosiddetto giustizialismo, in quanto coinvolge tutti gli aspetti fondamentali della vita economica e sociale del paese e investe gli interessi generali e particolari dei cittadini, di tutti i cittadini di una nazione. E' tema centrale della ricostruzione della democrazia, oggi sempre più manipolata e pilotata dalla corruzione. Nello stesso tempo chiama in causa la questione complessa e delicata della riforma della politica e dello stesso sistema politico, su cui, per la verità, Berlinguer si mostrò molto esitante.

Ma come si vede, nella valutazione complessiva del suo impegno politico e civile, il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte dell'innovazione.

Ed è un vero peccato che proprio alcuni di coloro che avrebbero dovuto essere i suoi più stretti eredi abbiano, in questo ventennale, perso l'occasione di rendergli giustizia secondo verità.

Cominciamo con un'autocritica. Sapevamo da tempo che i repubblicani Usa avevano mobilitato al voto la destra religiosa fondamentalista; ma nel fervore preelettorale abbiamo finito per parlarne poco o niente. Siamo stati contagiati dalla speranza e dall'impegno delle campagne democratiche nelle ultime settimane prima del voto, mentre i repubblicani, previdenti e organizzati, la loro mobilitazione l'avevano fatta molto prima, quando i riflettori erano ancora meno focalizzati sulla campagna elettorale. E l'hanno fatta potendo contare soprattutto su strutture organizzate e ideologizzate come le chiese, su mezzi di comunicazione capillari e istituzioni educative ben finanziate, muovendosi sotto la soglia di attenzione nostra e dei media progressisti. Col senno di poi, è facile ricordarsi che una parte dell'astensionismo è legata a una religiosità «other-worldly», che si occupa solo dell'aldilà e ritiene che gli affari di questo mondo non la riguardino - fino a che qualcuno non li convince che negli affari del mondo sono in gioco anche articoli di fede. Avremmo dovuto parlarne prima. Una volta scoperto questo fatto, sui nostri media è apparsa subito una vulgata istantanea: a) le elezioni non si vincono sulle questioni materiali ma sui valori; b) per orientarci sui valori dovremmo ascoltare la destra. Credo che entrambi i punti siano sbagliati.

Fra i «valori» che hanno orientato il voto di maggioranza negli Stati uniti spiccano intolleranza sui gay, rifiuto del diritto di scelta delle donne, guerra e militarismo, armi da fuoco, pena di morte... Questi per me non sono valori, ma il loro contrario. Ma noi abbiamo delegato l'idea stessa di «valori» al cattolicesimo e alla destra, tanto non che ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri, che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale, accoglienza, l'internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano li cercheremmo nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry. L'unico che ha osato parlare di in pubblico di giustizia economica è stato Bruce Springsteen, che fa un altro mestiere.

E passiamo alla «autonomia» dei «valori forti» rispetto agli interessi materiali. Facciamo conto che gli elettori americani fossero posti davanti alla scelta fra votare contro l'aborto o a favore di qualcosa che gli cambia la vita, per esempio, il diritto alla salute; fra votare contro i gay o a favore di un buon contratto di lavoro, un salario adeguato e sicuro, una casa a un prezzo decente, trasporti pubblici accessibili, l'istruzione superiore per i propri figli... Siamo proprio sicuri che i «valori forti» avrebbero la meglio su questi interessi concreti? I democratici hanno governato per quarant'anni sulla base di un progetto socio-economico, il New Deal, che ha cambiato la vita di milioni di persone. Eppure, la destra religiosa esisteva anche allora. Io credo che molti votanti si concentrano sui «valori» immateriali sia perché nessuno gli propone niente di altrettanto significativo sul piano degli interessi materiali, tale da cambiargli la vita; sia perché, anzi, non credono più che qualcosa possa cambiare. Clinton vinse puntando su un interesse materiale, la riforma sanitaria e il diritto alla salute (che per me è anche un valore, ma lasciamo perdere) e gli elettori gli ridiedero fiducia anche dopo il disastro «etico» di Monica Lewinski. Ma poi la riforma sanitaria non si è riusciti a farla, e si è rinforzata l'idea che il sistema economico sia un destino immutabile, un dato irriformabile. Inutile starci a pensare, il mondo non cambierà mai se non in peggio; ragioniamo su altre cose su cui abbiamo opzioni più chiare.

Sul piano economico Kerry era sicuramente diverso da Bush - ma non abbastanza da generare speranze e spostare orientamenti. La sua descrizione dei fallimenti della politica economica di Bush era puntuale, ma le spiegazioni delle cause erano poco incisive e la proposte generiche e timide. Mi piaceva la sua idea di portare il salario minimo da 5 dollari e mezzo a 7; ma era appena un modo per non far crepare i più miserabili, non cambiava la vita di nessuno (e comunque, in un'elezione dove un'astensione del 42% è decantata come un trionfo democratico, sospetto che non fossero tanti i minimum wage workers che sono andati a votare - pure perché tanti di loro non ne hanno il diritto).

Insomma, l'alternativa non è fra valori e interessi materiali come tali, ma fra un discorso netto e forte sui valori e una proposta debole e generica sugli interessi. Infatti la destra possiede anche un discorso forte sugli interessi materiali. In televisione, Bertinotti ricordava che in Ohio si sono persi duecentomila posti di lavoro negli ultimi anni e implicitamente, come Kerry, ne attribuiva la responsabilità a Bush. Ma una parte del voto per Bush viene proprio da gente che ha perso il lavoro, gente alla quale la destra offre una spiegazione convincente e un capro espiatorio credibile: è colpa della concorrenza sleale del resto del mondo. Mi ricordo, a Youngstown, Ohio, la dolorosa, eloquente poesia di un operaio licenziato dell'auto, che finiva: «ma che ne sapete di tutto questo, voialtri intellettuali con le vostre macchine straniere?» Se i padroni americani ti licenziano, la colpa è degli intellettuali e degli stranieri. Né Kerry ha proposto qualcosa di molto alternativo - per esempio, una legislazione che renda meno facile licenziare, discriminare, ingaggiare crumiri, e che dia ai lavoratori una forza contrattuale paragonabile a quella che gli diede l'NRA negli anni '30. Sarà volgare, ma credo che, anziché una separazione, esista un nesso fra un certa lettura dei fatti socio-economici e una certa proposta di «valori». Se la colpa del declino economico dell'America popolare è degli stranieri, è logico rifugiarsi in un nazionalismo guerresco che illude di espandere il modello americano facendo la guerra agli stranieri e impadronendosi del loro petrolio; se la colpa è di quelle checche degli intellettuali, è naturale aggrapparsi ai «valori» virili delle armi da fuoco, della pena di morte, della discriminazione dei gay, del dominio sul corpo delle donne. In altre parole: in questa elezione, «valori» e interessi non sono stati tanto autonomi, quanto correlati. L'elettorato americano ha votato sui valori che meglio collimano con la percezione (sbagliata e ideologica, ma semplice e convincente) dei propri interessi.

Una cosa la possiamo imparare dalla destra americana: la pazienza e la lungimiranza. La travolgente egemonia di oggi è il risultato di un ripensamento cominciato dopo la sconfitta di Goldwater nel 1964. Allora, nel pieno di quella che sembrava l'avanzata inarrestabile dell'altra America, il partito repubblicano cominciò a cambiare pelle. Smise di puntare sul ceto medio-alto moderato; si spostò verso la destra radicale, religiosa e rurale; sviluppò una proposta di «valori» e una strategia di comunicazione capace di far cambiare schieramento a molti elettori tradizionalmente democratici. Più che con Nixon (normale alternativa bipartitica), questa strategia si affermò con Reagan, che fu l'esito e il rilancio di una profonda modificazione delle coscienze. Ci sono voluti quindici anni, ma dura da ventiquattro anni (l'intervallo Clinton fu reso possibile da Ross Perot) più i prossmi quattro, e non se ne vede la fine. Allora, cerchiamo pure tattiche e alleanze per togliere subito il governo a Berlusconi; ma se non ci mettiamo in testa di lavorare a lungo termine e in profondità su un insieme di proposte materiali e di principi morali correlati nostri e distinti, non ci libereremo mai del berlusconismo. E anche se vinciamo, lo vedremo tornare.

C'è un'altra ragione per l'egemonia repubblicana a lungo termine: l'inevitabile messa in discussione del modello di vita americano e occidentale. I limiti di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da parte delle maggioranze dell'umanità comportano un declino o una radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall'accaparramento e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del mondo. In altre parole: è finita la frontiera; è finita un'idea di benessere e di democrazia fondati su un'espansione senza confini. Possiamo progettare un modo di vita diverso; o possiamo arroccarci a difesa esclusiva dei nostri privilegi attraverso il dominio economico e militare (creando una frontiera nuova che arriva fino all'Asia Centrale). Per i repubblicani americani, e non solo loro, lo standard di vita occidentale non si tocca, e se produce guerre e inquinamento, guerre e inquinamento sia. E siccome quelli che se ne stanno già accorgendo e pagando i prezzi non sono i ceti privilegiati, ma i lavoratori, i precari, i disoccupati, i più giovani, gli emarginati, è proprio in queste fasce che una strategia di difesa a oltranza dell'esistente contro ogni cambiamento trova consensi. Anche qui una strategia economica è correlata a indicazioni di «valori». Maggioranze preoccupate e insicure, tanto più dopo l'11 settembre, si convincono che i propri interessi economici si difendono chiudendosi nell'egoismo personale e nazionale, subordinando lo stato di diritto alla sicurezza, sospettando di chiunque non ti somiglia, perseguendo il dominio del più forte, disprezzando ogni vestigia di diritto internazionale come un'offesa alla propria sovranità (e ogni positiva azione dello stato come una violazione della propria libertà solitaria). La paura del declino economico e l'egoismo fondamentalista sono facce di una sola medaglia.

E per finire. L'unico referendum in cui ha prevalso un'opzione «progressista» è stato quello sulle cellule staminali in California. Un'amica americana l'aveva previsto: c'è sempre più gente in America, diceva, che ha un'età in cui non ha più bisogno dell'aborto ma ha paura dell'Alzheimer. Tra la «moralità» di Bush e l'interesse a cercare una cura, non hanno esitato. Ma non è tanto un segno di laicità e modernità, quanto di stanchezza e, ancora, di paura: l'America a cui volevamo bene, giovane e piena di speranze, è sempre più carica da paure, solitaria ed egoista, e più vecchia.

Debbo ringraziare Rossana Rossanda che polemizzando nel numero di novembre della rivista (1) con un mio articolo (2), ha riaperto la questione Berlinguer con una critica radicale e mi costringe, così, a ripensare cose antiche. È un esercizio non facile e un po' tormentoso. Ma, forse, può essere utile per capire meglio quel che succede oggi.

In quello scritto (dell'ottobre scorso) avevo replicato al giudizio del segretario dei Ds - Fassino - su Berlinguer, passatista e fallito, e su Craxi, modernizzatore e vincente 3. Quella sprezzante valutazione, spinta ai limiti della contumelia, riguardava il periodo ultimo della segreteria, e della vita, di Berlinguer: e solo su questo mi ero espresso. Rossanda ha esteso il discorso. E conclude: «… difendere la figura morale di Berlinguer dall'attacco volgare della destra socialista ed ex comunista non dovrebbe precludere il giudizio su quel che il berlinguerismo è stato.» Concordo pienamente. Avevo appunto fatto notare, in quell'articolo, che sono contrario a ogni visione acritica, per chiunque e in qualsiasi caso. Aggiungo che - se lo conoscevo bene - era questa anche la opinione di Berlinguer.

Proprio perciò non penso affatto quel che Rossanda mi fa dire e cioè che «se Berlinguer non fosse stato messo in difficoltà dalla morte di Aldo Moro e dalle manovre craxiane, la sorte del Pci sarebbe stata diversa». Non ho mai pensato e non ho scritto che «il declino e il dissolvimento del Pci» siano colpa di Craxi e della morte di Moro. Anzi se qualcuno sostenesse una tale tesi mi parrebbe uno sproposito e, riflettendo sulla fine del Pci 4 ho sostenuto tutt'altro, cercando di riandare, piuttosto, alla cultura costitutiva del vecchio Partito, piena di meriti, ma minata anche da contraddizioni divenute alla fine insuperabili.

Ma la mia argomentazione, dice Rossanda, «sembra suggerire» proprio quella tesi che io stesso giudicherei del tutto sbagliata. Il perché di quel «sembra suggerire» non viene dimostrato. Ma non importa. Su un «sembra», e cioè su una sensazione, è difficile ragionare. Mettiamo pure che la penna abbia tradito il pensiero. Dunque, ripeto. Ho replicato al giudizio di Fassino su Craxi e Berlinguer con tre argomenti. Il primo. La diversa eredità lasciata dai due dirigenti. Il secondo. La assurdità di definire «allo sbando», «senza bussola» eccetera un partito che, avendo visto il fallimento della sua politica (quella della solidarietà nazionale), se ne ritraeva e proponeva una nuova politica (quella dell'alternativa). Il terzo. La possibile fecondità della ricerca di fondamenti nuovi tentata da Berlinguer proprio in quell'ultimo periodo, dopo lo `strappo' con i sovietici.

Ma, obietta Rossanda, «il Berlinguer dal 1979 alla morte non è tutto Berlinguer, né quello storicamente più importante. Egli è l'uomo del compromesso storico». È certamente vero che la parte più lunga e più nota della segreteria Berlinguer è quella che prende il nome dal `compromesso storico', tradotto poi nei governi di solidarietà nazionale. Tuttavia, mi sentirei di discutere se la «parte più importante» nella vita di un politico (e di una persona) sia quella in cui segue una strada che si rivelerà infeconda o sbagliata o quella in cui riesce a criticare se stesso e a cercare una strada nuova. La cosa più difficile è correggersi. Tanto difficile che gli esempi sono rarissimi, da tutte le parti.

Che sia stato poco rilevante il tempo, successivo al '79, della autocorrezione o, come si dice, della `svolta', Rossanda lo pensa da sinistra ma non è la sola a pensarlo. Fassino definisce quella del compromesso storico «l'ultima strategia politica di Berlinguer degna di questo nome», ripetendo quello che hanno detto dirigenti del medesimo orientamento politico più anziani di lui. Molti esponenti del Pci ultrariformisti che poi diverranno fautori della democrazia dell'alternativa intesa come alternanza furono del tutto contrari - sebbene con la discrezione che si usava allora - alla rottura della solidarietà nazionale sostenuta da Berlinguer. E considerano gli anni successivi alla svolta, come accade a Rossanda, irrilevanti o peggio. Correggersi è veramente difficile.

Ma da dove veniva la politica cui Berlinguer darà il nome di `compromesso storico'? Chiarante (nel numero di dicembre 5) ha già posto in luce l'annuncio di quella politica nel Congresso (1972) che elesse Berlinguer segretario, ha ricordato la posizione anticipatrice di Chiaromonte sulla impossibilità di governare con il 51%, l'origine togliattiana della politica di `unità democratica'. Il dibattito nel gruppo dirigente del Pci da tempo non stava più soltanto - come ritiene Rossanda - tra Ingrao «più interrogato dai cambiamenti» e Amendola che «puntava alla unificazione con il Psi». Si era venuta formando un'altra posizione che convincerà alla fine la maggioranza del gruppo dirigente, una posizione nutrita fortemente della memoria dei governi unitari successivi alla Liberazione, troncati nel '47 dalla guerra fredda. La linea - non nuova - dell'incontro tra socialisti, comunisti e cattolici per `rinnovare e risanare' l'Italia fu ripresa in quegli anni e aggiornata con il contributo decisivo di due dirigenti poco citati, Agostino Novella e Paolo Bufalini, che ebbero allora un peso rilevante nella posizione di centro del Partito. Novella era stato il più rigoroso interprete - in polemica con Amendola - proprio della politica togliattiana di unità democratica nella Resistenza, aveva diretto la Cgil fino al distacco dall'organizzazione sindacale mondiale di osservanza sovietica e sarà poi uno dei promotori della segreteria Berlinguer. Come Bufalini, cresciuto alla scuola di Togliatti, che aveva dato la sua impronta al partito siciliano e romano e sarà uno dei più attenti, da una posizione pienamente laica, ai rapporti con la Chiesa.

Ma sulla linea dell'incontro con i cattolici non mancò il contributo dei dirigenti considerati più a sinistra, anche se essi sottolineavano in particolare misura le novità rappresentate dai cattolici di avanguardia e dalla sinistra democristiana e con questi si ponevano in relazione, piuttosto che con la ufficialità vaticana. Fecero epoca i dibattiti di Ingrao con gli esponenti dei `basisti' che venivano allargando il loro spazio nella direzione della Dc. Fu dunque lunga la preparazione di quella nuova politica `unitaria', piena di ambiguità. Da un lato veniva concepita in contrapposizione con le suggestioni - soprattutto esterne - di `alternativa di sinistra' considerate irrealistiche e quasi pericolose. Ma c'era anche l'idea di un nuovo `blocco storico' trasformatore, di cui la base cattolica doveva essere parte.

Non fu, però, cosa da poco, nel linguaggio criptico e nella liturgia di allora, l'aggiunta dell'aggettivo `storico' da parte di Berlinguer alla parola `compromesso', la cui necessità era ben presente nella tradizione comunista internazionale e interna (da Brest Litovsk in poi 6). Quell'aggettivo nasceva dall'idea non solo che il `risanamento e rinnovamento' del Paese avesse bisogno di una concordia nazionale ma che l'attenuazione del contrasto di classe «per evitare la comune rovina delle classi in lotta» dovesse accompagnarsi a forme di mutamento nei rapporti tra lavoro e capitale di cui lo statuto dei diritti era stato una premessa considerata insufficiente e dovesse comportare un inizio di modificazione nel tipo di sviluppo attraverso un più forte sostegno ai consumi pubblici rispetto a quelli privati.

Berlinguer rifiutò sempre, fino alla fine, di considerare i governi di solidarietà nazionale come la traduzione del compromesso storico. Vi era, in questo, un po' del carattere della persona, fatto anche di timidezza e di ostinazione, e dunque una difficoltà reale di vedere la connessione tra le premesse e le conseguenze, tra le intenzioni e la realtà. Ma vi era anche qualcosa di vero, nel senso che non fu certo una libera scelta, una libera applicazione del compromesso storico quella che portò a governi composti solo da democristiani, sostenuti dall'esterno da tutta la sinistra (giunta ad essere il 50 per cento del Parlamento). Ed era vero che la traduzione concreta in termini di linea governativa, anche da parte dei dirigenti comunisti più integrati - sebbene dall'esterno - in quella esperienza, fu dettata da una linea scarsamente o per nulla distinguibile dal passato. Si vide alla fine il `risanamento' ma solo dei conti pubblici e, come sempre, essenzialmente a spese del lavoro. Di `rinnovamento' non vi fu traccia neppure per timidi cenni. Dal punto di vista di una forza anche solo progressista fu un fallimento indubbio.

Ma Rossanda non giudica quel tanto di distanza che ci fu tra progetto e concreto svolgimento della vicenda dei governi detti di solidarietà nazionale, sebbene è sul fallimento della esperienza di governo che si valuta il fallimento del progetto. Sicché ricade su Berlinguer anche la responsabilità che fu di altri e comunque dell'insieme. Non è un metodo giusto quello di trascurare le condizioni in cui si svolge un certo fatto per poterlo giudicare. Uno storico stimato come Paul Ginzborg - il quale pure dava un giudizio negativo sulla nascita dei governi di solidarietà nazionale - è venuto, poi, alla conclusione che era difficile fare diversamente nelle condizioni date.

Tuttavia il giudizio di fatto, che dovrebbe guardare alle condizioni concrete, non elimina la valutazione di principio. Ed è su questo soprattutto che Rossanda interviene: quella idea di compromesso storico del 1973 fu motivata dalla falsa previsione di involuzioni fascistiche che non vi furono, volle essere un accantonamento della lotta di classe da parte dei comunisti in cambio della rinuncia della Dc ad alleanze a destra e nella speranza di un rinnovamento democristiano che non vi fu, fu un brutto episodio di `autonomia del politico' contro i movimenti e le lotte sociali, fu la interpretazione del primato della politica come «primato degli accordi ed equilibri sulla scena politica» rispetto alla politica intesa «come governo della costituzione materiale del Paese», andò addirittura contro non solo le lotte nelle fabbriche ma «contro la Cgil di Lama dei primi anni '70». In più Berlinguer quando si dichiarò più sicuro sotto l'ombrello della Nato o aveva - sempre secondo Rossanda - ancora il timore di un «pericolo sovietico sempre più improbabile» oppure voleva esprimere «il riconoscimento che il capitalismo aveva vinto e doveva vincere». Il che costituisce, secondo Rossana, anche il filo di continuità fra la vicenda di Berlinguer e quella dei Ds.

Personalmente, negli anni della solidarietà nazionale, cercai di fare quel che potevo - forse perché ero il responsabile delle politiche per la cultura - perché ci si accorgesse e si dialogasse con i movimenti e poi per aiutare Berlinguer a portare fuori il Pci dalla esperienza della solidarietà nazionale. Sono ovviamente responsabile come tutti gli altri delle scelte della direzione di allora. Ma come si vedrà poi, e fino a oggi, il mio orientamento personale non era uguale a quello di altri. Dunque, non mi considero in alcun modo un difensore del compromesso storico. Ma l'argomentazione di Rossanda mi pare che vada decisamente oltre il segno. Se fosse compiutamente fondata la sua analisi sulla negazione della lotta di classe, della lotta sindacale, e persino della Cgil di Lama, Berlinguer non avrebbe voluto e promosso la rottura davanti alla manifesta impossibilità di risultati innovativi. Se fosse stato convinto di una linea di abbandono del conflitto sociale, che pure esisteva nel Pci, mai egli sarebbe andato - per citare un fatto che volle essere emblematico - davanti ai cancelli della Fiat. Ma Rossanda anche su questo non si impietosisce: quando ci va è ormai tardi. Più che un'analisi, si rischia la requisitoria. Come nel romanzo popolare ottocentesco dove l'implacabile commissario perseguita, in nome della legge, il povero galeotto ormai redento e dedito alle opere di bene.

A me pare che scegliendo una visione parziale non si fa giustizia alla persona ma soprattutto non si legge la realtà. Berlinguer non è solo quello dell'ultima fase della sua segreteria, ma non è neppure solo quello della prima fase: dal punto di vista del tempo (7 anni e 5 anni) ma soprattutto per l'importanza dell'impresa. Il vero gesto di rottura della tradizione - che infatti la parte più conservatrice del Pci non gli ha mai perdonato da vivo come da morto - è proprio il rigetto della solidarietà nazionale o, se si vuole dire così, l'abbandono del compromesso storico. Esso era l'ultima propaggine di quella linea della grande unità che derivava dal rifiuto di abbandonare la `diversità' dei comunisti italiani in termini di collocazione internazionale (che faceva cadere su di loro l'interdizione al governo). Ma derivava anche dall'idea che solo con un `fronte largo', anzi larghissimo, si potesse avviare qualche riforma consistente. Solo una ormai scarsa conoscenza della realtà poteva - però - far supporre che si potesse ricominciare sulla stessa linea di trent'anni prima.

Ha ragione Rossanda che c'è una continuità tra la linea dell'unità democratica e i Ds: per esempio, nel tentativo di D'Alema per il mai nato governo Maccanico di unità nazionale e poi nel progetto fallito della Bicamerale con Berlusconi, entrambi presentati come se fossero in continuità con la politica togliattiana. Ma questa presunta continuità senza la grande unità antifascista (e senza l'Urss) si ripresentava stralunata e spaesata, fuori dal tempo e dallo spazio, come una scadente imitazione rapidamente messa fuori commercio. Bisogna però ricordare che per produrre questa imitazione si era dovuto provvedere, appunto, a ignorare, a irridere, a considerare poco importante la svolta che Berlinguer operò chiudendo con tutta la lunga tradizione che aveva avuto nella Resistenza il suo punto più alto.

La rottura con la tradizione unitaria avviene assieme con lo strappo definitivo dall'Urss. Ma anche questo era in ritardo e non abbastanza forte, secondo Rossanda. Dopo la morte di Togliatti - «che arrivò a votar contro la proposta di Conferenza internazionale degli 81 partiti comunisti» - il Pci si ferma sulla strada indicata nel memoriale di Yalta, che «prendeva le distanze» dall'Urss. Anzi Berlinguer «continuò a ricevere dall'Urss finanziamenti più compromettenti che decisivi per il bilancio del partito». E lasciò il partito ancora forte ma per poco, perché lo lasciò disarmato rispetto al crollo dell'89.

Spiace doverlo constatare ma i fatti non sono questi. Il memoriale lasciato da Togliatti alla sua morte a Yalta era segreto, destinato ad una discussione interna con il gruppo dirigente sovietico. È Longo che decide di pubblicarlo, prendendo le distanze. È Longo che si oppone alla Conferenza dei partiti comunisti per anni e, quando i sovietici la convocano ad ogni costo, vi manda Berlinguer, vice segretario, con la decisione di non votare nessuno dei documenti presentati. E Berlinguer in quella sede dichiarò (eravamo nel '69) che i comunisti non potevano concepire socialismo senza pluralismo politico, sollevando un caso internazionale clamoroso.

È Berlinguer segretario, non altri - come ha testimoniato in un suo libro Cervetti 7, allora organizzatore e amministratore del Pci - che ruppe nel '75 con i finanziamenti sovietici. Ed è ancora Berlinguer che - prima della Polonia e dell'Afganistan e dello `strappo', che sarà nell'80 - va a Mosca (era il '77) a fare una sorta di scomunica alla rovescia, proclamando il «valore universale della democrazia». Fu di nuovo un caso mondiale. Ugo la Malfa ebbe a dichiarare che bisognava smettere di chiedere al Pci altre prove di democraticità.

Si poteva, si doveva fare ancora di più? Senz'altro. Fino alla fine si sperò nella riformabilità dell'Unione Sovietica, ma non per colpa di Berlinguer che aveva scritto che non è socialismo quello che non garantisce neppure il grano per il pane. Si sperò perché, dopo la morte di Berlinguer, vennero Gorbaciov, la perestroika, la glasnost. Troppo comodo, semmai, per i dirigenti comunisti che sono rimasti - tra cui io stesso - nascondersi dietro Berlinguer perché non comprendemmo che Gorbaciov non ce l'avrebbe fatta, che la riforma sarebbe fallita o che l'avrebbero fatta fallire.

Ma se è comprensibile che da destra si rimproveri a Berlinguer di non aver concepito la rottura con l'Urss come il salto pieno dentro la accettazione del sistema dato, non mi sembra né giusto né utile, da sinistra, rimuovere quello che fu secondo me - ma credo di non sbagliare - il suo vero assillo finale. Ricostruire le fondamenta autonome di una sinistra capace di critica del sistema e di proposta riformatrice atta al governo. Anche a questo sforzo finale per distinguere il proprio partito da un sistema politico marcio e da una sinistra che sbandava nel ministerialismo si deve il mantenimento della forza del Pci, che è andata oltre la sua scomparsa: perché è su quella eredità che ancora vivono in larga misura le sinistre di oggi.

Certo, ricostruire dalle fondamenta implica un percorso difficile che non mi pare che qualcuno abbia compiuto, e che è ancora tutto davanti a noi. Fu uno sforzo complicato, per chi era cresciuto per tutta la giovinezza a fianco di Togliatti, intendere le correnti nuove che percorrevano il mondo e che il movimento operaio comunista e socialista non aveva neppure immaginato: dal femminismo della differenza all'ecologismo, al nuovo pacifismo, ai temi proposti dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Sono questioni che è difficile ancora oggi, a sinistra, maneggiare consapevolmente. Certo che va riscoperto lo scontro di classe. Ma non ci si può illudere che basta riprendere il discorso interrotto da quelli che potettero essere gli errori del Pci negli anni settanta. Non ci sarà niente da fare se non leggeremo il contrasto tra le classi dentro la nuova composizione sociale in una realtà globalmente trasformata e in connessione con le contraddizioni, i bisogni, i desideri nuovi. La crisi non è solo da una parte. Se la sinistra moderata sbanda al centro, quella alternativa non riesce a ricomporre la propria diaspora, il che è più grave, perché nega le speranze.

Penso che una ricerca storicamente fondata sul passato - senza preconcetti e senza rimozioni - possa aiutare a capire che cosa abbia portato il nostro paese nelle mani di Berlusconi e la sinistra italiana ed europea sino al punto in cui siamo oggi, tra la deriva moderata e la fragilità degli alternativi.

Non ho scritto questo articolo per tessere le lodi di un compagno scomparso che ha fatto anch'egli i suoi errori assieme a tante cose giuste. Ma perché, per guardare avanti, mi sembra indispensabile sfuggire all'esercizio consolatorio di dare tutta la colpa a chi non c'è più, guardando un po' di più dentro noi stessi.

note:

1 Rossana Rossanda, Discutendo di Enrico Berlinguer, «la rivista del manifesto», n. 44, novembre 2003, pp. 60-62.

2 Aldo Tortorella, I nipotini di Padre Bettino, «la rivista del manifesto», n. 43, ottobre 2003, pp. 7-11.

3 Cfr. Piero Fassino, Per passione, Rizzoli 2003.

4 Appunti sulla fine del Pci, su «Critica Marxista», 1998, n.5.

5 Giuseppe Chiarante, Alle origini del compromesso storico, «la rivista del manifesto», n. 45, dicembre 2003, pp. 52-55.

6 Brest Litovsk è il nome del luogo ove fu sottoscritta dall'appena costituito governo sovietico, ai tempi di Lenin, l'armistizio e poi la pace separata nel 1918 con la Germania. In quel trattato la Russia cedeva molti territori alla Germania.

7 Gianni Cervetti, L'oro di Mosca, Baldini e Castoldi-Dalai 19992.

PADOVA La sera prima era a Genova. A Padova era arrivato a mezzogiorno e mezzo, in auto. Non ci veniva da dieci anni, l’ultimo comizio lo aveva fatto per il referendum sul divorzio. Specchio di un’epoca ormai sostituita da una mobilità frenetica. A Padova era atteso al casello dal segretario del Pci Flavio Zanonato; era andato all’hotel Plaza, stanza 421, una piccola camera senza pretese, per rinfrescarsi. Pranzo molto leggero, col fedelissimo Antonio Tatò che già brontolava per «il pesce di ieri sera che forse ti ha fatto male». Un riposino. Poi si era messo a scrivere il discorso. «Scriveva sempre personalmente i suoi discorsi, dalla prima all’ultima parola», sorride Zanonato.

«Discorsi tutti diversi - aggiunge Zanonato- sempre molto legati alle città in cui si trovava. Parlava poco, ma quando parlava , parlava sul serio: erano documenti».

Era cominciato così il 7 giugno 1984 di Enrico Berlinguer. Poi un incontro con gli operai della Galileo in crisi. Verso sera, una passeggiata a piedi verso piazza della Frutta, per il suo ultimo comizio. I padovani lo riconoscevano, lo fermavano, lo salutavano: non solo i comunisti. Un po’ piovigginava, un po’ no. La piazza era strapiena; un discorso di Berlinguer era un evento. Piena e allegra. Poi, «all'improvviso l'atmosfera è cambiata, è virata dal bianco al nero istantaneamente, come una foto quando la sviluppi», ricorda lo scultore Elio Armano, che allora stava sul palco in qualità di «sindaco rosso» - una mosca bianca - di un comune vicino. A tre quarti del discorso Berlinguer aveva cominciato a sentirsi male. Soffriva, faticava, le parole si inceppavano.

La gente, dalla piazza, se n'era accorta per prima vedendo il volto contratto proiettato su un maxischermo alle spalle del palco. Sul palco nessuno lo aveva capito: «Eravamo lì come dei baccalà», si rimprovera Armano retrospettivamente, «da giù qualcuno urlava "basta, basta!", Berlinguer continuava faticando, aggrappato alla tribunetta in multistrato, l'avevo disegnata proprio io». Era intervenuto Tatò: «Smettila!». E Berlinguer continuava. Pietro Folena, allora segretario cittadino, aveva fatto salire sul palco un medico che stava in prima fila, il professor Giuliano Lenci, primario pneumologo, trapiantato a Padova da Pisa.

Quella serata riempie da vent'anni i sogni di Lenci, ormai da tempo in pensione. «Salii. Smettila, gli sussurrai anch'io. Berlinguer mi disse, rapidamente: "Mi vien voglia di vomitare". O bischero, e vomita!, esplosi». Lo fece, appena un po’. Riprese a parlare, con uno sforzo supremo, tagliando le ultime pagine, arrivando al famoso invito finale ai compagni, «andate casa per casa, strada per strada. . .». Tatò, dietro, stringeva i pugni per l'ostinazione: «È un sardo, è un sardo. . .». Corsa in albergo. Visita accurata del professor Lenci, diagnosi istantanea, lesione cerebrale destra, una emorragia lenta e progressiva, trasferimento immediato a neurologia, poi nella vecchia rianimazione. La folla si spostava all'istante: dalla piazza all'hotel, dall'hotel all'ospedale, seguiva Enrico guidata dal passaparola, cupa e introversa.

L'ospedale di Padova divenne per i giorni di agonia il cuore d'Italia. La mattina dopo arrivò Sandro Pertini, il vecchio socialista presidente della Repubblica. Non volle più andarsene, «qua c'è un mio figlio». La moglie, naturalmente, i figli, il fratello Giovanni, e quasi tutti i dirigenti Pci, con Pecchioli, Angius e Pajetta che si sobbarcavano il grosso del lavoro; a Roma erano rimasti solo Natta e Occhetto, futuri segretari. «In ospedale ho visto Pecchioli e Ingrao, uno bassino, l'altro altissimo , abbracciarsi e scoppiare a piangere a dirotto», ricorda Pietro Folena. Il partito aveva un cuore, e lacrime da versare, non era quella grigia macchina di burocrati che tanti deridevano. Arrivavano tutti, i democristiani, i liberali, Cossiga e Scalfaro, Spadolini e Forlani, Biondi e De Mita. Venne Bisaglia: «In una pausa, mi confidò: “Ho paura del mare”, e poco dopo morì annegato», ghigna il professor Lenci, che faceva da anfitrione nel «suo» ospedale.

Si riproducevano in piccolo le tensioni nazionali. Arrivò, buon ultimo, il presidente del consiglio Bettino Craxi. Una settimana prima, al congresso socialista, Berlinguer era stato fischiato. A Padova il clima era glaciale. Nel piazzale dell'ospedale, sempre affollato, tirava brutta aria: «C'era un bel malumore tra i compagni. Dovette essere sedato», dice Lenci. Craxi fu accolto con gelida cortesia, anche dai dirigenti, e dagli stessi medici: «Ricordo che salì fino all'anticamera della Rianimazione, e lì si mise a parlare con qualcuno, e non si decideva mai a entrare. Giron, il primario, si infastidì. "Vagli a dì che venga, se vuol venire, che io ho da fare"».

C'era tensione anche tra Pertini e Nilde Jotti. Pertini s'era incavolato di brutto - come un genitore severo col figlio - perché la presidente della Camera era arrivata a Padova un giorno dopo lui. Non le parlava, la ignorava ostentatamente. Il servizio d'ordine aveva un bel daffare ad organizzare gli spostamenti evitando che i due si incontrassero. Ma queste sono storie da troppo affetto.

Il servizio d'ordine mobilitava tutto il partito, in ospedale e al Plaza. L'ospedale calamitava mezza regione. Passava la gente andando o tornando dal lavoro, si fermava a chiedere: «Come sta?». Non erano comunisti. In albergo dormivano i vertici del Pci . Là l'organizzazione era in mano a Folena e a Daniele Lorenzi dell'Arci. Daniele ricorda: «Chi dava più da fare era Angius. Timido, gentile, non lo conosceva nessuno, lo fermavano sempre, doveva cercarmi per passare. . .».

Lorenzi, la notte dell'ictus, aveva già avuto la sua rogna: l'operatore privato ingaggiato per riprendere il comizio, fiutato l'affare, era partito per Parigi, a vendere la cassetta: 90 milioni gli offrivano. Telefonate tempestose. Folena, alle due di notte, era riuscito a contattare a Roma il «responsabile comunicazione» del Pci, un tal Veltroni: «Riuscì a far intervenire la Rai. La Rai contrattò con l'avvocato dell'operatore, e acquistò lei la cassetta». Il contratto fu steso dentro un furgone, nel piazzale dell'ospedale.

E Berlinguer morì, l'11 giugno. Tanti parroci avevano invitato a pregare per lui nella messa domenicale. L'aereo presidenziale aspettava a Venezia. Padova, Mestre, erano impercorribili, le strade assiepate di gente. Pioveva. Si erano gremiti i ponti e i bordi dell'autostrada, fabbriche ferme, contadini venuti in trattore, camionisti in lacrime. Passava Enrico Berlinguer, «piccolo, timido, silenzioso, attento, caparbio, impregnato di moralità e di passione, e oggi no, non vedo nessun leader politico così carismatico, capace come lui di suscitare una tale emozione collettiva», dice Zanonato. Lenci, il professore, si aggrappa ad un ultimo flash: «Poco prima della morte, la signora Berlinguer mi consegnò un abito, per il marito. Io lo presi, cominciai a cincischiarlo distrattamente, come faccio sempre coi miei vestiti, lei si preoccupò: professore, per cortesia. . . sono andata a prenderlo a Roma, l'ho stirato io stanotte. . .»

Indro Montanelli

Berlinguer ha lasciato senza dubbio un grande vuoto, politico e umano. Per le sue doti personali, che erano notevoli, e per la straordinaria capacità dell´intellighenzia comunista d´aureolare di carisma leader che meno sembravano adatti alla comunicativa - si pensi a Togliatti - era diventato un protagonista della vita politica. Meritava - più di tanti altri - d´esserlo: perché poteva commettere errori, mai disonestà o bassezze.

I suoi apologeti, spesso smodati, hanno fatto di lui una sorta di audace rinnovatore del comunismo. La verità è che Berlinguer aveva una mente aperta, ma all´interno degli schemi di partito: e che la sua conversione al nuovo fu graduale, attenta e sofferta: un adeguamento intelligente alle prospettive che la storia e la politica, in Italia e fuori d´Italia, imponevano, e che avevano costretto anche il coriaceo Marchais a molte concessioni.

Gillo Dorfles

Ecco perché un timido piaceva tanto alla gente , intervista di Antonio Gnoli

«Ho ancora viva l´immagine dell´uomo. Berlinguer è stato un caso raro, forse unico, di politico in grado di trasmettere un senso di fiducia e amorevolezza», Gillo Dorfles, studioso di estetica e di comportamenti legati al costume offre una lettura un particolare di Berlinguer.

«La sua postura, il suo modo di darsi in pubblico pur nella reticenza assoluta, suggerivano situazioni insolite per un politico. Innanzitutto la distanza. Dalla sua persona emanava qualcosa di remoto e intangibile. Se penso alle odierne risse televisive, al modo arruffato con cui la politica cerca l´autoaffermazione, non posso non rilevare quanto distante fosse la sua presenza. Distanza ma anche diversità. Ecco l´altro tratto sorprendente. Ci è difficile immaginare un politico altrettanto spoglio da ambizioni mediatiche, così sprovvisto di retorica e talmente scarno nell´oratoria da risultare quasi affetto da mutismo. Le sue parole erano avvolte dal silenzio. Niente a che vedere con le studiate pause craxiane, con quel parlare lento e calcolato. Quelle parole sembravano al contrario scaturire da una immensa timidezza».

«Tutto questo ha finito con il creare il più involontario degli esercizi carismatici: la distanza si è trasformata in un´aura potente, la differenza in un valore al quale riferirsi, la timidezza in una forma di aristocratica innocenza. Nessuno, nell´Italia degli anni Settanta, è stato come lui: un punto di attrazione per i più diversi strati sociali. Un operaio poteva vedere in lui la moralità al potere, il borghese quel senso aristocratico che gli derivava dalle sue radici».

«Non è irrilevante dove e come si nasce. Berlinguer apparteneva a quella ristretta cerchia di famiglie sarde, aristocratiche e colte, dalle quali sono usciti personaggi di primo piano, come Pintor o Cossiga. È ovvio che da solo questo non sarebbe bastato. E non so se oggi un uomo del genere avrebbe avuto quella presa che ebbe allora. Mi permetto di dubitare. Di lui, a me che non mi sono mai occupato di politica, resta la sua rara essenzialità antropologica. Il suo corpo erano i suoi pensieri. Dopotutto quest´uomo apparentemente fragile e dimesso è stato quello che ha persuaso milioni di persone, anche fuori dal suo partito, sull´efficacia e la bontà di un certo progetto politico. Non giudico se un tale progetto fosse giusto o sbagliato, non spetta a me dirlo. Quello che posso notare in conclusione è che esteticamente fu il contrario del kitsch: un personaggio tragico».

Giampaolo Pansa

LA STORIA DI RE ENRICO UOMO SOLO AL COMANDO

Enrico Berlinguer è stato davvero l´ultimo Segretario Generale. E non soltanto del più grande partito della sinistra. Parlo anche degli altri grandi partiti italiani. Oggi guidati da leader a volti capaci, a volte no. Ma tutti troppo arrendevoli ai media e sempre alla ricerca della visibilità.

Per apprezzare la siderale alterità di Berlinguer, bisogna raccontare come si arrivava a intervistarlo. Ossia attraverso quale rito religioso occorreva passare, prima di raccogliere il verbo che lui aveva deciso di affidarti.

L´officiante del rito era Antonio Tatò. Il suo assistente? Il suo portavoce? Il suo segretario? Macchè, Tonino era ben di più. L´angelo custode. L´eminenza grigia del berlinguerismo. O suor Pasqualino, come l´aveva battezzato Alberto Ronchey, per paragonarlo alla monaca occhiuta che governava Pio XII. Era bello Tonino. Alto. Prestante. Voce bene impostata. Mix perfetto di alterigia e di cordialità. Splendido profilo tra il centurione e il barbiere di lusso. Chioma nera, imbrillantinata, taglio anni Quaranta, da attore nei film dei telefoni bianchi.

Era lui a stabilire il trattamento da riservare ai giornali. Un´intervista vera, faccia a faccia con il Segretario Generale. Oppure soltanto risposte scritte, da Tonino ovviamente. La volta della Nato e di Dubcek, era il giugno 1976, vigilia elettorale, a me toccò l´intervista vera. Quella precotta se la beccò Gaetano Scardocchia, allora capo dell´ufficio romano della Stampa. Gaetano protestò per un´ora, ma non ci fu nulla da fare. Tonino gli spiegò che non era per disistima verso di lui, ma per il padrone del giornale, Umberto Agnelli, candidato della Dc al Senato. In quel tempo, il Dottore e i suoi uomini non erano amati a Botteghe Oscure. E Fortebraccio, il sarcastico corsivista dell´Unità, li bollava così: «Arriva Umberto Agnelli scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore».

Berlinguer era l´opposto di suor Pasqualino. Prima di tutto nell´aspetto fisico. Una figura smilza, quasi fragile, da adolescente che non ha mai giocato a pallone ed è invecchiato di colpo, le spallucce un po´ incassate, la schiena già curva. In quel 1976, aveva 54 anni, uno in meno del D´Alema di oggi. Però il viso era più vecchio, il volto di un uomo che non si risparmiava, che aveva consegnato se stesso alla politica e al partito. Un pallore grigio da fatica. Occhiaie. Rughe ben nette. Capelli come aghi di un´istrice. Barba di fine giornata quasi bianca. Il vestito, poi, gli conferiva un´apparenza da funzionario di federazione. Il solito abito carta da zucchero, un po´ informe. La cravatta rossiccia annodata alla meglio. Una camicia bianca qualsiasi.

Eppure guai a lasciarsi ingannare dall´apparenza. L´insieme che ho descritto, invece di trasmettere una sensazione di fiacchezza, ti scagliava addosso una forza insospettabile in quel piccolo uomo. Un´energia contenuta, ma grandissima. Compressa come una molla pronta a scattare. Trave portante di un carattere ferreo, da super testardo, anche capace di molte asprezze. Il carattere di un uomo abituato a nascondere il fuoco interno, la passione politica e la fede in una missione sotto una coltre fredda, dimessa. Quella che faceva sembrare un monarca rosso soltanto un suddito del partito. E un leader comunista indiscusso appena una formica paziente della lotta di classe.

Questo scudo consentiva a Berlinguer di dissimulare un´altra dote che sperimentai subito, a mie spese, nei preliminari di quella e di altre, successive interviste. Il Segretario Generale aveva un tratto da antico aristocratico che, nel ricevere un borghese che non conosce, lo fa parlare. Per capire quali siano le sue intenzioni. O per prepararsi a scansarne le pretese quando gli sembrino eccessive. Me ne resi conto dopo: Berlinguer era il contrario dei politici verbosi che oggi danno aria ai denti da tutte le tivù, indefessi dichiaratori del nulla. Parlando pochissimo, sapeva ottenere lunghe risposte.

Mentre tu cadevi nella rete, lui ti ascoltava senza batter ciglio, senza mai scoprirsi, senza concedere che qualche rara briciola di se stesso. Condita da un sorriso stento, ma sempre con una punta di malizia. Che il Segretario ti regalava tormentandosi l´orecchio destro, un tic che emergeva quando non fumava una delle tante Turmac. O quando non beveva un dito di whisky allungato con molta acqua. Un piccolo vizio da praticare con lentezza, a sorsi misurati con parsimonia, l´aria curiosamente rassegnata di chi prende una medicina.

Intervistarlo, soprattutto in momenti cruciali per il partitone rosso, richiedeva all´interrogante un´intensità pari alla sua. E fargli domande equivaleva a inoltrare quesiti scomodi a un santo assiso sotto il baldacchino. Tu all´esterno di quel riparo invisibile, ma esistente. Lui protetto e attento, chiuso nella lontananza dei propri doveri di leader e, insieme, teso a non sbagliare, per ottenere il meglio da quel lavoro a due.

Mi ha sempre colpito in Berlinguer l´estrema cura che metteva nel rispondere. Aveva già studiato l´elenco delle domande, che suor Pasqualino gli aveva consegnato almeno un´ora prima. E davanti al tuo quaderno ancora bianco, aspettava da te la prima mossa.

Quella d´avvio di una partita a scacchi di cui soltanto lui conosceva l´esito. In tanti anni, non sono mai riuscito a sorprendere Berlinguer con domande-tranello. Se aveva accettato i quesiti che Tatò voleva bocciare, significava che intendeva fare del nostro colloquio un atto politico destinato a restare. Però a deciderne il modo e il livello era affar suo. Dopo l´intervista sulla Nato, Giancarlo Pajetta parlò di una «forzatura giornalistica». Eppure doveva ben sapere che era un´eventualità inesistente con il Segretario Generale. E per il rito consumato nella piccola stanza, al secondo piano delle Botteghe Oscure: una scrivania coperta di carte, uno scaffale di libri, una fotografia di Gramsci alla parete.

Tre ore di colloquio alla presenza di un Tonino teso più del suo capo. E a volte ansioso di suggerirgli le risposte. Quarantadue pagine di appunti. Il giorno successivo, la revisione del testo, sempre per opera del santo sotto il baldacchino. Armato di una biro nera, Berlinguer procedeva pensieroso, la fronte aggrottata, con una lentezza sfiancante. Propria di chi sa di avere, dentro il partito, tanti fucili spianati a suo danno. E ha imparato che ogni parola può nascondere un´insidia, e quindi va soppesata, valutata, in tutti i suoi pro e i suoi contro.

Il Segretario Generale rileggeva ad alta voce le risposte che mi aveva dato. Se la prova non lo convinceva, la biro calava sul foglio per l´inevitabile correzione. «Lei corregge troppo!» protestavo. E lui, con un sorriso magro, replicava: «Non correggo: miglioro». Aveva una grafia minuta, ben disegnata, tutta spigoli, inclinata sulla destra, con certe lettere un po´ uncinate. Adesso che la guardo dopo tanti anni, mi vien da dire: ecco una grafia d´acciaio, infrangibile come la struttura umana di re Enrico.

Sto cadendo nel vezzo di mitizzare Berlinguer? Penso di no. Mi sono ben chiari i suoi errori, gli integralismi, le lentezze nel procedere verso un traguardo che sarà raggiunto, ma non da lui, soltanto nel fatale Ottantanove. Era anche un leader altero. Troppo orgoglioso della propria diversità. Sicuro all´eccesso di essere nel giusto. Moraleggiante. Un po´ cupo. Fustigatore dei peccati del mondo.

Ma come si fa a non rendergli onore? L´onore che spetta a un uomo che ha lottato per la propria causa in modo chiaro e leale. Dentro un´epoca sempre più marchiata dalla disonestà, dal trasformismo e dalla viltà.

Giovanni Berlinguer è il fratello di Enrico. Di due anni più giovane. Lo ha seguito durante tutta la sua vita politica, ed è sempre stato un militante e un dirigente del Pci, anche se a differenza del fratello non ha scelto la militanza a tempo pieno ma ha svolto la sua professione di scienziato, medico, e professore universitario. Nel 2001 Giovanni Berlinguer ha accettato di essere il candidato della corrente di sinistra dei Ds alla segreteria del partito. Ora è presidente di “Aprile”.

Com’era Enrico Berlinguer da ragazzo?

Come può essere un ragazzo di buona famiglia. Studioso quanto basta, molto appassionato di mare, gentile, pochi amici ma di solido legame. Aveva un carattere forte. Forse era segnato dalla morte della madre. Fu un fatto che pesò molto su di noi, anche su di me, che ero più piccolo di due anni.

Quando morì vostra madre?

Morì nel ’36, ma era malata da molto tempo. Morì quando Enrico aveva 14 anni e io 12. Il ricordo che ho io di mia madre è di una donna sempre malata, debole. Una donna molto affettuosa, ma spesso assente. Per noi è stata una esperienza molto dolorosa…

A scuola Enrico era bravo?

Sì era bravo, ma non eccellente. Anch’io ero bravo e neanch’io eccellevo. Fummo rimandati a ottobre un paio di volte. Eravamo molto legati. La differenza d’età era piccola e non creava un distacco, anche perché c’erano amicizie comuni, molti cugini. I cugini erano più piccoli di noi, ma erano associati ai giochi, alle attività collettive, e soprattutto alla vita di mare. D’estate a Stintino eravamo uno stuolo di coetanei. Enrico faceva il capobanda.

A quell’epoca non era timido e un po’ triste come lo abbiamo conosciuto?

No, non era timido, non è mai stato timido e non è mai stato triste. Era riservato ed è sempre stato riservato. La leggenda sulla sua tristezza era quella che lo faceva maggiormente arrabbiare. Enrico era allegro, gli piaceva vivere, gli piaceva divertirsi.

Voi due eravate molto uniti?

Con la crescita, verso i 15 anni, i nostri interessi iniziarono a divergere, io mi sentivo attratto dalle scienze, lui maturava una passione per la filosofia. Io sognavo di diventare chirurgo, lui non so cosa sognasse: leggeva libri per me difficilissimi. Anche nel tempo libero prendevamo vie diverse. Insieme facevamo la vela e giocavamo al pallone, per il resto ci dividevamo: io mi specializzai nel biliardo, nella carambola. Ero molto forte. A lui piaceva giocare a carte. Andava al bar Rubattu, a via Roma e lì ore a tressette o a mariglia, che è un gioco di carte sassarese, una specie di bridge dei poveri, si fa con quaranta carte. Poi spesso faceva quella che noi chiamavamo la seconda ora. Cioè, quando la notte il bar chiudeva, lui restava lì dentro, con un po’ di amici e giocava a poker…

Allora è vero che giocava a poker, come dice Fassino?

Sì, però non è vero che perdeva. Enrico vinceva quasi sempre a poker. E coi soldi si comprava i libri di filosofia. E la filosofia credo che fu l’anticamera della politica.

Quando iniziò a occuparsi di politica?

Non so dire una data esatta. La politica in casa nostra c’è sempre stata. Mio padre era nettamente schierato con l’antifascismo, era stato deputato nell’ultima legislatura semilibera, quella dal ‘24 al ’26. Faceva parte del gruppo liberal-costituzionale di Giovanni Amendola. Durante il periodo fascista lui aderì al partito d’azione, subito, appena fu fondato dai Rosselli.

E a casa vostra si parlava molto di politica?

Sì, era un’assemblea permanente. Vivevamo in una villetta, dopo la morte di mia madre, che era divisa in due appartamenti. In uno dei due appartamenti viveva la zia Lidia col marito Andrea, che era un funzionario di banca; poi venne, quando fu pensionato e ritornò a Sassari da Roma, anche il nostro nonno materno, Giovanni Loriga, un medico igienista. Nelle riunioni serali esplodeva lo scontro politico: papà democratico, mio nonno socialista di impronta positivista, come molti scienziati di quella generazione, poi c’era lo zio Andrea, anarchico, e noi due ragazzi che propendevamo per idee più moderne e avanzate. Queste si precisarono poi, quando Enrico entrò in contatto con gruppi di lavoratori che erano stati comunisti.

Quando successe?

Negli anni tra il ’40 e il ’42. Noi eravamo influenzati anche da zio Ettore, che era il più giovane degli otto fratelli di mio padre, faceva il giornalista alla Nuova Sardegna finché i fascisti non la chiusero. Lui aveva una piccola biblioteca di libri proibiti. Naturalmente c’era “Il Manifesto” di Carlo Marx (edizioni Laterza) e poi c’erano gli scritti di un pensatore anarchico della fine dell’Ottocento, Max Nordau. Ricordo che leggemmo un suo libro che ci colpì molto. Si chiamava, “Le menzogne convenzionali della nostra civiltà”. C’era un bel catalogo di menzogne: patria, famiglia, religione…Noi eravamo molto legati allo zio Ettorino perché lui era della generazione di mezzo, faceva un po’ da ponte tra noi e quelli dell’età di mio padre. Anche con lui c’erano continue discussioni: di politica, di filosofia, di letteratura.

Tu una volta mi hai detto che tuo fratello era un kantiano.

Si, in filosofia era un kantiano. Aveva letto la “Critica della ragion pura”, la “Critica della ragion pratica” e la “Critica del giudizio”. Non conosceva ancora gli scritti politici di Kant, perché allora in Italia circolavano poco. Aveva una immensa ammirazione per la costruzione intellettuale di Kant e soprattutto per la dimensione morale della sua opera. Però leggeva anche molti altri autori. Soprattutto leggeva Hegel, Schopenhauer, e amava molto la “Storia del liberalismo europeo” di Guido De Ruggiero.

Quando succede che tutto questo si tramuta in politica-politica?

La politica - ti dicevo - c’era sempre stata. Negli anni 40 esplode. Un po’ per la nostra passione e la nostra curiosità di capire quello che succedeva. Un po’ anche per l’influenza di nostro padre.

Voi eravate interessati all’aspetto pubblico della vita di vostro padre?

Sì, soprattutto ai suoi racconti sul fascismo e sull’antifascismo, e alle implicazioni politiche di quel che faceva come avvocato penalista. Mi ricordo in particolare un episodio che fu anche drammatico. Nel ‘37 ci fu a Sassari un duplice omicidio. Alcuni uomini della milizia, dopo una lite, uccisero due venditori ambulanti di torrone. Mio padre, insieme all’avvocato Andrea Cugiolu, fece la parte civile per incarico dei parenti delle vittime. Il clima in città divenne accesissimo. I fascisti erano scatenati. Minacce, scritte sui muri, telefonate anonime, cortei. Mi ricordo gli slogan scritti con la vernice vicino casa, e i manifesti affissi per la città: “Chi tocca la milizia avrà del piombo”. Una vera campagna intimidatoria. L’aula della Corte d’Assise era stracolma il giorno che iniziò il processo. Sia perché il fatto aveva creato molto scalpore, sia perché nel processo erano impegnati due avvocati “di grido”, i più noti di Sassari. A difendere gli imputati della milizia fu chiamato l’avvocato Siniscalchi, che veniva da Napoli, e a Napoli era il capo del fascio, cioè il federale. Iniziò subito la polemica tra difesa e parte civile. A un certo punto Siniscalchi gridò contro mio padre: “voi state facendo speculazione politica sopra due cadaveri!”. Mio padre si alzò dal suo banco, attraversò l’aula, si avvicinò al banco di Siniscalchi, in silenzio, e gli assestò due schiaffoni in faccia. Successe il finimondo. Mio padre era così. Cugiolu si arrabbiò e gli disse: “Mario, il processo è finito qui…”.In effetti il processo fu sospeso e rinviato a Viterbo. “Legittima suspicione”. Poi a Viterbo i fascisti furono assolti. Ma l’episodio dello schiaffo ebbe un seguito. Si scoprì che ambedue gli avvocati, Siniscalchi e mio padre, erano ufficiali in congedo, e si vide anche che il codice d’onore degli ufficiali in congedo, in questi casi, imponeva il duello. Era una situazione strana. La legge, formalmente, proibiva il duello. Ma il codice d’onore lo esigeva. Si decise di farlo. Si stabilì la data. Si stabilì l’arma: spada. A noi, nostro padre non disse niente. Però ci comunicò che lui, per distrarsi, riprendeva le lezioni di scherma. Si allenava tutti i giorni. A noi sembrava strano, lui aveva quasi cinquant’anni. Il duello si fece. In campagna, vicino a Sassari, all’alba. Fu un duello in piena regola: coi padrini, i medici, il pubblico e tutto. E un cordone di carabinieri per evitare invasioni e garantire la regolarità. Mio padre da giovane aveva fatto molta scherma. Ai primi assalti ferì subito Siniscalchi al braccio destro, i medici si affrettarono a dire che Siniscalchi non poteva continuare. Duello vinto. Mio padre tornò a casa alle sette, ci svegliò per mandarci a scuola e ci raccontò tutto, ed era eccitatissimo e molto felice.

Questa strana vicenda ha anche una coda recente. Qualche anno fa ho sentito che si presentava alle elezioni per il Senato un avvocato di Napoli di nome Siniscalchi, nelle liste dell’Ulivo. Per curiosità ho chiesto chi era. Mi hanno detto che era di una nota famiglia di avvocati napoletani e che suo padre era stato anche il capo del fascio. Vedi come cambiano le cose? Del resto devo dire che poi, negli anni successivi al duello, mio padre ci parlò sempre bene di Siniscalchi, che incontrò più volte in Cassazione. Disse che era una brava persona. In effetti era un uomo potente e se voleva vendicarsi di mio padre poteva farlo. Invece non fece niente …

Quando è che voi diventaste comunisti?

Prima della liberazione, nel ’43, si era costituito a Sassari un gruppo di comunisti, in gran parte anziani. E appena possibile fu costituita la sezione del Pcdi . Non era arrivata in Sardegna la notizia che il nome era cambiato e che si chiamava Pci. Enrico diventò segretario dei giovani comunisti di Sassari. Ci furono subito molti iscritti. Proletari, sottoproletari, studenti. Io diventai comunista più tardi, nella primavera del ’44, quando Enrico uscì di prigione dove lo avevano rinchiuso per la rivolta del pane. Enrico aveva molto ascendente sui ragazzi, faceva delle lezioni, spiegava Marx, le teorie comuniste e tutto il resto. In Sardegna la fine del fascismo fu salutata con grandi manifestazioni. Nel settembre del ’43, dopo l’armistizio, ci fu anche il tentativo degli antifascisti di spingere l’esercito italiano a disarmare la divisione tedesca che era di stanza nell’isola. Sarebbe stato possibile, perché i soldati tedeschi erano sparsi nel territorio, quindi vulnerabili. Però il comandante delle forze armate italiane respinse questa idea. Permise che i tedeschi si raggruppassero e sloggiassero rapidamente dalla Sardegna che loro consideravano indifendibile. I tedeschi salirono al nord, passarono in Corsica e poi sbarcarono in Francia. La Sardegna fu libera già dal settembre del ’43. Non ha conosciuto la guerra guerreggiata. E’ stata, forse insieme alla Puglia, l’unica Regione italiana che non l’ha conosciuta. Ha vissuto solo i bombardamenti devastanti prima del settembre ‘43, soprattutto a Cagliari, dove c’era un porto importante che fu sottoposto a moltissimi attacchi dagli aerei alleati. E il porto di Cagliari è proprio dentro la città. A Sassari, invece, ci furono solo un paio di bombardamenti senza vittime.

Cosa successe dopo l’8 settembre?

La situazione politica restò per molti mesi immobile. Ci fu continuità con il fascismo. Non c’erano più il partito fascista e le milizia, ma le prefetture, le questure, tutti i gangli dell’amministrazione erano nelle mani degli stessi di prima . Nessun cambiamento. E la situazione economica peggiorava. Durante la guerra c’erano state sofferenze, ma la Sardegna aveva un certo grado di autosufficienza alimentare. Pastorizia e agricoltura. Dopo l’otto settembre le cose peggiorarono, c’era la crisi vera. Arrivò la fame. C’era anche il divieto di costituire partiti politici, tanto che nostro padre fu arrestato per avere contravvenuto a questo divieto, organizzando il partito d’azione. Fu una vicenda curiosa l’arresto di mio padre. Lui era un personaggio, in città. Conosceva tutti, specialmente a Palazzo di giustizia. Così, quando fu spiccato il mandato di cattura, qualcuno lo avvertì e lui cercò di non essere arrestato. Legò insieme qualche lenzuolo per calarsi dal balcone sul retro, e poi mise un catenaccio al cancello di casa, in modo di avere il tempo per fuggire. Quando arrivarono i carabinieri lui se ne accorse, andò nel balcone sul retro, prese in mano il lenzuolo e si calò in giardino. Però nostro padre era coraggioso quanto distratto. Così nella fretta si era dimenticato di legare il lenzuolo all’inferriata, e quando scavalcò il parapetto aggrappato al lenzuolo volò a terra col lenzuolo in mano e fu una scena drammaticissima e anche un po’ comica. Io ero in casa e mi spaventai molto. Corsi all’ospedale a chiamare soccorsi. Lui finì piantonato in corsia.

E l’arresto di Enrico quando avvenne?

Più tardi. Mio padre era stato già liberato. A Sassari, all’inizio del ’44, ci fu una rivolta spontanea degli affamati. Saccheggiarono i forni, ci furono grandi manifestazioni in piazza d’Italia, e fu invasa anche la prefettura. Scattò subito la repressione e colpì selettivamente quelli che erano accusati di essere i fomentatori, cioè i giovani comunisti. Molti giovani comunisti stavano effettivamente tra la gente. Ma non erano stati loro a organizzare la rivolta, non potevano essere stati i promotori di un movimento così grande. Era un movimento grande e anche disperato, perché era mosso dalla fame, dalla fame vera. Enrico fu arrestato insieme a una trentina di ragazzi comunisti. Fu accusato di devastazione, saccheggio, insurrezione armata. Imputazioni gravissime. Comportavano la pena di morte. Per diversi mesi furono tenuti segregati al carcere di San Sebastiano, che si trovava proprio di fronte allo studio legale di Mario e Aldo Berlinguer. Erano isolati, senza la possibilità di comunicare tra loro, né con le famiglie, né con gli avvocati. I giudici e la polizia lavorarono per costruire prove false che servissero a dimostrare che Enrico era il capo della rivolta. E qualche giovane comunista, forse per paura, forse perché ebbe delle promesse, finì per convalidare queste accuse.

Voi eravate preoccupati. Poteva finire male…

Si noi eravamo molto preoccupati. Però sapevamo che il castello di accuse non avrebbe retto al processo. E contavamo sul mutamento del clima politico e morale che stava maturando nella parte continentale dell’Italia già liberata. Eravamo convinti che la liberazione avrebbe avuto conseguenze positive anche sul processo. Quando mio padre fu incluso nella delegazione dell’antifascismo sardo, per il primo congresso nazionale degli antifascisti, che si tenne a Bari, lui non voleva andare, per restare a Sassari e occuparsi di Enrico. Ma Enrico riuscì a fare uscire dal carcere una lettera nella quale insisteva, diceva al padre che doveva assolutamente andare a Bari. La prigionia di Enrico fu molto serena, per stato d’animo, per comportamento. In teoria loro erano isolatissimi, ma siccome mio padre era di casa a San Sebastiano, e conosceva tutti i secondini, nel giro di pochi giorni si organizzò una rete di contatti clandestini, attraverso i messaggi scritti che i secondini facevano filtrare. Servirono molto a organizzare la difesa contro accuse manipolate e perfino stravaganti. L’episodio più incredibile è stato il ripescaggio, da parte dell’accusa, del verbale redatto contro Berlinguer Enrico dalla milizia fascista, che aveva fermato e perquisito lui e altri tre “complici”, trovati nelle vicinanze di un manifesto sovversivo intitolato “Sorgere e Risorgere”, e firmato dalla nota formazione clandestina Giustizia e Libertà. La cosa più strana è che il verbale era stato compilato dall’Ufficio politico investigativo della 177esima Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale “l’anno millenovecentotrenta, addì 28 del mese di ottobre”, cioè quando Enrico aveva otto anni..

Il processo a Enrico credo che è stato quello più impegnativo della lunga vita professionale di mio padre. Anche se non si concluse mai. Il clima politico cambiò ed Enrico fu prosciolto in istruttoria e scarcerato. Quattro mesi di carcere. Uscì dimagrito, impallidito, ma probabilmente rafforzato. Credo che fu in quei mesi che decise di dedicare la sua vita alla politica. Aveva 21 anni, aveva quasi finito gli esami all’università, stava scrivendo la tesi di filosofia del diritto. La politica lo travolse, non si laureò mai.

Ci sono delle lettere di Berlinguer dalla prigione?

Si, ci sono le lettere che ci mandava attraverso i secondini amici. Sono scritte a matita, perché non aveva penne, e sono scritte su pezzetti di carta di ogni tipo, da pacchi, o sui margini bianchi della carta di giornale. In quelle lettere dimostra una forza di carattere eccezionale. Rifiutava qualunque agevolazione che non fosse per tutti. Tendeva continuamente a tranquillizzare noi sul suo stato d’animo, raccontava le letture, commentava i libri. Un giorno scrisse che aveva imparato a memoria l’Amleto in inglese, e che l’Amleto esprimeva in modo perfetto i dilemmi di ogni essere umano. Sono molto interessanti queste lettere. Erano poi straordinarie, sul piano affettivo, le lettere di nostro padre a lui. Gli scriveva quasi ogni giorno. Lettere lunghe. Nella prima parte metteva il racconto degli atti istruttori, notizie sullo svolgimento delle indagini, consigli legali eccetera; poi nella seconda parte parlava della guerra e della politica italiana, oppure faceva il resoconto del congresso di Bari, del suo ritrovare amici e compagni di lotta dei quali si erano perdute le tracce. In tutte queste lettere c’era un gigantesco amore paterno….

Cosa fa Enrico quando esce dalla prigione?

Compie un viaggio con mio padre a Salerno dove c’è la sede del governo, e lì conosce Togliatti: glielo fa conoscere mio padre. Poi, subito dopo la liberazione dell’Italia va a Roma. Per la verità andiamo a Roma insieme. Prendiamo casa con nostro padre in un appartamentino a via Boccanegra, dietro piazza Bologna. Tra noi in quel periodo c’è un rapporto molto intenso di comunicazione e di scambio, non di frequenza perché ci vediamo poco. Lui viaggia, io studio medicina. Enrico è diventato un dirigente del movimento giovanile comunista, diretto da Giulio Spallone e poi da Giuliano Paletta. C’è anche Carlo Lizzani. Sta poco a Roma. Il partito lo spedisce a Milano a fare esperienza. A Milano c’è il “Fronte della Gioventù”, quello fondato da Eugenio Curiel, che è stato ucciso nel 1945 dai nazisti. Il “Fronte” è una organizzazione unitaria, non solo di comunisti. Poco dopo si costituisce la federazione giovanile comunista, e lui diventa il segretario nazionale.

Com’era il tuo rapporto politico con lui?

Sono stato un seguace di Berlinguer. Un adepto. Ma nel corso degli anni ho avuto anche varie discussioni, vari dissensi. Non frequenti ma li ho avuti. Per esempio negli anni quaranta, quando la prospettiva dell’Italia era di andare verso la normalizzazione, non ero d’accordo, ero irrequieto, io non credevo molto alla possibilità di una azione sul terreno democratico. Enrico si mostrò molto più ragionevole di me, e naturalmente aveva ragione.

Tu eri un po’ “secchiano”, forse, nel senso di simpatizzante per Pietro Secchia?

No, questo no. Non ho mai avuto simpatia per Pietro Secchia.

Sulla linea politica del “compromesso storico”, negli anni ’70, eri d’accordo?

Pensavo che fosse una giusta strategia ma fui turbato di fronte al suo divenire semplice accordo di governo. Un accordo che poi significò subalternità. Su questo discutemmo molto con lui. Enrico diceva che era un passaggio obbligato. E d’altra parte la validità della strategia ebbe una straordinaria conferma nelle elezioni del ’75 e del ’76. Il Pci guadagnò moltissimi voti.

Perché fu abbandonato il compromesso storico?

Per molte ragioni. La più importante credo sia che l’interpretazione prevalente che si ebbe di quella idea politica fu in termini di negoziati di vertice e di cedimenti. E poi perché a un certo punto ci furono dei cambiamenti sostanziali nel quadro politico: mutarono le coordinate in cui si era mossa quella strategia. I cambiamenti principali furono due. Uno fu che sul piano internazionale vinsero la Thatcher nel 1979 e Reagan nel 1980. Cioè prevalse alla guida dell’occidente una linea di capitalismo aggressivo, rivoluzionario, espansivo. Che dette avvio alla globalizzazione neoliberista nella quale oggi viviamo e della quale vediamo chiari i guasti e le ingiustizie che ha creato. E l’altro mutamento fu interno. Cambiò il nostro panorama politico: con la morte di Moro prevalse nella DC una linea che era assolutamente contraria al compromesso storico e aveva in testa un futuro molto diverso per l’Italia. Il compromesso storico si basava molto su quelle due personalità straordinarie: quella di Berlinguer e quella di Moro. La morte di Moro fu un colpo micidiale per l’Italia. E poi ci fu un altro fattore ancora: ci fu un ricambio nei gruppi dirigenti dell’economia italiana. Vinsero le correnti più conservatrici, e queste correnti decisero un contrattacco: vollero porre un freno alle riforme, riassorbirle e iniziare una vera e propria inversione di marcia sul piano politico e sul piano sociale…

Gli anni settanta, che sono quelli durante i quali si realizza la strategia del compromesso storico, sono ricchi di riforme. Riforma sanitaria, equo canone, aborto e moltissime altre. Riforme che modificarono la struttura economica e lo spirito pubblico dell’Italia.

Si, il contrattacco fu proprio contro queste riforme. Una parte dei gruppi dirigenti politici ed economici decisero che bisognava invertire rotta. Sbarrarono il compromesso storico.

A quel punto nella politica di Berlinguer c’è una rottura e un ripensamento. Nasce così la linea dell’alternativa democratica, e poi la teoria della diversità e l’apertura della questione morale?

Lui sente che c’è un tarlo nel sistema politico. E che i partiti di governo non sono più animati da alcuno slancio ideale. Stanno perdendo il rapporto tra la politica e le cose che contano, cioè l’ interesse dei cittadini, le aspirazioni della gente, le esigenze di solidarietà. E soprattutto sente che l’accordo tra Dc e socialisti è un accordo di basso profilo. Non ha le basi politiche e ideali che aveva avuto la nascita del primo centrosinistra. E’ una alleanza insufficiente a garantire la guida democratica del paese. Allora Enrico cerca strade nuove. Secondo me quegli anni, e cioè i primi anni ’80, non sono gli anni dell’isolamento - della ricerca dell’isolamento e dell’identità, uno contro tutti - come qualcuno ha scritto. Sono gli anni in cui lui si rende conto, non sempre in modo del tutto nitido ed evidente, che il mondo è entrato in una fase nuova. E oltre a proporre una politica di alternativa democratica, ai partiti e all’opinione pubblica, tenta di definire e ridefinire i metodi della politica, gli scopi, la fisionomia. E così propone da un lato la questione morale, dall’altra la linea dell’alternativa. La questione morale non è certo una questione giudiziaria. Enrico non si pone l’obiettivo di mandare qualcuno in prigione, ha un obiettivo molto più ambizioso: quello di rinnovare i partiti, il costume, i rapporti coi cittadini. In sostanza si pone il problema della riforma della democrazia e del potere. E’ questa la questione morale. E l’alternativa è un insieme di progetti e di temi che allora furono scarsamente capiti dal suo stesso partito, e soprattutto dal gruppo dirigente del suo partito, ma che erano incredibilmente moderni, erano proiettati nel futuro. Oggi sono di straordinaria attualità, costituiscono l’agenda politica reale. Sono il tema dello scontro che è aperto tra le diverse concezioni politiche del mondo e del suo futuro.

Quali erano questi temi?

Il tema dell’austerità, per esempio. Che è un tema gigantesco, per niente conservatore , anzi tutto costruito su un’idea nuova di “domani”. Sollevava le seguenti esigenze: revisione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo; valorizzazione di nuove risorse, lotta contro gli sprechi dell’occidente, redistribuzione della ricchezza, salvaguardia dell’ambiente. Non sono le questioni che oggi abbiamo davanti e che ancora non ci decidiamo a prendere di petto? Mi ricordo di quando preparava la relazione al XVI congresso. Un giorno mi disse: “Al prossimo congresso lancerò un altra idea. Quella del governo mondiale”. Eravamo nei primi anni ottanta, nel reaganismo e nel breznevismo, Gorbaciov non era ancora alle viste, il muro sembrava eterno, la corsa agli armamenti galoppava. E lui lanciava l’idea di un governo mondiale? Rimasi molto sorpreso. Pensai che non lo avrebbe fatto. Invece lo fece, e spiegò cosa intendeva per governo mondiale e perché era necessario ed era l’unica via d’uscita. Mi convinse. Capii che era effettivamente la direzione giusta. Non so quanto realistica, ma giusta. E lui mi suggerì di rileggere gli scritti politici di Kant, dove questa idea era specificata. Era delineato un nuovo rapporto tra popoli e governi non come soluzione parziale per impedire questa o quella guerra, bensì come modo per stabilire relazioni diverse tra popoli e potere e per assicurare la convivenza nel mondo.

Per Berlinguer il pacifismo fu importante?

Si il pacifismo fu importante. Il pacifismo negli anni ottanta entra in una fase nuova. Non assomiglia al pacifismo dei decenni precedenti. Diventa indipendente, autonomo. Nel dopoguerra i movimenti pacifisti erano sempre stati molto influenzati dalla divisione del mondo in blocchi. In quei movimenti c’era una specie di adesione a uno dei due blocchi. Negli anni ottanta cambia tutto. E Enrico cambia la politica del Pci. Vedi, io credo che ci siano due momenti importantissimi di svolta nella sua politica. Uno è la famosa intervista a Giampaolo Pansa nella quale Enrico riconosce la Nato e dice di sentirsi più tranquillo con l’Italia sotto il suo ombrello. E’ un vero e proprio rovesciamento della politica estera. Il secondo momento è la lotta contro gli euromissili, nei primi anni ottanta. Non solo contro i missili americani ma anche contro i missili sovietici. Enrico fu tra i pochi uomini politici italiani che iniziò a prendere in considerazione un mondo non più diviso in blocchi, e iniziò a pensare la politica fuori dei blocchi.

Tu dici che la sua non era una posizione difensiva e di conservazione e rilancio dell’identità. Dici che era una posizione che guardava più al futuro che al presente. E’ così?

Si, è così. C’è in quegli anni un’altra intervista importante. Una lunga intervista all’Unità, a Ferdinando Adornato, che allora era un giornalista dell’Unità, e l’intervista fu pubblicata in un numero speciale che prendeva spunto dall’anno 1984 (visto che 1984 è il titolo di un famoso libro di Charles Orwell sul futuro). In quell’intervista Enrico mostrava di avere capito molto di quello che stava per succedere, e della rivoluzione tecnologica che era alle porte. Lanciò una proposta, quella di un grande convegno internazionale sulla futurologia, che suscitò scarsissimo interesse nel partito e nell’intellettualità. Egli era molto interessato a un tema che era stato tra noi, fin da ragazzi, oggetto di discussioni infinite: la priorità della filosofia o della scienza e i loro rapporti nella dinamica della storia e del pensiero umano. Era interessato all’innovazione, al ruolo delle nuove scoperte scientifiche e soprattutto al peso che tutto questo avrebbe avuto sulla politica e sui rapporti tra la politica e il genere umano.

Si rendeva conto che questi rapporti non potevano essere garantiti solo dalle vecchie strutture dei partiti. Non stava forse pensando anche al superamento di quella forma di partito?

Sì , credo che stesse pensando a questo. Ma il suo pensiero non era ancora abbastanza delineato. C’è una conversazione di cui ha dato conto Francesco De Martino. Egli suggerì a Enrico di cambiare il nome del Pci. Sembra che Enrico abbia risposto che un passo del genere non sarebbe stato capito dal suo stesso partito. Ma di questo non posso dare alcuna testimonianza perché con me non ne parlò mai.

Quello che mi pare si possa dire in linea generale -forse su questo tema potremo tornare- è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell'est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d'inizio nella rivoluzione socialista d'ottobre, il più grande evento

Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell'est possa conoscere una nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che prosegua il processo della distensione, perché è chiaro che l'inasprimento della tensione internazionale, la corsa agli armamenti portano all'irrigidimento dei vari regimi, compresi quei regimi; inoltre, è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell'ovest dell'Europa, nell'Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia. Si tratta, in sostanza, della politica, della strategia, dell'ispirazione fondamentale del nostro partito, che ricevono da quei fatti una nuova conferma.

Turone: Non le sembra in questa risposta di avvertire l'eco quasi storica di una felice eresia, a mio giudizio? Lei dice che la capacità di propulsione e di rinnovamento delle società dell'est europeo si è andata esaurendo; si chiude un ciclo. Ora, io vorrei sapere perché si chiude questo ciclo. Solo perché ci sono stati errori o anche perché forse c'è qualcosa che non funzionava nell'ideologia? Mi sembra di ricordare che nel documento già citato ci fosse una frase, quella sulla necessaria indissolubilità fra democrazia e socialismo, richiamata adesso da lei, che, sotto il profilo dell'ortodossia leninista, è veramente, felicemente eretica. Possiamo dedurne che il PCI, il quale è all'avanguardia nella coraggiosa opera di revisione in corso in campo comunista, ha finalmente messo in soffitta accanto a zio Stalin anche babbo Lenin?

Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità, e che vi sia poi, d'altra parte, tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che sono ormai caduti, che debbono essere abbandonati con gli sviluppi nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, che si concentra su un tema che non era il tema centrale dell'opera di Lenin.

Il tema su cui noi ci concentriamo è quello della via al socialismo e dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche quali sono le società dell'occidente europeo. È chiaro che l'esplorazione di vie verso il socialismo, in questa parte dell'Europa e del mondo, richiede soluzioni del tutto originali, rispetto a quelle che si sono attuate nell'Unione Sovietica e che poi si sono via via attuate negli altri paesi dell'est, sia europeo sia asiatico.

Da questo punto di vista, noi consideriamo l'esperienza storica del movimento socialista, nel suo complesso, nelle sue due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione di partiti comunisti nell'est europeo. Ognuna di queste esperienze ha dato i suoi frutti all'avanzata del movimento operaio, ma entrambe vanno considerate criticamente con nuove formule, con nuove soluzioni, con quella, cioè, che noi chiamiamo terza via, la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell'est europeo. Si tratta di una ricerca nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia, dove questo stesso tema viene discusso e approfondito.

Nichols: Vorrei parlare della crisi polacca, però allargando un pochettino le cose per parlare della crisi più generale che abbiamo in Europa. Il papa sta facendo, come sappiamo, molti passi e molti interventi sempre interessanti in questo campo. Lo ha fatto per molto tempo, lo sta facendo adesso. Nel campo della pace -diciamo- e nel campo dell'unità dell'Europa orientale e occidentale. Dànno fastidio questi passi ai comunisti, o sono ben visti da voi?

Tutt'altro. Io penso che le parole che soprattutto in questi ultimi tempi il papa ha pronunciato in modo chiaro per condannare la corsa agli armamenti e, in particolare, la corsa verso nuove armi atomiche, siano delle parole giuste, che dànno ascolto ed espressione alla volontà di milioni e milioni di credenti che hanno manifestato insieme a noi, o in forme autonome, nel corso di questi ultimi mesi, in Italia e in altri paesi europei.

Valuto soprattutto in modo positivo la più recente iniziativa presa dal papa, che non è più soltanto un appello alla pace. Il papa, come è noto, ha inviato suoi rappresentanti, scelti tra i membri della Pontificia Accademia delle Scienze, per illustrare ai rappresentanti delle massime potenze -Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Inghilterra- uno studio compiuto dalla stessa Pontificia Accademia delle Scienze sulle conseguenze di un conflitto atomico, affinché tutti ricavino, da questo studio e dai terribili disastri addirittura di proprozioni catastrofiche per tutta l'umanità che ne deriverebbero, le dovute conseguenze.

Non soltanto occorre subito arrestare ogni passo nuovo verso la corsa agli armamenti, ma occorre lavorare per la messa al bando delle armi atomiche. Questa è anche la nostra posizione e la posizione di numerosi Stati. È la stessa posizione che si è espressa potentemente nei movimenti della pace che si sono avuti in questo ultimo periodo quasi in contemporaneità, ed è un fatto nuovo di estrema importanza, in numerose capitali europee.

Noi pensiamo che si tratti di un movimento che coinvolge un insieme di forze: Stati, governi, movimenti popolari, Chiesa cattolica e altre chiese, e che premerà in questo senso. Ci sarà effettivamente la prospettiva di porre un termine a questa corsa che non posso giudicare altro che una follia.

Nichols: E sull'Europa orientale?

Il papa ha espresso un concetto che, dal punto di vista generale, è valido: l'Europa ha una sua unità, una sua civiltà comune. I popoli europei, indipendentemente dai loro regimi sociali e politici, debbono avvicinarsi, debbono comunicare maggiormente fra loro, debbono comprendersi. Anche questo è un concetto che non ci è estraneo, anche se noi lo esprimiamo e lo manifestiamo in forme e con iniziative diverse.

Fonte:

http://www.ilbolerodiravel.org/kattivi_maestri/strappo.htm

Le ultime parole sul palco di Padova, l' agonia, il bacio commosso dell' amico Sandro Pertini. - "Compagni, proseguite il vostro lavoro... casa per casa... strada per strada...". Enrico Berlinguer pronuncia le sue ultime parole con la voce fioca, spezzata, un fazzoletto bianco premuto sulla bocca. Il segretario del Pci, colpito da un ictus, crolla, pallido come un cencio, sul palco di Piazza della Frutta, dove sta tenendo un comizio per la campagna elettorale delle elezioni europee. Berlinguer comincia a morire alle dieci e mezza di una sera fredda, di vento, sotto qualche goccia di pioggia, mentre un maxi schermo trasmette il suo dramma ai cinquemila della piazza. Era giovedì 7 giugno 1984. Il suo cuore cessa di battere quattro giorni dopo all' ospedale Giustinianeo. Berlinguer torna a Roma sull' aereo di Sandro Pertini: "Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta" dice con gli occhi lucidi il Presidente della Repubblica. Berlinguer non sta bene già quando sale sul palco. Accende una super senza filtro mentre parla Gianni Pellicani e aspetta il suo turno, ma la spegne quasi subito. Avverte un senso di nausea e gli gira la testa. "Hai mangiato pesante ieri in Liguria" lo tranquillizza il fido Tatò. Berlinguer toglie l' impermeabile, ha una giacca a quadretti. Si slaccia il primo bottone della camicia, per respirare meglio. Inforca gli occhiali e comincia a parlare, la mano sinistra alzata. La polemica col governo è dura. Il leader comunista attacca i "meschini calcoli di parte", la "ragioneria partitica". Ma lo prende il primo affanno. Si ferma, ricomincia : "La verità è che...". Non ce la fa più. "I partiti se ne infischiano...". Berlinguer lotta contro l' ictus. "Enrico, Enrico" gridano dalla piazza. "A questo stato di cose diciamo basta...". La voce gli esce stonata, fatica a leggere gli appunti. Lo prende un attacco di vomito, chiede un bicchiere d' acqua. Impallidisce, si porta il fazzoletto alla bocca. Adesso tutti capiscono. "Non vedete che sta male" urlano. Ma lui vuole andare avanti. Berlinguer sente che le forze gli mancano, la vista gli si appanna. Salta le ultime otto cartelle del discorso. "Proseguite il vostro lavoro, andate casa per casa, strada per strada..." riesce a mormorare e si accascia. I compagni lo sorreggono, lo fanno scendere dal palco. Berlinguer è uno straccio. Vomita. Lo portano all' albergo, poi di corsa all' ospedale. Sono le undici della sera. Berlinguer è in coma. Nella notte lo operano, ma non c' è niente da fare. La mattina dopo arriva Pertini, che si china sul suo letto di morte e lo bacia sulla fronte fasciata. "E' un uomo giusto" piange il vecchio presidente. Per quattro giorni migliaia di persone vegliano in silenzio nel vecchio cortile del Giustinianeo. Ma Berlinguer non riprenderà più conoscenza. Lunedì 11 giugno il sovrintendente sanitario Francesco Valerio comunica : "L' onorevole Enrico Berlinguer è mancato alle 12.45". "Compagni, la dura notizia è giunta" annuncia Achille Occhetto alla folla radunata davanti a Botteghe Oscure. Il corteo con la bara di Enrico Berlinguer sfila da Padova a Venezia tra due ali di folla lunghe trenta chilometri. Pertini lo porta via con sé.

Fonte:

http://digilander.libero.it/infoprc/discorsopadova.html

Da quando morì Enrico mi sono sempre astenuto dal commentare i giudizi politici e personali, anche i più aspri, espressi sul suo operato. A questo mi ha indotto, forse più che l’ovvio riserbo, il percepire che ci sono tuttora verso di lui (anche da parte dei giovani) stima e affetto diffusi, non scalfiti dalle critiche e dal passare del tempo.

Mi sono anche astenuto dall’intervenire sui nodi più discussi del suo impegno alla guida del Pci, come il passaggio del compromesso storico da strategia nazionale ad accordo di governo con la Dc, come la rottura coraggiosa ma incompiuta con il comunismo, come le aspre polemiche che hanno diviso il Pci dal Psi di Craxi: temi che suscitano interrogativi importanti per la storia come pure per le nostre prospettive odierne.

Non riesco a tacere, tuttavia, il senso di dolore personale e più ancora di sconcerto politico che mi è venuto dalla lettura di alcune pagine-chiave del libro di Piero Fassino "Per passione", che è un'autobiografia dignitosa e stimolante e un'utile fonte di analisi sociale e politica di Torino e dell'Italia.

Anch'io ho passione, e cito perciò una sua metafora che mi ha fatto rabbrividire. Il contesto è così descritto nel libro (pp. 156-161): da un lato Craxi, il quale "interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia" e quindi "una gran voglia di modernizzazione", e dall'altra un Pci "che di fronte alle difficoltà del presente non sa opporsi ai richiami del passato e si esilia in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola". La sorte, evidentemente, è segnata, e Fassino sprigiona così la sua fantasia descrittiva: "Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore; sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica".

Un uomo fortunato, quindi, per quel che gli è accaduto tempestivamente a Padova. Non commento il carattere lugubre e macabro della metafora, poiché ciò spetta ai lettori, forse meno di me emotivamente coinvolti. Sul piano politico, però, unendo passione e ragione (e concordando ovviamente sul carattere negativo della rottura avvenuta allora nella sinistra e sulle reciproche responsabilità), è doveroso porsi due domande.

Una riguarda la partita in gioco: è proprio vero che lo scacco matto era imminente, e che non c'era altra via di uscita? La mia impressione è che, sebbene Craxi segnò punti a favore subito dopo la scomparsa di Enrico, come il referendum sulla scala mobile (avviato, come riconosce Fassino, tra molte esitazioni dei nostri dirigenti), negli anni successivi cominciò il declino della sua politica, che si concluse poi drammaticamente con il danno maggiore: la scomparsa del Psi. In quegli anni furono avviate invece, con grande travaglio, le successive trasformazioni del nostro partito, che pur con perdite e affanni mantiene un ruolo sostanziale nella sinistra italiana. Forse, ciò è accaduto anche perché nei decenni precedenti non abbiamo compiuto soltanto "la traversata del deserto", ma anche una costruzione democratica di rapporti sociali diffusi, e perché continuità e discontinuità (quando dalle due abbiamo scelto il meglio!) hanno contribuito entrambe a salvare e trasformare (in modo ancora insufficiente) questo partito.

L'altra domanda coinvolge giudizi politici su quel tempo, e ancor più sulle scelte che si stanno compiendo oggi: è proprio vero che Craxi era modernizzante e Berlinguer passatista? E come collocarsi ora, quando le coordinate degli anni ottanta e novanta risultano in gran parte superate?

Nel Psi, intuizioni e intenzioni moderniste ci furono certamente, come la Conferenza programmatica del 1982 che nelle idee di Martelli volle coniugare "meriti e bisogni". Nei Congressi del Psi l'arredamento diventò avveniristico, il "made in Italy" fu propagandato nel mondo, soprattutto nel campo della moda, e le televisioni moltiplicate e accaparrate. Ma scienza e scuola ristagnarono e l'innovazione tecnologica progredì scarsamente. Le istituzioni più che riformate furono occupate, poste al servizio di gruppi e partiti e spesso corrotte. Non sta a me ricordare, per contro, che come risultato di un confronto politico asperrimo Enrico percepiva e soffriva il rischio di un isolamento (anche interno) e più ancora di una stagnazione delle idee. Dopo aver sollevato la questione morale, intesa non nel senso giudiziario bensì come riforma dei partiti e della politica (1981) e dopo lo strappo con il sistema sovietico (1982) Enrico negli ultimi anni ha riproposto con slancio il tema dello sviluppo sostenibile e del governo mondiale, il ruolo della scienza e della tecnologia, la questione dell'etica pubblica.

Tali questioni hanno assunto con la crisi del neoliberismo, dell'assetto culturale caratterizzato dal "pensiero unico" e ora del dominio di un solo paese, una priorità programmatica pregnante e urgente. Nel nostro passato, più che in altre esperienze che si vorrebbero riproporre come modelli, ci sono tracce da seguire, e nel nostro futuro ci deve essere più coraggio e più innovazione. Anch'io ripeterei volentieri la formula fassiniana "modernizzazione più diritti", se cercassimo insieme di darle qualche contenuto unitario, costruttivo e mobilitante.

Nell' ultimo quarto di secolo agirono sulla scena politica due personaggi di rilievo, Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer. Sarebbe stato un bene per la sinistra se fossero andati d' accordo. Invece si fecero la guerra. Di chi la colpa ? Scrive Piero Fassino, segretario dei Ds, nel libro autobiografico Per passione uscito in questi giorni, e di cui già si è occupata Repubblica: «A ben vedere la sinistra, lungo tutto il Novecento, è stata minata da un "male oscuro": la pretesa di ciascuno dei suoi due massimi partiti di volerla da solo rappresentare tutta, scommettendo sulla sconfitta e sulla sparizione dell' altro. Una maledizione che segna il conflitto Berlinguer-Craxi. Nel ' 75-76 è il Pci, forte di una straordinaria avanzata elettorale, a scommettere su una bipolarizzazione del sistema politico che gli assegni la rappresentanza della sinistra, relegando il Psi a forza residuale. Una scommessa perduta, come si incaricheranno di dimostrare gli eventi successivi». Colpa di Berlinguer, dunque, che in quella fase non seppe istituire una collaborazione efficace coi socialisti? Così è stato interpretato il giudizio di Fassino. Ma in questo suo giudizio manca, a mio avviso, un anello essenziale. Craxi gode in questi giorni di buona stampa. Se la merita? Certo colpì la fantasia di tante persone, come leader del partito, perché era, in una fauna politica piuttosto addomesticata, l' unico animale da preda: dotato di una personalità forte, coraggioso e spregiudicato, capace di decidere. Quanto alle sue singole azioni di governo, ve ne furono di buone e di cattive. Giusto l' intervento sulla scala mobile; criticabili le simpatie per gli argentini nello scontro per le Maldive; discutibile Sigonella, l' episodio in cui mostrò indipendenza di fronte agli americani, ma permise la fuga di un terrorista. Si dice di lui che capì la necessità di "modernizzare" l' Italia, sebbene fosse contrario alle privatizzazioni. Se tuttavia è giusto giudicare un uomo politico, pragmaticamente, dal risultato finale, il suo risultato fu pessimo: prese in mano il partito socialista e lo distrusse. Ma non è questa la sede per giudicare il personaggio. Il tema è un altro: la collaborazione fra socialisti e comunisti, il rapporto con Berlinguer. E qui si dimentica troppo spesso un ostacolo decisivo: la questione morale. Il partito socialista, come si è poi ampiamente dimostrato, era un partito corrotto, e non mi riferisco solo ai finanziamenti illeciti, di cui erano colpevoli, quale più quale meno, anche gli altri partiti. Ricordo di avere incontrato per caso Flaminio Piccoli, in piazza Montecitorio, ai primi tempi del centrosinistra. Piccoli era un uomo schietto. «Anche noi - mi disse, e si riferiva ai democristiani - avremo le nostre colpe, non lo nego; ma questi altri - e si riferiva ai socialisti - da quando si sono avvicinati al potere, hanno una fame, una fame~». Era scandalizzato, perfino lui. In Italia si è riluttanti, pudicamente, a parlare di certe cose, ma non possiamo dimenticare che Bettino Craxi, il grande modernizzatore della repubblica, affidava a questo o a quello, per esempio al proprietario di un bar di Portofino, miliardi e miliardi, come risulta da documenti giudiziari, con l' incarico di trafugarli all' estero e di cancellare in modo assoluto la loro provenienza. Berlinguer era fatto di un' altra pasta. Fece della questione morale una bandiera del suo partito, e ci credeva. Parlava della "diversità" dei comunisti, e si riferiva anche a faccende di questo genere. Ma la modesta sensibilità etica di questo nostro paese non dà grande importanza all' onestà, che è considerata una variabile indipendente, una questione privata: se c' è tanto meglio, se non c' è pazienza. Fassino, che aveva con Berlinguer grande familiarità, non menziona questo aspetto del problema; ma io sono convinto che la questione morale (più semplicemente l' onestà, se preferite) fu uno degli elementi che indussero Berlinguer a evitare ogni tentativo di collaborazione profonda con quel partito socialista. Di Berlinguer uomo politico si possono dire tante cose, gli si possono rivolgere molte critiche. Il suo distacco dall' Unione sovietica fu forse troppo lento, troppo timido. La sua proposta del compromesso storico fallì, e comunque, se avesse avuto successo, non avrebbe giovato al paese. Anche se capiva il valore della libertà, non si staccò mai del tutto, intellettualmente, dal comunismo inteso come teoria; forse può essere paragonato, sotto questo aspetto, a Gorbaciov, che a sua volta non cessò mai di essere comunista nel profondo dell' animo, e quindi anticapitalista; è probabile che fallirono anche per questo, l' uno e l' altro. Resta da vedere se le circostanze avrebbero permesso, all' uno e all' altro, una politica diversa. Ma è pur sempre vero che in materia di onestà personale Enrico Berlinguer aveva le idee chiare. E per questa ragione mi è rimasto, nel ricordo, molto simpatico.

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