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Corriere della sera

Non c’è persona civile, in Italia e nel mondo, che possa non plaudire con entusiasmo a questa sentenza della Corte costituzionale. Il principio di uguaglianza di tutti dinnanzi alla legge è acquisito dal mondo in ogni Statuto democratico, sebbene non sia quasi mai integrato dal principio dell’uguaglianza economica. Ma alla nuova barbarie degli Zaia esso rimane ignorato, rivelando così che nel mondo foggiato dal capitalismo le ragioni del suprematismo di popolo, etnia, tribù trovano ancora consistenti e “autorevoli” sostegni. Ce lo ricordano ahimè, al di là e addirittura al di sotto degli Zaia gli avvenimenti quotidiani dell’attuale politica italiana: basta pensare alle fortune del fascista e razzista Matteo Salvini, ministro dell’Interno di un governo che il presidente della nostra Repubblica ritiene coerente con la Carta di cui dovrebbe essere il supremo tutore. Ma nessuno chiederà l’empeachment di Sergio Mattarella. È l'Italia, baby! (e.s.)

Veneto,asili nido: bocciata la legge del “prima noi”.
«È incostituzionale»
di Elena Tebano
«La decisione della Consulta sulla norma voluta dal governatore Zaia che dava la precedenza ai figli di coloro che risiedono in Veneto da almeno 15 anni»
Viola la Costituzione dare la precedenza ai figli dei residenti in Veneto da almeno 15 anni nell’iscrizione all’asilo nido. Lo ha stabilito la Consulta con la sentenza 107/2018 depositata oggi. A febbraio di due anni fa la Regione Veneto aveva varato la norma voluta dal governatore Luca Zaia, in una declinazione locale di quel «prima gli italiani» che è stato lo slogan della Lega anche nell’ultima campagna elettorale. Secondo la Corte, presieduta da Giorgio Lattanzi (giudice estensore Daria De Pretis), la legge con il criterio dei 15 anni di residenza o lavoro viola il principio di uguaglianza sancito nell’articolo 3 della Costituzione e «persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia» garantito dall’articolo 31.

La decisione dei magistrati

«Primai veneti resta un principio forte e non scalfibile» aveva detto Zaia quando lanorma era stata rinviata alla Corte costituzionale. I giudici della Consulta,però, non sono d’accordo: «La configurazione della residenza (odell’occupazione) protratta come titolo di precedenza per l’accesso agli asilinido, anche per le famiglie economicamente deboli, si pone in frontalecontrasto con la vocazione sociale di tali asili, scrivono nella sentenza ;asili che rispondono «direttamente alla finalità di uguaglianza sostanzialefissata dall’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, in quanto consenteai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi economici disvolgere un’attività lavorativa». Stesso argomento vale — affermano imagistrati — anche per «la funzione educativa degli asili nido»: qui«l’estraneità ad essa del “radicamento territoriale” risulta ugualmenteevidente» essendo «ovviamente irragionevole ritenere che i figli di genitoriradicati in Veneto da lungo tempo presentino un bisogno educativo maggioredegli altri». Secondo la Consulta, inoltre, la legge veneta viola anchel’articolo 31 della Costituzione in quanto «distorce la funzione» degli asilinido e «persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia, perché creale condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizioeducativo dell’asilo nido».


Gli effetti della bocciatura

La norma originaria, del 1990, riconosceva «titolo di precedenza all’ammissione» ai «bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale». Ma due anni fa era stata modificata dando «precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione». Ora la modifica è stata annullata e il criterio della residenza prolungata non viene più applicato: basterà essere residenti, anche solo da un giorno, nella Regione.

Articolotratto dalla pagina qui raggiungibile

la Repubblica


«Si sta configurando ungoverno a composizione predeterminata e il capo dello Stato rischia di trovarsicon le spalle al muro. Sulla sicurezza emerge dal programma uno Stato dalvolto spietato verso i deboli e i diversi, non compatibile con i dirittiumani. Incostituzionale il Comitato di conciliazione se facesse derivareobblighi di comportamento per premier e ministri»
Sono trascorsi due mesi e mezzo dal voto e ancora non abbiamo il nuovo governo.Lei, professor Zagrebelsky, che ne dice?
«Dal 4 marzo qualcosa dinuovo cerca di nascere. Che ci riesca, sia vitale, sia davvero qualcosa dinuovo e, alla fine, sia bene o male, è presto per dirlo. Ma non stupisce illungo travaglio. Il voto ha detto una cosa semplice e una difficile. Quellasemplice è un desiderio di rottura; quella difficile è il compitoricostruttivo. Si immagina il presidente della Repubblica che, per tagliarcorto, soffoca la novità con un governo tecnico?».

Dunque, nessun problema?
«No! Ce n’è uno grande.Sembra si stia configurando un governo a composizione e contenutipredeterminati, totalmente estranei al Parlamento e al presidente dellaRepubblica. Il quale rischia di trovarsi con le spalle al muro per effetto diun “contratto” firmato davanti al notaio. Eppure, la nomina del governo spettaa lui. Lui non è un notaio che asseconda muto. È piuttosto un partner che può edeve intervenire per far valere ciò che gli spetta come dovere istituzionale.Non si tratta di astratti scrupoli di giuristi formalisti, ma diimportantissimi compiti di sostanza».

Lei pensa ad aspettidella procedura seguita che impedirebbero al capo dello Stato di intervenirecome dovrebbe poter fare?
«Teoricamente, ilpresidente della Repubblica potrebbe respingere le proposte fattegli. Ma, se lo immagina ilcaos che ne deriverebbe? La prassi maturata in tanti anni di governorepubblicano è questa.
«Prima, le consultazioni con i gruppi parlamentari; poi,in base a queste indicazioni, l’incarico a una persona capace di unire unamaggioranza; infine, se l’incaricato “scioglie positivamente la riserva”, lanomina a presidente del Consiglio e, su sua proposta, la nomina dei ministri.
“La formazione del governo è un atto complesso e, nei diversi passaggi che hodetto, il presidente ha tutte le possibilità (in passato ampiamente esercitate)per far valere i poteri che gli spettano. Se egli accettasse a scatola chiusaciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso il poterediretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento e presidentedella Repubblica, una partitocrazia finora mai vista».

E quali passi, secondolei, occorrerebbe fare per evitare questo esito?
«Il presidente,ricordando vicende del passato, ha detto con chiarezza ch’egli intende farvalere le sue prerogative. Potrebbe procedere anuove consultazioni, e poi conferire un incarico corredato da condizioniche spetta a lui dettare, come rappresentante dell’unità nazionale e primogarante della Costituzione. Per inciso, finora, non esiste alcun “incaricato” ei due firmatari dell’atto notarile, dal punto di vista costituzionale, sonosoggetti privi di mandato.Tutto potrebbe avvenire,se non sorgono problemi tra i partiti, in pochissimo tempo».

Lei parla di attocomplesso e di condizioni poste dal presidente. Quali potrebbero essere?
«Ci sono cosecostituzionalmente “non negoziabili”. Innanzitutto, per ciò che riguarda lepersone chiamate al governo che devono portare la loro carica con “dignità eonore”. Nelle scelte politiche, invece, il presidente della Repubblica non puòintervenire se non per rammentare che ve ne sono, accanto alle libere, altreche libere non sono. La Costituzione è un repertorio di scelte non“negoziabili”».

Vuole farequalche esempio?
«Mi limito ad alcunipunti. Innanzitutto, i vincoligenerali di bilancio. Mi pare che, sulle proposte che implicano spese oriduzioni di entrate, si discuta come se non ci fosse l’articolo 81 della Costituzioneche impone il principio di equilibrio nei conti dello Stato e limiti rigorosiall’indebitamento. Ciò non deriva (soltanto) dai vincoli europei esterni, maprima di tutto da un vincolo costituzionale interno che non riguarda singoliprovvedimenti controllabili uno per uno, ma politiche complessive».

Sull’equilibrio deiconti finora molto si è detto, ma lei ha individuato altre “stranezze”?
«Sono colpito dallasuperficialità con la quale si trattano i problemi della sicurezza.Dall’insieme, emerge uno Stato dal volto spietato verso i deboli e “i diversi”:l’autodifesa “sempre legittima”; la “chiusura”, non si sa come, dei campi Rom;la restrizione delle misure alternative alla pena detentiva; perfino l’uso delTaser, la pistola a onde elettriche che l’Onu considera strumento di tortura;le misure contro l’immigrazione clandestina con specifiche figure di reatoriservate ai migranti clandestini; il trasferimento di fondi dall’assistenzadei profughi ai rimpatri coattivi. Come ciò sia compatibile con i dirittiumani, con la ragionevolezza e l’uguaglianza, con il rispetto della dignità edel principio di recupero sociale dei condannati, con esplicite e puntualipronunce della Corte costituzionale, non si saprebbe dire. La “libertà diculto” è trattata come questione di pubblica sicurezza, con riguardo allareligione islamica (controllo dei fondi, registro dei ministri del culto,ecc.).
«Nelle 57 pagine del contratto ci sono anche cose che possonoconsiderarsi positive. Non ne parlo, in quanto attengono a scelte discrezionalisu cui il presidente della Repubblica non avrebbe motivo di intervenire. Ma su quelle anzidettecertamente sì, nella sua veste di garante della Costituzione contro involuzioniche travolgono traguardi di civiltà faticosamente raggiunti».

Come mai non ha parlatofinora delle riforme istituzionali?
«Innanzitutto, noto chenon c’è parola circa la legge elettorale e l’esecrato (a parole) Rosatellum. Èpoi caduta l’ipotesi di una nuova riforma di sistema, per esempio in vista diqualche tipo di presidenzialismo. L’esperienza ha forse reso cauti.Invece, si ragiona di interventi puntuali. È prevista la riduzione del numerodei parlamentari, cosa da gran tempo auspicata (a parole). Circa la democraziadiretta, si prospetta l’introduzione del referendum propositivo accanto aquello abrogativo, con l’abolizione della condizione della partecipazione dellamaggioranza degli elettori: riforma molto democratica, a prima vista, ma forsesolo a prima vista. E poi c’è la questione del vincolo di mandato».

Per l’appunto: mimeravigliavo che non arrivasse qui.
«La discussione inproposito è legittima e la questione delicatissima. Ma non possiamo soltantodeplorare il trasformismo di deputati e senatori che passano dalla maggioranzaall’opposizione o, più spesso, dall’opposizione alla maggioranza cedendo apromesse e corruzione. Questo è uno dei non minori mali del nostro sistemaparlamentare. Il “contratto”, in proposito, è generico, ma insiste su un puntoche a me pare rilevante: l’esigenza che, con “cambio di casacca”, non sidetermini per interesse privato il tradimento delle aspettative degli elettoririspetto al governo. Se la coscienza del parlamentare lo fa stare stretto doveè stato eletto, lasci il suo posto in Parlamento.
La libertà di coscienza,che il divieto di mandato vincolante vuole proteggere, dovrebbe invece esserefermamente garantita in tutti gli altri casi, in particolare nel procedimentolegislativo. Piuttosto, a meno di errore, non trovo nel contratto nulla aproposito della questione di fiducia che tante volte il governo ha usato, perl’appunto, per coartare la libertà di coscienza dei parlamentari».

Lei, nel corso di questocolloquio, ha sempre messo il “contratto” tra virgolette.
Perché?
«I contratti sono semprespecifici. Così è, ad esempio, il Regierungsvertag (contratto di governo)tedesco, al quale impropriamente si è accostato il nostro che parla invecedell’universo mondo. Accanto a cose precise (tasse e reddito di cittadinanza,ad esempio) abbondano espressioni come: occorrerà, è necessario, si dovrà, èimprescindibile... Questo non è un contratto ma un accordo per andare insiemeal governo».

Insomma, un patto dipotere, sia pure per fare cose insieme.
«Niente di male. Machiamarlo contratto è cosa vana e serve solo a dare l’idea di un vincologiuridico che non può esistere. In politica, come nell’amore, non si stainsieme per forza, ma solo per comunanza di sentimenti o d’interessi».

Ma è previstoaddirittura un organismo che dovrebbe garantire il rispetto del patto, il“Comitato di conciliazione”.
«È una figurafantasmatica, solo abbozzata. Quando tra due parti nasce un contrasto, è benecercare di appianarlo (cabine di regia, consigli di gabinetto, caminetti). Maqui si immagina qualcosa di più, qualcosa di formale pensato in terminiprivatistici. In coda ai contratti si indica il “foro competente” in caso dilite. Qui c’è il “comitato di conciliazione”. Cosa piuttosto innocua se rimanenella dinamica dei rapporti politici tra i “contraenti”. Cosa pericolosissima,anzi anticostituzionale, se dalle decisioni di tale comitato si volessero farderivare obblighi di comportamento nelle sedi istituzionali, del presidente delConsiglio, dei ministri, dei parlamentari».

il Fatto Quotidiano,

Caro direttore, se davvero finirà con il Movimento 5 Stelle che porta al governo un partito lepenista, allora sarà finita nel peggiore dei modi. Anche ammesso che la Lega si pieghi ad accettare alcuni punti sacrosanti del contratto di governo proposti dal Movimento (chiusura del folle Tav in Val di Susa; attuazione del referendum sull’acqua pubblica; accoglimento di una significativa parte dei 10 punti fissati dal Fatto Quotidiano), questo non cancellerebbe la sua identità. Che è quella di un partito guidato da un leader che, parlando di migranti, ha dichiarato (febbraio 2017): «Ci vuole una pulizia di massa anche in Italia… via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve». Che pensa che «il fascismo ha fatto tante cose buone»(gennaio 2018). Che vuole «un cittadino su due armato» (febbraio 2018). Che si è fatto fotografare mentre dà la mano a un candidato della Lega con una croce celtica tatuata sul braccio: un candidato che poi tutta Italia conoscerà come il terrorista fascista di Macerata.

D’accordo. Se finisce così è anche colpa di Matteo Renzi, che tiene in ostaggio il suo partito e il Paese, e che ha scommesso tutto proprio su questo esito, sperando nel suicidio morale e politico del Movimento. Ed è anche colpa di Sergio Mattarella, che avrebbe dovuto mettere il Pd di fronte all’alternativa secca tra governo con i 5Stelle ed elezioni, invece di prospettare la garanzia di un improbabile governo neutrale. E, più profondamente, è colpa di una classe dirigente che, a partire dai primi anni Novanta fino all’abisso renziano, ha scientificamente distrutto la Sinistra, fino a ridurla allo stato attuale: macerie senza speranza. Ed è colpa anche mia, e di tutti coloro che, da sinistra, abbiamo dialogato con il Movimento senza riuscire a far capire che il sistema si poteva ribaltare solo garantendo più democrazia, e non già inseguendo sogni autoritari e abbracciando i nuovi fascisti.

È vero, il mondo si è rovesciato. La Lega e il Movimento 5 Stelle hanno in comune la rappresentanza dei più poveri, dei precari e degli sfruttati: mentre Forza Italia e Pd rappresentano chi ha interesse a non cambiare nulla. Ed è per questo che Lega e Movimento provano a mettere in discussione ciò che va messo in discussione, da questa Europa alla Nato (ammesso che il sistema lo permetta). Ed è vero: il Pd di Minniti sta trattando la più grande questione del nostro tempo, quella delle migrazioni, con metodi e orientamenti che sono già fascisti. Si potrebbe continuare a lungo: per questo milioni di italiani di sinistra hanno votato 5 Stelle, avendo come unica reale alternativa l’astensione (a cui ricorreranno al prossimo giro elettorale).

Tutto questo è drammaticamente vero. Ma la Lega non è la soluzione.

Non lo è perché dove governa non è affatto antisistema, e anzi costruisce un sistema di potere indistinguibile da quello del Pd (si legga, per esempio, il bellissimo Il disobbediente di Andrea Franzoso). Non lo è perché è al guinzaglio di quello che Beppe Grillo chiama lo Psiconano: che sarà il padrino, il socio occulto e il massimo beneficiario di un eventuale governo Salvini-Di Maio. Non lo è perché è un partito che non offre la speranza, come invece fa tra mille contraddizioni il Movimento, ma alimenta invece la paura. Non lo è perché è un partito in cui i militanti di Casa Pound dichiarano di riconoscersi.

Di fronte a questo futuro nero io chiedo: nessuno nel Movimento 5 Stelle ha il coraggio di dire pubblicamente che non è d’accordo? È evidente che la questione della democrazia interna del Movimento non può più essere rinviata: sta succedendo che un gruppo ristretto lo sta portando alla rovina con una scelta che è suicida per le ragioni evidenti che Marco Travaglio si sgola a spiegare da settimane.

Si dice che non c’è alternativa. È un errore: in democrazia c’è sempre un’alternativa, e il moto There Is No Alternative di Margaret Thatcher è stato e resta la pietra tombale su ogni possibile cambiamento in Occidente. Si può rivotare. Si può aspettare ancora e si possono costruire le condizioni per un’evoluzione del Pd. Perché tra il Pd e la Lega c’è una differenza fondamentale: il Pd è diventato quello che è, e fa quello che fa, ribaltando radicalmente la propria stessa ragione di essere. Mentre la Lega è serenamente fedele a se stessa. E dunque mentre si può sperare in una palingenesi di un Pd che accetti di governare con i 5 Stelle, non si può certo aspettarsi nulla del genere dalla Lega.

È una porta stretta: ma nulla, davvero nulla, sarebbe peggio di mettere l’energia pulita del Movimento al servizio di un’idea di Italia che è il contrario esatto della Costituzione.

Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere «democratici sempre in allarme»». E davvero è il momento di suonare l’allarme. Davvero persone come Roberto Fico, Nicola Morra, Michela Montevecchi, Gianluca Perilli, Margherita Corrado (per non fare che qualche nome) sono disposti a rendersi corresponsabili di una scelta che farà perdere al Movimento milioni di voti, consegnandolo alla Destra estrema, e resuscitando dall’altra parte la destra finanzcapitalista di Renzi? Davvero tutte queste persone oneste e serie, che non sognano certo un’Italia nera con la pistola, tradiranno i loro principi e perderanno la faccia fino a legare per sempre il loro nome a una svolta alla Orban?

La Costituzione dice che, come tutti gli altri parlamentari, anche quelli a 5 Stelle non rappresentano il loro movimento, ma la nazione. E la stragrande maggioranza della nazione non vuole al governo l’estremismo nero della Lega

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il Fatto quotidiano, 19 aprile 2018.

«La Costituzione non indica vaghi principi, ma obiettivi precisi e spiega come raggiungerli. Il dibattito politico però ha rimosso il tema nelle sue declinazioni cruciali, l’accesso alle cure e alla cultura»

Vita dura per chi, negli estenuanti negoziati all’inseguimento di ipotetiche alleanze di governo, cerca col lanternino non solo qualche rada dichiarazione programmatica, ma un’idea di Italia, una visione del futuro, un orizzonte verso cui camminare, un traguardo. Al cittadino comune non resta che gettare un messaggio in bottiglia, pur temendo che naufraghi in un oceano di chiacchiere. La persistente assenza di un governo è un problema, certo. Ma molto più allarmanti sono altre assenze, sintomo che alcuni problemi capitali sono stati tacitamente relegati a impolverarsi in soffitta. Per esempio, l’eguaglianza.

Di eguaglianza parla l’articolo 3 della Costituzione, e lo fa in termini tutt’altro che generici. Non è uno slogan, un’etichetta, una predica a vuoto destinata a restare lettera morta. È l’articolo più rivoluzionario e radicale della nostra Costituzione, anzi vi rappresenta il cardine dei diritti sociali e della stessa democrazia. E non perché annunci l’avvento di un’eguaglianza già attuata, ma perché la addita come imprescindibile obiettivo dell’azione di governo.

L’articolo 3 dichiara che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», ma non si ferma qui, anzi quel che aggiunge è ancor più importante, e non ha precedenti in altre Costituzioni. «La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

L’eguaglianza fra i cittadini è qui affermata attraverso la loro dignità sociale. La dignità, raggiunta mediante il lavoro, è identificata con il pieno sviluppo della persona. Dignità, sviluppo della persona e lavoro convergono per creare equilibrio fra i diritti del singolo e i suoi «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). La democrazia secondo la Costituzione è dunque «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», e il suo protagonista è il cittadino-lavoratore: perciò l’art. 4 garantisce il diritto al lavoro. Questa idea di democrazia risulta dalla somma di dignità personale e sociale, lavoro, eguaglianza, solidarietà. Dà forma concreta alla sovranità popolare dell’art. 1, ed è il fondamento di larga parte della Carta: non solo gli articoli sui diritti e doveri dei cittadini e sui rapporti etico-sociali (artt. 13-34), ma anche quelli sui rapporti economici (artt. 35-47) e politici. Una parte, questa, che include anche la seconda parte della Costituzione (Ordinamento della Repubblica).

Irraggiandosi su tutta la Costituzione, il principio di eguaglianza sostanziale introdotto dall’art. 3 comporta il progetto di una profonda modificazione della società. Qualcosa da cui siamo, in tempi di impoverimento crescente, di alta disoccupazione e di crescita delle disuguaglianze, più lontani che mai. Quel testo così rivoluzionario fu il “capolavoro istituzionale” di Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, allora capo di gabinetto del ministero della Costituente, retto da Pietro Nenni. Dal libro sull’art. 3 di Mario Dogliani e Chiara Giorgi (nella bella serie sui principi fondamentali della Costituzione pubblicata da Carocci) risulta anche il contributo in Costituente di Moro, La Pira, Fanfani. Ma questa “norma-cardine del nostro ordinamento costituzionale” (Romagnoli), che dovrebbe ispirare ogni legge e ogni atto del Parlamento e dei governi, è stata troppo spesso ignorata. Eppure il traguardo costituzionale dell’eguaglianza, data la sua straordinaria, visionaria forza e ricchezza, dovrebbe essere la stella polare di qualsiasi programma di governo.

Per fare solo qualche esempio: il diritto alla salute prescritto dall’art. 32 della Costituzione è palesemente uno strumento di eguaglianza, dunque dev’essere identicamente garantito a tutti. Ma ognun sa che vi sono regioni (specialmente nel Sud) dove il costo pro capite della sanità è assai più alto che in altre (Centro-Nord), mentre i servizi offerti sono molto meno efficienti; per non dire della quota di famiglie impoverite che, a causa delle crescenti spese (ticket etc.), tendono a rinunciare a ogni cura (28.000 nuclei familiari in Calabria, 69.000 in Sicilia).

C’è forse un piano per correggere questa stortura? E come rimediare alla crescente disoccupazione giovanile (58,7 per cento in Calabria)? Il “reddito di cittadinanza” è un rimedio ma non una risposta, e una vera politica del lavoro e della piena occupazione è di là da venire. A fronte di una Costituzione che individua nel lavoro l’ingrediente essenziale della dignità della persona e della democrazia, quali sono i progetti dei partiti? Per fare solo un altro esempio: anche la cultura, e in particolare l’istruzione scolastica, è secondo la Costituzione un ingranaggio irrinunciabile della dignità personale, dello sviluppo della persona, e dunque della democrazia.

Ma che cosa si intende fare per invertire la rotta di una crescente disuguaglianza di classe favorita da una scuola che è stata battezzata “buona” proprio nel momento in cui da cattiva diventava pessima? E da cosa nascerà l’innovazione e lo sviluppo (dunque anche l’occupazione), se l’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del Pil, contro il 3,3 per cento della Svezia, il 3,1 per cento dell’Austria, il 2,9 per cento della Germania? E se l’università è mortificata da pessimi criteri di valutazione della ricerca, strangolata dalla persistente carenza di fondi, umiliata dalla precarizzazione crescente dell’insegnamento?

L’eguaglianza non è un traguardo facile, ma ignorarlo vuol dire calpestare quella stessa Costituzione che i cittadini hanno difeso nel referendum del 4 dicembre 2016. Quel voto, e così quello del 4 marzo di quest’anno, chiedono radicali cambiamenti, ma in quale direzione? Per uscire dalla palude bastano volti nuovi, nuove alleanze, nuovi slogan? Da questo Parlamento e dal futuro governo dovremmo esigere la competenza e l’immaginazione necessarie a indicare un traguardo degno della nostra Costituzione e della nostra storia. Un futuro per cittadini-lavoratori che nella dignità della loro persona e nella solidarietà riconoscano l’alfabeto della democrazia e la speranza per le nuove generazioni.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il Fatto Quotidiano
«1933-2017 A Torino si ricorda il grande giurista: per lui la Carta non era una dichiarazione di principi, ma un’agenda da applicare»

Stefano Rodotà era così popolare perché sapeva parlare con una palpabile, contagiosa passione civile. Fra tanti, un esempio. Commentando l’art. 3 della Costituzione, egli poneva a contrasto il primo e il secondo comma, ravvisandovi due componenti concettualmente e storicamente distinte. Nel primo comma (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), riconosceva la costruzione di una soggettività astratta, che assevera ma non garantisce l’uguaglianza fra i cittadini.

Nel secondo comma (dove si assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”) egli rintracciava, attraverso la nozione di persona, l’irruzione sulla scena di una prepotente corporeità, coi suoi desideri e i suoi bisogni, che trascina con sé una forte tensione verso l’uguaglianza, che la Costituzione indica come imprescindibile obiettivo dell’azione pubblica. Insomma, il primo comma dell’art. 3 configura una sorta di uguaglianza formale dei cittadini, mentre il secondo comma prende atto della loro diseguaglianza materiale e prescrive di rimuoverne le cause, ostacoli a una vera uguaglianza.

Perché questa linea interpretativa non apparisse troppo teorica a un pubblico digiuno di diritto, Rodotà adottava un’argomentazione narrativa, proiettando l’art. 3 all’indietro, su un dato di immediata esperienza comune, l’estensione del diritto di voto. Riservato all’inizio a una porzione ristretta della popolazione maschile, sulla base dell’istruzione e del censo, esso raggiunse tutti i cittadini (in particolare le donne) solo nel 1946. Nel 1861 votò il 2 per cento della popolazione italiana, nel 1946 l’89 per cento: un dato statistico che ci tocca da vicino.

La restrizione del diritto di voto creava una “cittadinanza censitaria”, contro lo spirito della democrazia; ma gli “ostacoli di ordine economico e sociale” venivano da lui additati come strumenti di una risorgenza della “cittadinanza censitaria”, possibile anche oggi date le crescenti ineguaglianze, le nuove povertà, le discriminazioni sociali mascherate da intolleranza religiosa o razziale. Per converso la rimozione di tali ostacoli concorre a caratterizzare la cittadinanza secondo i principi dell’art. 3, inclusa l’ “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Con trascinante convinzione e lucida onestà Rodotà ci spingeva a leggere nella Costituzione non un compromesso fra forze politiche, non il disegno di un futuro utopico, non una dichiarazione di principi senza immediata precettività. Ma come un’agenda di cose da fare, che tali in gran parte restano ancora oggi. Perciò egli contrastò duramente ogni interpretazione riduttiva del diritto al lavoro che, secondo l’art. 4 della Costituzione, la Repubblica “riconosce a tutti i cittadini”. Infatti, se l’art. 1 definisce l’Italia come “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ogni menzione del lavoro nella Costituzione deve intendersi come costitutiva della democrazia e della cittadinanza, anzi della Repubblica. Lettura indubitabile, ma di cui i nostri governanti paiono essere inconsapevoli.

Evocando la propria giovinezza in una bella intervista di Antonio Gnoli, Rodotà racconta di aver studiato Giurisprudenza perché “attratto da quell’imponente e complicato edificio che è il diritto. (…) Senza la forza il diritto è inerme. Senza giustizia è cieco. Mi affascinava un diritto che fosse aperto alla società”. Perciò egli parlò sempre da giurista, ma anche da cittadino fra cittadini. Egli guardava sempre, come un generale dall’alto di una collina, la forma cangiante della società e il mutevole atteggiarsi del diritto. Sapeva che né l’una né l’altro possono essere ibernati in configurazioni immutabili. Pensava al diritto come il prodotto di momenti storici, economici, sociali, ma anche come una forza concettuale che plasma la società recependone tendenze, codificandone istituti, indirizzandone sviluppi. E pensava alla società come il prodotto di un perpetuo dialogo o conflitto fra il tessuto delle norme e l’esercito dei bisogni, dei desideri, delle aspirazioni, che devono esser calate entro le maglie del diritto, per poi fatalmente ribollire di nuovo. Fu in questo incrocio fra società e diritto che Rodotà vide la missione storica della Costituzione, evidenziandone la progettualità lungimirante, e per converso la sciagura dei molteplici tradimenti e dei ricorrenti oblii a cui va soggetto il testo della Carta, che pure ancor oggi si presterebbe a fungere da manifesto per il destino delle generazioni future.

In questa perpetua giovinezza della Costituzione si rispecchiava la perpetua giovinezza di Stefano Rodotà: nel limpido sguardo che egli si volgeva intorno quando, non senza un commovente imbarazzo, si vedeva candidato alla Presidenza della Repubblica, o quando combatteva con energia per il No al referendum. In quello sguardo c’era il desiderio di capire a fondo come la forma della società e l’evoluzione del diritto potessero, messi a dialogo sulla base della Carta fondamentale, costruire per le generazioni future un’Italia con un più alto senso della cittadinanza, dell’uguaglianza, della democrazia.

il manifesto,

Ha ragione Piero Bevilacqua a sottolineare la «distrazione» nell’attuale campagna elettorale rispetto a un tema strategico come quello dell’istruzione. Esiste però un testo che affronta la decostituzionalizzazione intenzionale cui la scuola è soggetta da 20 anni.

Si tratta della Lip (legge di iniziativa popolare) Per la scuola della Costituzione. L’8 settembre è stata depositata in Cassazione e da qualche giorno è iniziata la raccolta delle firme per proporne la discussione parlamentare. 37 articoli, che abrogano gran parte della normativa degli ultimi 15 anni, dalla riforma Moratti, alla Gelmini, alla «Buona Scuola», tentando di riportare la scuola al modello dettato dagli artt. 3, 9, 33 e 34 della Carta.

Non solo abrogare, dunque, ma anche ri-costruire e ri-portare la scuola all’altissimo rango di organo costituzionale, quale fu pensata – non a caso – nell’Italia che risorgeva sui principi dell’antifascismo. La Lip non si propone di intervenire su tutti gli aspetti della normativa scolastica, ma di disegnare un’idea di scuola. Vi si parla di gratuità e di inclusione, perché la scuola è lo strumento che la Repubblica ha in mano per «rimuovere gli ostacoli»; di laicità (sono vietate le cerimonie di culto negli edifici scolastici; l’IRC è in orario extracurricolare; viene abolito l’inserimento delle scuole paritarie private dal sistema nazionale di istruzione); si prevede un rapporto alunni-docente che scongiuri per sempre le classi pollaio; l’unico insegnamento obbligatorio esplicitamente previsto (la legge non si occupa di programmi e discipline) è quello di Costituzione e cittadinanza; diritto allo studio e all’apprendimento; sapere disinteressato ed emancipante; si rende obbligatorio il terzo anno di scuola dell’infanzia, in previsione della generalizzazione; si abrogano i test Invalsi e il voto numerico alla primaria e alle medie; si ripristinano tempo pieno e prolungato; si riconducono alla loro centralità gli organi collegiali, riaffidandogli prerogative che sono espressione della democrazia scolastica; il biennio è unitario, posticipando così la scelta della scuola superiore – troppo spesso compiuta su base socio-economica – di due anni e garantendo i saperi imprescindibili per tutti più a lungo; l’obbligo al termine della scuola superiore, in modo che la scuola riprenda ad essere ascensore sociale e garanzia di pari opportunità per tutti, nessuno escluso; un presidente del collegio sovrano, eletto dai docenti, affiancherà il dirigente scolastico, con funzioni amministrative; l’autonomia scolastica viene riportata nel suo alveo costituzionale, quello del principio della libertà dell’insegnamento, strumento dell’interesse generale.

L’alternanza scuola lavoro diventa un «percorso di cultura del lavoro», obbligatoria per tutti gli indirizzi di scuola superiore, organizzati dalle scuole, che «possono prevedere, sia l’intervento in aula di esperti/e, oltre a quello degli insegnanti curriculari, sia l’inserimento del/la singolo/a allievo/a in realtà di lavoro e di ricerca nel rispetto degli artt. 2, 35 e 36 della Costituzione». Si effettuano al fine di «garantire agli studenti e alle studentesse attività coerenti con il loro percorso di istruzione, utili per acquisire gli strumenti critici necessari a comprendere non solo gli aspetti operativi della realtà lavorativa analizzata, ma anche il quadro dei diritti e delle responsabilità e il rapporto fra i processi produttivi ed economici e le implicazioni sociali e ambientali».

Grande attenzione, nel testo, al linguaggio di genere e alla purificazione da anglicismi e tecnicismi di matrice anglofona ed economicista. Si prevede di spendere il 6% del Pil nazionale, come da media dei paesi europei: anche per questo la raccolta si affianca a quelle – promosse dal Coordinamento Democrazia Costituzionale – per ripristinare il testo originario dell’art. 81 della Costituzione, eliminando l’equilibrio di bilancio; e per una legge elettorale proporzionale – per sanare tre ferite che gli ultimi parlamenti hanno inflitto alla democrazia nel Paese.

Ribaltare il paradigma corrente, privatistico e classista, disinfestare lo spazio culturale dal dominio del mercato, ricostruire l’equilibrio di diritti e poteri, restituire il sistema scolastico alla funzione di promozione del pensiero critico e della cittadinanza consapevole: questo e tanto altro nel testo che troverete in www.lipscuola.it.

Qui il testo originale dell'articolo

il Fatto Quotidiano,


Ripubblichiamo parte dell’intervento che la professoressa Carlassare ha tenuto a Roma al convegno dei Comitati del No lunedì 2 ottobre

Da anni siamo costretti a parlare di leggi elettorali: i vertici politici, che non si rassegnano all’idea di doversi misurare continuamente con le istanze del corpo sociale, cercano di soffocarle con ogni artificio, contro l’ art. 1 “La sovranità appartiene al popolo” dove il verbo “appartiene” non è scelto a caso. I Costituenti dopo attenta discussione, lo sostituirono a “emana”, proposto inizialmente, per evitare il rischio che venisse interpretato nel senso che il popolo, attraverso il voto, trasferisce la sua sovranità. Era loro fermissimo intento affermare, senza equivoci, che la sovranità è del popolo e nel popolo continua a rimanere. Non è legittimo recidere i canali di trasmissione delle domande sociali alle istituzioni: alla legge elettorale non è consentito.

La Costituzione del 1948 è frutto dell’impegno collettivo di persone animate da grandi speranze e profondi ideali, unite nell’intento di dar vita a un sistema nuovo fondato sui valori di libertà e democrazia appena ritrovati, che si volevano salvaguardare in futuro. In una straordinaria stagione ricca di fermenti vitali ogni scoria del cupo passato era allontanata, così come ogni artificio antidemocratico di cui si era avvalso il regime: maggioranze truccate, premi per dominare schiacciando gli avversari politici, liste bloccate imposte agli elettori . L’obiettivo era la partecipazione “la partecipazione di tutti” come dice l’art. 3; e lo conferma l’art. 49: i cittadini, “Tutti i cittadini” – precisa la norma – hanno il diritto associarsi in partiti “per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”. Nessuno escluso.

Nello spirito del 1948 non poteva esserci che un sistema proporzionale con una modalità di voto in grado di tener saldo il rapporto fra elettori ed eletti: “La sovranità spetta tutta al popolo che è l’organo essenziale della nuova costituzione… l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima parola”. E dunque, il fulcro dell’organizzazione costituzionale è nel Parlamento “che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo”, si legge nella Relazione di Meuccio Ruini all’Assemblea costituente.

E il popolo è costituito da tutti i cittadini, altrimenti si ha una democrazia dimezzata. Secondo “la definizione minima” di Norberto Bobbio, per “regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole e di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati”. Era questo il pensiero dei Costituenti.

Durante i lavori della Commissione dei 75 (Seconda Sottocommissione, 7 novembre 1946), il grande costituzionalista Costantino Mortati propose di inserire in Costituzione il principio della rappresentanza proporzionale “perché costituisce un freno allo strapotere della maggioranza e influisce anche, in senso positivo alla stabilità governativa”. Prevalse invece l’idea di lasciare la materia elettorale alla legge ordinaria anche più tardi, quando se ne discusse in aula; un emendamento presentato dall’on. Giolitti non fu approvato.

Ma il suo contenuto, è importante ricordarlo, trasformato in ordine del giorno, venne invece approvato: “L’Assemblea costituente ritiene che l’elezione alla Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale” (23 settembre 1947). È un impegno solenne. Non si può dunque affermare, come di recente Fusaro, che la Costituzione “nulla dice… su come trasformare i voti in seggi. Nulla. Ma proprio nulla di nulla”. Se la Costituzione non ne parla espressamente, il principio della rappresentanza proporzionale è implicito nel sistema complessivo oltre che in precise disposizioni: articolo 72 – le Commissioni in sede legislativa devono essere composte “in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”; articolo 82 – ciascuna Camera, esercitando il potere parlamentare d’inchiesta, nomina “fra i propri componenti una Commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione fra i vari gruppi”; art. 83 – all’elezione del presidente della Repubblica “partecipano tre delegati per ogni Regione, eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze”. Un sicuro “plurale” che non ha nulla di generico.

Il modello dei Costituenti, sottolineava Livio Paladin, è quello delle “democrazie di stampo liberale e dunque pluralistico che vuole temperare il principio maggioritario sia attraverso la rigidità della Costituzione e il controllo di costituzionalità sulle leggi, sia garantendo le libertà fondamentali, a cominciare dalla libertà di associazione e di manifestazione del pensiero”.

Le minoranze sono l’essenza del costituzionalismo liberale e sulla possibilità di far sentire la loro voce sono basati gli istituti giuridici posti a tutela dei diritti costituzionali , dai diritti di libertà ai diritti sociali. Per garantirli le Costituzioni esigono che la loro disciplina sia riservata alla legge, approvata dal Parlamento dove hanno voce anche le minoranze e non da fonti del governo dove la sola maggioranza è presente.

La distorsione della rappresentanza – dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale – alterando la composizione delle Camere si ripercuote pesantemente sulla vita dei cittadini: in assenza di voci in grado di difenderli i diritti sono gravemente incisi, il pensiero minoritario sacrificato. Ormai, che la norma sia fatta dal governo o dal Parlamento dove la maggioranza domina incontrastata, è la stessa cosa. Soffocate le minoranze, a nulla vale la rigidità della Costituzione; a tutelarla non bastano le garanzie giuridiche: se non sono accompagnate dalle garanzie politiche assicurate dal pluralismo risultano del tutto inefficaci. Una maggioranza artificialmente creata non trova più i limiti politici consueti in democrazia; le altre forze, ridotte all’irrilevanza, come possono svolgere un’opposizione efficace?

C'è poco da meravigliarsi. Con la vittoria nel neoliberismo i pilastri della difesa del lavoro sono stati sgretolati. Gli anziani li ricordano: potere dei lavoratori, lotta, contrattazione, solidarietà. Chi pagherà saranno i giovani, se non comprenderanno e si ribelleranno.

Micromega online, 24 luglio 2017


Due proposte di legge

La Commissione Affari costituzionali della Camera ha da poco iniziato l’esame di due proposte di modifica dell’articolo 38 della Costituzione, nella parte in cui menziona il diritto alla pensione e precisa che alla sua attuazione “provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Con la prima proposta, sottoscritta da parlamentari di maggioranza e opposizione, dal Pd ai Fratelli d’Italia, si vuole puntualizzare che il diritto alla pensione si attua “secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni”1. La seconda proposta è stata presentata da deputati del Pd e ha un contenuto simile: vuole precisare che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”2.

Molti hanno accolto con entusiasmo il richiamo alla solidarietà tra generazioni, considerato una novità positiva per i pensionati di domani. Proprio su questo aspetto deve avere insistito una velina a cui evidentemente si deve un titolo molto gettonato dalle testate, che hanno sbrigativamente parlato di “norma salva-giovani”. Sono però mancate analisi più approfondite su una vicenda di notevole portata e impatto, tutto sommato passata sotto silenzio.

Basta però leggere le relazioni introduttive alle proposte di modifica della Costituzione per rendersi conto della loro portata eversiva: l’obiettivo è la “rimodulazione della spesa pensionistica nella direzione di una maggiore sostenibilità”, ovvero, tanto per incominciare, il taglio delle pensioni di oggi, estorto con la promessa di una garanzia delle pensioni di domani (evidentemente contenute per rendere possibili quelle di dopodomani).

A irritare sono le motivazioni per cui occorrerebbe rimodulare la spesa pensionistica, che pure muovono da una premessa incontestabile, seguita però da conclusioni surreali. Si dice infatti che “non si può considerare equo un Paese nel quale il sistema pensionistico discrimina fra pensionati di generazioni diverse”3, ma questo non porta a immaginare politiche tese a incidere positivamente sulle pensioni future: politiche per il lavoro di qualità, che contrastino la precarietà e l’abbattimento dei salari, unite a un piano di investimenti per affrontare la piaga della disoccupazione giovanile. Tutto il contrario: non si mettono in discussione la cancellazione dei diritti dei lavoratori e l’austerità, che anzi una retorica truffaldina presenta, contro ogni evidenza, come il presupposto per una ripresa economica e dell’occupazione. Si giunge così alla conclusione che, se non si vuole discriminare tra chi ha di più e chi avrà di meno, non resta che lasciare le cose come stanno per chi ha di meno, e nel contempo togliere a chi ha di più.

E si badi che non si tratta qui di colpire i cosiddetti pensionati d’oro, ma semplicemente chi ha ottenuto il dovuto con sistemi di calcolo che i fautori della riforma costituzionale reputano ora “abbastanza generosi”4. Sistemi che da molti anni a questa parte hanno però consentito la sopravvivenza a tanti giovani e meno giovani, che sono stati costretti a ricorrere alle pensioni dei genitori per far fronte alla disoccupazione, a salari da fame, e soprattutto a uno Stato sociale oramai in disarmo.

Analisi economica del diritto costituzionale

Le proposte di riforma appena viste vanno lette in un tutt’uno con altre riforme o proposte di riforma che si sono succedute nel tempo e che hanno inteso mutare profondamente i caratteri della Costituzione.

Quest’ultima si fonda sull’idea che l’uguaglianza deve essere promossa contro il funzionamento del mercato: solo se controllata e indirizzata dai pubblici poteri l’iniziativa economica privata persegue “fini sociali” (art. 41), mentre se viene lasciata libera si trasforma in uno strumento di sopraffazione e sfruttamento. Tutto l’opposto di quanto sostiene l’ortodossia neoliberale, ovvero che l’iniziativa privata persegue fini sociali in quanto viene lasciata libera, se i pubblici poteri rinunciano a indirizzarla. Come si sa è in quest’ultimo senso che spinge l’Unione europea, che chiede ai Paesi membri di disciplinare i mercati non per contrastarli, ma per assecondarli: per assicurare il funzionamento della concorrenza, ovvero per tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato. Con il risultato che l’inclusione sociale viene ridotta a inclusione nel mercato, ritenuto lo strumento più adatto a redistribuire risorse, molto più della regolamentazione pubblica, fonte di inefficienza.

Queste convinzioni, un punto fermo dell’ortodossia neoliberale, si devono in particolare alla teoria della scelta pubblica, per cui la politica, prima ancora della democrazia, è fonte di corruzione e deve pertanto ritirarsi dall’arena economica. Non è un caso se proprio in tale ambito si è elabora l’analisi economica del diritto costituzionale (constitutional economics), una disciplina complessivamente tesa a rendere resistenti le regole destinate a riservare ai pubblici poteri il ruolo di meri custodi del principio di concorrenza. Il che avviene nel momento in cui si conferisce rango costituzionale a quelle regole, ovvero se si inseriscono nelle Carte fondamentali disposizioni ricavate dal principio per cui lo Stato deve assecondare il mercato5. Magari, per quanto riguarda il tema delle pensioni, limitando la spesa pubblica per favorire così la privatizzazione del sistema, affermando oltretutto che lo si fa per i giovani.

Non stupisce allora se, tra le proposte elaborate dai cultori di questa disciplina, spicca l’inserimento a livello costituzionale del principio del pareggio di bilancio, o sue varianti, che in area europea è stato sponsorizzato dal noto Fiscal compact, e in Italia realizzato con la riforma dell’art. 81 della Carta fondamentale: dove si dice ora che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. Il che equivale a mettere fuori legge i tentativi di tenere insieme crescita economica e piena occupazione, l’unica vera ricetta “salva-giovani”, e più in generale rovesciare il principio fondativo della cultura costituzionale italiana: quello per cui l’economia viene sottomessa alla politica, e quindi il mercato viene subordinato alla partecipazione democratica.

Solidarietà tra generazioni, neoliberalismo e beni comuni

Per molti aspetti l’inserimento in Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio ha già determinato un forte snaturamento della Carta fondamentale, mettendo oltretutto in luce come non vi sia un significativo scarto politico tra l’equilibrio e il pareggio di bilancio. È quanto si ricava da alcune sentenze della Corte costituzionale che si sono misurate con il principio, e hanno nel contempo affrontato il tema della solidarietà tra le generazione.

In particolare una decisione ha salvato alcune previsioni contenute in una legge attuativa “del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione” (si badi pareggio e non equilibrio)6, affermando che il principio vincola i cittadini meno giovani, chiamati a sacrificarsi per i cittadini più giovani: “sostenibilità del debito pubblico implica una responsabilità” che “non è solo delle istituzioni ma anche di ciascun cittadino nei confronti degli altri, ivi compresi quelli delle generazioni future”7. In un’altra decisone, che ha salvato i limiti alle assunzioni nella pubblica amministrazione concepiti come misure di austerità, il fine del ricambio generazionale viene invocato come movente per gli sforzi volti a perseguire l’equilibrio di bilancio8. Più recentemente si sono precisati i fondamenti per la “mutualità intergenerazionale” in materia pensionistica, e si è tra l’altro menzionata la disposizione costituzionale in cui si chiede di adempiere ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2)9.

A ben vedere non tutte le decisioni della Corte ricalcano questo schema, ovvero utilizzano la solidarietà tra generazioni come espediente buono a promuovere l’osservanza dell’ortodossia neoliberale imposta da Bruxelles: per giustificare, nel nome di una parità di trattamento incentrata su un minimo comun denominatore, la compressione certa di diritti alle generazioni presenti a beneficio ipotetico delle generazioni future. Una decisione ha ad esempio dichiarato l’incostituzionalità del blocco della rivalutazione automatica delle pensioni di importo superiore ai 1200 Euro, deciso come misura di austerità in linea con le richieste europee. Il blocco contrasta infatti con il diritto dei lavoratori a mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di vecchiaia (art. 38 Cost.) e, posto che la pensione costituisce una retribuzione differita, con il diritto a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.)10. Più recentemente, a proposito del diritto all’educazione e all’avviamento professionale dei disabili, diritto menzionato nella medesima disposizione in cui si parla di diritto alla pensione, si è affermato che il bilancio deve piegarsi ai diritti e non viceversa: “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”11.

Ciò detto, la solidarietà tra generazioni non costituisce necessariamente un principio tipico dell’ortodossia neoliberale. Questa non ne ha la paternità: se ne è appropriata snaturando la valenza riconosciuta al principio nei contesti in cui ha una tradizione più nobile.

In particolare la cultura dei beni comuni si fonda esattamente su questa forma di solidarietà, in nome della quale si definiscono i limiti allo sfruttamento del bene: questo deve essere utilizzato in modo tale che siano conservate intatte tutte le sue funzioni. È ad esempio la possibilità per le generazioni future di fruire di un ambiente salubre a indicare per il tempo presente i limiti allo sfruttamento ambientale. Giacché è il suo valore d’uso che occorre conservare, e anzi proteggere da chi vede solo il suo valore di scambio: da chi esclude per appropriarsi del bene, per tutelare invece chi esclude per favorire i libero accesso al bene.

Competizione fiscale

I progetti di riforma della disciplina costituzionale del diritto alla pensione non hanno evidentemente nulla che vedere con tutto questo. Il fine ultimo non è tanto la sostenibilità del diritto in un contesto di risorse complessivamente calanti, bensì in una situazione nella quale si sceglie deliberatamente di diminuire la spesa sociale in omaggio a un progetto politico ben preciso. Il progetto neoliberale, che vuole affossare i diritti sociali sul presupposto che occorra riconoscerli solo se vi è sostenibilità finanziaria. Come se solo i diritti sociali avessero un costo, e non lo avessero invece le libertà indispensabili a far funzionare il mercato concorrenziale: idea tanto diffusa quanto infondata, dal momento che quelle libertà presuppongo quantomeno l’esistenza di un oneroso apparato di pubblica sicurezza e un sistema di tribunali altrettanto oneroso.

Non solo. Tra le libertà valorizzate dall’ortodossia neoliberale svetta quella relativa alla circolazione dei capitali, che costringe gli Stati a ingaggiare una drammatica competizione per attrarre o trattenere il maggior numero di investitori. Se i capitali circolano liberamente gli Stati sono cioè portati a comprimere i salari e i diritti dei lavoratori, e ovviamente ad abbattere la pressione fiscale sulle imprese: come da ultimo con la riduzione dell’aliquota proporzionale Ires dal 27,5% al 24% realizzata dalla legge di stabilità 201612. Il tutto alla base di una spirale perversa: la diminuzione del gettito fiscale, sempre crescente per effetto della competizione tra Stati, impone di limitare la spesa sociale, che avrebbe però bisogno di crescere anch’essa a causa della compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Di qui una serie di scelte obbligate come, per tornare al nostro tema, la diminuzione della spesa pensionistica, che come si vede costituisce il frutto di scelte politiche e non un accidente determinato da fattori naturali: come vogliono far credere coloro i quali si concentrano sul prolungamento della vita media (peraltro ora insidiato dalla diffusione della povertà).

È però questo il ruolo che l’ortodossia neoliberale affida allo Stato. Non tanto di arretrare per lasciare spazio ai mercati, ma di attivarsi per sostenere i mercati, per prevenire il loro fallimento e soprattutto per socializzare le perdite che ne derivano. Se del caso sacrificando la democrazia e persino la politica, per sterilizzare così il conflitto sociale e renderlo incapace di condizionare l’ordine costituito. Anche questa è una finalità riconducibile alla proposta di costituzionalizzare la solidarietà tra generazioni come limite al diritto alla pensione, che se approvata infliggerebbe il colpo di grazia a quella che da tempo non è più “la Costituzione più bella del mondo”.

NOTE
1 Proposta di legge costituzionale n. 3478 Modifica all'articolo 38 della Costituzione per assicurare l'equità intergenerazionale nei trattamenti previdenziali e assistenziali.
2 Proposta di legge costituzionale n. 3858 Modifica all'articolo 38 della Costituzione per assicurare l'equità e la sostenibilità dei trattamenti previdenziali.
3 Proposta di legge costituzionale n. 3478, www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0050960.pdf.
4 Relazione alla proposta di legge costituzionale n. 3858, www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0048830.pdf.
5 Cfr. J.M. Buchanam,
Constitutional Economics, in J. Eatwell, M. Milgate e P. Newman (a cura di), The World of Economics, London e Basingstoke, Macmillan Press Limited, 1991, p. 134 ss.

6 Legge 24 dicembre 2012 n. 243.
7 Sentenza 10 aprile 2014 n. 88
8 Sentenza 28 marzo 2014 n. 60.
9 Sentenza 13 luglio 2016 n. 173.
10 Sentenza 10 marzo 2015 n. 70.
11 Sentenza 16 dicembre 2016 n. 275.
12 Art. 1 comma 61 Legge 28 dicembre 2015 n. 208 (legge di stabilità 2016).

La vittoria del referendum del 4 dicembre ha bloccato solo una delle strade tentate per stravolgere la Costituzione. Altre manovre sono in corso, a partire dalla legge elettorale.

il Fatto quotidiano, 27 luglio 2017, con postilla

La vittoria del No non basta ad impedire nuovi tentativi di stravolgimento della Costituzione. Abbassare la guardia sarebbe un errore, come sottovalutare la forza e la determinazione delle potenti forze che in Italia e all’estero hanno spinto Renzi a tentare di deformare la Costituzione. La proposta di Renzi – bocciata il 4 dicembre 2016 – è solo la forma che ha assunto in Italia una scelta politica e istituzionale autoritaria e accentratrice. Panebianco ha proposto che le future modifiche debbano riguardare tutta la Costituzione, principi compresi, non più solo la parte istituzionale. Del resto il tentativo di modificare il patto costituzionale uscito dalla Resistenza e dall’intesa tra le forze fondamentali dell’epoca ha radici antiche.

Né è casuale che l’Istituto Leoni rilanci la flat tax, con il conseguente stravolgimento della progressività e dell’universalità dei diritti sociali, cambiando di fatto la prima parte della Costituzione. Le dichiarazioni fatte durante la campagna referendaria che la prima parte della Costituzione non era in discussione celavano in realtà il boccone più ambito, da affrontare una volta risolto il problema dei meccanismi decisionali in senso autoritario. Del resto nel mondo ci sono tendenze autoritarie: dalla simpatia delle grandi corporation per i regimi non democratici, fino alle derive autoritarie in Turchia, in Ungheria con il bavaglio alla stampa, in Polonia con l’attacco all’autonomia della magistratura. La pressione è contro le procedure democratiche, viste come inutili pastoie che ritardano le decisioni delle corporation e dei gruppi di potere. Il pensiero stesso è semplificato e primordiale e la società che prefigura è autoritaria, anzitutto sotto il profilo culturale. È già accaduto negli Usa, la destra ha preparato gli stravolgimenti partendo dal piano culturale, con l’obiettivo di trasformare un nuovo pensiero dominante in unico, talora in un dogma di Stato. Qualcosa del genere sta accadendo anche in Italia, la destra è all’attacco di principi fondamentali, la reazione è debolissima. La responsabilità politica e culturale del gruppo dirigente a trazione renziana è di avere buttato alle ortiche i valori della sinistra, una rottamazione dei principi. Pensiamo al fisco: la progressività del prelievo è stata abbandonata e sulla casa sono state tolte le tasse ai ricchi; sono stati approvati condoni a raffica, ora in proroga, con le stesse motivazioni di Tremonti. Sinistra e destra hanno sempre avuto un confine: il no, di principio, ai condoni. Questo argine è stato fatto saltare. Dove stanno ora le differenze? Ora è in preparazione un altro stravolgimento costituzionale e questa volta l’attacco riguarderà insieme meccanismi decisionali e principi, cioè i diritti fondamentali delle persone: lavoro, diritti, sanità, stato sociale. Per respingere questo tentativo il primo appuntamento è la legge elettorale, che non a caso nel disegno renziano era tutt’uno con le modifiche costituzionali. Il prossimo parlamento avrà un ruolo importante per respingere questi tentativi. Non si può che concordare con Onida: “Rinnegare i principi non vorrebbe dire rivedere la Costituzione ma stravolgerne i principi supremi… un salto indietro di due secoli”. Un parlamento eletto con i residui di Porcellum e Italicum, composto da nominati dai capipartito e non da eletti dai cittadini sarebbe subalterno ai poteri dominanti. Un parlamento rappresentativo, che risponde agli elettori, potrebbe impedire lo stravolgimento dell’assetto costituzionale, perfino imporne l’attuazione.

La nuova legge elettorale sarà uno spartiacque. Questo è drammaticamente sottovalutato. Troppi continuano a credere che una modalità elettorale vale l’altra. Non è così. Una legge elettorale che consenta di eleggere un parlamento rappresentativo, consapevole del suo ruolo, sarà decisiva per garantire la Costituzione. Altrimenti la destra rilancerà il presidenzialismo.

Il comitato per il No ha il merito di avere dato legittimità culturale e politica al No contro la deformazione costituzionale, impedendo il monopolio della destra. Ma anche a sinistra occorre chiarezza. Il No non è una linea del passato. Il 4 dicembre non basta ad impedire nuovi tentativi e la legge elettorale ancora non c’è. Sì e No non sono sullo stesso piano. Il Sì avrebbe fornito al gruppo di potere renziano le credenziali presso le forze che vogliono il cambiamento ad ogni costo della nostra Costituzione in modo che una minoranza di elettori diventi maggioranza comunque. Il No ha bloccato questo percorso.

Ora il tentativo riparte.

Il 2 ottobre, come l’11 gennaio 2016, lanceremo un’iniziativa per avviare una campagna nel Paese per impedire che la legge elettorale venga sequestrata dai capi partito, come hanno già fatto con il Porcellum e poi con l’Italicum, con l’obiettivo di consentire agli elettori di decidere chi li deve rappresentare.

postilla

Il potente gruppo finanziario JP Morgan, leader indiscusso del capitalismo globalizzato, minacciò l'allora presidente della Repubblica di sfracelli se la de-costituzione di Renzi non fosse passata. Vedi in proposito, su
eddyburg: Il giudizio universale di JP Morgan, di Barbara Spinelli, Eddytoriale n 171, di EddyburgIo dico No ai ladri di sovranità, di Tomaso Montanari

«». il Venerdì di Repubblica, 1 Giugno 2017 (c.m.c.)

L’Italia è una Repubblica. Democratica, fondata sul lavoro.

L’abbiamo deciso in un 2 giugno come questo, settantuno anni fa: quando gli italiani (e per la prima volta anche le italiane) chiamarono se stessi a votare, per decidere cosa doveva essere l’Italia. E decisero: non un regno, non più. Ma una Repubblica.L’Italia, naturalmente, esisteva già. Come luogo fisico: una penisola immersa per tre lati nel mare, e coronata dalle Alpi. Ma anche come comunità. Come nazione.

Appena nata, la Repubblica dichiarò solennemente che avrebbe protetto la Nazione. Lo scrisse nella Costituzione, che è il progetto, la mappa, il programma della Repubblica. Lo scrisse nell’articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». È l’unica volta che, tra i principi fondamentali della nostra nuova Italia, si usa questa parola: «nazione». E la si usa per dire questo: l’Italia è la sua storia, la sua natura, la sua arte. Non il sangue, la stirpe, la lingua o la religione: ma la cultura. Come matrice, ma anche come progetto.

Anche Cimabue, il più antico padre della pittura italiana, la pensava così. Quando Dante aveva circa quindici anni, sugli altissimi ponteggi della Basilica Superiore di Assisi – la grande chiesa nata sulla tomba di Francesco, che d’Italia divenne il patrono – Cimabue dovette rappresentare in poco spazio, e in modo che fosse visibile dal pavimento, proprio l’Italia. Anzi l’«Ytalia», come si scriveva allora.

La dipinse come una città: e non una qualunque, ma Roma. La capitale naturale di Italia. La dipinse non come una veduta, ma come un’idea: un catalogo di monumenti, tutti ben riconoscibili. Ci sono Castel Sant’Angelo, la Piramide di Cestio e la Torre delle Milizie. Ne riconosciamo la cattedrale: San Giovanni in Laterano con la sua antica facciata in mosaici dorati. E poi il Pantheon, con la sua meravigliosa cupola bucata. E ancora: campanili, marmi. Le mura: con la porta aperta. E in alto il Campidoglio: il palazzo del potere civico.

Proviamo a leggerne il messaggio: l’Italia è come una città bellissima, e la sua porta è aperta a tutti coloro che vengono in pace. Una nazione aperta, una città a cui tutti possono aggiungere qualcosa di bello, una Repubblica il cui palazzo più alto appartiene a tutto il popolo. In sette secoli la visione di Cimabue è diventata il progetto della Costituzione: ma quanto lavoro ci resta da fare per costruire l’Italia!

«»
cambiailmondo, 14 maggio 2017 (c.m.c)

L’orizzonte culturale in cui viviamo. E’ diffusa nell’immaginario collettivo l’idea che la nostra epoca è caratterizzata dalla “globalizzazione”, ma si tratta di una idea ancora confusa e imprecisa, alla quale, tuttavia, si attribuisce un senso di necessarietà e quasi di fatalismo: essa è concepita come un “dato” indiscutibile intorno al quale dovrebbe ridisegnarsi la nuova struttura dell’economia e, in ultima analisi, delle società nelle quali viviamo. Vedremo tra poco di cosa in realtà si tratta.

Ma intanto appare utile precisare che molti neoliberisti sostenitori della globalizzazione sono ora scettici sui suoi vantaggi e che lo stesso premio Nobel per l’economia, Stiglitz1 , uno dei primi sostenitori di questa nuova visione del mondo, ha riveduto e capovolto il suo pensiero, ponendo bene in chiaro che la globalizzazione è stata considerata in una prospettiva errata e che i danni sociali ed economici che questa ha prodotto, specie sotto il profilo della “disoccupazione”, sono pesanti e insostenibili per lo stesso nostro vivere civile.

Il problema è talmente grave ed importante che deve essere studiato nelle sue radici: si tratta in effetti di porre come oggetto di riflessione un vero e proprio “cambiamento epocale”, che ha travolto il nostro tradizionale modo di pensare e ci ha proiettati in una direzione tutt’altro che definita.

La facilità delle telecomunicazioni, degli spostamenti da un luogo ad un altro, dell’essere informati in tempo reale di qualsiasi cosa accada anche nei posti più remoti del mondo, hanno offuscato lo stesso concetto di “confine”, che sinora aveva costituito, per così dire, anche lo spazio di dominio dei nostri convincimenti e delle nostre aspirazioni, per cui lo stato d’animo oggi imperante è quello di un totale “smarrimento”, nel quale tutto appare possibile e nel contempo difficile da raggiungere, poiché se è vero che la tecnologia ha fatto passi da giganti e l’orizzonte del sapere umano si è profondamente allargato, è anche vero che il nostro campo di affermazione rimane limitato dalle nostre reali capacità.

A questo punto, sembra che l’uomo si sia ripiegato su se medesimo e che, preso atto della propria incapacità di governare se stesso e ciò che lo circonda, cominci a disinteressarsi anche del quotidiano, di quanto accade in politica, nell’economia e nel sociale, ritenendo che il bello e il buono coincida con il “nuovo”, anche se questo nuovo appare, ad una attenta riflessione, come un scatola vuota, che lascia, ovviamente, il vuoto in chi la percepisce.

E’ per questo che in filosofia si parla di “pensiero debole”, in diritto si parla di “diritto debole” e nelle comunicazioni prevale, per così dire, la “rappresentazione debole”, declinato poi in “teatrino”, quando si parla di politica. In sostanza, assistiamo ad una “fuga dal concreto verso l’astratto” e persino in economia, la più concreta delle realtà, si è tramutato lo “scambio reale di beni e servizi” in “scommesse” che comportano per il vincitore l’acquisto, non di un bene reale, ma di taluni diritti astratti, che altro non sono, come ricorda il Gallino, delle “promesse di beni”.

Basti pensare alla “cartolarizzazione dei diritti di credito”, alla “cartolarizzazione degli immobili pubblici da vendere”, ai “derivati”, ai “project bond” e al tre simili fantasticherie, delle quali in seguito parleremo. In questo strato di cose, è ovvio che si dilegua lo stesso “concetto di Stato” e che al posto dello Stato assume sempre maggiore potere la “finanza”, e cioè le “multinazionali”, che sovente provengono dalla “fusione” di più imprese, e le “banche”, le quali si sono quasi completamente sostituite allo Stato nella “creazione del danaro dal nulla”.

La prospettiva è, così, quella di un mondo nel quale la “sovranità” spetta al “mercato”, cioè all’azione delle summenzionate multinazionali e banche, mentre principio costituzionale inderogabile diventa Il “pareggio di bilancio” e l’uomo, se non riesce ad essere “auto imprenditore”, non può altrimenti essere concepito se non come “uomo merce”, il cui lavoro, ovviamente, deve costare il minimo possibile, con buona pace di quanto dispongono i vigenti articoli 4, 36 e 38 della Costituzione. (…)

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«Intervista a Tomaso Montanari presidente di Libertà e Giustizia che si schiera coi comitati locali "In Puglia si sta calpestando l’articolo 9 della nostra Costituzione"

». MicroMega online 13 aprile 2017 (c.m.c)

Deluso dal M5S, acerrimo nemico del Pd. Tomaso Montanari – storico dell’arte, paesaggista e professore universitario – dopo aver avuto un ruolo centrale nella campagna per il NO alla riforma costituzionale, è diventato recentemente presidente dell’associazione Libertà e Giustizia. Volto emergente, interpellato anche sul futuro della sinistra nell’ultimo numero di MicroMega, si dice poco interessato alle primarie Pd del prossimo 30 aprile né crede in un ritorno in scena di Matteo Renzi: «È politicamente finito, il suo carburante è esaurito, bruciato, volatilizzato. Nessuno può più credergli, dopo tante balle, false promesse, fanfaronate risibili». Per ultimo, Montanari sta studiando le carte sulla costruzione del gasdotto Tap, dove ha deciso di schierarsi con i comitati locali del NO: «In Puglia si sta calpestando l’articolo 9 della nostra Costituzione».

Montanari, partiamo da qui. Il Tap (Trans Adriatic Pipeline) è la parte finale di un gasdotto di quasi quattromila chilometri che va dall’Azerbaijan all’Italia. Chi è favorevole al tunnel parla di grandi vantaggi per il Paese perché porterebbe 9 miliardi di metri cubi di gas con un impatto ambientale minimo (le proteste sono per 200 ulivi secolari che poi verrebbero ripiantati). Intanto, però, da un’inchiesta dell’Espresso, si evince che dietro l’opera spuntano manager in affari con le cosche, oligarchi russi e casseforti offshore. E’ favorevole nel dire che il problema del Tap non è dato certamente dagli ulivi, ma da chi ci sta mangiando sopra?
Lo sbocco salentino del Tap viene realizzato lì contro il parere del Ministero per i Beni culturali, che mise nero su bianco che «la metodologia sulla base della quale si è pervenuti alla scelta localizzativa ... non appare convincente». Grazie allo Sblocca Italia Renzi-Lupi quel parere si è potuto calpestare, e con esso si è calpestato l’articolo 9 della Costituzione. Questo è il vero problema.

Non rischiamo la sindrome Nimby dove a rimetterci è la collettività nazionale? Se un’opera è di interesse nazionale, non bisogna costruirla, ovviamente rispettando i canoni di trasparenza e azzerando l’impatto ambientale?
Il punto è stabilire cosa sia interesse nazionale, e in quale modo vada realizzato. Si tratta di bilanciare interessi legittimi. Qui non c’è stato alcun bilanciamento. Se avessimo avuto più Nimby – cioè più cittadinanza attiva, più amore per il proprio territorio e più legalità – avremmo un Paese migliore, non peggiore.

È possibile, in Italia, costruire una grande opera infrastrutturale senza il solito malaffare e senza favorire gli interessi delle cricche?
No, non pare possibile. La corruzione è ormai endemica alla forma di governo. Occorre una discontinuità drammatica, occorrono misure draconiane. Come quelle che il M5S ha promesso, ma poi una volta arrivato a prendere Roma non ha per ora realizzato. Un punto essenziale è che l’opera deve servire davvero, e deve avere le carte in regola sul piano legale. Le opere inutili sono criminogene per definizione.

Dopo la sconfitta sulla riforma costituzionale, Matteo Renzi sembrava in assoluto declino, invece con la vittoria alle prossime primarie potrebbe ritornare più forte di prima. Ci crede a questa nuova ondata del renzismo? E, nel caso, come la leggerebbe?
Renzi è finito perché ora tutti sanno che mente sistematicamente e che il suo scopo è il potere personale, non il cambiamento dello stato delle cose. Dopo il 4 dicembre aveva due possibilità: uscire di scena e dimostrare che sapeva fare altro nella vita, o trasformarsi in un politicante da prima repubblica in cerca di poltrona e stipendio. Ha scelto la seconda. Sta irresponsabilmente trascinando il Pd a fondo con sé, in un abbraccio mortale. Se il Pd lo segue, si trasforma definitivamente nel PdR, il Partito di Renzi, e poi finisce. Una fine ben triste.

Che idea si è fatto del caso Consip, dopo che è stato indagato un ufficiale dei Carabinieri per aver falsificato le dichiarazioni su Tiziano Renzi? Si è preso un abbaglio contro di lui?
Mi pare una vicenda allucinante. A cui questa ultima rivelazione aggiunge un carico di angoscia: quali guerre per bande dilaniano lo Stato? In ogni caso, rimane non smentito il quadro di fondo: l’occupazione del potere da parte di un ristretto cerchio di provinciali che ora si lanciano a vicenda accuse gravissime. Era questo la rottamazione, il rinnovamento, il futuro promesso dal grande statista di Rignano sull’Arno? Una domanda che resta, comunque finisca l’inchiesta.

Anche il M5S – nonostante in tutti i sondaggi si attesti come primo partito – vive le sue vicissitudini: a Genova stiamo assistendo al vero volto autoritario e centralistico del MoVimento di Beppe Grillo?
Stanno venendo i nodi al pettine. Io credo che il M5S dovrebbe andare in direzione diametralmente opposta: invece che pretendere un’ortodossia organizzando un’inquisizione, dovrebbe coltivare la forza creativa dell’eresia, del pensiero critico. Dovrebbe candidare anche una quota di cittadini di riconosciuto prestigio locale, portando in Parlamento una fetta di Paese senza rappresentanza. Come Berlinguer con gli indipendenti di Sinistra, con i cattolici del dissenso. Senza chiedere obbedienza. Non si vogliono alleare coi politici? Potrebbero cominciare ad allearsi con i cittadini. E dimostrare di non essere Grillology.

Nel frattempo Berlusconi... Renzi e Grillo stanno rimettendo in gioco il Cavaliere o è fantapolitica?
Bah, mi fa una pena, in versione vegana ad allattare gli agnelli… Non so, la destra moderata è il Pd di Renzi, la destra estrema è la Lega. Dove può stare Berlusconi?

Che ne pensa invece dei movimenti a sinistra? È vero che le è stato proposto un ruolo dirigenziale in Sinistra Italiana?
Credo che Sinistra Italiana e Possibile debbano camminare insieme. In quale direzione? Ci vuole un partito di sinistra di massa. Non riformista, ma radicale. È un cammino lungo, ma chi non parte, non arriva. Io sono un uomo di sinistra, tutto qua.

Insomma, Montanari cosa vuole fare da grande? La vedremo presto in campo (politico)?
La mia vita è la ricerca. Ricerca scientifica, ricerca morale, ricerca politica sono strettamente collegati e sfociano in una pratica intollerabile per il potere: dire la verità. Questo non significa rinunciare a ‘fare politica’. Significa solo ricordare che esistono molti modi per farla: e ricordare che cercare e dire la verità è uno di quelli. È questa, credo, la vera risposta a chi chiede che gli intellettuali facciano politica: e cioè che la fanno già. La fanno prendendo la parola in pubblico: la fanno da cittadini che vivono con pienezza la propria cittadinanza. Dire la verità vuol dire fare politica: «una politica diversa», di cui continuiamo ad avere una vitale necessità. Perché la questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazione del presente non potrà che essere costruito da una «politica diversa».

E qual è la prossima battaglia che vedrà impegnata “Libertà e Giustizia”?
Abbiamo preso una posizione molto dura sul caso Madia. Credo che dovremo insistere. L’intreccio tra conoscenza, formazione, etica e politica è decisivo. Se vogliamo dare futuro ai nostri ragazzi e alla democrazia dobbiamo affermare che l’onestà intellettuale, il duro lavoro e l’eguaglianza non sono valori disponibili. La razza padrona che trucca le carte è intollerabile e non va tollerata.

« la Repubblica

Vi è una parola — “schiavitù” — che troppe volte viene pronunciata di questi tempi con imperdonabile leggerezza. Ma questo non avviene solo perché ad essa si ricorre anche in maniera impropria o enfatica. Accade piuttosto perché all’uso di quella parola, che solitamente accompagna la descrizione di casi davvero drammatici, raramente poi seguono tutte quelle indicazioni e quei comportamenti che sarebbe ragionevole attendersi come una dovuta reazione individuale, e soprattutto sociale, a situazioni giustamente presentate come intollerabili, in contrasto evidente con principi e diritti fondativi dei nostri sistemi sociali e istituzionali.

E, così facendo, si corre il rischio di far apparire il parlar di schiavitù piuttosto come un modo troppo facile per attirare l’attenzione, per fare scandalo a buon mercato, gettando sulla realtà uno sguardo che rischia di mettere insieme situazioni assai diverse e così banalizza quelle più gravi, facendole anche percepire come se si trattasse di fenomeni che, nel loro complesso, accompagnano fatalmente la vita sociale e che, per questa ragione, dovrebbero essere ordinariamente accettati.

A questa semplificazione pericolosa bisogna sfuggire. E questa è la ragione per cui, scrivendo nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si volle che quell’antica parola comparisse nel suo articolo 5, mostrando così una consapevolezza culturale e una capacità di guardare lontano che impongono ancor oggi di fare riferimento ad un principio esplicito che impedisca di considerare il ricorso alla schiavitù come se si trattasse di una scelta da valutare solo dal punto di vista dell’opportunità politica, mentre invece si tratta della violazione radicale di un principio dal quale nessun sistema democratico può impunemente separarsi.

Ma è realistico discutere oggi di schiavitù come questione sociale e istituzionale? La risposta può darla qualsiasi spettatore abituale della televisione, al quale quasi ogni giorno vengono presentati programmi che mostrano proprio situazioni in cui vi è un uso oppressivo del potere che nega alle persone non solo diritti, ma la loro stessa umanità. Migranti e appartenenti a minoranze discriminate testimoniano più di altri questa situazione. Non sono più cittadini, non sono neppure sudditi, ad essi viene negata l’appartenenza stessa all’umanità. E l’Unione europea manca alla promessa solennemente fatta nel Preambolo della sua Carta dei diritti fondamentali, dove si afferma che appunto l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.

Non sono questioni lontane da noi. In Puglia, nella regione dalla quale giunse l’alfiere del moderno sindacalismo, Giuseppe Di Vittorio, è morta di fatica una bracciante, Paola Clemente, così come è accaduto ad altri che lavoravano senza regole e senza garanzie. Questi casi concreti non solo consentono alla discussione di sfuggire ad ogni rischio di astrattezza, ma la fanno divenire una riflessione obbligata sulla condizione umana, come ha voluto la Costituzione con molti e precisi riferimenti.

Non ricorderemo mai abbastanza quel che è scritto nel suo articolo 36. «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ho sottolineato tre parole di questo articolo, perché mostrano con straordinaria evidenza il senso attribuito al lavoro nel sistema costituzionale, come misura d’ogni azione privata o pubblica, come riferimento necessario per la libera costruzione della personalità, per quel “pieno sviluppo della persona umana” di cui si parla esplicitamente nell’articolo 3. Altrimenti, dall’esistenza libera e dignitosa si rischia di passare ad una sorta di “grado zero” dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del “salario minimo biologico”, del “minimo vitale”.

Ha colto bene questo punto Susanna Camusso con la decisa opposizione della Cgil ai voucher, alla spersonalizzazione del lavoro, allo scarto così determinato tra retribuzione e persona/lavoro. Ed aveva altrettanto opportunamente proposto un referendum perché, trattandosi di una questione che tocca tutti i cittadini, era giusto che proprio tutti potessero responsabilmente dire la loro. Ma il governo è intervenuto con un decreto che, cancellando i voucher, evita il voto referendario, una via istituzionale che ormai troppi temono, parlando di una rischiosa contrapposizione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, oggi enfatizzata anche per sottrarsi ad un tema istituzionale ormai ineludibile, quello della presenza di un popolo “legislatore”, che ha segnato in modo decisivo le dinamiche politico- istituzionali dell’ultimo periodo.

Tutto questo è avvenuto grazie anche al diffondersi di forme organizzative che, come ha dimostrato l’influenza dei “comitati per il No” nell’opposizione alle modifiche della Costituzione, sottolineano come anche nel nostro sistema possano assumere rilevanza decisiva gruppi o movimenti finalizzati al raggiungimento di un singolo, specifico obiettivo. Aprendo, però, un ulteriore problema: quello del futuro di questi movimenti una volta realizzato l’obiettivo per il quale erano stati costituiti. Problema che in questo momento stanno affrontando proprio i nostri “comitati per il No”.

Considerando come essi abbiano assunto come saldo punto di riferimento il rispetto della Costituzione e dei suoi principi, si può ritenere che una loro coerente proiezione verso il futuro debba tener ferma questa ragione d’origine. Non poche, infatti, sono in questo momento le questioni difficili e controverse proprio nella dimensione costituzionale.

Tra queste si possono qui ricordare almeno quelle derivanti dalla frettolosa modifica dell’articolo 81, con i conseguenti vincoli per l’azione pubblica in materia economica. Poiché non è formalmente possibile agire per una modifica referendaria, trattandosi di una norma costituzionale, la riflessione culturale e la progettazione politico- istituzionale dovrebbero mantenere vivo il tema e le questioni di principio che esso solleva, considerando piuttosto il contesto nel quale l’articolo 81 è collocato e agendo sulle norme ordinarie ad esso strettamente collegate in modo da ridurre almeno gli effetti negativi del mutamento.

L’azione dei comitati, in definitiva, può concretarsi in una sorta di “accerchiamento” di quell’articolo, confermando anche in questo modo l’efficacia concreta della loro presenza.

Difendere la lingua italiana: d'accordo, ma come, da che cosa, in quale contesto? Il caso milanese è proprio identico a quello di Bolzano? Abbiamo qualche dubbio, cercheremo di spiegarci meglio. la Repubblica, 8 marzo 2017

Il caso del Politecnico di Milano e il ricorso al Tar per abolire i corsi in inglese Abbiamo dimenticato che la lingua di un popolo è un bene come la Pietà.

Parrebbe un’ovvietà lapalissiana, rischia di trasformarsi in una prece, una speranza, un desiderio. Non solo per il degrado culturale dei nostri studenti, né per la sciatteria linguistica che trasuda in tv così come dalle pagine dei libri. No, la questione ormai investe la sopravvivenza stessa dell’italiano, quale lingua ufficiale dello Stato. Tocca il ruolo delle istituzioni che dovrebbero proteggerlo. E in ultimo interroga l’identità degli italiani, la loro comune appartenenza.

Ne sono prova due episodi, fra i molti che potrebbero elencarsi. Il primo riguarda una vicenda giu- diziaria innescata dal Politecnico di Milano, dove vengono impartiti — dal 2014 — corsi di laurea magistrale e dottorati di ricerca esclusivamente in lingua inglese. Succede, del resto, anche in altri atenei. A Milano, però, un gruppo di docenti si è rivolto al Tar, ottenendo l’annullamento di quell’iniziativa. Dopodiché il Politecnico si è appellato al Consiglio di Stato, che a sua volta ha chiamato in causa la Consulta. Oggetto del contendere: è legittimo che professori italiani, in territo- rio italiano, insegnino a studenti italiani usando una lingua straniera?

L’altravicenda si sviluppa a Bolzano. Dove la commissione paritetica Stato-Provincia autonoma ha annunziato una riforma della toponomastica, per cancellare il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana. Risultato: oltre 1500 toponimi si pronuncerebbero soltanto in tedesco. Fra questi la Vetta d’Italia, il punto più a nord della penisola; d’ora in poi si chiamerebbe Glockenkarkopf, cancellando la doppia dizione. E altri luoghi come il Monte Sant’Anna, il lago Trenta, la montagna della Palla Bianca.

Da qui la reazione dell’Accademia della Crusca, subito appoggiata da 102 senatori. Anche perché proprio lo Statuto del Trentino, all’articolo 99, proclama l’italiano «lingua ufficiale dello Stato». Certo, in Alto Adige vige un regime di separatismo linguistico, figlio dell’accordo De Gasperi-Gru- ber del 1946. Un’eccezione rispetto al primato dell’italiano nei documenti ufficiali della nostra Re- pubblica. Ma l’eccezione non può divorare la regola, rimpiazzandola con la regola contraria. Se ne occuperà, probabilmente, la Consulta.

Che nel frattempo ha tuttavia deciso la querelle sul Politecnico. Stabilendo che è lecito impartire corsi di studio in lingua inglese, purché in misura residuale rispetto all’offerta complessiva dei singoli atenei; altrimenti verrebbero penalizzati sia gli studenti (con una barriera linguistica che pre- scinde dai loro saperi), sia gli stessi docenti (rispetto alla libertà d’insegnamento, che comprende anche la scelta sulle forme di comunicazione didattica). Insomma, l’obiettivo dell’internazionalizza- zione non può andare a scapito della nostra lingua nazionale, della sua dignità sociale e culturale. La sentenza n. 42 del 2017 - pubblicata nell’ultima settimana di febbraio — non è affatto un ine- dito nella giurisprudenza costituzionale. Già nel 1982 (sentenza n. 28) la Consulta sancì l’obbligo d’usare la lingua italiana nelle comunicazioni degli uffici pubblici; mentre nel 1999 (sentenza n. 159) aggiunse che la tutela attribuita alle minoranze linguistiche non può mai relegare l’italiano in una posizione marginale. Stavolta, però, vi si coglie un pathos, un’enfasi speciale. Dice la Corte: vero, il plurilinguismo è un tratto delle società contemporanee. Vero, la globalizzazione abbatte confini, mescola culture. Ciò nonostante, la difesa della nostra lingua nazionale non è un retaggio del passato, bensì strumento «per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica ». E l’italiano costituisce «un bene culturale in sé», al pari delle sinfonie di Verdi o della Pietà di Michelangelo. Dovremmo allora chiederci perché, da dove scaturisca questo tono
d’allarme. Ma dopotutto ciascuno conosce la risposta. Noi italiani abbiamo un’identità debole, sfo- cata. Non a caso perfino il più grande monumento edificato dopo l’unificazione nazionale — il Vit- toriano — rimane orfano di qualsiasi rappresentazione dell’Italia. Se si eccettua la parentesi dolente del fascismo, la nostra storia viene scandita dal localismo, non dal nazionalismo. Ma adesso gli ele- menti di disgregazione prevalgono, e di gran lunga, sull’integrazione. Ne è specchio la politica, ne èvittima, a suo modo, la lingua. Dal fascismo allo sfascismo.

Piccola (e utilissima) storia delle modifiche alla costituzione: ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto (perchè non si dveva fare), e ciò che si dovrebbe fare. Trascura però un punto: ciò che si dovrebbe

attuareLettera al direttore de La Repubblica, 18 dicembre 2016

Caro direttore, fino ai primi anni Ottanta è stato pacifico, almeno in dottrina, che le revisioni costituzionali dovessero avere un contenuto omogeneo e puntuale. Si riteneva cioè che, secondo l’art. 138 della Costituzione, fossero modificabili soltanto singoli articoli della Costituzione o tutt’al più una pluralità di articoli tra loro connessi, in modo tale che, nell’eventuale voto confermativo, gli elettori potessero esprimersi su una sola questione.

Le cose cominciarono a cambiare con l’istituzione della cosiddetta Commissione Bozzi, che nel 1985 propose una vasta modifica anche della Parte prima della Costituzione. Il primo vero tentativo di una mega-riforma lo si ebbe però solo con la Commissione De Mita- Iotti (1993), cui fu affidato il compito di elaborare un “progetto organico” di riforma relativo a quasi tutta la Parte seconda della Costituzione, che non fu nemmeno posto all’esame delle Camere, in conseguenza dell’anticipata conclusione della XI legislatura.

Il secondo tentativo lo si ebbe con la Commissione D’Alema che si impegnò a lungo, nella XIII legislatura, per elaborare una riforma in senso federale dello Stato con il Presidente della Repubblica eletto dal popolo, ma la riforma si arenò a seguito del venir meno dell’appoggio di Forza Italia. Il terzo tentativo fu quello della mega-riforma Berlusconi - bocciata dal popolo (2006) - che pretendeva anch’essa di instaurare una forma di Stato federale, con un premierato assoluto e una diversa composizione (federale) della Corte costituzionale.

Il quarto tentativo è stata la mega-riforma Letta (2013), che prevedeva una legge costituzionale “madre”, cui sarebbero dovute seguire svariate leggi costituzionali “figlie” afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo: modifica che si arenò non solo per l’ostracismo del M5S ma soprattutto perché Forza Italia fece mancare l’appoggio alla maggioranza poco prima del voto definitivo. Il quinto e ultimo tentativo è quello recente della discutibilissima mega-riforma Boschi, sonoramente bocciata dagli elettori.

In conclusione, nessuna mega-riforma (dal contenuto disomogeneo) ha mai avuto successo. Per contro le leggi di revisione costituzionale finora approvate sono tutte omogenee e puntuali. Ne ricordo alcune: l’estradizione dei rei del delitto di genocidio; la previsione della circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere; la pari opportunità tra donne e uomini; la pari durata delle due Camere; l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari; l’attribuzione alle Camere del potere, a maggioranza dei due terzi, di disporre l’amnistia e l’indulto; la diversa disciplina costituzionale del bilancio dello Stato: l’eventuale possibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere anche negli ultimi sei mesi; la sottoposizione del Presidente del Consiglio e dei Ministri alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni; la sostituzione del titolo V della Costituzione relativo a Regioni, Province e Comuni.

Ebbene, non poche sono le modifiche costituzionali, omogenee e puntuali, che potrebbero essere approvate dalle Camere addirittura quasi all’unanimità. Innanzi tutto l’eliminazione della seconda parte del terzo comma dell’art. 30 della Costituzione che presuppone la differenza giuridica tra filiazione legittima e la filiazione naturale, che già da tempo è stata eliminata dal legislatore ordinario (e dalla pubblica opinione), per cui è priva di significato giuridico. E poi l’eliminazione del Cnel, la cui permanenza come non ha ostacolato la vittoria del No, così anche non ha minimamente influenzato gli elettori che hanno votato Sì.

Aldilà di queste due modifiche che dovrebbero ritenersi scontate, penso a talune semplici modifiche che troverebbero ostacoli solo in coloro che auspicano mega-riforme che potrebbero non arrivare mai (per cui meglio un uovo oggi che una gallina domani!). Modifiche che però avrebbero anche un grande significato politico.

La riduzione dei deputati a 400 e i senatori a 200, con un comitato misto per superare le eventuali divergenze; l’introduzione della sfiducia costruttiva nei confronti del Governo, tanto più necessaria qualora si dovesse tornare ad un sistema elettorale proporzionale; la riattribuzione alla competenza esclusiva dello Stato di alcune materie troppo generosamente assegnate nel 2001 alla potestà legislativa concorrente delle Regioni che hanno determinato un immenso contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale (istruzione; porti e aeroporti civili; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; grandi reti di trasporto; trasporto e di navigazione; turismo; radiodiffusione e telecomunicazione ecc.).

Modifiche, tutte queste, che comunque dovrebbero riguardare la futura legislatura, perché l’attuale, quand’anche ci fosse tempo sufficiente, è viziata nella sua rappresentatività popolare (così la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale) per cui, come non avrebbe dovuto approvare la mega- riforma Boschi, non potrebbe nemmeno approvare queste minori modifiche.

i. «Abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti». La Repubblica, 16 dicembre 2016

Il risultato del referendum del 4 dicembre ci restituisce una Costituzione forte. Forte sin dalla nascita perché frutto di un lavoro comune dei partiti rappresentati alla Costituente, che la elaborarono insieme nella Commissione dei Settantacinque e l’approvarono a larghissima maggioranza in Assemblea, con l’88% dei voti favorevoli.

Tutti, al di là delle posizioni politiche, spesso molto distanti, si riconobbero sempre in quel testo. Dal referendum del 4 dicembre la Costituzione esce addirittura rafforzata, perché gli italiani hanno chiaramente detto (con 19.420.730 di “No”), di non volere “riforme grandi” che modifichino radicalmente gli equilibri tra i poteri e, implicitamente, le stesse forme di attuazione e tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili.

Naturalmente, questo non impedisce le mirate modifiche e gli interventi di manutenzione che siano ritenuti necessari da un’ampia maggioranza parlamentare.

Una Costituzione forte, anche per la sua stabilità, è in sostanza - per dirla con la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (ex parte Milligan, 1866) - «una legge per il tempo di guerra e per il tempo di pace», in grado di fronteggiare cioè qualunque situazione (anche straordinaria) e di contenere il potere, chiunque lo detenga in quel determinato momento.

Stupisce, quindi, che modifiche radicali o ribaltamenti della Costituzione, volti a indebolirla, alterando l’equilibrio tra Governo e Parlamento e introducendo disposizioni complesse e talvolta oscure (rimesse fatalmente all’interpretazione della maggioranza di turno), siano (stati) sostenuti come argini nei confronti del “populismo”. Al di là delle approssimazioni sull’utilizzo di questo termine, infatti, proprio il “rischio” di un governo populista dovrebbe spingere a salvaguardare una Costituzione forte nella limitazione del potere della maggioranza. Che poi è il senso stesso della Costituzione.

Invece - e paradossalmente - abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti, sostenendo la riforma con argomenti propri della retorica dell’anti-politica, come quello di “meno politici” o di “meno poltrone”. Al di là di tutte le valutazioni che si potranno fare, possiamo dire che quello del 4 dicembre è stato un voto in effetti contro il populismo — quello più insopportabile quello del governo, come ha ben chiarito Ezio Mauro all’indomani del voto su questo giornale.

Certamente, la retorica divisiva e l’uso plebiscitario del referendum costituzionale hanno fagocitato altri populismi. E possono ora favorire un fenomeno che deve destare preoccupazione: quello di pensare che la difesa della Costituzione sia essa stessa un partito, che il “no” a quella revisione contenga un messaggio che vada oltre l’obiettivo specifico, raggiunto il 4 dicembre. Lo scarsissimo spazio che i media hanno inteso dare durante la campagna referendaria alle posizioni politiche — e costituzionali — più ragionate e ragionevoli ha una sua responsabilità nell’aver istigato questo uso populista della battaglia per il “No”. Una responsabilità che si assomma a quella di chi, a fronte di una richiesta di rottura rispetto a modalità decisionali verticistiche e chiuse rispetto ai cittadini, non si preoccupa, oggi, di elaborare risposte convincenti, ma continui ad arroccarsi nei palazzi, offrendo risposte sbagliate o insoddisfacenti.

Tutto questo giustifica la preoccupazione circa il permanere di una pratica e di un linguaggio populisti, il persistere di populismi opposti, di una lotta politica che è giocata con le armi plebiscitarie. Sì, abbiamo una Costituzione capace di limitare il potere di chiunque sarà in maggioranza e anche le loro tendenze populiste, ma è irresponsabile sottovalutare l’erosione delle aggregazioni partitiche a tutto vantaggio dei vertici plebiscitari che questa lunga campagna ha consolidato.

Riemerge così il significato portante della Costituzione come testo condiviso da tutti e a tutti capace di “opporsi” in particolare quando siano al potere. Con il referendum questo significato è stato confermato, e anzi riconquistato (per la seconda a distanza di dieci anni). Si tratta di un significato da custodire (senza che questo comporti la rinuncia a interventi puntuali e di manutenzione costituzionale) da parte di tutti, e anche contro ogni altro tentativo di farne un programma di lotta politica, quasi che ci possa essere un “partito della Costituzione”.

La Costituzione non poteva diventare il testo di una parte che affermava la “sua” riforma così come non può essere rivendicata come “propria” dalla parte che a quella stessa riforma si è opposta. Chi si è espresso contro la riforma costituzionale per avere una Costituzione forte e capace di unire non può farne infatti un documento fondante per una parte o - peggio - per un partito. I partiti - potremmo dire riprendendo Costantino Mortati - sono “parti totali” mentre la Costituzione è “il totale” nel cui ambito si svolge il confronto tra i diversi partiti politici della Repubblica.

«Si moltiplicano gli interrogativi, ma dopo che è caduto il velo che copriva l’estrema fragilità di un leader cui sembrava non ci fossero alternative, dovremmo essere tutti assai felici di avere una Costituzione senza amputazioni, trappole e confusioni».

La Repubblica, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)

Nonostante la cortina fumogena politicista, gli italiani hanno capito che si votava sulla Costituzione: cioè sulle regole, sulle garanzie di tutti. E il sentimento prevalente, e alla fine risolutivo, è stato il rigetto verso chi le voleva svuotare chiedendo una delega in bianco. Paradossalmente il merito è in buona parte del presidente del Consiglio, che è stato (suo malgrado) un ottimo didatta.

Quando ha chiesto agli italiani: «volete dare più potere e meno controllo a questo governo?», egli ha reso comprensibile a tutti una questione teorica attraverso un esempio terribilmente concreto. E l’impopolarità di chi ormai appare legato a poteri assai remoti dagli interessi generali ha fatto il resto.

Di fatto, gli italiani hanno votato a favore di una rappresentanza parlamentare piena e diretta, del potere delle regioni e dei diritti delle minoranze politiche: tutte cose assai remote da una cultura politica di destra.

Solo il cortissimo respiro del gioco politico italiano spiega perché Forza Italia abbia votato No ad una riforma che aveva contribuito decisivamente a scrivere: ed è per questo che, su un piano valoriale, non può rivendicare praticamente niente di questa vittoria.

A maggior ragione non può farlo la Lega, che il mito dell’uomo forte lo ospita nel proprio più intimo dna. Questo fortissimo No, infatti, ferma ogni possibile deriva costituzionale in senso presidenzialista, rafforza l’equilibrio dei poteri e il ruolo del Parlamento, riattiva gli anticorpi del sistema contro il cesarismo populista carissimo alla Destra.

Anche il Movimento 5 Stelle si trova ora di fronte ad una prova del fuoco: perché se esso cedesse alla tentazione, già forte ed esplicita, di trarre beneficio dai trucchi dell’Italicum, tradirebbe radicalmente lo spirito del 4 dicembre. Ed è evidente che gli italiani non sono disposti ad approvare scorciatoie, furbizie e giochi di palazzo. Da parte di nessuno.

Mentre esiste la concreta possibilità di costruire qualcosa di radicalmente nuovo a sinistra del Partito Democratico, è proprio quest’ultimo a costituire la vera incognita. Rimarrà il Partito di Renzi (Diamanti), e dunque un fortino assediato e in declino, o saprà ritrovarsi, proiettandosi in un futuro tutto da costruire?

Si moltiplicano gli interrogativi, ma dopo che è caduto il velo che copriva l’estrema fragilità di un leader cui sembrava non ci fossero alternative, dovremmo essere tutti assai felici di avere una Costituzione senza amputazioni, trappole e confusioni. È la nostra rete di salvataggio, e ora davvero nessuno può permettersi di sabotarla.

"». il manifesto, 5 dicembre 2016 (c.m.c.)

Lorenza Carlassare risponde al telefono da Padova, è a casa di amici, festeggiano.

È una bella sorpresa, professoressa?
Una bellissima notizia ma, adesso posso dirlo, per me non è una sorpresa. Me l’aspettavo, anzi ne ero sicura, scurissima. Lo sono sempre stata. Perché so che gli italiani quando arriva il momento della verità capiscono bene cosa è giusto fare. Lo posso dire perché nella mia vita ho già vissuto molte situazioni del genere, situazioni in cui le aspettative sembravano preoccupanti e invece alla fine il risultato è stato positivo.

Lei ha girato molto per il comitato del No, traeva questa convinzione dai suoi incontri?
Anche da quelli, sì. Effettivamente ho partecipato a tantissime assemblee per spiegare le ragioni del No, per mettere in evidenza tutti i difetti di questa riforma costituzionale. E specialmente in quest’ultimo periodo, anche qualche mese fa ma specialmente nelle ultime settimane, ho percepito il fastidio per l’atteggiamento del presidente del Consiglio. Renzi è stato in televisione praticamente ogni ora, ogni minuto. E negli ultimi tempi ha alzato i toni in maniera aggressiva verso gli esponenti del No, anzi verso tutti gli elettori intenzionati a votare No.

Secondo lei ha perso per questo?
Devo dire la verità, l’arroganza di Renzi mi è sembrata il quadro di quello che ci sarebbe potuto succedere se avesse vinto il Sì. Avremmo avuto ancora di più l’arroganza al potere. Anche per questo ero certissima che il No avrebbe vinto, perché gli italiani sono insofferenti verso questo tipo di atteggiamento. E capiscono quando c’è qualcuno che vuole prenderli per il naso.

È stato un no in difesa della Costituzione?
Sicuramente. Ma anche le sofferenze quotidiane della gente hanno pesato. Le persone conoscono bene le loro condizioni di vita, aveva un bel dire Renzi che tutto va bene e il bilancio è positivo, che l’Italia sta crescendo. Non è così, purtroppo, e la gente lo sa bene. Gli italiano non potevano credergli.

Le sembra opportuno che si sia dimesso?
Inevitabile, per come aveva impostato le cose. Ma a me interesserebbero di più le dimissioni da segretario del Pd. Mi farebbe piacere se quel partito, povero partito, riuscisse a trovare una strada diversa. O almeno che ci provasse, non so se può riuscirci.

Secondo lei è indispensabile fare una nuova legge elettorale prima di sciogliere le camere?
Se in parlamento si riuscisse a trovare un accordo per fare una nuova legge elettorale, una buona legge elettorale, sarebbe certo un fatto positivo. Ma questa non può diventare ancora una volta una scusa per tenere in vita un parlamento pesantemente delegittimato dalla Corte costituzionale.

E quindi con quale legge si dovrebbe votare?
La Corte costituzionale con la sentenza 1 del 2014 con la quale ha cancellato parti importanti del «Porcellum» ha lasciato in piedi un sistema – il cosiddetto Consultellum – con le parti residue della vecchia legge elettorale. È un sistema funzionante, può essere utilizzato

Una specie di proporzionale.
Una specie, sì, perché ci sono ancora soglie parecchio alte, ma è di certo assai meglio dell’Italicum.

L’Italicum a questo punto è inservibile?
Senza questa riforma costituzionale, l’Italicum che è un sistema applicabile alla sola camera elettiva non esiste. Oltre tutto è sotto il giudizio della Consulta e non si può certo utilizzare. È una legge incostituzionale che riprodurrebbe un parlamento incostituzionale.

Come quello che ha fatto questa riforma.
Renzi senza i seggi dichiarati illegittimi non avrebbe mai potuto farla. È stata una riforma nata male, meno male che è finita così. Tutta la conduzione della vicenda è stata anti democratica, ci siamo liberati da uno spettro, che meraviglia.

«La Costituzione, grazie a una provvidenza laica che si serve anche di alleati insospettabili e persino impresentabili, si è salvata un'altra volta. E ha salvato tutti noi. Anche chi voleva rottamarla». Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2016 (p.d.)

Nel nuovo referendum Monarchia-Repubblica, 70 anni dopo quello del 1946, ha rivinto la Repubblica. E con un distacco abissale, plebiscitario. Dopo una campagna elettorale che ci ha visti in prima linea in difesa della Costituzione (speriamo per l'ultima volta), è difficile silenziare le voci di dentro: le emozioni, le tensioni, le paure, i ricordi lontani e recenti.

Il primo è il giorno della nostra nascita, sette anni fa, quando con un pugno di colleghi fondammo il Fatto per dire ciò che gli altri non possono o non vogliono dire. E Antonio Padellaro illustrò nell'editoriale la nostra linea politica: la Costituzione. Che nel 2009 era minacciata da un uomo solo al comando, Silvio Berlusconi. Mai avremmo immaginato che nel 2016 quella scena horror si sarebbe ripetuta a opera di un altro aspirante caudillo, stavolta di sinistra (si fa per dire): Matteo Renzi, con dietro Giorgio Napolitano e i soliti poteri forti e marci, italiani e non.

E non potevamo neppure immaginare che stavolta ci saremmo ritrovati soli a difendere la Costituzione, per il tradimento di buona parte del mondo intellettuale, culturale e artistico. Il secondo ricordo è di fine marzo 2014, quando ci accorgemmo con un giorno di ritardo che il sito di Libertà e Giustizia aveva pubblicato un drammatico appello firmato da Zagrebelsky, Rodotà, Carlassare, Settis e altri contro la “svolta autoritaria” delle due “riforme”appena partorite da Renzi & B. in pieno Patto del Nazareno: l'Italicum e la Costituzione Boschi-Verdini. Riuscimmo comunque a pubblicarlo in esclusiva, perchè nessun altro quotidiano (a parte il manifesto) gli aveva dedicato neppure un trafiletto. Ci guardammo intorno e non vedemmo nessuno: “I matti siamo noi o tutti gli altri?”. Se si fosse votato allora, sarebbe finita col Sì al 99% e il No all'1. Poi Grillo e Casaleggio sottoscrissero l'appello, condiviso anche da Sel. La sinistra del Pd balbettava, per poi ridursi al silenzio o saltare sul carro del vincitore di lì a due mesi, quando Renzi trionfò alle Europee. Se da allora il fronte del No è cresciuto e si è moltiplicato da zero fino al 59% lo si deve, più che al voltafaccia di bottega di B. e alla scombiccherata campagna leghista, all'impegno di comitati, partigiani, magistrati, Fiom e Cgil, ma anche dei 5Stelle, presenti in ogni piazza e strada con un impegno che - comunque la si pensi – resterà il loro fiore all'occhiello.

Il Fatto è sempre stato, ogni giorno, il punto di riferimento del No. Mai per motivi partitici o personali, sempre e soltanto sul merito della controriforma, in nome dei nostri principi e ideali. Anche quando Renzi trasformò il referendum in Referenzum, cioè in una folle ordalia pro o contro la sua insignificante persona. L'abbiamo fatto nella certezza di uscire sconfitti da una battaglia persa in partenza, per poter guardare in faccia in serena coscienza noi stessi, i nostri figli e i nostri lettori. Ci siamo inventati di tutto (inserti speciali, convegni, libri, una tournèe teatrale) per bucare il muro della censura e contrastare a mani nude, senza un soldo,la spaventosa potenza di fuoco del premier, che ha violato tutte le regole, anche quelle della decenza; speso chissà quanti milioni per la campagna elettorale; usato voli ed elicotteri di Stato, buttato o promesso miliardi pubblici per comprare voti con la legge di stabilità e i rinnovi contrattuali last minute; occupato ogni angolo della Rai, tenuto in scacco Mediaset; mobilitato prefetture, ambasciate, ministri, sindaci, governatori, Poste, Confindustria, Confquesto e Confquello; seminato terrori e ricatti con allarmi infondati, complice la consueta legione straniera; usato persino il dolore dei malati di cancro; raccontato balle spaziali fin sulla scheda elettorale. Il tutto nella certezza (poi confermata) che nessun arbitro l'avrebbe fermato, sanzionato, sbugiardato. Intanto, tutt'intorno, le più occhiute vestali della legalità, della democrazia e della libera informazione attivissime nell'era Berlusconi si squagliavano come neve al sole dinanzi ai volgari abusi del satrapuccio di Rignano. Figuriamoci quanti voti in meno avrebbe avuto il Sì se le regole fossero state rispettate.

Ma oggi Renzi va anche ringraziato per alcuni meriti conquistati sul campo, ovviamente a sua insaputa, spaccando in due l'Italia - famiglie, amici, partiti, associazioni - proprio sulla Carta che ci aveva uniti per 68 anni.

1) Ci ha regalato mesi avvincenti e indimenticabili, trascorsi in giro per l'Italia a informare la gente, a discutere di principi e valori, a riscoprire e riamare una Costituzione (quella vera) che davamo ormai per scontata e invece va sempre innaffiata e alimentata col nutrimento della passione civile. Le ultime settimane le abbiamo trascorse a cercare ospiti per la Woostock del No, collezionando una serie impressionante di dinieghi, distinguo, silenzi, imbarazzi, tremiti e fughe da Guinness, anche da personaggi insospettabili: il che rende ancor più preziosa la presenza degli artisti che gratuitamente erano con noi venerdì sera al teatro Italia.

2) Ha costretto tanti democratici a targhe alterne a gettare la maschera, aiutandoci a separare il grano dal loglio: chi combatteva Craxi e B. per difendere i principi costituzionali e la democrazia liberale, e chi lo faceva per difendere il partito o la panza. Tant'è che si è prontamente sdraiato su una controriforma scritta coi piedi da una Boschi e da un Verdini.

3) Ha trascinato alle urne 32 milioni di italiani per sancire, speriamo definitivamente, che la nostra bellissima Carta non è un problema, ma una risorsa dell'Italia. Che non va stravolta, semmai aggiornata. E solo con riforme condivise, migliorative, scritte in italiano, limitate ai pochi articoli, ma soprattutto democratiche. Perchè gli italiani non vogliono (più) un padrone.

4 ) Ha seppellito, speriamo definitivamente, quell'"informazione” di regime che ieri sera esibiva le sue migliori facce sepolcrali nei talk show e, tanto per cambiare, non aveva capito nulla del Paese che dovrebbe interpretare e raccontare, invece non sa più neppure dove stia sulla carta geografica. Quell’"informazione" di penne alla bava che deridevano i giornalisti americani, incapaci di prevedere la vittoria di Trump (peraltro meno votato della Clinton), e in casa propria non notavano neppure la rabbia montante di milioni di persone.

La Costituzione, grazie a una provvidenza laica che si serve anche di alleati insospettabili e persino impresentabili, si è salvata un'altra volta. E ha salvato tutti noi. Anche chi voleva rottamarla.

Sono contento della vittoria del NO. Sono contento che la nostra Costituzione sia quella nata dall'antifascismo, dalla Resistenza, dalla democrazia conquistata per le donne e gli uomini, anziché l’insensato pastrocchio cucinato dalla signora Boschi.

Sono contento che sia stato sconfitto Matteo Renzi, perché l'arroganza al potere non mi è mai piaciuta, e perché non mi piace che in cima alla catena di comando ci siano JP Morgan e simili.

Sono particolarmente contento perché ho trovato devastante il modo in cui, giorno per giorno, Matteo Renzi si è impadronito del potere, a furia di operazioni scorrette e bugie alla Vanna Marchi.

Sono contento perché la maggioranza degli italiani ha compreso come stanno le cose e ha ricominciato a fare politica.

Sono preoccupato perché l'aspirante Capo ha dimostrato, col suo tracotante discorso di ritiro, di non aver rinunciato alla rivincita, e perché la rete di ricatti e acquisti che aveva messo in piedi è ancora intatta.

Sono preoccupato perché sono intatti i poteri che, attraverso l'ex presidente della Repubblica, hanno chiesto a Matteo Renzi di rifare la Costituzione.

Sono preoccupato perché gran parte di ciò che accadrà nei prossimi mesi è nelle mani di una istituzione che mi è apparsa troppo distratta e troppo fragile.

E sono preoccupato perché una sinistra come quella che ho conosciuto nel secolo scorso, all'altezza dei nuovi problemi dell’Italia, dell’Europa e del mondo, ancora non c'è.

Ma mi sembra che sia meglio rischiare e andare avanti insieme, distinguendo tra i vincitori del round quelli che esprimono interessi condivisibili e quelli che rappresentano interessi non migliori di quelli rappresentati da Renzi, collaborando con i primi e combattendo i secondi anziché tornare al neofascismo o al neofeudalesimo.

Venezia, 5 dicembre 2016

Articoli di Marco Galluzzo, Mariolina Sesto,Carmelo Lopapa, Marco Palombi

, Daniela Preziosi, dal Corriere della sera, il Sole 24 ore, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano online, il manifesto, 5 dicembre 2016 (c.m.c.)

Corriere della sera

IL NO BATTE RENZI
TANTI AL VOTO
«LASCIO PALAZZO CHIGI»
di Marco Galluzzo

«Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno, io sono diverso e lo dico a voce alta, anche se con il nodo in gola — perché non siamo robot —. Non sono riuscito a portarvi alla vittoria, ho fatto tutto quello che si poteva fare. Credo nella democrazia, quando uno perde non fa finta di nulla e fischietta». Pausa, subito dopo: «Adesso sta all’opposizione fare la proposta sulle regole». La vittoria del No è netta: 59,7% (quando mancano poche sezioni da scrutinare), il Sì al 40,3%.

Poco dopo mezzanotte Matteo Renzi, dopo aver parlato al telefono con Sergio Mattarella, annuncia le sue dimissioni. Parla a braccio, a tratti sembra commuoversi, ma dà l’unica risposta possibile, politicamente, al voto degli italiani: «Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta, a chi ha vinto le mie congratulazioni, a loro vanno oneri e onore per il futuro, per le proposte, a cominciare dalla legge elettorale. Un grande abbraccio a tutti coloro che hanno scommesso sul Sì. Come è evidente fin dal primo giorno l’esperienza del mio governo finisce qui, volevo cancellare altre poltrone, non ce l’ho fatta e quella che salta è la mia». Alla fine del discorso ringrazia «Agnese e i miei figli, per la fatica di questi mille giorni».

Oggi Renzi riunirà il suo ultimo Consiglio dei ministri, poi salirà al Quirinale per le dimissioni. È, per il capo del governo, indubbiamente una sconfitta che brucia, nettissima, più grande di qualsiasi previsione, con un voto che per ampiezza acquisisce subito una fortissima caratura politica. Domani verranno riuniti anche gli organi direttivi del Pd e non è da escludere che Renzi possa lasciare anche la carica di segretario.

Quasi 35 milioni di italiani sono andati a votare, un record di affluenza. La maggior parte di loro, circa sei su dieci, ha bocciato il referendum sulla Costituzione. E insieme a questo ha clamorosamente bocciato anche Renzi e il suo governo, costruendo il peggiore scenario che il presidente del Consiglio potesse aspettarsi. Con una forbice fra il No e il Sì che arriva anche sfiorare i venti punti percentuali: i sondaggi delle scorse settimane avevano previsto la vittoria del No, ma l’avevano sottostimata ampiamente.

Per alcuni mesi il premier e il suo staff hanno detto di contare su un’alta affluenza perché la riforma potesse essere approvata. L’affluenza è stata sorprendente — 68,5% — più alta delle più rosee previsioni, a livelli da elezioni politiche, e il pronostico del premier è stato bocciato. I dati sono ancora più impressionanti se confrontati con i due precedenti referendum costituzionali. A quello del 2001 sulla modifica del Titolo V andò a votare il 34,1% degli elettori, a quello del 2006 sulla devolution il 53,6% (si votava in due giorni).

Hanno vinto tutti coloro che hanno puntato sul tavolo del No: Berlusconi, la minoranza del Pd, Sinistra italiana, la Lega di Salvini, il movimento di Beppe Grillo. Poco dopo le 23, sull’onda dei primi exit poll, la notizia della sconfitta di Renzi è una breaking news in tutti i notiziari del mondo. Stessa cosa per l’annuncio delle sue dimissioni. Le cancellerie internazionali, insieme ai mercati finanziari, auspicavano una vittoria della riforma, nel segno della stabilità politica. Quello che sem-brava uno dei Paesi più stabili della Ue da oggi, dopo la Brexit, con elezioni politiche in Francia e Germania il prossimo anno, aggiunge incertezza al tavolo dell’Unione.

il Sole 24 ore
VINCE IL NO CON IL 60%,
AFFLUENZA RECORD
di Mariolina Sesto

«Partecipazione al voto al 68,48% - In alcune città del Mezzogiorno i voti contrari arrivano fino al 70%»

Una vittoria netta del No, che sfiora il 60% dei voti. E una partecipazione numerosissima degli elettori (intorno al 70%) alla consultazione referendaria. Sta in questi due dati la fotografia del voto di ieri che ha bocciato la riforma costituzionale Renzi-Boschi approvata lo scorso aprile dal Parlamento senza maggioranza assoluta.

I dati dello spoglio, iniziato subito dopo l’apertura dei seggi, non lasciano margini di dubbio. A scrutinio quasi completato (61.523 sezioni su 61.551 per l’Italia e 789 sezioni su 1.618 per l’estero), i voti contrari alla riforma si attestano al 59,56%, confermando i precedenti exit poll e proiezioni.

Ampio lo scarto con il Sì pari a circa 18 punti percentuali. I voti pro riforma, sempre secondo i dati non ancora definitivi del Viminale, si sono attestati al 40,3 per cento.

Notevolissima l’affluenza alle urne, che assume anch’essa un significato politico di prima grandezza: si è attestata al 68,48%, oltre ogni previsione. Una partecipazione definita da «elezioni politiche». Non regge infatti il confronto con la partecipazione agli altri referendum costituzionali: nel 2006, sulla cosiddetta «devolution» votò il 53,6% degli aventi diritto, nel 2001, sulla riforma del Titolo V, il 34,1 per cento.

Buona l’affluenza anche all’estero: 30,89 per cento (hanno votato 1.251.728 elettori). In questo caso però la differenza rispetto al referendum costituzionale di 10 anni fa non è poi così marcata: allora andò a votare il 27,7% dei residenti all’estero. Lo scarto è quindi solo di poco più di tre punti percentuali. L’affluenza più alta si è registrata in Europa dove è stata pari al 33,81%; in America Meridionale è stata del 25,57%; in America Settentrionale e Centrale del 31,60%; in Africa-Asia-Oceania del 32,12 per cento.

Il No si è affermato su tutto il territorio nazionale sebbene non ovunque con lo stesso peso: al Nord i voti contrari alla riforma hanno fatto registrare un risultato ovunque intorno al 60 per cento.

Le regioni centrali sono state le più generose sia nei confronti di Renzi che della riforma: lo stacco tra No e Sì è stato infatti poco marcato e in alcune regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna (e al nord anche nella provincia autonoma di Bolzano) il Sì risulta leggermente in vantaggio sul No. Certa la vittoria del Sì nelle città di Firenze, Perugia, Bergamo, Mantova, Bologna e Milano. Al Sud lo scarto è invece nettissimo, con il No in molti casi (come la Sardegna e alcune città di Sicilia e Calabria) al 70 per cento. E in media sempre intorno al 67 per cento.

Quanto all’affluenza, il dato generale è stato spinto soprattutto dal Centro-nord. Meno marcato, ma sempre abbondantemente sopra il 50% al Sud.

Il boom di partecipazione rimane dunque lontanissimo dall’affluenza di qualunque consultazione referendaria, anche le più recenti come quella sull’acqua pubblica del 2011 (che registrò il 54,8%) e quella di quest’anno sulle trivelle (il 31,1%). Per trovare dati raffrontabili bisogna guardare alle ultime politiche. Nel 2013 per la Camera andò a votare il 75,1% degli aventi diritto. E il confronto non reggerebbe neppure con le europee 2014 quando la partecipazione si fermò al 57,2 per cento.

Buona l’affluenza persino nelle zone del terremoto, dove i seggi (spesso accorpati) sono stati allestiti in sedi alternative, dalle tensostrutture alle palestre. E ai residenti è stata lasciata la scelta di votare anche nelle zone in cui sono sfollati.

Giornata elettorale tesissima quella di ieri, che si è portata dietro i nervosismi di una campagna elettorale durissima. A dominare è stata la polemica sulla matite copiative. Aiutati dal tam tam sui social, alcuni dubbi sui lapis distribuiti ai seggi, ritenuti dai votanti non copiativi, cioè cancellabili, sono rimbalzati da nord a sud. E il caso è montato pian piano tenendo banco per parecchie ore della giornata. In alcuni casi le segnalazioni sono poi sfociate in vere e propie denunce ai presidenti di seggio o interventi della polizia.

Tra i primi a denunciare sospetti sulla matita per il voto il cantante Piero Pelù, che posta anche la foto di quanto messo a verbale al seggio e innesca molte reazioni sul suo profilo. Le segnalazioni si moltiplicano. Interviene il leader della Lega, Matteo Salvini, che invita a tenere «occhi aperti» e a «non farsi fregare». In Campania è Fulvio Martusciello, europarlamentare di Fi e responsabile nazionale dei “difensori del voto”, a mettere in guardia. Infine l’intervento ufficiale del Viminale per assicurare che «le matite sono indelebili» e servono solo per il voto. Svelata anche la marca: è la tedesca Faber Castell. Quest’anno, fa sapere l’Interno, ne sono state acquistate 130mila e le «Prefetture possono utilizzare anche le matite che sono rimaste in deposito dagli anni precedenti». Ma il caso non sembra chiuso. Il Codacons infatti ha annunciato che presenterà un esposto al ministero dell’Interno e in 140 procure.

La Repubblica
LE DIMISSIONI

di Carmelo Lopapa

«Boom di votanti ai seggi. Bocciata la riforma costituzionale cui il premier aveva legato la prosecuzione del mandato. Il Sì travolto al Sud, avanti solo in Toscana, Emilia e Trentino. Il capo del governo nella notte parla in tvIl No dilaga al 59%. Renzi lascia in lacrime “La sconfitta è mia, ora tocca a chi ha vinto”»

Una valanga di No travolge la riforma costituzionale, affonda il governo Renzi, impallina il segretario del Partito democratico. E il capo dell’esecutivo non attende un solo istante, le dimissioni sono immediate, nella notte, il viso segnato dalle lacrime, il nodo in gola: «Io ho perso e lo dico a voce alta. Non si può fare finta di nulla. Domani pomeriggio (oggi,ndr)riunirò il Consiglio dei ministri e salirò al Quirinale per le dimissioni. Il No vince in modo netto, ai loro leader le mie congratulazioni, a loro onori e oneri insieme alla grande responsabilità della proposta a cominciare dalle regole. Ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta. Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta». La moglie Agnese lo guarda a pochi metri di distanza, commossa anche lei.

La conferenza stampa era stata convocata già in serata, quando il tam tam degli exit-poll non lasciava margini di dubbio, poi confermati alla chiusura dei seggi. A mezzanotte il dato è già inequivocabile: 59 per cento i No (Ipr marketing-Piepoli per Rai), il Sì lontano un abisso: al 41. Trascorrono pochi minuti dalla chiusura delle urne e i falchi dell’opposizione vanno subito in tv per dichiarare “morto” il governo Renzi, preannunciare le dimissioni del premier, dichiararsi i veri vincitori. Così Matteo Salvini, il primo, poi Renato Brunetta («Game over»), Giovanni Toti («Legislatura finita») infine i grillini in sequenza («Al voto subito »).

Un risultato che viaggia sull’onda di un’affluenza da record, che tocca quasi percentuali da politiche: le prime proiezioni danno qualche decimale appena sotto il 70 per cento (nel 2013 per Camera e Senato era stata al 75). Marea che tanti esperti avevano stimato avrebbe avvantaggiato il Sì. I risultati dicono il contrario. Lo si è capito già dopo le 19, quando il flusso di elettori ai seggi era lievitato a dismisura in regioni quali Veneto, Sardegna e Sicilia, autentiche roccaforti antirenziane.

La famosa «maggioranza silenziosa » sulla quale il presidente (dimissionario) Matteo Renzi aveva investito è davvero andata a votare. Ma schierandosi dalla parte opposta a quella da lui sperata. Fallito anche l’ultimo tentativo del segretario pd di “de-politicizzare” la consultazione. Il voto diventa politico, punitivo per il suo governo, oltre ogni attesa. Soprattutto al Sud. Le prime proiezioni del Viminale confermano un trend schiacciante.

Dalla Sicilia alla Puglia si viaggia in media con percentuali vicine al 65 per cento per il No, al 35 per il Sì. Col boom clamoroso della Campania del governatore (renziano) Vincenzo De Luca: quando erano scrutinate 122 sezioni, il No aveva toccato la quota del 70 per cento. A mezzanotte, solo in tre regioni, Trentino Alto-Adige, Emilia e Toscana, il Sì risulta in vantaggio.

Non è un caso del resto se sono politiche e immediate le conseguenze che Matteo Renzi trae già in nottata. Adesso entra in gioco il Quirinale. Domani la direzione del Pd.

Il Fatto Quotidiano online
LA CARTA HA VINTO COL 60%.
AL VOTO 34 MILIONI DI ITALIANI
di Marco Palombi

«Risultati - Affluenza altissima vicina al 69%. Sono circa 20 milioni i voti contro la riforma Boschi-Verdini, 5 in più dei Sì che vincono solo in Toscana, Emilia e Trentin»

Ha vinto il No. E ha vinto bene. Ha perso Matteo Renzi. E ha perso male. Questo dicono i numeri e i voti: quando lo scrutinio è oltre il 50% dei voti i No sono quasi uno su sei, un’enormità. Anche perché – sulla valanga istituzionale innescata dal referendum – pesa in primo luogo un dato numerico che è anche squisitamente politico: un’affluenza che per un referendum non si vedeva da oltre vent’anni, dalle consultazioni radicali del 1993, trainate dal referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, che portò alle urne il 77% degli elettori.

Ieri ai seggi sono andati quasi 34 milioni di italiani – il 69% circa del corpo elettorale – per votare sulla riforma costituzionale proposta dal governo di Matteo Renzi ed era già una buona notizia: per questo patrimonio di partecipazione dobbiamo paradossalmente ringraziare proprio il presidente del Consiglio, che ha trasformato la consultazione in un’ordalia sul suo esecutivo, costringendo molti italiani a schierarsi.

La seconda buona notizia – buona notizia almeno per noi del Fatto, assai meno a Palazzo Chigi – si fa chiara nella notte: gli italiani hanno respinto in massa la riforma scritta da Maria Elena Boschi, Denis Verdini e soci. L’idea di perdere il diritto di voto per il Senato e passare in buona sostanza la funzione legislativa dal Parlamento al governo non hanno fatto abbastanza proseliti, nonostante le energie e i milioni di euro spesi dal premier e dal Pd per convincerli del contrario.

Gli italiani, peraltro, non solo hanno respinto la riforma, lo hanno fatto in un numero tale che rende definitivo il fallimento politico dell’operazione di Palazzo tentata da Matteo Renzi su mandato di Giorgio Napolitano, la cui fragile eredità politica svanisce nella notte che ha condotto l’Italia al 5 dicembre. Alla fine sono oltre sei milioni in più i voti di chi ha bocciato la riforma: i Sì, circa 13 milioni e mezzo, vincono bene solo nella provincia di Bolzano (nettamente) e sembrano avanti di poco in Toscana e Emilia Romagna. Il resto è un pianto, specie al Sud.

Risultato netto, dunque, i cui contorni andranno studiati con cura. A partire dall’affluenza: alta, molto, se si pensa che al referendum costituzionale di dieci anni fa che bocciò la cosiddetta devolution di Berlusconi e Bossi – riforma non a caso assai simile a quella di Renzi – si presentò solo il 52,4% degli aventi diritto, vale a dire 25,7 milioni di italiani.

Altissima la partecipazione nel Nord Italia, ma non bassa neanche nel Mezzogiorno, dove storicamente si vota di meno. Grandi numeri in Lombardia, ma soprattutto in Veneto, dove il Pd è ridotto ormai a un partitino residuale e infatti i No volano verso il 62% col 76,6% di affluenza, la più alta. Notevole che – anche se stavolta non c’era quorum – per la prima volta da molto tempo in tutte le Regioni italiane è stato superato, e in scioltezza, il 50% degli aventi diritto.

Questi numeri dicono una cosa ulteriore. Evidentemente – al di là del merito della riforma, assai poco frequentato anche da Renzi – il voto è stato pienamente politico e i bacini elettorali dei vari partiti hanno retto. Tradotto: il premier non è riuscito a prendersi i voti degli altri, almeno non in misura sufficiente visto che la sua potente e ricca macchina elettorale ha comunque messo assieme 13 milioni e mezzo di voti. Come detto, ahilui, sei milioni abbondanti in meno delle schede che chiedevano una bocciatura della riforma su cui Renzi ha deciso di giocarsi tutto. Le prime analisi sui flussi (degli exit poll) rivela che la grande maggioranza degli elettori di Forza Italia, Lega e M5s si è mossa come chiedevano i partiti.

D’altra parte è stato lo stesso Renzi a mettere in gioco il suo governo e la sua carriera nella competizione finendo per ingolosire le opposizioni, soprattutto dopo la scoppola – mai ammessa – rimediata alle Comunali di giugno: hanno visto l’opportunità di buttarlo giù e l’hanno usata. Fortunatamente, per quella che chiamano eterogenesi dei fini, hanno finito per salvare la Costituzione dallo scempio.

Breve nota sul voto estero. Le veline di Palazzo Chigi – che propalavano una affluenza al 40% con 1,6 milioni di voti – si sono rivelate false esattamente come Il Fatto aveva scritto sabato: affluenza al 30,8% con 1,25 milioni di voti arrivati nell’hangar di Castelnuovo di Porto, vicino Roma. Tra gli italiani all’estero, come previsto, alla fine sembra aver vinto il Sì largamente. Visti i numeri dei votanti in patria, però, lo sforzo (assai costoso) per convincere gli emigrati non è servito a granché.

il manifesto
UNA VALANGA DI NO
SEPPELLISCE IL GOVERNO.
RENZI: FINISCE QUI
di Daniela Preziosi

«Il popolo sovrano. I primi dati parlano del 60 per cento. Oggi va al Quirinale Il premier: «Non ce l’abbiamo fatta, la responsabilità è mia». Il (quasi ex) premier ora alle prese con il nodo del partito. Martedì convocata la direzione»

«Ho perso, mi prendo tutta la responsabilità», «l’esperienza del mio governo finisce qui, perché non possono restare tutti incollati alle loro abitudini prima che alle loro poltrone. Non ce l’ho fatta e la poltrona che salta è la mia». Poco dopo la mezzanotte il presidente del consiglio si presenta a Palazzo Chigi alle telecamere e rassegna in diretta tv le sue dimissioni da premier. Oggi pomeriggio salirà al Colle per farlo davvero, rispettando la Costituzione che gli elettori gli hanno impedito di modificare male. Renzi si commuove quando ringrazia la moglie Agnese e i figli, quando manda «un abbraccio forte agli amici del Sì».

Finisce qui, dice lui, la storia del governo Renzi. Seppellito da una valanga di No. Mentre il manifesto chiude questa edizione poco più della metà delle schede scrutinate dicono No al 59,5 per cento e Sì al 40,5.
È una sconfitta netta, annunciata da ore. Quando manca più di un’ora alla chiusura dei seggi, gli exit poll in teoria ancora sotto embargo. Ma la notizia è clamorosa, non si trattiene, straripa sulla rete, nei canali tv che stanno per dare inizio alle loro maratone. La forbice fra No è Sì è impressionante. Quando, a urne chiuse comincia lo spoglio reale delle schede, è pure meglio. Peggio per il governo e la sua maggioranza.

La sconfitta è irreparabile, definitiva. Forse non inaspettata, ma difficile da governare date le dimensioni. Una sportellata senza precedenti. Forse, in scala, il risultato delle scorse amministrative era stata un aperitivo, un assaggio, una premonizione. Che Renzi e i suoi però non hanno voluto forse saputo vedere.

È una valanga quella che seppellisce la proposta di riforma Renzi-Boschi, e con la riforma dà uno scossone al governo, alla sua maggioranza e al Partito democratico. Al Nazareno tira un’ariaccia già alle otto di sera. I sondaggi riservati circolano fra le scrivanie e non lasciano margini di dubbio da giorni. Tetragoni alla realtà che bussa alle porte, quelli del comitato Bastaunsì non hanno smesso la propaganda. Uno degli ultimi sms distribuiti a pioggia agli elenchi dei votanti delle primarie: «Siamo in fortissimo recupero. Siamo sul filo dei voti. Gli sforzi di queste ore possono essere decisivi. Avanti tutta, basta un Sì». Alla mezzanotte di domenica questi messaggi sembrano una beffa grottesca, quella di un partito (e un governo) che ha voluto testardamente andarsi a schiantare a tutta velocità contro il muro della propria autosufficienza.

È Lorenzo Guerini, alle 23, a metterci la faccia. Il vicesegretario è terreo. Laconico. «Renzi parlerà in conferenza stampa fra circa un’ora. Noi oltre a valutare i risultati che arriveranno, convocheremo gli organi del partito nel giro di pochi giorni e già martedì convocheremo la direzione nazionale per l’analisi dell’esito referendario». Al partito sono arrivati Deborah Serracchiani, i capigruppo Rosato e Zanda, il ministro Dario Franceschini. Al Nazareno circola la voce che se le dimensioni della sconfitta restano queste delle prime ore della notte martedì potrebbero arrivare le dimissioni di Renzi, stavolta da segretario del Pd. Del resto le aveva promesse all’inizio della sua corsa

referendarie, cambiando poi parecchie volte opinione. Ma è difficile: «È tempo di rimettersi in cammino» dice alla fine del suo discorso di Palazzo Chigi. Mentre Guerini parla, Renzi da tempo ha dato appuntamento ai giornalisti, segnale inequivocabile di sconfitta. Gli elettori e le elettrici hanno dimostrato di non apprezzare nulla di lui: la riforma, la boria, l’insulto dell’amico e del nemico, la narrazione tossica delle proprie leggi, i mille giorni di governo, mille giorni di errori da meditare.

Dall’altra parte «l’accozzaglia» gioisce, ciascuno con il suo stile e la sua misura. Il primo a scattare è Matteo Salvini. Il primo a chiedere le dimissioni di Renzi: «Se i dati verranno confermati, gli italiani Renzi lo hanno rottamato». Dimissioni vengono chieste a gran voce da tutta la destra: Giorgia Meloni, Renato Brunetta. Ma il prossimo governo dovrà fare una legge elettorale nuova, dopo che la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sull’Italicum. A meno che non la bocci per intero.

Da sinistra i toni sono tutt’altri. L’«accozzaglia» non è un fronte politico comune, a differenza di quello che Renzi e i suoi hanno ripetuto fino allo sfinimento in campagna referendaria, a reti unificati. Senza mai convincere elettori ed elettrici. Arturo Scotto, di Sinistra italiana, chiede un intervento del Quirinale. «Renzi lascia un campo di macerie, ora ci affidiamo alla saggezza del presidente Mattarella». La sinistra bersaniana, riunita in una casa privata, frena i commenti. Non è il momento di assecondare pulsioni autodistruttive, il partito è già nel caos. «Eravamo nel giusto», dice solo Roberto Speranza.

. Huffingtonpost.it, 5 dicembre 2016 (p.d.)

L’Italia s’è desta.

Ha vinto la Costituzione. Ha perso il plebiscito.
Ha vinto il popolo. Ha perso il populismo cinico.
Ha vinto la sovranità del popolo. Ha perso il dogma per cui non ci sarebbe alternativa.
Ha vinto la voglia di continuare a contare. Di continuare a votare. Ha perso chi voleva prendersi una delega in bianco.
Ha vinto la partecipazione, il bisogno di una buona politica. Ha perso la retorica dell’antipolitica brandita dal governo.
Ha vinto un’idea di comunità. Ha perso il narcisismo del capo.
Ha vinto la mobilitazione dal basso, senza mezzi e senza padrini. Ha perso chi ha messo le mani sull’informazione, chi ha abusato delle istituzioni senza alcun ritegno.
Ha perso Giorgio Napolitano: che avrebbe dovuto unire, e invece ha scelto di dividere.
Ha perso Matteo Renzi, con tutta la sua corte: ma solo perché hanno voluto cercare nello sfascio della Costituzione una legittimazione che non avevano mai avuto nelle urne elettorali.
Un presidente del Consiglio che si dimette perché ha intrecciato irresponsabilmente la sorte di un governo e la riforma della Costituzione. Rivelatore il suo discorso: Renzi non ha detto di aver sbagliato. Ha detto di aver perso (difficile dire il contrario).
Ma non hanno vinto la Lega, il Movimento 5 Stelle o la Sinistra. Hanno vinto tutti i cittadini. Anche quelli che hanno votato Sì: perché tutti continuiamo ad essere garantiti da una Costituzione vera. Che protegge tutti: e in particolare proprio chi perde. Chi è in minoranza. Chi non ce la fa.
E ora non raccontateci che l’Italia non vuole guardare avanti. È vero il contrario: l’Italia ha capito che questo non era un cambiamento.
Ha vinto l’Italia che vuole cambiare verso. Ma davvero.
E ora che succede? Succede che la Costituzione rimane quella scritta da Calamandrei, La Pira, Basso, Moro e Togliatti. Non quella riscritta dalla Boschi e da Verdini.
E succede che Maurizio Landini fa i cappelletti, il piatto della festa. Perché oggi è un giorno di festa. Per tutti: nessuno escluso.
Il campo da gioco c’è ancora. Da domani si gioca.
«Chi vota "sì" non potrà sentirsi defraudato di alcunché se prevale il «no». La costituzione del 1948 è sempre stata ed è anche la sua Costituzione, è la Costituzione di tutti».il manifesto, 4 dicembre 2016 (c.m.c.)

La Legge costituzionale 15 aprile 2016, n. 88, sulla quale si sta votando, ha già prodotto un effetto. Ed è sicuro, profondo, dilaniante. Ha diviso la Nazione nel suo fondamento, nel suo patto di convivenza. L' ha divisa come mai era accaduto nell’Italia repubblicana.

Non era accaduto in nessuna elezione, neanche durante la guerra fredda, neanche in quella che respinse legge-truffa. La Dc aveva ibernato la Costituzione, ma non l' aveva mai rinnegata, mai provato a deformarla. Non era accaduto in occasione del primo referendum che pur aveva ad oggetto un istituto sensibilissimo per la cultura cattolica. Non era accaduto neanche nel 2006 quando il corpo elettorale respinse il disegno del «premierato assoluto» ordito da Berlusconi.
Accade ora, ed accade perché l’attacco proviene dal governo presieduto da chi capeggia il partito che si era storicamente qualificato come il baluardo della democrazia costituzionale e lo ha diviso. Dopo averne geneticamente modificato gran parte, certamente al vertice. Accade ora, ed accade per la pressione delle centrali del liberismo economico, più agguerrite dopo la crisi, come le banche, e le agenzie di rating, e come l’istituzione sovranazionale del neoliberismo che è Bruxelles, l’Unione europea. Le une e l’altra quanto mai mobilitate a ottenere la riduzione della rappresentanza e l’amputazione delle domande della democrazia, le une e l’altra quanto mai esigenti della stabilità del loro potere, per la governabilità dei più, imponendola ad uno solo, in cambio di fatue preminenze.

La divisione è profonda, vasta e dilaniante perché ha rotto il patto fondante della Repubblica, il patto delle regole della convivenza democratica, di quella civile e di quella politica. Come tale, la divisione era forse imprevista dallo stesso Renzi. Per la lacerazione del tessuto nazionale che ha prodotto avrà sorpreso, con ogni probabilità, anche chi autorevolmente la aveva auspicata, sollecitata e richiesta.
Con i suoi 47 articoli di sconvolgimento della seconda parte della Costituzione, questa legge è oggi votata per essere accettata o respinta da 50 milioni e più di cittadine e di cittadini della Repubblica. È sul patto di cittadinanza quindi che 50 milioni di cittadini stanno votando.

L’accettazione di tali articoli, delle norme che contengono, del disegno complessivo del vertice della Repubblica, del tipo di rapporti tra Stato e Regioni che tali articoli determinano, potrà riunificare le due parti della Nazione che si sono divise e scontrate?Chi avrà respinto il contenuto di tali articoli, il disegno complessivo che ne deriva potrà mai accettare un patto che aveva respinto come proposta? Potrà mai sentirsi vincolato da norme non volute, volte a configurare un regime rappresentativo che ritiene ristretto, con un parlamento mutilato del suffragio popolare di uno dei suoi rami? Può accettare una forma di governo derivata da un meccanismo impregnato di assolutismo ? Potrà rassegnarsi ad un patto dettatogli da chi egli crede che non aveva il potere legittimo per dettarglielo?

Chi vota «sì» non potrà sentirsi defraudato di alcunché se prevale il «no». La costituzione del 1948 è sempre stata ed è anche la sua Costituzione, è la Costituzione di tutti. Potrà essere certamente revisionata assieme a votanti «no» in un clima di ricostruita unità nazionale.
Il «sì» divide. È il «no» che potrà unire.

«È come se mass media e cancellerie europee stessero prendendo una cantonata, fraintendono la natura del voto. Non c’è da un lato un voto “di sistema” e dall’altro un voto “populista”».

Rifondazione online, 2 dicembre 2016 (c.m.c.)

In Italia due giovani su cinque sono disoccupati; il Prodotto interno lordo (Pil) sta a mala pena recuperando il livello di 15 anni fa (a prezzi costanti); i nuovi iscritti all’università sono diminuiti del 20% dal 2004 al 2015 (da 335 a 270.000 immatricolazioni); rispetto al Pil i fondi per la ricerca e l’innovazione sono meno della metà di quelli tedeschi e austriaci e quasi un terzo di quelli svedesi e finlandesi; l’analfabetismo di ritorno cresce; il paese si deindustrializza; la produttività per lavoratore diminuisce; la corruzione si mangia 60 miliardi di euro l’anno secondo le stime più prudenti, mentre l’evasione fiscale ne fa sparire 90 miliardi; per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale la speranza di vita degli italiani non si allunga ma si accorcia.

In questo panorama, il sistema politico disquisisce da più di un anno sulla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum il 4 dicembre. Nessuno dei drammatici problemi che ho appena elencato è affrontato da questa riforma, né è immaginabile che la modifica della natura di uno dei due rami del parlamento (perché è questa natura che viene “riformata”) possa prendere di petto i problemi del malgoverno e del declino italiano.

Eppure nella stampa e nella radiotelevisione degli altri paesi europei (con la notevole eccezione del settimanale britannico The Economist) questo referendum è visto come una scadenza decisiva, addirittura come un rito di passaggio, allo stesso titolo, e con la stessa rilevanza per i destini dell’Europa, del voto sul Brexit inglese o delle elezioni presidenziali francesi nella prossima primavera. Il primo mistero da spiegare è proprio questo: la rilevanza epocale attribuita a un voto tutto sommato pretestuoso.

È come se mass media e cancellerie europee stessero prendendo una cantonata, questa sì epocale. Intanto fraintendono la natura del voto. Non c’è da un lato un voto “di sistema” e dall’altro un voto “populista”, a meno di non ritenere che più dei due terzi del parlamento italiano siano eletti da cittadini “populisti”. Il No alla riforma costituzionale può vincere e non succederà un bel nulla: gli italiani, contrariamente a quanto si vuol fare credere, non voteranno sull’Italexit. Per cui colpisce fuori dal vaso la “campagna panico” che i grandi poteri finanziari stanno conducendo, con Wall Street Journal e Financial Times che predicono catastrofi indicibili, uscita dall’euro, crollo del sistema finanziario, in caso di vittoria del No.

L’idea di vincere minacciando future apocalissi si è già dimostrata un errore nel caso del Brexit, ma è del tutto fuori luogo per questo referendum italiano in cui la posta in gioco non riguarda affatto l’economia. Come scrive l’Economist, “gli italiani non dovrebbero esser sottoposti a ricatto”.

Il misunderstanding dell’Italia ha una lunga storia all’estero. Prendiamo il radicato luogo comune secondo cui il sistema politico italiano sarebbe instabile. Questo stereotipo sarebbe dimostrato dai 52 diversi governi che si sono succeduti dal 1946 (quando fu fondata la repubblica) fino al 1994.

Ma in realtà questi 52 governi hanno mantenuto al potere sempre lo stesso partito, la Democrazia cristiana; e i vari cambiamenti di governo consistevano solo in un via vai degli stessi uomini da una poltrona all’altra, tanto che vi furono ben otto governi presieduti da Alcide De Gasperi, mentre Aldo Moro, Giulio Andreotti e Mariano Rumor ne presiedettero ognuno cinque e Amintore Fanfani quattro. Da questo punto di vista si può dire che nessun sistema politico europeo è stato tanto stabile quanto quello italiano: in nessun altro paese infatti il potere è stato detenuto da uno stesso partito ininterrottamente per tutta la guerra fredda (solo il Giappone ha conosciuto un destino uguale).

Un altro fattore d’incomprensione è la magica parola “semplificazione”, secondo cui la democrazia (come l’eguaglianza sociale) sarebbe intrinsecamente inefficiente. È un’idea che risale a un celebre rapporto del 1975 redatto da Samuel Huntington (quello dello “scontro di civiltà”), e commissionato dalla Commissione Trilateral. C’è soggiacente una visione militaresca del modo di funzionare delle società, che però non ha alcun fondamento (si sono viste democrazie e dittature sia efficienti che inefficienti), ma è una sorta di utopia disciplinare in cui tutto il mondo è riplasmato a immagine e somiglianza dell’industrioso e docile popolo di Singapore.

In questa chiave, la riforma costituzionale sottoposta a referendum sarebbe il fattore che semplifica il sistema politico italiano permettendo decisioni rapide ed efficienti, approvando le leggi con maggiore snellezza. Però così si dimentica che è con la costituzione esistente che l’Italia ha conosciuto negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso i decenni di maggiore crescita economica, un vero e proprio boom che non parve affatto frenato dalla “democraticità” del sistema politico.

Non solo, ma contrariamente al luogo comune, il parlamento italiano approva troppe leggi, è afflitto da un eccesso di efficienza legislatrice, per cui poi i cittadini devono imparare a fare lo slalom o il surf fra una miriade di leggi e leggine spesso in contraddizione tra di loro, gonfiando a dismisura l’apparato giudiziario fino a ridurlo alla quasi paralisi: una causa civile nei suoi tre gradi dura in media 8 anni e 7 mesi, e l’Italia è al 157° posto (su 183 paesi) per la durata dei procedimenti e per l’inefficienza della giustizia, preceduta da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo.

Se le cose stanno così, ci si chiede come mai, negli ultimi due anni l’attuale governo presieduto da Matteo Renzi abbia trascurato tutte le questioni vitali per il paese e si sia concentrato solo sulla riforma costituzionale, accompagnata da quella elettorale. Da quando c’è Renzi, la lotta all’evasione fiscale è scomparsa dall’agenda politica del governo, proprio come ai bei tempi di Silvio Berlusconi: e proprio come lui, anche Renzi ha sbandierato agli elettori creduloni il miraggio del ponte sullo stretto di Messina. Il fatto è che la quasi abolizione del Senato va pensata insieme alla riforma del sistema elettorale, riforma grazie alla quale, visto il tasso di astensione che ormai si aggira regolarmente sul 35 %, basterà a un partito ottenere il consenso del 17-20 % degli elettori italiani per detenere il 54 % dei seggi di un parlamento le cui candidature sono decise a tavolino da una opaca leadership partitica.

Contrariamente a quel che sostengono Wall Street Journal e Financial Times, ma anche Deutschland Funk, una delle ragioni che spingono a votare No a questo referendum è che se vincesse il Sì, basterebbe a un partito “populista” raggiungere il 25-30% dei voti espressi per esercitare un potere quasi assoluto.

Come ha scritto l’Economist, di uomini forti l’Italia ne ha avuti anche troppi (e il regime mussoliniano non fu particolarmente efficiente, anche se si vantava, a torto, di far arrivare i treni in orario).

pubblicato sul quotidiano di Berlino Tageszeitung

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